"Evasioni di carta", dalla cella al territorio Il Mattino di Padova, 25 luglio 2011 "Evasioni di carta" è una mostra-laboratorio ormai collaudata, sponsorizzata due anni fa dal Comune di Padova, poi spesso portata in giro per fiere, parrocchie, paesi... è una mostra in divenire, un laboratorio, che ha l'obiettivo non solo di "mostrare" i manufatti provenienti dalla Legatoria e Cartotecnica della Casa di reclusione di Padova, ma anche di ricostruire il laboratorio che c'è in carcere, con gli attrezzi, le tecniche, i semilavorati... Questa volta Evasioni di carta è sbarcata in laguna, ospite in un'isola di Venezia, Pellestrina, di una storica associazione, l'A.C.S. Murazzo, che tra le sue importanti attività annovera i corsi di merletto a fuselli (tombolo), e che ha creato nel 2007 il merletto più lungo del mondo, oltre 430 metri di pizzo, frutto di un lavoro corale, umile e grandioso. La mostra si presentava come un variegato e colorato progredire di tavoli a tema: carta rinata (riciclata o riusata), dalla carta al libro (legatoria), dalla carta alla scatola (cartotecnica), carta e colore (oggetti con grafica a tema, in questo caso lagunari), gioelli di carta (collane e perle di carta), luce di carta (lampade con carte naturali)....Tutto opera dei detenuti soci e dipendenti della cooperativa AltraCittà. Presenti nelle foto che li ritraggono nel laboratorio vero, e qualcuno poi in carne ed ossa in permesso premio nella giornata dedicata al dibattito e al confronto. Mostra come processo e come esposizione, dunque, accompagnata da laboratori aperti alla popolazione: acquerello, fiori di carta, carta da cucire per fare il libro... Tutto per avvicinare il carcere al territorio, far capire con le cose e non solo con le parole che la galera è anche un mondo che produce prodotti di qualità , belli. La gente isolana ha partecipato con entusiasmo dimostrando un coinvolgimento schietto e partecipato per tutto: prodotti, tecniche, mondo del carcere. I laboratori sono stati un vero successo, con una presenza costante e attenta, molto impegnata, di ragazzini e di donne, curiosi di apprendere tecniche artigianali che permettevano di arrivare alla produzione di oggetti o disegni, curiosi di capire come si vive in carcere. Rossella Favero - Cooperativa AltraCittà Noi cosiddetti "cittadini normali" sappiamo poco o niente del sistema carcerario Si è tenuta a Pellestrina una mostra-laboratorio dal titolo "Evasioni di Carta", nella quale la Cooperativa Altra Città presentava i lavori prodotti dai propri lavoratori all'interno del Carcere di Padova. È stata un'ulteriore occasione per gli abitanti dell'Isola di Pellestrina di avvicinarsi al mondo delle carceri e a tutto quello che lo circonda, allargando così l'opera della Cooperativa Il Cerchio che, proprio a Pellestrina, da anni organizza l'attività di detenuti semi-liberi e di ex detenuti in lavori di pubblica utilità, diventando, probabilmente, la più importante cooperativa che opera nella Regione Veneto con soci aventi questi requisiti. La mostra e il dibattito che si sono tenuti hanno chiaramente dimostrato come noi cosiddetti "cittadini normali" sappiamo poco o niente del sistema carcerario italiano, in quanto le uniche informazioni che abbiamo provengono quasi sempre da film o telefilm americani, mentre le trasmissioni televisive di informazione sull'argomento normalmente sono relegate in terza o quarta serata. Nulla sappiamo infatti, della facilità con la quale noi cittadini normali possiamo correre il rischio di essere soggetti a carcerazione per reati connessi al non rispetto del Codice della Strada, al non rispetto di norme fiscali, al possesso di sostanze vietate o a tutte quelle norme che sono connesse all'emotività della pubblica opinione. Nulla sappiamo dei meccanismi per i quali una persona possa essere "correttamente" agli arresti per aver rubato una mela e un'altra persona possa essere "correttamente" in regime di libertà dopo aver commesso un delitto efferato. Non sappiamo cosa significhi "recidiva" e quanto una manipolazione dei dati possa influire sulla pubblica opinione. Non capiamo perché vi sia una dicotomia tra il momento nel quale instauriamo un dialogo con i "carcerati", creiamo un rapporto tra persone alla pari, mentre quando parliamo di loro, o leggiamo i giornali o ascoltiamo i telegiornali, lasciamo affiorare le nostre paure e i nostri pregiudizi. Nulla sappiamo del rapporto che si instaura tra cittadini in regime di carcerazione e cittadini normali, quali siano le loro necessità, i loro obiettivi, la loro vita all'interno del carcere. Nulla sappiamo dell'importanza che il lavoro all'interno del regime carcerario riveste per dare loro un futuro, né quanto sia importante un dialogo critico e continuo con noi "cittadini normali". Non pretendiamo di aver compreso tutto partecipando a una mostra-laboratorio e a un convegno, abbiamo però capito quanto sia importante dare un'informazione corretta alla cittadinanza sui problemi che vi sono all'interno delle carceri, senza che questo sembri un dialogo esclusivo tra addetti ai lavori, e quanto sia difficile e importante dare una corretta informazione al cittadino, che in questo caso non ha bisogno di scoop ma di conoscenza. Non sarà certamente un percorso facile per coloro che si prefiggono questo obiettivo, ma solo in questo modo potremo ottenere che le carceri, da strumento di costrizione, diventino lo strumento di rieducazione previsto dalla Costituzione dello Stato Italiano. Emilio Ballarin, Associazione "Abitanti in isola" Un permesso dal carcere per vincere i pregiudizi Alcune settimane fa, grazie ad un permesso premio, ho partecipato all'iniziativa "Evasioni di carta, dal carcere al territorio", che si è svolta nell'isola di Pellestrina. Oltre