Giustizia: lo strano caso del cibo nelle carceri… dal 1930 l’appalto ha un solo vincitore di Dimitri Buffa L’Opinione, 26 luglio 2011 Nelle carceri non c’è solo un problema di spazi e di letti, ma anche di cibo. La prima ad evidenziarlo è stata l’onorevole radicale Rita Bernardini che ha raccontato a Radio Radicale come questo business sia gestito in maniera monopolistica da anni (addirittura dal 1930). Per tacere del fatto che l’ultima volta che è stato assegnato a livello nazionale, l’aggiudicatario si era impegnato a fornire tre pasti al giorno a detenuto per meno di 4 auro. Si avete capito bene: quattro euro! Dopodiché anche la vicenda del detenuto tunisino Ismail Ltaief, cuoco nelle mense del carcere di Velletri, che ha denunciato un bel po’ di gente in loco per presunte ruberie sul cibo dei detenuti, rifiutando 15 mila euro per ritrattare le accuse, ci ha mosso a ulteriore curiosità: non è che sui pasti dei detenuti succede qualcosa di strano? Quelli di “Ristretti Orizzonti” ne sono convinti e così ci hanno fornito ben tre delibere regionali della Corte dei Conti, per il Veneto, per l’Umbria e per la Lombardia, nonché una segnalazione dell’autorità Garante per la concorrenza (secondo cui l’aggiudicazione di questi appalti è “distorsiva” per la concorrenza) che contestavano tutte questa maniere di aggiudicare senza gara, “per asseriti motivi di sicurezza”, l’appalto del cibo nelle carceri. E sempre alla stessa ditta: quella degli eredi di Arturo Berselli. Cioè la Arturo Berselli e C. S.p.A., con sede amministrativa a Milano. Addirittura nel 2003 la Corte dei conti regionale della Lombardia rifiutò di vistare le procedure di appalto con cui venne rinnovato il contratto a tale ditta sostenendo che non fossero state seguite le procedure previste dalla legge. Circostanza che nel tempo ci è costata anche l’avvio di una procedura di infrazione da parte della Ue. All’epoca era ministro Guardasigilli Roberto Castelli, per la cronaca. E siccome solo da via Arenula dipendono i decreti di proroga il conflitto, tuttora irrisolto, è quello tra chi appone motivi di sicurezza non meglio determinati, qualcuno potrebbe pensare che altre ditte non consuetudinarie a questi appalti potrebbero favorire la fuga dei detenuti magari mettendo la lima nel panino, come nei fumetti di Walt Disney, e chi chiede una gara europea. Ma il sospetto è che si voglia favorire un monopolista che peraltro, a seconda delle regioni, opera da anni in consorzio con altre ditte (nella Lombardia con la Saep S.p.A e la Domenico Ventura di Umberto Ventura e C. S.a.S., in Umbria con la Ias Morgante S.r.l.). Mentre la Corte dei conti della Lombardia ha messo bastoni tra le ruote a via Arenula, quella del Veneto e quella dell’Umbria hanno sollevato molti rilievi ma alla fine hanno ceduto alle pretese di rinnovo di questi appalto alle stesse ditte e senza gara, pur riconoscendo questa procedura contraria a una norma dello stato varata ad hoc per tenersi buona l’Europa. Cioè l’articolo 23 della legge 18 aprile 2005, n. 62 (legge comunitaria per il 2004), approvato al fine di conseguire l’archiviazione di una procedura di infrazione comunitaria avviata contro l’Italia in relazione al contrasto della previgente disciplina del rinnovo dei contratti pubblici scaduti con i principi di libertà di stabilimento e di prestazione dei servizi di cui agli articoli 43 e 49 del Trattato CE e con la normativa europea in tema di tutela della concorrenza. Ma questo articolo che ha sancito un generale divieto di rinnovazione dei contratti pubblici di fatto nelle carceri rimane inapplicato in seguito all’emanazione del decreto del Ministro della Giustizia del 21.07.2004, cioè il provvedimento in forza del quale “il contratto oggetto del provvedimento di approvazione in esame è stato sottoposto a particolari misure di sicurezza”. Peraltro nelle motivazioni del provvedimento datato 16 aprile 2008 dalla sezione regionale del Veneto si sottolinea come il ministero abbia persino “ribadito la necessità di affidare vitto e sopravvitto al medesimo soggetto per motivi di efficienza e convenienza, in ragione delle reciproche interazioni tra le due attività e dell’incremento dei costi, sia per l’Amministrazione che per i detenuti, che potrebbe conseguire a una diminuzione del volume dei generi approvvigionati dalle singole imprese affidatarie”. La cosa incredibile è che la ditta Berselli abbia sedi atipiche in quasi ogni carcere italiano. Il cibo ai detenuti è cosa loro. Altro mistero di chi volesse approfondire il tutto è questo: da anni i detenuti segnalano che i prezzi dei prodotti in vendita al sopravvitto sono troppo cari, e da anni i volontari che provano a fare una verifica nei supermercati della zona si scontrano con il fatto che invece molti prezzi sono identici, o quasi, a quelli dei supermercati. Questo significa che esiste un sistema istituzionalizzato di creste all’interno dei penitenziari? Se fosse ad esempio verificata proprio quella parte della denuncia di Ismail Ltaief, il cuoco di Velletri, secondo cui quando arrivavano i pacchi delle forniture di vitto “qualcuno segnava 300 quando veniva scaricato 60”, allora tutto sarebbe più facile da capire. Come ai tempi delle carceri d’oro sulla pelle dei detenuti è più facile giocare. Tanto di denaro pubblico se ne spreca tanto, mica vorremo occuparci proprio di quello che lo stato impiega per far mangiare i delinquenti? Giustizia: processi, carceri e diritti umani; tre “casi” in cerca d’autore di Valter Vecellio L’Opinione, 26 luglio 2011 PRIMA NOTIZIA. Viene da Barano d’Ischia. Il sindaco di quel paese Giuseppe Gaudioso, assieme ad altri amministratori e dirigenti tecnici viene rinviato a giudizio. Tra le ipotesi di reato, falso ideologico e abuso d’atti di ufficio. La vicenda si riferisce ad alcuni atti amministrativi tesi a ultimare la cosiddetta “passeggiata dei Maronti”, una struttura in cemento armato realizzata su pali di fondazione di circa sei metri, conficcati nell’arenile dei Maronti e mai ultimata per continue vicissitudini giudiziarie. Il processo penale viene incardinato dal sostituto procuratore Maria Antonietta Troncone, ed iscritto - attenzione alle date - a ruolo nel 1999 (6925/99 del Registro Generale Notizie di reato). Due anni dopo, nell’autunno 2001 il Giudice per l’Udienza Preliminare Giovanna Ceppaluni dispone il rinvio a giudizio. Due anni sono lunghi, ma un tempo “normale” per la giustizia italiana. Nell’ambito dell’udienza preliminare l’accusa di abuso d’ufficio viene depennata, resta il falso ideologico. Da quel momento del procedimento si perde traccia. Presso la sezione distaccata di Ischia del tribunale di Napoli concretamente si svolge una sola udienza, seguita da una infinita serie di rinvii; a volte i termini della prescrizione sono sospesi, altre volte no. Il processo vede cambiare ben quattro giudici monocratici. Nel frattempo uno dei due testi della pubblica accusa, il consulente Starita, presente per i primi anni a ogni convocazione, muore. Come va a finire lo si sarà capito. Il Pubblico Ministero ha chiesto la prescrizione. La notizia contiene un’altra notizia: è considerato evidentemente normale che non siano sufficienti dieci anni per processare un amministratore, che non sapremo mai se è colpevole o innocente rispetto all’accusa che gli è stata mossa. Piacerebbe che qualcuno provasse a spiegare perché, e per responsabilità di chi, è potuto accadere quello che è accaduto a Ischia. SECONDA NOTIZIA. Il signor Fabrizio Bottaro, professione stilista, ha trascorso un anno in carcere, poi gli si comunica che sono molto dispiaciuti, non è lui la persona ricercata e colpevole. La storia è abbastanza complicata, ma non al punto che si possa in qualche modo giustificare l’accaduto. Siamo nel luglio del 2010. Bottaro è accusato di aver minacciato, aiutato da un complice, di essersi fatto consegnare un’automobile di lusso. La denuncia parte da L.N., titolare di una società di recupero di autovetture, che si costituisce in processo come parte offesa. I giudici della VI sezione del tribunale di Roma stabiliscono però che “l’offeso” non ha ricevuto alcuna minaccia, e che Bottaro è accusato (e incarcerato) ingiustamente. Il racconto che L.N. ha fornito agli agenti del commissariato Viminale non sta in piedi, è questo che in sostanza stabiliscono i giudici. Si tratta piuttosto di una vicenda legata ad un tentativo di frode ai danni di una società assicurativa in relazione alla “sparizione” del veicolo. “Si ipotizza”, scrivono i giudici, “che lo stesso L.N. possa aver ideato una falsa rapina”. Inoltre, secondo quanto accertato dalla polizia stradale di Trieste, impegnata in indagini sul riciclaggio di autovetture all’estero, l’auto incriminata era già sottoposta a fermo amministrativo ed era a rischio confisca. Non solo: il giorno dell’arresto di Bottaro, il 22 luglio 2010, l’automobile della quale è stato denunciato il furto in realtà era sparita da tempo. E anche per quel che riguarda le asserite indagini: tra Bottaro e L.N. non c’è mai stata neppure una telefonata, né un solo elemento che potesse giustificare un processo. Tutto nero su bianco. L’avvocato difensore di Bottaro ci mette poi un altro carico da novanta: “La vicenda avrà sicuramente un seguito. Per un anno il mio assistito è stato messo fuori dal mondo e, durante la detenzione a Regina Coeli, gli