a presentare i lavori di legatoria, prodotti dai detenuti dalla Casa di Reclusione di Padova, è stato organizzato un dibattito sul carcere e sui difficili percorsi di reinserimento delle persone detenute nella società. Questo genere di incontri io lo considero un può un'appendice del progetto che la redazione di Ristretti Orizzonti svolge con le scuole del territorio padovano e non solo, in cui proprio raccontando la nostra esperienza negativa cerchiamo di fornire degli strumenti ai giovani per avere più attenzione a quei comportamenti, che sembrano piccole trasgressioni, ma che possono degenerare in veri e propri reati, e tentiamo anche di far comprendere che il carcere, così come è oggi, sovraffollato e pieno di gente "parcheggiata" a non far niente, non permette di rispondere alle aspettative di reinserimento. Quello che però ha reso l'evento straordinario per me è stata la particolarità delle persone che vi hanno partecipato, perché io, che sono in carcere da trent'anni, ho avuto la sensazione che quella parte di Venezia, posata su una striscia di terra tra mare e laguna, abbia mantenuto intatti quei costumi antichi, per cui la gente che vi abita è diretta, semplice, schietta, curiosa e aperta al confronto, pronta a mettere da parte i pregiudizi e i luoghi comuni televisivi per accogliere persone come noi, con tutto il peso della nostra storia di galera.. Ed è stata proprio questa semplicità, quel dare alle parole il loro significato vero che ha permesso a chi ha avuto la fortuna di partecipare al dibattito di esprimersi e confrontarsi in modo schietto, sgombrando il campo dalla superficialità con cui spesso l'informazione tratta i problemi del carcere. Quest'atmosfera mi ha riportato indietro, quando ero bambino e il trascorrere del tempo era riempito da giochi che la fantasia plasmava e realizzava attraverso piccole cose, in cui il contatto con la natura era diretto e i suoi profumi non si mischiavano con gli odori di gas e petroli bruciati. E improvvisamente, io che arrivavo dal carcere, mi sono trovato in mezzo a tutto questo, un luogo "antico" dove le persone che vi abitano sembrano rilassate, abituate ai ritmi naturali e non stressate e angosciate da ritmi di vita poco umani. Un luogo per me rasserenante, che mi ha stimolato a riflettere su quanto futile sia ricercare cose che sono sole forme per apparire, come ho fatto io per tanti anni: di questo abbiamo anche parlato con le persone che sono venute, in una calda giornata di luglio, a incontrarci, che ci hanno posto tante domande, che hanno accettato di ascoltare la nostra storia e di cercare di capire perché a volte, nella vita, invece di scegliere di vivere nella legalità, si insegue il sogno dei guadagni facili e si finisce per perdere tutto, mettendo a rischio anche i propri affetti. Sandro Calderoni Giustizia: le carceri italiane e la coscienza del giudice di Piergiorgio Morosini (Segretario Generale Magistratura democratica) Il Riformista, 25 luglio 2011 Il 3 luglio scorso Riccardo Arena dalle colonne di questa testata ha lanciato una provocazione. Cosa fanno i magistrati contro la vergogna delle carceri? Da giudice penale mi sento chiamato in causa. Penso ai miei doveri. Condannare un uomo alla reclusione è un atto di grande responsabilità. Anche nei confronti del delinquente incallito. Non può non scuotere la coscienza. Qualunque errore abbia commesso il reo, il carcere condizionerà i suoi affetti, le sue speranze, la sua vita. E allora, solo ragioni forti lo possono giustificare. Non basta l’esigenza di neutralizzare la persona pericolosa; o rispondere a un male illegale con un altro male legale. A dare un senso a quell’ordine è l’offrire a chi ha sbagliato la possibilità di cambiare vita, di reinserirsi nella società. Altrimenti, “condannare” diventa un mero atto di forza. Addirittura, qualcosa di odioso, violento e moralmente inaccettabile, se costringe il reo a vivere nel degrado. Ad esempio, in un luogo dove otto persone trascorrono giornate intere in dodici metri quadrati; su letti a castello a quattro piani. E magari utilizzando una doccia malconcia, con topi e scarafaggi, per trentasei prigionieri. Sempre più spesso, in carcere si muore di stenti, di violenza, di abbandono. La Corte europea dei diritti umani, nel 2009, con il caso Sulejmanovic ha parlato di crudeltà italiana e di detenzioni illegali. Allora, sapere “dove” finiscono oggi i condannati è un dovere del giudice. Lo è ancor più quando ordina il carcere per un uomo ancora da processare, solo “sospettato” di un reato. Dovrebbe accadere in casi estremi. Quando i pericoli di fuga, di manipolazione delle prove o di recidiva non siano altrimenti contenibili. Purtroppo la realtà è ben diversa. Ma la scelta della misura preventiva non può trascurare il grado di sofferenza che “concretamente” si infligge al “presunto innocente” e gli effetti criminogeni sulla sua persona. Un carcere dove si vive nel degrado impone un ricorso più diffuso a misure alternative, ad esempio gli arresti domiciliari. Le scelte dei giudici, senza dubbio, incidono sul “sovraffollamento”. Ma la politica ha gravi responsabilità. Per la giustizia si proclamano “riforme epocali”, lasciando da parte i problemi veri. Gli annunciati “piani straordinari” riducono tutto ad una questione di edilizia carceraria. È vero, i nostri istituti prevedono non più di 45.500 posti disponibili a fronte degli attuali 67.000 carcerati. Ma il settanta per cento di loro sono tossicodipendenti e immigrati. Reclusi per reati senza vittima o di lieve entità. Vittime, a loro volta, delle ipocrisie di una politica della “tolleranza zero” che, da anni, getta tanti disperati nella “pattumiera” della emarginazione sociale. Bisogna cambiare rotta. Significa uscire