è stato anche impedito di incontrare il suo difensore”. Anche qui sarebbe bello se qualcuno provasse a spiegare perché, e per responsabilità di chi, è potuto accadere quello che è accaduto. Che tipo di indagini sono state effettuate? Ed è vero che al signor Bottaro, durante il periodo di detenzione a Regina Coeli è stato impedito di incontrare il suo difensore? La vicenda fa ricordare che in generale, per quel che riguarda i diritti umani, l’Italia, secondo l’Unione Europea è in quella situazione che si riassume con la definizione di “maglia nera”. Secondo il rapporto presentato ufficialmente dalla presidenza del Consiglio dei ministri sull’Esecuzione delle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo nei confronti dello stato italiano, ci meritiamo il 7° posto nella graduatoria dei Paesi dell’UE che sono 47, per violazione dei diritti umani. Prima di noi si classificano Polonia, Romania, Ucraina e Bulgaria; e insomma non è cosa di cui menar vanto. Secondo la relazione, i ricorsi pendenti alla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo contro l’Italia sono 10.208 e rispetto al 2009 c’è stato un incremento del 30 per cento. Invece di migliorare peggioriamo sempre di più. Nel 2010, la Corte Europea ha emesso 98 sentenze contro l’Italia, di cui 61 per violazione di almeno un articolo della Convenzione europea. In 44 casi per eccessiva durata dei processi. L’Italia è stata condannata a sborsare quasi 8 milioni di euro a titolo di equa soddisfazione nei confronti dei cittadini italiani che hanno fatto ricorso a Strasburgo per la malagiustizia nel nostro Paese. Nel 2009, l’importo era decisamente inferiore: 3 milioni e trecentomila euro circa. E neppure paghiamo per il malfatto, visto che il ministero dell’Economia e delle Finanze ha liquidato, per ora circa quattro milioni di euro per le 54 condanne emesse nel 2009 e due milioni e seicentomila euro per le 28 sentenze del 2010. TERZA NOTIZIA. Da Bologna. Il carcere della Dozza “scoppia”, come tanti altri. Vi si trovano stipati 1.200 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 490 posti. Situazione resa ancora più insopportabile dal fatto che solo un detenuto su cento (dodici in tutto) riesce a uscire con un permesso di lavoro. “Delle quasi 1.200 persone presenti all’interno della casa circondariale della Dozza, circa un migliaio presentano richiesta di svolgere lavori.” La “notizia” viene da Massimo Ziccone, responsabile educativo della Casa Circondariale della Dozza, che ricorda come cinque anni fa fossero sessanta. Nonostante il lavoro sia uno dei capisaldi del percorso rieducativo, a partire dall’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario, che stabilisce che “negli istituti penitenziari devono essere favorite in ogni modo la destinazione al lavoro e la partecipazione a corsi di formazione professionale”, il numero di quelli che riescono effettivamente a ottenere un impiego, sebbene per brevi turni o a tempo parziale, resta veramente molto basso. Dei 12 ammessi al lavoro esterno, 6 sono detenuti a pieno titolo, mentre la restante metà è ammessa al lavoro esterno sulla base dello status di semilibero, una figura prevista dall’articolo 48 dell’ordinamento penitenziario proprio per permettere a chi è ammesso a tale particolare regime di “partecipare ad attività lavorative, istruttive o comunque utili al reinserimento sociale”. È da credere che la situazione del carcere della Dozza non sia una peculiarità, un caso isolato. È da credere che quello che accade a Bologna accada un po’ ovunque. E anche in questo caso piacerebbe che venisse fornita qualche spiegazione. Giustizia: voglia di manette, desideri d’impunità; com’è difficile essere garantisti di destra di Filippo Facci Libero, 26 luglio 2011 Il caso Papa è emblematico: Italia divisa tra chi vuole la galera per tutti e chi invece vuol proteggere solo la politica. E intanto le carceri sono invivibili per tutti. Tempi di ambasce per i garantisti di destra. La carcerazione di Alfonso Papa, da una parte, resta uno scandalo perché ne mancavano i presupposti giuridici, perché il Parlamento l’ha svenduto al malcontento popolare, perché lui aveva chiesto inutilmente di essere interrogato (cinque volte) ma i pm hanno preferito interrogarlo in galera, perché gli stessi pm in questo modo gli hanno lasciato tutto il tempo - in attesa dell’autorizzazione a procedere - di inquinare le prove e di reiterare il reato eccetera, il tempo, cioè, di fare tutte quelle cose per impedire le quali lo volevano galeotto. La carcerazione di Papa è uno scandalo perché la custodia cautelare dovrebbe essere l’extrema ratio, perché bastavano i domiciliari, perché come Papa ce ne sono 15mila che attendono una sentenza di primo grado, è uno scandalo perché, dopo otto ore di interrogatorio, lui resta in carcere perché i pm non sono “soddisfatti”, cioè lui non ha parlato (e ieri hanno confermato il parere negativo alla scarcerazione). Questo da una parte. Dall’altra, coloro che accusano il centrodestra di “demagogia securitaria” e di garantismo trasformistico, purtroppo, hanno ragione da vendere. Magari sono accuse strumentali, ma hanno ragione lo stesso. In un Paese civile, l’obiettivo dovrebbe essere la giusta oscillazione tra la cultura della legalità e il rispetto delle garanzie, ma da noi tutto si traduce nell’oscillazione tra il peggior forcaiolismo e il garantismo più peloso. Le colpe della sinistra in questa direzione sono state tante. Ma quelle della destra, soprattutto nell’ultimo decennio, non sono state da meno. Rinviamo ad altra sede il dibattito sugli effetti concreti della legge Fini-Giovanardi sulla droga: resta il fatto che la maggior parte di coloro che affollano le carceri, ora, sono dentro per quella legge, sulla cui efficacia peraltro ci sarebbe molto da dire. Sul numero dei carcerati, rispetto ai posti disponibili, non stiamo neanche più a sparare cifre: lo sanno tutti che mancano i posti-carcere. Nelle galere italiane ci sono stati 38 suicidi in 7 mesi, che è un numero spaventoso. Le carceri mancano perché nessun governo vuol metterci soldi, e perché il costruirle non porta voti; tantomeno porta voti il proporre misure normali e civili come gli arresti domiciliari per chi ha quasi finito di scontare la pena. Gli oppositori a queste misure, va detto, sono quasi tutti nel centrodestra. Il nostro Paese negli ultimi lustri è stato oggetto dell’immigrazione che sappiamo, e il surplus dentro le galere, a badarci, corrisponde più o meno al numero degli stranieri incarcerati. Questo senza contare che il reato di clandestinità alla fine non è passato. E senza contare che il governo, di recente, ha approvato la detenzione nei Cie (centri di identificazione ed espulsione) sino a 18 mesi, luoghi dove si può finire anche senza aver commesso reati: a loro modo sono carceri anche quelle. Lo stesso governo ha teso indubbiamente a sparpagliare più carcere per nuovi reati: dalla custodia cautelare obbligatoria per gli accusati di stupro alle improbabili retate dell’improbabile decreto sulla prostituzione. A tal proposito tocca ricordare il provvedimento meno garantista degli ultimi vent’anni, fortunatamente bocciato dalla Corte Costituzionale: quello che prevedeva il carcere automatico per tutti i sospettati (solo sospettati) di violenza sessuale e pedofilia, quella norma, cioè, popolar-forcaiola che il governo varò frettolosamente quando sembrava che in giro ci fossero solo romeni che stupravano donne. E invece, parentesi, era la classica bufera mediatica: sia perché molti accusati erano innocenti, sia perché gli stupri risultavano inferiori agli anni precedenti. Tocca ripetere che il carcere obbligatorio, senza che un giudice possa valutare da caso a caso, dovrebbe esserci solo per i colpevoli accertati da un giudizio: questo ha detto la Consulta, così come lo dice il Codice e la Costituzione e tutto il diritto d’Occidente. Vale da Papa in giù. Si chiama presunzione di non colpevolezza, e il principio è di un’ovvietà tale che le proteste rivolte contro la Consulta in quell’occasione, da parte di esponenti del centrodestra, soprattutto donne, restano una pagina nera del sedicente garantismo di questo Paese. Molti, a questo punto, non saranno affatto d’accordo, e obietteranno che il problema non è svuotare le carceri ma costruirne di nuove per ficcarci dentro più gente. Funzione retributiva del carcere, chiamiamola: all’americana, o alla Piercamillo Davigo. Ma l’unico che si è veramente sbattuto per realizzare un vero piano carceri è il Guardasigilli Angelino Alfano. Anche Berlusconi, per un po’ di tempo, si era mostrato disponibile ad affrontare il problema sul serio. Di fatto, non è andata così. Gli 80mila posti-carcere inizialmente auspicati dal ministro, tenendo conto dei tempi di realizzazione, già di per loro rischiavano di peccare addirittura di modestia, un po’ come la terza corsia di certe autostrade: quando hai finito di costruirla, serve già la quarta. Il piano carceri effettivo, agli effetti, ha partorito una previsione di 9.510 posti in più: non bastano neppure per l’attuale fabbisogno. Secondo un’accurata inchiesta di Radio Carcere, oltretutto, molti dei nuovi padiglioni sono già stati costruiti ma sono vuoti, perché manca il personale. Così, assieme ad altri 15mila in attesa di un primo giudizio, Papa attende in carcere affinché l’ingiustizia sia uguale per tutti. La banale verità è che questo governo - ma tutti i governi, in realtà - nella sostanza è stato latitante. Il misero dualismo che intrappola la politica italiana, più o meno, recita così: se non farete le carceri sarà necessario un altro indulto, e parte degli italiani vi spellerà vivi; se farete le carceri in tempi come questi, invece, il rischio è che dicano: ecco, c’è la crisi e loro spendono per i galeotti. E così non se ne esce. Giustizia: manette Radicali… di Luigi Manconi Il Foglio, 26 luglio 2011 Diciamolo francamente: Maurizio Turco, deputato radicale eletto nelle liste del Pd, non è la persona più simpatica del mondo. Ma è un parlamentare assai serio e preparato. D’altra parte Turco non sembra avere avuto una giovinezza attraversata, come è stata la mia, da suggestioni populiste. Dunque, sentirlo ricordare - dopo il sì all’arresto di Alfonso Papa - che quanti oggi si stracciano le vesti hanno protratto, d’un colpo solo, la permanenza degli stranieri nei Centri di identificazione e di espulsione (Cie) da sei a diciotto mesi, mi ha scaldato il cuore. E, infatti, il voto di mercoledì scorso, al di là delle problematiche più strettamente politiche (ruolo della Lega, contraddizioni del Pd), solleva due importanti questioni di diritto. La prima richiama il garantismo come sistema. La seconda, il livello dove quel sistema di garanzie si colloca. L’interpretazione sbrigativa del centrodestra vorrebbe la sinistra esercitare il garantismo solo a favore dei propri esponenti (sì all’arresto per Papa, no all’arresto per Tedesco), ma l’affermazione così ineludibile di Maurizio Turco ripristina un principio di verità (e se qualcuno la trova demagogica, si arrangi). L’idea che la coerenza e la sistematicità di una impostazione autenticamente garantista dell’amministrazione della giustizia valga innanzitutto, se non esclusivamente, a livello orizzontale (per la destra come per la sinistra, per i vicini come per i lontani, per gli alleati come per gli avversari) è corretta ma parziale, parzialissima. Una impostazione compiutamente garantista si manifesta nel momento in cui essa funziona anche a livello verticale: ovvero nell’applicarsi coerentemente e sistematicamente oltre le sperequazioni di classe, di censo, di etnia. Non si deve sottovalutare quel livello orizzontale (guai a farlo, anzi), ma l’obbligo di non discriminare tra amici e nemici e tra destra e sinistra si colloca all’interno di una più ampia esigenza di universalità delle garanzie: nel confronti del parlamentare Papa così come dell’immigrato irregolare. Quel decreto legge che prolunga la permanenza nei Cie fino a diciotto mesi, approvato dal Consiglio dei ministri successivo alla sconfitta nelle elezioni amministrative, rivela nitidamente la propria miseria: e quanto sia autentica la vocazione garantista del centrodestra. Tanto più che le persone trattenute nei Cie, in gran parte dei casi, non sono responsabili di alcun reato: e devono rispondere, al più, di una fattispecie penale (ingresso e soggiorno irregolari nel territorio italiano) che, appena due anni fa, si riduceva a un illecito amministrativo. Per questo possono rimanere all’interno di un luogo orrendo come il Cie per un anno e mezzo. Senza che l’ottimo Maurizio Paniz tradisca un dubbio e riveli un rossore. Anche la seconda questione rimanda al fondamento universalistico del sistema delle garanzie. Stante che il 40 per cento della popolazione detenuta è composta da reclusi in attesa di sentenza definitiva, chi si trovi a decidere della libertà di Papa o di Tedesco a quale livello di uguaglianza deve tendere? Spingere i due parlamentari sul “livello più basso” della custodia cautelare generalizzata o battersi perché quel 40 per cento in attesa di sentenza definitiva sia “sollevato” al livello delle tutele di cui godono i parlamentari? La mia risposta tranne che per i casi di documentata pericolosità sociale - è inequivocabile: si deve ricorrere il meno possibile alla custodia cautelare, limitandola tassativamente alle circostanze indicate dal codice. In altre parole, più garanzie per tutti. D’altra parte, il voto del Parlamento di mercoledì scorso concerneva altro: ovvero la sussistenza o meno del fumus persecutionis. Non stupisce pertanto che i radicali, per i quali la forma è sostanza e il rispetto delle regole è assoluto, abbiano votato per il si all’arresto, limitando la loro decisione al solo merito del quesito. Fossi stato parlamentare, non sono certo di quale sarebbe stata la mia scelta. Da senatore mi è capitato di assumere posizioni, su tali questioni, scarsamente apprezzate da quella che era e resta la mia parte politica (la sinistra). Questo per dire quanto il tema sia controverso: ma un conto è discuterne con il Foglio, un altro - e assai diverso - è prendere lezioni di garantismo da Ignazio La Russa o, peggio mi sento, da Michela Vittoria Brambilla. Giustizia: Clemenza e Dignità; carceri come un inferno, ma troppi politici restano indifferenti Dire, 26 luglio 2011 “Le carceri si sa sono l’inferno. Sono un luogo non accessibile a tutti e come nell’inferno dantesco c’è bisogno sempre di una saggia e sapiente guida per visitarle. In questo caso e per tutto quello che ha fatto per la condizione dei detenuti, ci viene assegnato per il ruolo che fu di Virgilio, un uomo chiamato da lontano, un uomo che dice di chiamarsi Karol Wojtyla”. Lo dichiara in una nota Giuseppe Maria Meloni, presidente di Clemenza e Dignità. “Entrando, dai sospiri, dai pianti e dalle urla, e poi dai tentativi di suicidio e dagli atti di autolesionismo - prosegue - effettivamente capiamo subito che siamo giunti proprio all’inferno. Però - osserva - informandoci su cosa abbiano commesso costoro e vedendoli tutti quanti assieme nel medesimo stato, la prima e superficiale impressione è che non ci siano particolari analogie con l’inferno dantesco. Qui la pena è sostanzialmente identica per tutti, non c’è una legge del contrappasso”. Così, ladri, omicidi, usurai e stupratori, “si trovano tutti nello stesso cerchio a patir la stessa pena. Scossi da tanta visione - rileva Meloni - decidiamo di riposarci per un attimo in un luogo più appartato e riflettendo capiamo che l’inferno è un’idea religiosa assai vasta, mentre le carceri vanno concernendo soltanto il reato. Capiamo che l’inferno e le carceri sono la stessa cosa, ma l’inferno essendo un’idea prettamente religiosa non può fermarsi al reato, deve per forza comprendere anche i peccati che reati non sono”. Ecco infatti, continua il presidente di Clemenza e Dignità, Giuseppe Maria Meloni, “che proseguendo il nostro cammino, scopriamo con grande meraviglia, nei pressi di quelle strutture infernali e verso le porte d’ingresso, le sembianze di coloro che non hanno mai commesso alcun reato, sembianze anche di volti noti: politici, giornalisti, giuristi, intellettuali, persino degli ecclesiastici. Alla domanda - conclude - “ma Voi come siete giunti in questo posto, essi ci rispondono: siamo coloro che per viltà non hanno mai preso posizione sulla situazione carceraria, siamo quelli che non hanno mai preso posizione dinanzi alle centinaia e centinaia di morti, siamo quelli che non si sono adoperati ne a favore e ne contro, siamo gli ignavi e siamo quelli per cui nella Divina Commedia sta scritto “Fama di loro il mondo esser non lassa; misericordia e giustizia li sdegna: non ragioniam di lor, ma guarda e passa”. Giustizia: legge su ingiusta detenzione; Petrilli scrive al Tribunale penale internazionale www.ilcapoluogo.com, 26 luglio 2011 Una lettera al procuratore generale del Tribunale penale internazionale, Luis Moreno Ocampo, per smuovere la giustizia internazionale contro il mancato risarcimento per ingiusta detenzione a chi, in Italia, è stato assolto prima del 1989. Con questo gesto il responsabile per la giustizia del Pd dell’Aquila, Giulio Petrilli, riprende la sua battaglia. E denuncia ancora una volta il trattamento riservato agli ex detenuti che hanno scontato ingiustamente una pena e per i quali la legge non prevede un risarcimento adeguato. Una situazione in cui lui stesso si venne a trovare negli anni 80. La lettera a Ocampo è “un ulteriore tentativo di avere giustizia da una corte internazionale - ricorda Petrilli - in quanto qui in Italia la legge vieta il risarcimento a tutti coloro i quali sono stati assolti prima dell’ottobre 1989. Questo perché la legge sul risarcimento per ingiusta detenzione, entrata in vigore in quella data, non è retroattiva”. Una non retroattività che è “palesemente anticostituzionale - aggiunge - in quanto c’è discriminazione tra chi è stato assolto con sentenza definitiva dopo l’ottobre 1989, che può accedere all’istituto del risarcimento, e chi lo è stato prima e non può. Naturalmente parliamo della violazione di un diritto importante che è quello della libertà personale. Non può non avere un risarcimento: il minimo rispetto a esistenze che possono rimanere segnate per sempre” dal carcere ingiusto. LA LETTERA - Indirizzata al procuratore generale del Tribunale penale internazionale dell’Aja, Luis Moreno Ocampo (edificio “The Art”, a Voorburg, in Holland), la lettera ripercorre l’esperienza del carcere vissuta dallo stesso Petrilli. “Il sottoscritto Giulio Petrilli, cittadino italiano, nato in Ortona dei Marsi (Aq), l’8 luglio del 1958 e residente all’Aquila, via