dalla logica dei “pacchetti sicurezza” dell’ultimo decennio. Il carcere non può essere obbligatorio anche per fatti non gravi come prevede la “ex Cirielli”. Non lo è nelle democrazie avanzate, dove si applica solo al 35% dei condannati, a fronte del nostro 70%. Per i reati minori bisogna puntare su pene alternative. Ad esempio le detenzioni non superiori ad un anno possono scontarsi nel domicilio del condannato. E se non ci sono motivi di particolare allarme sociale, bisogna far tesoro di esperienze nordeuropee. Quando gli istituti non hanno posti disponibili rispetto alla capienza regolamentare, vanno stabilite liste d’attesa per l’ingresso in carcere. La politica gioca una partita ideologica sulla pelle delle persone. Interessa solo la neutralizzazione dei “pericolosi”. Così il bilancio taglia gli investimenti al welfare penale. Niente personale specializzato all’interno delle case circondariali, nella polizia penitenziaria, nelle strutture educative e sanitarie. E poi si svuotano gli uffici di esecuzione penale esterna. Ma così si tradisce la promessa costituzionale che assicura programmi di reinserimento e un penitenziario senza degrado. Per Voltaire, le carceri sono il test di civiltà di un Paese. Le nostre, oggi, ci fanno capire la crisi dei diritti. Senza rimedi, la coscienza del giudice non può restare indifferente: c’è chi sceglie di andarsene o di lasciare il penale. E c’è chi, ovviamente senza venir meno ai propri doveri istituzionali, cerca alternative alla custodia cautelare e al carcere comunque. Lo impone l’etica della nostra Costituzione che vieta trattamenti inumani. Giustizia: la pena? meglio alternativa di Cosimo Maria Ferri (Segretario Generale Magistratura Indipendente) La Nazione, 25 luglio 2011 Marco Pannella ha ancora una volta sollecitato l'interesse di tutti su un tema di grande attualità che merita soluzioni urgenti e condivise: il sovraffollamento delle carceri e le condizioni di vita dei detenuti. L'occasione dell'incontro organizzato dal leader radicale per il28 e 29 luglio in Senato, alla presenza del Capo dello Stato, può costituire la ripresa per un confronto costruttivo e propositivo a cui la Magistratura Associata deve guardare con grande attenzione. È necessario affrontare il problema con pragmatismo, immaginando e quindi proponendo, nelle opportune sedi, soluzioni praticabili tempestive e veramente efficaci anche nell'attuale congiuntura economica, avendo ben presente che la situazione è grave e complessa. Incentivare le misure alternative, fermo restando il principio di certezza della pena e garanzia di sicurezza per i cittadini, potrebbe essere un passo importante, ma occorre riflettere sul fatto che circa il 40% dei detenuti nelle nostre strutture carcerarie è rappresentato da cittadini stranieri, per i quali l'accesso alle misure esterne al carcere è di fatto precluso o perché si tratta di clandestini o per ragioni legate all'assenza di risorse esterne, quali il lavoro o il domicilio. La soluzione al problema del degrado delle condizioni di vita penitenziarie non può dunque che passare attraverso un deciso impegno dell'Italia verso accordi internazionali con i Paesi europei e del bacino mediterraneo che consentano agli stranieri condannati di scontare la pena nel paese di origine. La ricerca di tempestive ed efficaci soluzioni in merito a questo delicato tema non può comunque prescindere dalla ripresa del dialogo con gli operatori chiamati ad applicare concretamente le norme, in un clima di costruttiva collaborazione, che potrebbe essere favorita, io credo, dall'istituzione di forme permanenti di consultazione, così da consentire l'indispensabile apporto tecnico alla politica, cui è demandata la responsabilità della sintesi legislativa. Giustizia: riflessioni sul mondo carcerario… se l'ingiustizia è istituzionalizzata di Claudio Messina (Presidente Società San Vincenzo De Paoli Consiglio Centrale interprovinciale di Livorno e Grosseto) Toscana Oggi, 25 luglio 2011 Che altro si può dire della scandalosa situazione delle carceri italiane, che già non sia stato denunciato da tutti i settori della società civile, associazioni, istituzioni, operatori, detenuti? In questi giorni roventi, insopportabili non fosse altro per la calura crescente, è sin troppo facile immaginare la non-vita in cella, il tormento delle ore che non passano mai, il respiro che manca, nessun sollievo al caldo torrido. Il sovraffollamento delle strutture ha raggiunto limiti insostenibili, mediamente oltre il 150%, ma in molti casi più del 200%, con una popolazione complessiva di 67.000 detenuti. Le carceri della Toscana non ne sono indenni e anche a Porto Azzurro si sono ormai raggiunti livelli preoccupanti. La Casa di reclusione di Forte San Giacomo è da lungo tempo in stato di forte sofferenza, per stessa ammissione dei responsabili della sua gestione, tanto che nei mesi passati vi sono stati episodi tragici, un decesso e un tentato suicidio. Sempre più frequenti le richieste alle associazioni di volontariato affinché sopperiscano ai "buchi" del Ministero della giustizia, che non è più in grado di garantire agli indigenti neppure l'occorrente per l'igiene e quant'altro indispensabile ad una vita minimamente dignitosa. In questi giorni la Società San Vincenzo De Paoli di Piombino, rispondendo ad un invito dei dirigenti di quell'Istituto, per interessamento del cappellano don Francesco, ha portato nuovamente una scorta di bagnoschiuma, dentifrici, spazzolini, rasoi monouso, detersivi vari, nonché caffè e zucchero. Lo ha fatto in passato e lo farà ancora per senso di umanità, per senso di comprensione anche nei confronti di chi dirige ed opera nella struttura carceraria, inascoltata, fra i mille problemi quotidiani del garantire la