A. Moro n. 4, denuncia quanto segue. Sono stato arrestato nel 1980 con l’accusa di partecipazione a banda armata (Prima Linea) e rilasciato nel 1986, dopo l’assoluzione avuta nel giudizio d’appello presso il tribunale di Milano. Sono uscito innocente dopo cinque anni e otto mesi di carcere, da un’accusa di banda armata, che prevedeva anche la detenzione nei carceri speciali e sotto regime articolo 90, più duro dell’attuale 41 bis. Anni di isolamento totale, blindati dentro celle casseforti insonorizzate, senza più poter scrivere lettere, leggere libri, qualche ora di tv ma solo primo e secondo canale. Sempre, sempre soli, con un’ora d’aria al giorno, in passeggi piccoli e con le grate. Un’ora di colloquio al mese, con i parenti, ma con i vetri divisori. Dodici carceri ho attraversato in questi sei lunghi anni. Ho avuto la sentenza definitiva di assoluzione dalla cassazione nel luglio 1989. Nell’ottobre dello stesso anno, con l’entrata in vigore del nuovo codice penale che prevedeva l’introduzione di articoli di legge per la riparazione per ingiusta detenzione, inoltrai domanda in tal senso, presso la corte di appello del tribunale di Milano. Mi risposero che avevo ragione, ma non essendo una norma retroattiva, la mia domanda di riparazione era inammissibile. Sollecitai negli anni successivi l’intervento della Corte europea dei diritti dell’uomo, ma tutto finiva dentro le maglie della burocrazia e di tempi tecnici oltrepassati per fare l’istanza. L’unica soluzione era - ed è - quella di fare in modo che la legge sulla riparazione per ingiusta detenzione diventi retroattiva; quindi anche per i casi di assoluzione antecedenti l’ottobre 1989. Ma ancora niente, nulla. Il magistrato che emise l’ordine di cattura (l’attuale procuratore aggiunto del tribunale di Milano, Armando Spataro) e la Corte di primo grado che mi condannò, alla luce della mia successiva assoluzione sono colpevoli, secondo me, di aver trasgredito l’art. 7 dello statuto della Corte penale nei commi f) sulla tortura, K) atti diretti a favorire intenzionalmente grandi sofferenze e gravi danni all’integrità fisica e alla salute fisica e mentale, E) imprigionamento o altre gravi forme di privazione della libertà personale. Chiedo alla luce degli elementi esposti un vostro intervento”. Giustizia: e adesso solo Pannella può salvare Alfonso Papa di Francesco Damato Il Tempo, 26 luglio 2011 Alfonso Papa, il deputato del Pdl e magistrato detenuto a Poggioreale dopo l’autorizzazione votata alla Camera a scrutinio formalmente segreto, è di sicuro un pasticcione. Ma i suoi colleghi di toga, accusatori e giudice per le indagini preliminari, gli fanno una concorrenza imbarazzante. Sulla quale vorrei richiamare l’attenzione particolare di Marco Pannella perché, in coerenza - come spiegherò con il suo passato, riequilibri in qualche modo il ruolo un po’ troppo manettaro svolto in questa vicenda dalla pattuglia radicale di Montecitorio. Che è presente ahimè - nel Pd. Il pasticcio di Papa esula dagli addebiti giudiziari che lo riguardano, e sui quali non oso esprimere valutazioni di merito, in attesa degli sviluppi delle indagini e dei processi che dovessero scaturirne. Il suo è un pasticcio istituzionale, che ha commesso con la richiesta, respinta immediatamente dal giudice Luigi Giordano, su parere conforme dei pubblici ministeri, di partecipare ai lavori e alle votazioni delle commissioni parlamentari di cui fa parte, pur essendosene volontariamente sospeso per ragioni conclamate di opportunità prima dell’arresto. Ma quanto è stata bislacca e pasticciata la richiesta di frequentare le commissioni, tanto ragionevole e fondata è stata l’istanza di Papa, anch’essa respinta, di partecipare ai lavori e alle votazioni d’aula di Montecitorio, continuando egli ad essere a tutti gli effetti un deputato. Dalle cui funzioni si può decadere solo per effetto di una sentenza definitiva di condanna, non per un arresto cautelativo come il suo. Che solo un forcaiolo, non so se più malvagio o ignorante, può scambiare per un anticipo di pena, in attesa del processo, se e quando vi si arriverà: di primo, secondo e terzo grado. La rapidità con la quale il giudice ha precluso anche l’aula di Montecitorio a Papa, il cui voto peraltro potrebbe risultare determinante per il governo, visti i numeri di cui la maggioranza dispone alla Camera, è inquietante. Il presidente del Consiglio ne ha già tratto spunto, forse non a torto, per avvertire la natura politica della intera vicenda giudiziaria. Che sarebbe naturalmente gravissima, pure se all’aggettivo “politica” si volesse prudentemente anteporre l’avverbio “anche”. Già 28 anni fa Marco Pannella rivendicò il diritto di un parlamentare di esercitare le sue funzioni anche da detenuto. Era in gioco allora la posizione di Toni Negri, da lui candidato con successo nel 1983 alla Camera con il dichiarato proposito di sottrarlo allo stato di detenzione in cui era costretto, sotto processo per gravi reati di associazione terroristica ed eversiva. La clamorosa elezione obbligò i magistrati a scarcerare l’imputato per via dell’immunità parlamentare che gli spettava. Ma che non toglieva loro il diritto, prontamente esercitato, di chiedere l’autorizzazione a riarrestarlo. Che fu concessa nel giro di pochi mesi, peraltro con l’astensione decisiva dei radicali, motivata per ragioni di principio contro le norme che disciplinavano la complessa materia della custodia preventiva. Lo scenario che si era astutamente prefigurato Pannella per portare avanti la sua battaglia contro la carcerazione prima della condanna - una battaglia che coerentemente egli conduce ancora in questi tempi di ormai abituale sovraffollamento delle carceri - prevedeva a giorni più o meno alterni la traduzione di Negri dal carcere al Montecitorio per garantirgli l’esercizio del mandato parlamentare, pur in condizioni detentive. La spinosa questione fu informalmente esaminata sia negli uffici della Camera, allora presieduta da Nilde Jotti, sia in quelli del Ministero dell’Interno, allora guidato da Oscar Luigi Scalfaro. Negli uni e negli altri si riconobbe una certa fondatezza alle ragioni di Pannella. Il cui scenario fu però vanificato dalla decisione di Negri di sottrarsi alla detenzione fuggendo in Francia, dove si guadagnò addirittura una docenza universitaria. A quella fuga, via mare dalle coste toscane, non fu probabilmente estraneo un allentamento della sorveglianza della Polizia, al cui vertice si preferì con evidenza un latitante ad uno scomodissimo deputato da gestire in condominio tra Montecitorio e Regina Coeli. Pannella si arrabbiò come una bestia con Negri, scrivendogli ad un certo punto attraverso il Corriere della Sera. E gli chiese quanto meno di dimettersi per consentire il subentro del primo dei non eletti radicali alla Camera. Ma il professore rifiutò, delegando per giunta una persona fidata a riscuotere l’indennità parlamentare. Che fu regolarmente pagata sino all’esaurimento della legislatura e del suo mandato parlamentare, nel 1987. Nel frattempo egli fu condannato a 30 anni, ridotti a 17 in appello. Ora Pannella, per fortuna vivo e arzillo, a dispetto di tutte le volte che mette a rischio la vita con i suoi digiuni, può ben battere un colpo a favore dei diritti parlamentari di Papa: uno di quei colpi che lui solo, peraltro fresco di un lungo e cordialissimo incontro con il presidente della Repubblica, sa sferrare facendosi sentire anche dai sordi. Giustizia: “Papa può ancora inquinare le prove”; doppio no dei pm alla scarcerazione di Conchita Sannino La Repubblica, 26 luglio 2011 Primo incontro in carcere con la moglie dal giorno del suo arresto per il deputato Pdl. Ma intanto la Procura spiega perché deve rimanere in cella. Deciderà il giudice Giordano entro giovedì “Papa può ancora inquinare le prove” doppio no dei pm alla scarcerazione. Due no, duri seppure prevedibili, da parte della Procura di Napoli: no alla scarcerazione e no anche agli arresti domiciliari per il deputato Pdl Alfonso Papa, detenuto a Poggioreale da cinque giorni. I pm Henry John Woodcock e Francesco Curcio hanno depositato nel pomeriggio il parere negativo all’istanza che i difensori del parlamentare, Giuseppe D’Alise e Carlo Di Casola, hanno presentato al gip Luigi Giordano, chiamato a decidere entro giovedì. Per la pubblica accusa, Papa deve rimanere in carcere perché le esigenze di custodia cautelare “non risultano cessate”. Anzi, stando alle conclusioni dei pm, Alfonso Papa - entrato nel sovraffollato carcere napoletano poco dopo la mezzanotte di giovedì scorso, accusato di concussione, favoreggiamento, e rivelazione di segreto - potrebbe “inquinare le prove” e anche “reiterare le condotte” che lo hanno portato a varcare la soglia del penitenziario. Papa infatti - è il ragionamento della Procura - resta un deputato saldamente legato alle prerogative, ai legami e alla rete di relazioni che lo circondano. Una circostanza che si basa anche sulla legittima volontà espressa da Papa appena entrato in carcere: quella di “esercitare il diritto di voto e di partecipare pienamente ai lavori della Camera”. Argomentazioni che i pm usano anche per respingere l’ipotesi di un’attenuazione della custodia nella forma degli arresti domiciliari, dal momento che “in casa di un parlamentare della Repubblica” non sarebbe consentito limitare né i contatti, né