sicurezza e livelli minimi di sussistenza alle persone recluse. Allo stesso tempo, però, è doveroso denunciare con forza lo scandalo di un'amministrazione della giustizia che disattende ogni dovere ed ogni richiamo, persino le condanne che provengono dalla Corte europea per i diritti umani di Strasburgo per la palese violazione delle garanzie concordate e sancite. Il cosiddetto "piano carceri" rimane qualcosa di fantomatico, mentre i tagli al bilancio della giustizia sono progressivi, rendendo di fatto ingestibili le carceri. Ce lo hanno ricordato giorni fa un centinaio di direttori di carceri in corteo a Roma per protestare, come mai era avvenuto prima, contro il vergognoso degrado degli istituti e la disumana condizione delle persone loro affidate. Così pure tutte le sigle sindacali della Polizia penitenziaria, i cui agenti non reggono più i ritmi stressanti cui sono sottoposti, col rischio di violenza e di aggressioni che sempre più spesso si ripetono. E gli altri operatori, psicologi, educatori, medici e infermieri che devono assistere impotenti ad una situazione disperata e disperante. Nei primi sei mesi di quest'anno nelle carceri italiane sono morte 100 persone, di cui 32 per suicidio. È un dato drammatico e sconcertante che racconta meglio di tante parole ciò che è diventato oggi il carcere. A questo vanno purtroppo aggiunti anche diversi agenti e graduati della Polizia penitenziaria che si sono tolti la vita. Il carcere di Porto Azzurro è ormai calato vertiginosamente nella graduatoria degli istituti più virtuosi, in cui primeggiava anni fa. Oggi appare abbandonato a se stesso dall'Amministrazione penitenziaria, privato di mezzi e di risorse umane, affollato di detenuti con pene relativamente più brevi, è difficile da gestire e rischia di perdere i suoi punti di forza per il reinserimento, come la scuola e il lavoro. La direzione dell'istituto è vacante e il comando di reparto fa fatica a garantire livelli minimi di sicurezza e di vivibilità, sia per i detenuti che per il personale impegnato. Si può ancora far finta che tutto vada bene, peggio, vantare un piano carceri che non c'è? Giustizia: la strage di Oslo, la fabbrica della paura e l’apologia italiota del “fine pena mai” di Sandro Padula Ristretti Orizzonti, 25 luglio 2011 Le anime belle dei reazionari italiani cercano di riflettere sulla strage di Oslo compiuta venerdì 22 luglio dal trentaduenne norvegese Anders Behring Breivik al duplice scopo di dare nuovo slancio alla fabbrica della paura e all’ennesima campagna a favore dell’ergastolo. In un primo tempo, senza neanche attendere le informazioni ufficiali del governo norvegese, ne hanno attribuito la responsabilità all’integralismo islamico. Sabato 23 luglio si leggevano perciò questi titoli su certi loro giornali: “con l’Islam il buonismo non paga. Norvegia sotto attacco: un massacro” (Libero); “Sono sempre loro: ci attaccano” (Il Giornale); “La guerra continua” (Il Tempo), un editoriale quest’ultimo di Mario Sechi secondo cui “c’è chi sostiene che potevamo sottrarci alla campagna militare nel Nord Africa. Io credo di no”. Subito dopo l’arresto, a dire il vero, il responsabile della strage di Oslo si è definito massone, conservatore, antimarxista e cristiano integralista. Ha criticato per caso la guerra di Libia? No! Essendo egli stesso un reazionario si lamentava piuttosto che l’occidente facesse troppo poco, dal punto di vista militare, contro i paesi islamici. Potenza della subcultura reazionaria! A distanza di alcune ore, una volta scoperto di aver prodotto notizie false e tendenziose che comunque non saranno mai punite dalla legge, le stesse anime belle hanno rettificato il tiro ma suonando sempre la solita musica. Sul quotidiano “Il Giornale” di domenica 24 luglio si è arrivati perfino a sostenere che lo stragista “voleva colpire anche l’Italia. Ma rischia solo 21 anni di carcere”. Anche queste sono delle notizie false e tendenziose. Venerdì 22 luglio, poche ore prima della strage, Anders Behring Breivik aveva scritto su Facebook un messaggio ben cosciente: “Penso che questo sarà il mio ultimo intervento. È venerdì 22 luglio, 12.51”. Sapeva benissimo di non poter progettare altri attentati nel suo paese o all’estero. Sapeva inoltre che in Norvegia la pena detentiva massima è di 21 anni ma può essere prolungata qualora la persona condannata risulti ancora pericolosa. Gravissime sono perciò le menzogne di cui si sono fatti propagandisti i reazionari italiani ma il dato più preoccupante è relativo alle loro riflessioni sulle cause di quanto avvenuto in Norvegia il pomeriggio di venerdì 22 luglio. Ora ci diranno che Anders Behring Breivik è un semplice pazzo ma la sua carneficina ha delle precise matrici culturali che non possono essere sottovalutate. Già nel 1969 il gruppo musicale dei King Crimson, con il brano “21st Century Schizoid Man”, parlò dell’uomo schizofrenico del XXI secolo. La schizofrenia del presente non è qualcosa di esterno alla “vita normale” ma risulta radicata in termini di estensione e di approfondimento. La strage di Oslo, nel suo specifico, è frutto del cortocircuito della cultura dominante in Occidente, delle politiche securitarie e neoliberiste, delle ventennali guerre “umanitarie”, dell’arroganza nel pretendere di “esportare la democrazia” e della sostanziale adesione alle infondate teorie sul “conflitto fra le civiltà”. È la riesumazione del mito delle crociate medievali in Terra Santa, tanto contestate da Francesco d’Assisi che inventò il Presepe per far capire che, per i veri cristiani, Gerusalemme era un simbolo e poteva essere ovunque e quindi non si trattava di un luogo da conquistare militarmente. La mentalità dello stragista di Oslo è quella degli uomini bianchi più tradizionalisti che, in modo simile a quanto successe il 2 agosto 1980 alla stazione della Bologna, decidono di uccidere decine e decine di persone innocenti per motivi politici, cioè per attaccare dei generici e indiretti simboli avversari delle idee politiche neoconservatrici. Perché uccidere nel 2011 dei ragazzi del partito laburista norvegese pochi giorni prima del ritiro della Norvegia dalla guerra di Libia? Perché uccidere nel 1980 delle persone che avevano la sola colpa di trovarsi per caso nella stazione di una città amministrata dal Partito Comunista? Misteri? Nessun mistero. Tutto è abbastanza chiaro per quanto riguarda la matrice culturale neoconservatrice, forcaiola e rigidamente “atlantica” di queste forme di terrorismo stragista. Il partito laburista della Norvegia odierna si oppone alle linee più militariste dell’“Alleanza atlantica” esattamente come il partito comunista italiano del 1980 si opponeva al riarmo della Nato e all’installazione degli euromissili. I reazionari fingono di cascare dalle nuvole. Negano l’evidenza ma Anders Behring Breivik è figlio della loro stessa matrice culturale proprio come Carlo Digilio, il sedicente “neofascista” collaboratore degli ufficiali delle forze armate Usa e del Mossad presenti nel Veneto, che confessò di aver preparato materialmente le bombe usate per diverse stragi a partire da quella di piazza Fontana del 12 dicembre 1969. Le anime belle dei reazionari italiani, facendo finta di non conoscere la storia contemporanea e il dettato della Costituzione repubblicana, rinnovano infine la campagna a favore dell’ergastolo. Ci dicono che Anders Behring Breivik andrebbe punito in modo esemplare e duro. In modo del tutto diverso ha reagito il governo norvegese. Secondo il premier Jens Stoltenberg la risposta alla strage non può che essere “più democrazia, più apertura, più umanità, ma senza ingenuità”. Ai reazionari non si risponde con ragionamenti reazionari. Si deve rispondere con l’intelligenza, con la critica alle matrici culturali dello stragismo e costruendo un mondo più equo e più libero. L’ergastolo non è una soluzione giusta nemmeno per il più criminale prodotto della cultura reazionaria occidentale! Basta con le ipocrisie e basta con l’ergastolo in Italia! Giustizia: da giovedì al Senato convegno sul carcere; con Napolitano, Schifani e Pannella Dire, 25 luglio 2011 Si apriranno giovedì 28 luglio alle 10.30, nella Sala Zuccari di Palazzo Giustiniani, i lavori del convegno “Giustizia! In nome della legge e del popolo sovrano”, promosso dal Partito radicale nonviolento transnazionale e transpartito, sotto l’Alto patronato del Presidente della Repubblica con il patrocinio del Senato della Repubblica. Articolati in più sessioni, i lavori della due giorni inizieranno, alla presenza del Capo dello Stato, alle ore 10.30 di giovedì 28 luglio con il saluto del presidente del Senato Renato Schifani. Moderati dalla vice presidente dell’Assemblea di Palazzo Madama, Emma Bonino, prenderanno la parola Luigi Giampaolino presidente della Corte dei Conti, Ernesto Lupo primo Presidente della Corte di Cassazione, Giacomo Caliendo sottosegretario alla Giustizia e Giorgio Lattanzi, in rappresentanza del presidente della Corte Costituzionale. Successivamente interverrà il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. La sessione inaugurale proseguirà con la relazione introduttiva di Marco Pannella dal tema “L’imperativo dell’immediato rientro dagli attuali connotati di Stato penale ad un pieno rispetto dello Stato di diritto e della legalità costituzionale, europea e internazionale”. La sessione pomeridiana, con inizio alle ore 15, affronterà “La situazione della giustizia e delle carceri italiane”. Dopo le relazioni del professor Giuseppe Di Federico sullo stato dell’amministrazione della giustizia e del professor Tullio Padovani sullo stato dell’amministrazione penitenziaria, seguiranno gli interventi di Giuseppe Frigo, giudice della Corte Costituzionale; Vladimiro Zagrebelsky, già giudice Corte Europea dei Diritto dell’Uomo, Carlo Nordio, Procuratore aggiunto di Venezia, già Presidente Commissione per la riforma del codice penale; Carlo Federico Grosso, professore emerito di diritto penale, Università di Torino; Mauro Palma, Presidente del Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura e dei trattamenti inumani e degradanti e Antonio Bultrini, professore di diritto internazionale dell’Università di Firenze. Sempre giovedì, alle 17 si confronteranno Filippo Berselli, presidente della commissione Giustizia del Senato della Repubblica; Giulia Bongiorno, presidente della commissione Giustizia della Camera dei deputati; Luca Palamara, presidente dell’Associazione nazionale magistrati; Franco Ionta, capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e commissario delegato per il Piano carceri; Bruno Brattoli, capo Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria minorile e Valerio Spigarelli, presidente dell’Unione delle Camere Penali. Venerdì 29 luglio alle ore 9.30 inizierà la seconda sessione dei lavori dedicati agli “Obiettivi e strumenti necessari ed urgenti per l’affermazione dei diritti umani nella giustizia. Amnistia e indulto come precondizione alla riforma strutturale e legalizzatrice dell’amministrazione della giustizia”. Moderati da Giuseppe Rossodivita del Comitato radicale Piero Calamandrei, prenderanno la parola Fabio Bartolomeo, Direttore generale statistiche del ministero della Giustizia; Rita Bernardini, deputato radicale, membro della Commissione Giustizia della Camera dei deputati; l’avvocato Giandomenico Caiazza; Carlo Fiorio, docente di Procedura Penale all’Università degli Studi di Perugia; Alessandro Margara, Garante dei detenuti Regione Toscana e Luigi Manconi, docente di sociologia