le visite e i rapporti con l’elettorato. Argomentazioni non vincolanti, ma che potranno esercitare un considerevole peso, nella decisione finale del gip. E che non hanno scalfito, per ora, l’apparente serenità dell’indagato Papa. Ieri, il deputato ha visto in carcere, per la prima volta da detenuto, sua moglie, Tiziana Rodà. Poco dopo, ecco la seconda visita in pochi giorni dell’onorevole Amedeo Laboccetta, il collega che prima avviò un’interrogazione parlamentare a difesa di Papa, poi ne ha condannato pubblicamente i “comportamenti disdicevoli”, negando complotti da parte della magistratura, e poi ha votato per il no al suo arresto. Lo stesso Laboccetta racconta, appena uscito da Poggioreale, che nella cella che oggi Papa divide con altri detenuti “c’è una bella immagine di Padre Pio appesa a uno degli armadietti. Alfonso Papa, vincendo una sua comprensibile ritrosia, mi ha detto che quello era il suo armadietto e che quella immagine, dipinta su quello che mi è apparso essere un tovagliolo di stoffa, gli era stata donata da un suo giovane compagno di detenzione del padiglione, tale Luigi Maisto, e che egli non riusciva, da quel momento, a staccare gli occhi da quell’immagine. Papa mi ha poi riferito di aver imparato a fare il bucato e che si sta impegnando per imparare a lavare il pavimento della sua temporanea dimora”. Lettere: dieci, cento, mille nazioni come la Norvegia da Cristiana Gemignani www.paperblog.it, 26 luglio 2011 Molti di noi a leggere il profilo del cristiano fondamentalista hanno riconosciuto la matrice patologica che si annida in luoghi strutturati e “ben” frequentati come Militia Christi, Forza Nuova, il sito Pontifex e alcune frange della Lega Nord passando persino per l’Udc. Chi fa parte della comunità omosessuale italiana legge ogni giorno dichiarazioni naziste e istigatorie degne delle parole dell’attentatore norvegese. Ma la questione, oggi, è più profonda. Vittorio Feltri dalle pagine de Il Giornale, quotidiano di riferimento del nostro Paese insulta i morti, i feriti e i sopravvissuti dell’isola di Utoya, sostenendo che i morti sono stati così tanti perché quei giovani sono egoisti ed incapaci. Ebbene dietro questa frase che appare folle c’è un disegno ideologico molto profondo che va politicamente e culturalmente contrastato e niente affatto trascurato. Feltri identifca nei giovani laburisti un fattore di debolezza dovuto al modello sociale. Ci sta dicendo che in un Paese dove i gay si sposano e dove l’Islam viene “accolto” con un modello di integrazione tollerante, questo non può che portare ad un indebolimento della società. Bisogna andare indietro di 70 anni per risentire frasi del genere e, a onor del vero, prima di Hitler le pronunciò persino Churchill. Ciò che Feltri si dimentica di analizzare sono il numero di morti per mafia, negli anni di piombo, nelle stragi di stato, nelle belle famigliole italiane che il nostro Paese conteggia dal dopoguerra ad oggi. È come se nel nostro Paese ci fosse stato un altro conflitto. Oggi, mi sentirei di scambiare la nostra povera sudditanza familistica dentro una democrazia immatura e gattopardesca con quella norvegese. Scelgo senza alcun dubbio un Paese dove centinaia di giovani non sanno difendersi da un pazzo che spara perché l’atto rappresenta qualcosa di geneticamente avverso al proprio popolo, piuttosto che il disordine mafioso e immaturo del nostro Paese. Non mi vergognerò di essere italiana quando i nostri valori saranno esportabili e non rappresenteranno solo la nostra eredità o la nostra capacità di adattamento e di reazione. Voglio essere orgogliosa di una gestione. Oggi Feltri mi fa vergognare del mio Paese e rievoca tempi e frasi spaventose. Oggi Feltri mi ricorda che la nostra democrazia è ancora vittima di un clerical-fascismo serpeggiante che cambierei ora e subito per un Paese che dal dopo guerra ad oggi ricorderà “soltanto” la strage di un pazzo fondamentalista cattolico. E a chi dice che 21 anni sono pochi e che le carceri in Norvegia sono comode e pulite, segnalo la distanza siderale, appunto, tra la civiltà e la caverna. Fosse, almeno, la nostra caverna dotata di ombre platoniche e non di mostri oppiacei e di prepotenze volgari. Forlì: carcere della Rocca, i detenuti sono allo stremo Il Resto del Carlino, 26 luglio 2011 Sovraffollamento, carenza di personale, degrado e preoccupanti condizioni igienico-sanitarie. Un vero e proprio grido d’allarme si leva dai detenuti del carcere della Rocca. Sovraffollamento, carenza di personale, degrado e preoccupanti condizioni igienico-sanitarie: sono solo alcuni dei problemi denunciati non solo dagli ospiti e dal personale di polizia penitenziaria, ma dalle stesse istituzioni locali che, dopo ripetute segnalazioni, scrissero al Ministro di grazia e giustizia Alfano ponendo una sorta di ultimatum, che scandiva i tempi degli interventi da attuare con urgenza. Il sindaco, la massima autorità locale in materia sanitaria, firmò un’ordinanza indirizzata proprio al Ministero, evidenziando la drammatica situazione in cui versa la Rocca. Escrementi di volatili, ratti nei sotterranei, problemi di manutenzione negli impianti, aree cortilizie trasformate in discariche, vani doccia, celle e cucine in condizioni igienico-sanitarie precarie. Qui eravamo rimasti il 26 febbraio. E da qui siamo ripartiti. “La situazione è migliorata da allora - spiega la dottoressa Romana Bacchi, responsabile del dipartimento di Sanità pubblica -. Abbiamo effettuato tre nuovi sopralluoghi e, complessivamente, abbiamo potuto constatare un buon avanzamento dei lavori, grazie anche alla collaborazione della direzione dell’istituto penitenziario. Per chi lavora all’interno del carcere, anche il più piccolo miglioramento viene vissuto come un grande risultato. Anche perché le risorse da impiegare sono poche, da utilizzare col contagocce. Va ribadito, però, che i miglioramenti ci sono stati sì, ma solo rispetto a quanto chiesto nell’ordinanza. L’edificio presenta ancora molti problemi di ordine strutturale”. Tradotto: le condizioni minime sono state ristabilite, ma è chiaro a tutti che la Rocca di per sé è una struttura non più adeguata ad ospitare un così elevato numero di detenuti ed è chiaro che in quanto edificio storico qualsiasi intervento di tipo strutturale risulterebbe estremamente oneroso. Troppo, considerato che di carcere se ne sta costruendo uno nuovo. Come a dire: chi è che rimetterebbe a posto la vecchia auto, avendo già intenzione di comprarne una nuova? Ciò non toglie che se si continua ad usare quella vecchia, anche solo per qualche anno, nessuno vorrebbe rischiare la pelle girando coi freni rotti. Ma vediamo quali sono gli interventi effettuati dalla direzione penitenziaria dell’istituto, in seguito all’ordinanza del febbraio scorso. Il più rilevante è stato lo sgombero della sezione attenuata che ha permesso di effettuare importanti lavori e, al tempo stesso, di ottenere un altro fondamentale risultato (sebbene temporaneo): la riduzione del numero di detenuti, che oggi sono 154 a fronte dei 191 rilevati nell’ultimo monitoraggio e dei 100 previsti. “Siamo ai minimi storici per l’istituto” commentano Bacchi e Alfonso Casadei, responsabile Ausl di Medicina penitenziaria, che ricordano: “La sezione attenuata, al terzo piano, era stata interessata da un parziale crollo del tetto che non la rendeva più agibile. I detenuti sono stati trasferiti in strutture vicine, soprattutto quella di Rimini, per consentire il risanamento. Lo sgombero del sottotetto ha consentito anche di risolvere il problema dei volatili che si infilavano attraverso i pertugi”. Un altro grave problema riguardava le cucine che sono state completamente ristrutturate: dai pavimenti alle fogne, ai cortili interni dai quali sono stati allontanati il materiale accatastato e i posatoi per i volatili. “Sono stati anche sostituti gli utensili e quelli vecchi rimasti sono stati manutenzionati - spiega Casadei. Abbiamo ottenuto che i detenuti che lavorano in cucina avessero tutti le divise, comprese quelle di ricambio. E che le pulizie venissero fatte tutte le sere, a chiusura della cucina, da una squadra diversa rispetto a quella dei cucinieri”. Ancora: sono stati sgomberati i cortili esterni dove venivano accatastati materiali di risulta (cartacce, potature, materiale elettrico, ecc.). “Già da qualche mese - commenta la Bacchi - non c’è più niente”. L’abolizione della discarica a cielo aperto ha favorito anche la minor proliferazione di animali ed è già stato presentato un piano di derattizzazione. Infine una valutazione positiva è stata espressa anche sulla pulizia e sulla manutenzione delle celle e dei vani doccia “dove sono stati ottenuti i requisiti minimi accettabili. Ma ricordiamo che questi piccoli interventi - spiega la Bacchi - sono normativamente ineludibili. L’ordinanza, infatti, mirava a risanare soprattutto quelle condizioni dettate da una non corretta e costante manutenzione. L’istituto, però, ha ancora forti carenze strutturali”. Resta, infatti, il problema delle caditoie per il convogliamento dell’acqua piovana, causa primaria di infiltrazioni e umidità che rendono alcuni ambienti decisamente poco salubri. Pavia: il presidente della Provincia Bosone (Pd); più carceri? meglio campi di lavoro agricoli Il Giorno, 26 luglio 2011 Arrivato a Torre del Gallo alle 9 si è trattenuto nel carcere