dei fenomeni politici dell’Università Iulm. Interverranno, inoltre, Ada Palmonella, psicologa, esperto del Ministero di Giustizia per gli Istituti Penitenziari; Irene Testa, presidente dell’Associazione “Il detenuto ignoto”; Stefano Anastasia, Associazione “A buon Diritto/Associazione Antigone”; Ornella Favero, presidente Associazione “Ristretti Orizzonti”; Cosimo Ferri, segretario generale Magistratura indipendente; Enrico Sbriglia, segretario nazionale Sidipe; Leo Beneduce, presidente Osapp; Eugenio Sarno, segretario Uilpa-Penitenziari e Gian Battista Durante, segretario Sappe. Alle 15 si terrà la tavola rotonda dal tema “Il senso e il luogo comune su giustizia e carceri: il ruolo dell’informazione”, moderata da Mario Staderini, segretario Radicali italiani. Interverranno Sergio Zavoli presidente Commissione parlamentare di vigilanza servizi radiotelevisivi; Corrado Calabro’ presidente Agcom; Gianni Betto centro d’ascolto informazione televisiva; Stefano Folli, editorialista del Sole 24Ore; Bianca Berlinguer, Direttore Tg3 e Marco Pannella. Umbria: le carceri scoppiano, il presidente Marini scrive a ministro Alfano Redattore Sociale, 25 luglio 2011 Negli ultimi anni trasferimenti continui da parte del Dap: oggi 1751 detenuti rispetto a una capacità di accoglienza di 700 posti. Ogni 100.000 abitanti ci sono 181,7 detenuti (112,3 il dato nazionale). Nelle carceri umbre sono ospitati attualmente 1751 detenuti, a fronte di una capacità di accoglienza, tra tutte e 4 le strutture (Perugia, Terni, Spoleto, Orvieto), di 700 posti. Insomma, gli istituti penitenziari stanno scoppiando e il sovraffollamento comporta gravi difficoltà gestionali con pesanti ricadute sulla popolazione carcerata - ad esempio stanno aumentando le richieste ai dipartimenti di salute mentale -, sullo svolgimento delle attività educative, in ultimo sul ruolo riabilitativo della pena come sancito dalla Costituzione. Per questo la presidente di Regione Catiuscia Marini ha scritto al ministero della Giustizia Angelino Alfano chiedendo un intervento “necessario ed urgente”. “La situazione arreca pesanti ricadute sullo svolgimento delle funzioni e competenze proprie della Regione - si legge nella lettera - derivanti sia dal titolo V della Costituzione che dal Decreto n. 230/2000, in particolare in materia di sanità penitenziaria e reinserimento sociale e lavorativo, rendendo altresì inefficaci gli interventi posti in essere da questa amministrazione”. Inoltre, la presidente fa presente la “consistente carenza di personale di polizia penitenziaria e dell’area educativa”. Poi, “una presenza massiccia di detenuti stranieri e tossicodipendenti confermata dal fatto che alla data dell’ultima ricognizione trasmessa (13 luglio 2011), soltanto 675 detenuti su 1751 risultano avere la residenza anagrafica in Umbria e solo 57 di questi risultano nati in un comune dell’Umbria”. Tutto questo determina “un aggravio di domanda rispetto al quale i Dipartimenti di salute mentale spesso non riescono a dare una risposta adeguata” e richiede, quindi la necessità di una organizzazione di trattamento sanitario multidisciplinare con la presenza anche di personale del ministero della Giustizia, (educatori, psicologi e agenti di polizia penitenziaria) di cui gli istituti sono fortemente carenti”. C’è anche il problema delle risorse finanziarie: a fronte di una spesa, nel corso del 2010, di oltre 3 milioni e 700 mila euro, all’Umbria è stato assegnato un finanziamento di 2 milioni e 63 mila euro, con un aggravio a carico del Fondo sanitario regionale di 1 milione 639 mila euro. Marini chiede al ministero di “ricondurre le presenze dei detenuti negli istituti di pena umbri entro la capienza regolamentare degli istituti stessi; parametrare il numero di detenuti presenti nella regione con la popolazione residente, in quanto l’Umbria è stata fortemente penalizzata dal trasferimento continuo di detenuti operato negli ultimi anni dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, tanto da triplicare la popolazione penitenziaria nella regione (il tasso detenuti/popolazione residente che in Umbria è di 181,7 detenuti ogni 100.000 abitanti a fronte di un dato nazionale di 112,3 detenuti ogni 100.000 abitanti); favorire la piena applicazione del principio della territorializzazione della pena così come previsto dall’ordinamento penitenziario; adeguare il personale penitenziario, sia di polizia penitenziaria che dell’area psico-educativa, oltre che all’organico previsto per ogni singolo istituto anche rispetto al numero e alla tipologia di detenuti presenti. Infine, scrive la presidente Marini, “siamo stati informati della prossima apertura del nuovo padiglione del carcere di Terni con circa 200 posti e dell’ultimazione dei lavori di ristrutturazione di una sezione del carcere di Spoleto con circa 20 posti. Considerato il sovraffollamento degli istituti umbri, derivante dall’esponenziale incremento di popolazione detenuta degli ultimi anni, si chiede che tale ampliamento di posti sia utilizzato per allentare il sovraffollamento e non per inserire nuovi detenuti”. Genova: collaboratore di giustizia si impicca nella località segreta dove era ai domiciliari Ansa, 25 luglio 2011 Il collaboratore di giustizia Giuseppe Di Maio, 34 anni, ex esattore della cosca della Guadagna, venerdì scorso si è impiccato nella casa dove era ai domiciliari, in una località segreta della Liguria. Lo riporta "La Repubblica" di Palermo. Di Maio, ricorda il quotidiano, era genero del capomafia Lo Bocchiaro. Dopo la collaborazione la sua compagna e i parenti del suocero lo avevano ripudiato. "Di Maio continuava a vivere un grande travaglio, perché dopo la scelta di collaborare la moglie l'aveva abbandonato, dissociandosi dalla decisione del