fino alle 10,30: così ha testato in prima persona gli spazi di socializzazione ristretti, dopo l’ampliamento deciso dal ministero di Giustizia che ha eliminato il campo da calcio Il presidente della Provincia Bosone. È stata un’ora d’aria speciale quella che i 500 detenuti del carcere di Pavia hanno vissuto ieri. Con loro c’erano il presidente della Provincia Daniele Bosone e il consigliere Pd Giacomo Galazzo. Arrivato a Torre del Gallo alle 9 si è trattenuto nel carcere fino alle 10,30: così ha testato in prima persona gli spazi di socializzazione ristretti, dopo l’ampliamento deciso dal ministero di Giustizia che ha eliminato il campo da calcio. Il primo “male” è il sovraffollamento. “Siamo al doppio della capienza regolamentare - aggiunge Bosone - il che significa problemi igienico-sanitari tenuti sotto controllo da 2 medici e 5 paramedici. La direzione e gli agenti di Polizia penitenziaria cercano di fronteggiare bene la situazione, pur in carenza d’organico”. La risposta del Ministero è stata un aumento della capienza, con una nuova struttura che si sta completando. “Non si può rincorrere il problema del sovraffollamento con altre strutture - dice Bosone - perché si aggiungono tante celle ma senza servizi in più. Come il campo da calcio, che speriamo di recuperare”. Invece per Bosone “si dovrebbe cambiare sistema: meno carceri e strutture un po’ più aperte, come per esempio campi di lavoro agricolo. Un ventaglio diverso di soluzioni”. La Provincia promette di istituire la figura del garante del detenuto. “Ci siamo impegnati in campagna elettorale. Abbiamo tre carceri importanti, serve un ponte tra dentro e fuori”. Genova: Radicali; questa sera fiaccolata a Marassi, ci sarà anche il sindaco Marta Vincenzi www.cittadigenova.com, 26 luglio 2011 Questa sera, alle ore 21, l’associazione “Radicali Genova” terrà, in piazzale Marassi nei pressi dell’ingresso del carcere, una fiaccolata a sostegno dell’iniziativa condotta da Marco Pannella, insieme ad oltre 24 mila persone, per denunciare - tra l’altro - l’inumana e illegale condizione dei detenuti nelle carceri italiane e per una radicale riforma del sistema carcerario e giudiziario italiano. Il giorno dopo a Roma, presso Palazzo Giustiniani, questi temi saranno oggetto del convegno promosso dal Partito Radicale “Giustizia! In nome della legge e del popolo sovrano”, con l’alto patrocinio della Presidenza della Repubblica e della Presidenza del Senato, e con la partecipazione del Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, e del Presidente del Senato, Renato Schifani. Hanno aderito e saranno presenti alla manifestazione: Salvatore Mazzeo, direttore del carcere di Marassi; Nicolò Scialfa, consigliere regionale e capogruppo Idv in Regione; Milò Bertolotto, assessore provinciale ad Organizzazione e Personale con delega alle carceri; Egidio Banti, sindaco di Maissana; Franco Zunino, capogruppo per la Federazione della Sinistra al Consiglio Comunale di Savona; Cristina Morelli, membro dell’esecutivo Nazionale dei Verdi; La Federazione dei Giovani Socialisti;La Polizia Penitenziaria; Arci Liguria; Arci Genova; L’Associazione Familiari e Amici dei Detenuti; La Comunità di San Benedetto al Porto; Sandro Bertolotti, curatore del laboratorio di teatro in carcere; Associazioni che operano all’interno del carcere di Marassi; Numerosi parenti di detenuti di Marassi provenienti da varie città italiane; Deborah Cianfanelli, della direzione di Radicali Italiani; Walter Noli, Susanna Mazzucchelli, Alessandro Rosasco e Giampiero Buscaglia, del Comitato di Radicali Italiani Militanti e dirigenti delle associazioni radicali “Mario Tarantino - La Spezia” e “Graf - Gruppo Radicale Adele Faccio”. L’associazione Radicali Genova ringrazia Marta Vincenzi, Sindaco di Genova, che ha aderito all’iniziativa e ha annunciato la propria partecipazione alla fiaccolata. L’associazione invita tutti i cittadini genovesi a partecipare all’iniziativa, in quanto la situazione delle carceri rappresenta, sempre più, una vera e propria emergenza umanitaria, ed è il simbolo del trionfo della “giustizia ingiusta” nel nostro Paese che, ogni anno, viene pesantemente sanzionato dall’Unione Europea per la sistematica violazione dei diritti umani causata dalla durata dei processi e dall’insostenibile sovraffollamento nei penitenziari. Sulmona (Aq): Uil; supercarcere da ampliare? ci opporremo, se non arriveranno nuovi agenti Il Centro, 26 luglio 2011 Si opporrà all’apertura del nuovo padiglione del supercarcere di Sulmona se non verrà rivista la pianta organica dell’istituto e se non verranno onorati i debiti contratti con il personale per le missioni non pagate. La Uil, dopo l’annuncio da parte del Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria) sulla costruzione di una nuova ala che ospiterà altri 200 detenuti - per un impegno economico di 11 milioni di euro - alza la voce e invita l’amministrazione penitenziaria a risolvere prima i gravi problemi di organico e di sicurezza che affliggono il penitenziario di via Lamaccio. “Dovessero permanere le condizioni attuali”, afferma il segretario provinciale della Uil, Mauro Nardella, “il nuovo padiglione non solo non porterà alcun beneficio per i detenuti, ma appesantirà il già delicato lavoro dei poliziotti penitenziari compromettendo ulteriormente la sicurezza dell’istituto. Aprire pertanto un nuovo reparto senza l’integrazione di altro personale”, prosegue Nardella, “non solo sarebbe improduttivo, ma comprimerebbe ancor di più le già precarie condizioni in tema di diritti soggettivi di tutto il personale operante nell’istituzione carceraria”. La Uil se la prende poi con il sindaco di Sulmona Fabio Federico e con la Regione che hanno accolto con grande soddisfazione l’iniziativa del ministero della Giustizia. “Trovo difficile capire l’atteggiamento degli amministratori di Comune e Regione”, conclude l’esponente della Uil, “dicono che si tratta di una occasione importante per il carcere di Sulmona, che in questo modo potrà recuperare ulteriore funzionalità. Se i 200 detenuti in più dovessero riguardare il circuito degli internati allora la disfatta sarebbe totale, con gravi ripercussioni sulla sicurezza del territorio”. Monza: a fuoco automezzo di polizia penitenziaria; la scorta “sorveglia” per strada due detenuti Il Velino, 26 luglio 2011 Questa mattina, a Monza, un automezzo della polizia penitenziaria, un Fiat Ducato, ha preso fuoco mentre trasportava due detenuti diretti al plesso ospedaliero della cittadina lombarda. A darne comunicazione il Segretario Generale della Uil-Pa Penitenziari, Eugenio sarno, che aggiunge: “Mentre era in corso il trasporto di due detenuti (tra cui uno classificato Alta Sicurezza) dalla Casa Circondariale di Monza al locale ospedale (dove i due erano attesi per effettuare visite specialistiche e sottoporsi ad accertamenti), all’altezza del Parco di Monza, l’automezzo si incendiava. I sei uomini di scorta hanno immediatamente fatto scendere i due detenuti dall’automezzo e hanno provveduto a spegnere l’incendio con gli estintori in dotazione. Nel frattempo che giungeva sul posto un altro automezzo, i due detenuti sono stati sorvegliati a vista sul ciglio stradale dal personale di scorta”. Quanto accaduto in mattinata a Monza è ulteriore benzina sul fuoco delle polemiche : “Ancora una volta solo per una fortuita coincidenza e per la professionalità della polizia penitenziaria il bilancio non è drammatico. Da tempo abbiamo segnalato l’obsolescenza e l’inadeguatezza del parco automezzi in dotazione alla polizia penitenziaria, con particolare riferimento agli automezzi destinati ai servizi di traduzione. La mancata manutenzione , l’elevato chilometraggio di percorrenza (mediamente superiore ai 350mila Km) e l’usura degli autoveicoli sono concreti fattori di rischio per l’incolumità del personale e degli stessi detenuti. Confermiamo - sottolinea con forza Eugenio Sarno - che se i mezzi in dotazione alla polizia penitenziaria fossero in uso a privati cittadini sarebbero oggetto di immediato fermo amministrativo. A questo punto il personale di polizia penitenziaria oltre alla beffa di dover, molto spesso, farsi carico di fare il pieno agli automezzi è anche costretto a dover rischiare la propria vita. È opportuno sottolineare, per fornire la dimensione esatta del problema, che in questi ultimi mesi sull’autostrada Napoli-Bari (per l’avaria dell’impianto frenante) un veicolo della polpen si è schiantato contro il guard rail provocando sette feriti ed un altro mezzo in Puglia è finito fuori strada (per fortuna senza conseguenze per le persone) per l’evidente stato di usura dei pneumatici. A San Vittore, qualche settimana fa, un automezzo è andato in autocombustione nel parcheggi interno. Se chi ha le competenze politiche ed amministrative (Tesoro, Giustizia, Dap) non interviene immediatamente per finanziare un piano straordinario di manutenzione degli automezzi - conclude il Segretario Generale - la prossima volta (perché è evidente che ci sarà una prossima volta) potremmo dover essere costretti a commentare una tragedia. Qualche berlina extra lusso in meno (di quelle che fanno bella mostra, a iosa, nei cortili dei palazzi del potere) e qualche mezzo efficiente in più in dotazione alla polizia penitenziaria sarebbe un segnale gradito ed apprezzato”. Brindisi: detenuto siciliano accoltellato, è grave ma non in pericolo di vita Senza Colonne, 26 luglio 2011 “Qui sono io a comandare, si fa quello che dico io”: prima i paroloni di un detenuto siciliano, poi la reazione di un gruppetto di brindisini e l’accoltellamento per mano di almeno due di loro che, per un soffio, non è finito in tragedia nel cortile del carcere di Lecce. Il primo nome della lista dei sospettati è quello di Raffaele Martena, giovane di 25 anni che, a dispetto della giovane età, ha sulle spalle trent’anni di reclusione per traffico di droga, inflitti in primo grado in due processi scaturiti da altrettante inchieste condotte dall’Antimafia tra Tuturano e il capoluogo. Il caso. Il siciliano è stato ferito al volto e all’addome ed è stato trasferito in ospedale: le lesioni sono gravi, fortunatamente non tali da compromettere le funzioni vitali. Ma è chiaro che il livello di allarme ora è diventato massimo perché esplode il caso del sovraffollamento della struttura di “Borgo San Nicola”, arrivata a 1.375 presenze a fronte di una capienza massima di 659. E tornano d’attualità le critiche mosse sulla politica della destinazione dei detenuti. Non sono solo troppi a Lecce, stretti nelle celle che scoppiano, ma sono anche provenienti da diverse realtà geografiche e altrettante dinamiche criminali, spesso organizzate al punto da essere qualificate come di “stampo mafioso”. E questo è un elemento che pesa, che si fa sentire ogni giorno, più volte. Nuoro: fiamme nella Colonia penale agricola di Mamone, mobilitazione degli agenti L’Unione Sarda, 26 luglio 2011 Momenti di paura nella colonia penale di Mamone dove domenica dopo mezzogiorno è divampato un vasto incendio che ha devastato quindici ettari di pascolo e macchia mediterranea. Per bloccare le fiamme che assediavano la diramazione di Nortiddi si sono mobilitati in tanti, a iniziare dagli agenti penitenziari che operano nella colonia. Chi era in servizio e anche chi non lo era si è dato da fare per mettere al sicuro i detenuti e il bestiame allevato nell’azienda. Accanto agli agenti, hanno operato gli uomini della Forestale, le squadre antincendio di Bitti, un elicottero della Protezione civile. L’incendio, alimentato dal forte vento di maestrale, è stato domato nel pomeriggio. La vicenda ha fatto riemergere le pecche della colonia penale, sprovvista di mezzi adeguati per combattere le emergenze. Lo sottolinea il segretario generale aggiunto della Cisl per la sicurezza Giovanni Villa. In una nota al capo dell’amministrazione penitenziaria Franco Ionta, al direttore generale Riccardo Turrini Vita, al provveditore regionale Gianfranco De Seu, alla direzione di Mamone, il sindacalista riconosce il coraggio dimostrato dagli agenti che si sono prodigati fino a tarda sera, anche tenendo sotto controllo l’area dopo le operazioni di spegnimento. “Non si capisce - sottolinea - come mai in una colonia agricola di 2700 ettari, lontana dai centri abitati, non ci siano mezzi sufficienti perché si possa intervenire in modo adeguato. Non esistono più, per carenza di personale, le unità adibite al controllo del territorio per una giusta prevenzione. Oggi, come altre volte è capitato, la fortuna è stata a fianco dei colleghi, ma si può sempre sperare nella fortuna?”. Cagliari: il magistrato concede permesso “di necessità” a un detenuto, il Dap ne riduce le ore Agenparl, 26 luglio 2011 Andata e ritorno senza soluzione di continuità dal capoluogo sardo a un piccolo paese della Calabria, a 80 chilometri da Reggio, con un permesso di necessità di 4 ore concesso per le gravi condizioni di salute della madre dal Magistrato di Sorveglianza di Cagliari ma ridotto a 2 ore dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Si è trasformato in un’odissea il permesso di incontrare l’anziana madre per un detenuto del carcere di Buoncammino, L.B., in stato di detenzione da oltre 15 anni. Analogo destino per la scorta che nell’arco di 24 ore ha effettuato la traduzione. L’uomo, che non vedeva la madre da 2 anni, aveva chiesto di poter incontrare l’anziana donna, impossibilitata a effettuare colloqui con il figlio a causa delle precarie condizioni di salute. Il Tribunale di Sorveglianza aveva com’è prassi predisposto i necessari accertamenti disponendo il permesso di avere un colloquio di 4 ore con la madre affetta da linfoma e sottoposta a chemio e radioterapia. Il Dap però ha eccepito la misura intervenendo con un “provvedimento di modifica” e imponendo una permanenza ridotta per motivi di sicurezza “per il personale penitenziario addetto alla scorta”. In questo modo l’incontro madre-figlio ha comportato un viaggio aereo andata e ritorno Cagliari-Roma-Reggio Calabria per 6 persone e un trasferimento con un cellulare della Polizia Penitenziaria per 160 chilometri. “Un tour de force che - sostiene Caligaris - appare giustificato solo da motivazioni di carattere ragionieristico e da una concezione punitiva della norma. Il Magistrato di Sorveglianza, nel disporre il permesso, ha valutato la tipologia del detenuto, il suo comportamento durante la lunga detenzione, il suo livello di rieducazione e le modalità di rapportarsi con gli Agenti nelle altre occasioni in cui gli è stato concesso di incontrare i familiari. Il Dap invece ha considerato il profilo del detenuto al momento dell’avvio del suo percorso penitenziario, 15 anni fa, ponendo l’accento sui rischi per il personale della scorta come se il tempo non fosse mai trascorso”. “Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria insomma mostra - conclude Caligaris - di non avere fiducia sulla funzione rieducatrice del carcere e di nutrire scarsa considerazione nei riguardi di chi ha titolo per concedere o rifiutare permessi. Evidenzia inoltre un atteggiamento schizofrenico nei confronti degli Agenti che meriterebbero ben altra attenzione rispetto ai bisogni e alle necessità di persone che svolgono costantemente un lavoro difficile”. Genova: distilleria clandestina in carcere, alcuni detenuti romeni fabbricano la grappa in cella di Stefano Origone La Repubblica, 26 luglio 2011 Il laboratorio è stato scoperto nella cella di alcuni rumeni che la producevano fermentando frutta. Il prodotto veniva poi venduto. Il direttore del carcere: “Gli agenti non bastano, non possono controllare tutto quel che succede”. La qualità della grappa non era ottima, ma a giudicare dal numero di detenuti che si ubriacavano acquistandola in cambio di pochi euro e qualche pacchetto di sigarette, andava giù e piuttosto bene. La distilleria artigianale è stata scoperta nella cella di sei rumeni che la producevano fermentando la frutta. Avevano realizzato un alambicco artigianale con bottiglie di vetro, un paio di tubi di acciaio e di rame. La rivendevano in cambio di pochi euro o qualche pacchetto di sigarette. Il laboratorio per produrre il distillato era una cella della seconda sezione. In una delle tre stanze al secondo piano, dove si trovano i detenuti con condanne definitive, gli agenti della polizia penitenziaria ne hanno sequestrato tre secchi. “Avevano escogitato un sistema redditizio, ma estremamente pericoloso - denuncia Eugenio Sarno, segretario generale del sindacato Uil-Pa Penitenziari - non solo per i materiali usati per costruire gli alambicchi, bottiglie di vetro e di plastica, ma perché la corrente elettrica veniva assicurata attraverso una derivazione di fili elettrici dalla plafoniera del bagno”. Fabio Pagani, il segretario regionale del sindacato non nasconde che per i rumeni la grappa fosse un business. “Anzi, un vero e proprio spaccio come per la droga: mini distillerie le abbiamo già smantellate nei mesi scorsi”. Il direttore del carcere Salvatore Mazzeo conferma che uno degli “artigiani” era già stato “punito con l’isolamento, ma continuava a produrre”. Ma come è possibile che i detenuti possano produrre grappa senza che nessuno se ne accorga? “Per forza - ammette sconsolato Mazzeo -, non posso garantire controlli continui nelle celle. Gli agenti non bastano, ce n’è solo uno per settanta detenuti, e per motivi di sicurezza non posso mandarlo da solo a vedere cosa fanno, perché può succedere di tutto. Che faccio, rischio che venga sequestrato o aggredito?”. Il blitz degli agenti è scattato dopo che sabato 16 luglio in una cella erano stati trovati nove ecuadoriani completamente ubriachi. “Da quello che abbiamo capito - aggiunge Pagani - era stata organizzata una sorta di bevuta e quasi tutti i detenuti al piano, che sono una settantina, erano alticci. La grappa girava nelle celle, i carcerati cantavano e ridevano”. L’alcol a fiumi rende aggressivi. “I nostri agenti, un ispettore e due sovrintendenti, sono stati aggrediti a calci e pugni”, precisa Sarno. Dopo una settimana di indagini, è scattato il blitz. “Siamo andati a colpo sicuro - spiega Pagani - e nel bagno abbiamo trovato i tre recipienti pieni di grappa”. Il direttore minimizza. “Diciamo che era quasi grappa, che siamo arrivati in tempo impedendo che riuscissero a concludere la produzione”. A Marassi dal 2003 è proibito persino il vino. “Era stata una mia decisione toglierlo dai tavoli - spiega Salvatore Mazzeo - perché ci sono molte persone con problemi di tossicodipendenza e l’alcol fa brutti scherzi. Abbiamo avuto il problema dei detenuti che si sballavano con le bombolette di gas e abbiamo messo un freno anche a questo, assicurandoci che nessuno ne abbia più di una. Ora è stata stroncata questa storia della grappa prima che producesse danni irreparabili”. Per la Uil-Pa la scoperta della distilleria clandestina è un ulteriore sintomo delle difficoltà operative che investono il carcere. “È evidente che il superaffollamento di Marassi e le croniche e gravi deficienze degli organici determina anche queste conseguenze”, aggiunge Eugenio Sarno. Marassi può ospitare 435 detenuti: ne sono presenti 800. “Siamo solo in grado di poterli controllare dall’esterno - conclude Salvatore Mazzeo - e per entrare nelle celle per sicurezza devo organizzare gruppi di tre agenti. Quando ne ho abbastanza a disposizione...”