marito. E da un anno e mezzo il pentito non vedeva i suoi due bambini. Venerdì potrebbe aver avuto un altro momento di sconforto impiccandosi nella casa dove era ai domiciliari, in una località segreta della Liguria". "Una prima indagine necroscopica esterna sulla lesione presente sul collo farebbe propendere per il suicidio, Ciononostante, la procura di Palermo ha sollecitato l'autopsia che potrebbe essere disposta nei prossimi giorni per approfondire le cause della morte". Nell'abitazione, secondo quanto appreso, non sono stati ritrovati biglietti o lettere: Di Maio è stato trovato impiccato con una fune e da una prima indagine necroscopica esterna la lesione presente sul collo farebbe propendere per il suicidio. Ciononostante, la procura di Palermo ha sollecitato l'autopsia che potrebbe essere disposta nei prossimi giorni. Giuseppe Di Maio, genero del boss Giuseppe Lo Bocchiaro, era stato arrestato nel marzo 2010: dopo un mese dall'arresto ha iniziato a collaborare facendo così arrestare, oltre allo stesso Lo Bocchiaro, alcuni dei maggiori esponenti della famiglia di Santa Maria di Gesù, guidata fino al 1997 da Pietro Aglieri e in seguito da Ino Corso. La moglie di Di Maio si dissociò pubblicamente dalla decisione del marito, abbandonandolo. L'attività di Di Maio nell'ambito della famiglia mafiosa, era incentrata sul business delle estorsioni perpetrate a danno di commercianti della zona di sua competenza. Nel suo portafogli, al momento dell'arresto, gli inquirenti ritrovarono la lista delle estorsioni portate a termine. Sono schifato da Cosa Nostra Spesso ripeteva in aula di essere "schifato" dai metodi di Cosa nostra, per questo Giuseppe Di Maio, 34 anni, aveva deciso di collaborare con la giustizia accusando i complici con i quali aveva gestito il racket delle estorsioni alla Guadagna, una delle zone a più alta densità mafiosa di Palermo. Di Maio, trovato morto impiccato in Liguria nell'abitazione dove viveva sotto protezione dopo la scelta di abbandonare la mafia, aveva tirato in ballo anche il suocero Giuseppe Lo Bocchiaro e gli amici del quartiere. Grazie alle rivelazioni fatte ai magistrati, le forze dell'ordine di recente avevano arrestato alcuni boss dei Pagliarelli. Da un anno e mezzo, il pentito non vedeva i suoi due figli e la moglie lo aveva lasciato. Da allora, l'ex picciotto viveva un travaglio interiore. Fare il giro dei negozi per riscuotere il pizzo non era quello che aveva sognato di fare nella vita: i suoi genitori tentarono fino all'ultimo di convincerlo a non sposare la figlia di Lo Bocchiaro. Ma il giovane andò avanti per la sua strada. Dopo il matrimonio sarebbe stato il suocero, secondo la ricostruzione fatta dagli inquirenti, a introdurre il genero nella "famiglia" mafiosa. Il suo compito era quello di riscuotere il pizzo, ma quando a marzo del 2010 fu arrestato dalla polizia in un'operazione antimafia, Di Maio decise di chiudere con Cosa nostra. Dopo un mese di carcere, fu trasferito in Liguria dove stava scontando i domiciliari per la condanna a quattro anni con l'accusa di mafia ed estorsioni. Ma sulle spalle, più che la detenzione, portava il peso della lontananza dai suoi figli, dai genitori e dalla sua città. Bologna: gli avvocati penalisti in presidio, per protestare contro le condizioni della Dozza Redattore Sociale, 25 luglio 2011 I penalisti protestano contro le condizioni al suo interno e chiedono un più ampio ricorso alle misure alternative. Alla Dozza i 2/3 dei presenti sono in attesa di giudizio (in regione oltre 1.800 su 4.000). Prosegue lo sciopero della fame a staffetta. Una protesta davanti alle mura del carcere della Dozza, e uno sciopero della fame a staffetta iniziato già venerdì scorso. La Camera penale “Franco Bricola”, associazione di categoria che raggruppa avvocati penalisti dell’Emilia-Romagna, scende in campo al fianco di Marco Pannella con una manifestazione che questa mattina dalle ore 11 ha radunato circa 25 avvocati davanti alla casa circondariale di Bologna. Elisabetta D’Errico, presidente della Camera penale, spiega le ragioni dell’iniziativa: “La situazione di grave sovraffollamento all’interno della Dozza potrebbe essere evitata, o almeno mitigata, se la magistratura facesse un uso più ampio dei mezzi alternativi alla custodia cautelare in carcere, che il nostro ordinamento già prevede”. Nelle carceri dell’Emilia Romagna sono presenti 4.061 persone, 1.828 delle quali sono in attesa di una condanna definitiva; di queste, sono 861 quelle ancora in attesa del giudizio di primo grado. All’interno della Dozza 2/3 degli ospiti sono in attesa di una condanna definitiva. “Una delle finalità della pena è la rieducazione, e le statistiche ci comunicano dati sorprendenti ma che meritano ampia diffusione - spiega D’Errico - la percentuale di recidiva tra le persone sottoposte a misure alternative, come per esempio i domiciliari, è nettamente inferiore rispetto a coloro che sono stati sottoposti a custodia cautelare in carcere”. Secondo D’Errico, per migliorare l’ambiente del carcere di Bologna è necessaria per prima cosa un’opera di informazione diffusa nei confronti della cittadinanza, sulle condizioni di vita nella casa circondariale e sulle alternative alla carcerazione per le persone in attesa di giudizio; in tale ottica vede positivamente le dichiarazioni del Sindaco Virginio Merola in seguito alla sua visita al carcere, e l’iniziativa “vernissage”, per imbiancare le celle della Dozza. D’Errico invece è molto critica verso la pratica comune di presentare l’arresto dei ‘colpevolì subito dopo la commissione dei fatti e la loro relegazione immediata in carcere come sinonimo di successo ed efficienza nella lotta alla criminalità: “Si tratta di persone la cui colpevolezza deve ancora essere