. Immigrazione: sì ai matrimoni con i clandestini, la Corte smonta il pacchetto-sicurezza di Vladimiro Polchi La Repubblica, 26 luglio 2011 Un italiano può sposare un immigrato irregolare? Da oggi, sì. Cade un altro pezzo del pacchetto sicurezza: per la Consulta anche uno straniero senza permesso di soggiorno può convolare a nozze con un cittadino italiano. Bocciato, dunque, il giro di vite introdotto nel 2009 contro “i matrimoni dei clandestini”. Un passo indietro. La questione di legittimità costituzionale è stata sollevata dal tribunale di Catania, al quale si è rivolta una coppia: lei italiana, lui marocchino. I due hanno chiesto ai giudici di pronunciarsi sul rifiuto dell’ ufficiale di stato civile di celebrare il loro matrimonio. Il 31 agosto 2009, l’ufficiale aveva motivato il rifiuto con la mancanza di un “documento attestante la regolarità del permesso di soggiorno del cittadino marocchino”. A essere chiamato in causa è l’articolo 116 del codice civile, come modificato dalla legge 94 del 2009. Il pacchetto sicurezza del 2009, infatti, conio scopo di evitare i cosiddetti matrimoni di comodo ha posto tra i requisiti necessari a contrarre le nozze la presenza regolare in Italia dell’aspirante coniuge extracomunitario. Il risultato? Il calo dei matrimoni misti, passati dai 37mila del 2008, ai 32mila del 2009, con una ulteriore contrazione nel 2010. Ora le cose cambiano. La Corte costituzionale, con la sentenza 245/2011 redatta dal presidente Alfonso Quaranta, ha dichiarato l’illegittimità del pacchetto sicurezza nella parte in cui impone l’esistenza del permesso di soggiorno come condizione indispensabile alla celebrazione delle nozze. Ricordano infatti i giudici che “i diritti inviolabili, di cui all’articolo 2 della Costituzione, spettano ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani e la condizione giuridica dello straniero non deve essere pertanto considerata come causa ammissibile di trattamenti diversificati e peggiorativi”. E ancora: secondo la Consulta non è proporzionato all’obiettivo di contrastare i matrimoni di comodo il sacrificio imposto dalla norma “alla libertà di contrarre matrimonio non solo degli stranieri ma, in definitiva, anche dei cittadini italiani che intendano coniugarsi con i primi”. I giudici italiani richiamano poi una decisione della Corte europea, secondo la quale i singoli Stati non possono limitare un diritto fondamentale garantito dalla Convenzione dei diritti dell’uomo. E secondo i giudici di Strasburgo la previsione di un divieto, senza che sia prevista alcuna indagine riguardo alla genuinità del matrimonio, è lesiva del diritto di cui all’articolo 12 della Convenzione”. La sentenza della Consulta ha anche una conseguenza indiretta. Una volta sposato con un italiano, infatti, l’immigrato irregolare potrà richiedere un permesso di soggiorno per motivi di famiglia e uscire così dalla clandestinità. Non solo. In base alla legge, dopo due anni dalle nozze e col permesso in mano, potrà chiedere anche la cittadinanza italiana. Immigrazione: restano bloccati i fondi necessari per la ristrutturazione del Cie di Bari Il Fatto Quotidiano, 26 luglio 2011 La denuncia arriva da due deputati pugliesi, Dario Ginefra (Pd) e Pierfelice Zazzera (Idv). “Le condizioni delle strutture igienico-sanitarie sono al limite dell’agibilità”. Inoltre un milione e 700 mila euro risulta bloccato al Provveditorato in attesa dell’espletamento della gara comunitaria. “Il Cie di Bari va chiuso”. Questa la richiesta dei due deputati pugliesi Dario Ginefra (Pd) e Pierfelice Zazzera (Idv), che questa mattina hanno fatto visita al Centro, mentre all’esterno dell’edificio i giornalisti delle maggiori testate regionali partecipavano alla manifestazione “LasciateCIEntrare”. “Le condizioni delle strutture igienico-sanitarie - spiega Ginefra - a nostro parere sono al limite dell’agibilità”. I due onorevoli lamentano anche i ritardi nei lavori di ristrutturazione dei due moduli che furono chiusi a seguito di una sommossa scoppiata lo scorso luglio, praticamente un anno fa. “Ci hanno riferito che il finanziamento di un milione e 700 mila euro predisposto dal ministero per le Ristrutturazioni e le manutenzioni sarebbe bloccato al Provveditorato in attesa dell’espletamento della gara comunitaria, in quanto le cifre superano la soglia. Ma su questo non hanno potuto dare alcun elemento di giustificazione ufficiale”. Nei prossimi giorni, Ginefra e Zazzera interrogheranno il ministro Roberto Maroni, per chiedere di chiarire situazioni relative ad attuali detenuti nella struttura barese, che hanno fatto richiesta di asilo politico. Gli immigrati dovrebbero essere destinati al Cara (centro di accoglienza per richiedenti asilo) e non al centro di espulsione nel quale oggi si trovano. “Ci sono otto tunisini - prosegue il deputato Pd - che provengono da Palazzo San Gervasio, smistati dopo gli sbarchi a Lampedusa e rientrerebbero in una procedura diversa rispetto a quella che in questo momento viene applicata. Ci hanno detto che probabilmente questi avevano già a carico un provvedimento di respingimento, ma anche su questo non è stato fornito nulla a livello documentale. Per questo chiederemo conto in Parlamento”. Analoga situazione per sei palestinesi. “La Questura ha detto che sarebbero in corso verifiche per accertare che siano realmente palestinesi (come hanno dichiarato di essere) e non egiziani”. Sono centosei gli attuali “ospiti” del centro. Molti dei quali non conoscono alla perfezione gli effetti del decreto legge n. 143, varato dal Consiglio dei ministri il 16 giugno scorso: la possibilità di trattenere fino ad un anno e mezzo gli extracomunitari nei Cie, il via libera al ripristino delle espulsioni dirette per i clandestini, l’introduzione dell’allontanamento coattivo per i cittadini comunitari. Il contenuto del decreto interessa anche gli attuali detenuti, al contrario di quanto molti di essi credono. “Parecchi - ha concluso Ginefra - non colgono pienamente, né i loro avvocati evidentemente gliel’hanno rappresentata, la normativa che ha già la sua vigenza sebbene subordinata alla conversione in legge da parte del parlamento. Alcuni pensano che la vigenza sia rinviata a dopo l’approvazione alla Camera della comunitaria, in programma nei prossimi giorni, e non interessi anche quelli che già da oggi sono detenuti”. Per questa ragione, a differenza di ciò che avvenne a causa del primo prolungamento (quando si passò da tre a sei mesi), le nuove prescrizioni non hanno comportato casi di autolesionismo e tentativi di fuga. Norvegia: il paese con meno detenuti d’Europa, spende 2 miliardi di € per la loro rieducazione Affari Italiani, 26 luglio 2011 La Norvegia ha 5 milioni di abitanti e nelle carceri del Paese sono rinchiusi 3.200 detenuti: per la loro rieducazione lo stato spende 2 miliardi di € l'anno. In Italia, dove i detenuti sono 20 volte tanto, il bilancio del Dap arriva appena a 2,2 miliardi di €, di cui soltanto il 5% investiti in "rieducazione". Il sistema giudiziario della Norvegia fa riferimento sia alla Common Law sia al diritto continentale europeo ed è costituito da una Corte Suprema nominata dal sovrano. La Pena di morte è stata abolita nel 1905 per i crimini ordinari e abrogata del tutto nel 1979. Il sistema legale del Paese scandinavo, basato sull’idea che per ridurre la criminalità non basta chiudere a chiave i colpevoli ma bisogna reintegrarli, a differenza di altre nazioni europee, non prevede condanne maggiori ai 21 anni neanche per chi si macchia di delitti gravi. Difficilmente nel Paese un assassino resta in carcere per più di 14 anni. Inoltre anche coloro che vengono condannati al massimo della pena, ottengono la scarcerazione dopo aver scontato i due terzi della sentenza e molti ottengono dei permessi premio per uscire dalla prigione durante i fine settimana, in libertà condizionale senza supervisione, dopo appena un terzo. Solamente nei casi più gravi, con individui giudicati ancora potenzialmente pericolosi, la sentenza viene estesa per altri 5 anni. Il numero di detenuti dietro le sbarre in Norvegia è il più basso d’Europa, 66 ogni 100mila abitanti, contro i 100 in Europa e gli oltre 500 negli Usa, mentre l’età per essere giudicati responsabili di fronte alla legge è 15 anni, in confronto ai 10 previsti in Gran Bretagna. Per mancanza di spazio nelle carceri, inoltre, può accadere che i condannati norvegesi attendano di scontare la pena a casa, magari all’interno delle comunità dove è avvenuto il reato. Considerato uno dei più efficienti nel mondo il sistema carcerario costa annualmente al Paese una cifra intorno ai 2 miliardi di euro, investiti soprattutto nella rieducazione dei condannati.