provata nel corso di un procedimento - puntualizza la presidente della Camera penale - e in molti casi non ci sarebbero i requisiti per la custodia in carcere. In questo modo si promuove la concezione errata che il carcere sia l’unica forma possibile di misura cautelare, e che sia sempre necessaria. In realtà nel nostro ordinamento vige il principio di adeguatezza delle misure cautelari, e la custodia in carcere deve essere sempre l’extrema ratio. Questo principio - chiarisce - dovrebbe essere rispettato, preferendo, ove sufficiente, il ricorso a misure alternative”. Oltre all’opera di informazione, per D’Errico è necessario che inizi un rinnovamento a livello legislativo che coinvolga il governo e il mondo della politica a livello nazionale, agendo per esempio sulla legge ex Cirielli, ma non solo: “Sono necessari anche interventi che potenzino l’organizzazione interna alle carceri, in primo luogo aumentando il numero degli agenti di polizia penitenziaria, gli educatori e il personale specialistico: gli psicologi e gli psichiatri svolgono un ruolo fondamentale nei luoghi dell’esecuzione della pena - conclude - a maggior ragione se le condizioni di vita delle carceri spesso impediscono ai reclusi di avere uno spazio sufficiente per lavarsi o per vivere”. Nel 2010 alla Dozza 93 detenuti hanno partecipato a formazione Ristorazione, giardinaggio, ma anche lavori domestici come pulizia, lavanderia, parruccheria e barbiere. Ecco cosa si insegna nei corsi di formazione alla Dozza. Nel 2010 sono poco più di 90 i detenuti che vi hanno partecipato. “Fare formazione in un carcere è come farla in qualunque altro luogo, si tratta solo di fare una selezione intelligente dei partecipanti all’inizio, e di capire subito chi sono le persone veramente motivate”. A parlare è Emore Rubini, responsabile della formazione di Cefal, un consorzio che fra le varie attività si occupa anche di questo settore all’interno del carcere. Il lavoro di Rubini, che si occupa di insegnamento da più di vent’anni, è l’organizzazione dei corsi all’interno della casa circondariale della Dozza. “Ho iniziato alla fine degli anni Ottanta, come docente tenevo corsi di giardinaggio - racconta - Già allora questa era materia di insegnamento per le persone in carcere”. I corsi organizzati da Cefal alla Dozza però non si limitano a questo, e il modo in cui fornisce formazione ai detenuti è cambiato varie volte da quando Rubini ha iniziato: “Nei primi anni Novanta ci occupavamo solo di formare professionalmente, ma al di là di questo non c’erano ancora progetti che pianificassero anche un successivo inserimento nel mondo del lavoro - spiega. Dalla seconda metà degli anni Novanta le cose hanno iniziato a cambiare, attraverso l’interessamento di realtà attive nel sociale, tra le quali Agriverde, Altercoop, Felsinea ristorazione e coop It2”. Dal corso al lavoro. “Attraverso questi soggetti - continua Rubini - le esperienze formative nate con un semplice corso interno al carcere potevano diventare vere e proprie assunzioni, che permettevano a detenuti di lavorare durante l’espiazione della pena, anche uscendo dalla Dozza se avevano i requisiti per farlo”. Rubini ricorda in particolare l’importanza della cooperativa sociale It2, una realtà che si autodefinisce una “impresa di transizione”. Nel suo rapporto con i soggetti svantaggiati, infatti, l’azienda si pone esplicitamente come punto di passaggio: firma con loro esclusivamente contratti a tempo determinato, che hanno la specifica finalità di fare da ponte con il mondo del lavoro “non protetto”. Al termine del periodo, infatti, la cooperativa si occupa di ricollocarli in altre imprese o cooperative per un impiego più stabile. “Nel 2002 alla Dozza è stato aperto lo sportello Infolavoro per il collocamento esterno - ricorda Rubini - che agisce da vero punto di contatto con i centri per l’impiego in città”. Rubini pero’ fa anche notare un particolare: “Negli ultimi anni le attività per cui abbiamo svolto formazione nel carcere, pur proseguendo sui filoni precedenti della ristorazione e del giardinaggio, hanno visto una maggiore affermazione di tutte quelle professionalità che possono essere sfruttate per i lavori domestici interni alla Dozza, ovvero pulizia, igienizzazione, lavanderia, parruccheria e barbiere”. Inoltre le attività di tipografia e stampa sembrano essere in difficoltà, per mancanza di lavori provenienti dall’esterno: “I corsi di stampa sono stati eliminati nell’ultimo anno, perché avremmo dovuto impiegare persone destinate poi a rimanere senza lavoro”. Il numero di detenuti coinvolti nei corsi del Cefal comunque è in crescita: “Dagli 82 del 2009 siamo passati ai 93 in formazione dell’anno 2010” racconta Rubini. Ma quali sono le capacità richieste ai formatori dentro alla Dozza, e quali difficoltà incontrano? “L’ambiente carcerario di certo non aiuta, e qualche volta capita che sorgano tensioni anche tra insegnanti e corsisti. Noi pero’ ci impegniamo per risolverle come faremmo se fossimo all’esterno, le trattiamo come un qualunque contrasto tra persone adulte: si parla e ci si chiarisce, e le cose in questo modo trovano soluzione senza alimentare ulteriori tensioni”. Per evitare problemi, comunque, “bisogna saper creare il giusto affiatamento tra i partecipanti - chiarisce Rubini - Per questo motivo evitiamo il più possibile le lezioni frontali e un approccio di tipo accademico, e tutto quello che insegniamo cerchiamo di metterlo in pratica sul campo, alternando sempre studio e lavoro. Inoltre, quest’attitudine si rispecchia anche nella scelta dei nostri docenti: spesso sono operatori di cooperative che lavorano ogni giorno nel settore in cui formano i detenuti”. Un’altra difficoltà intrinseca nell’ambiente carcerario però a volte blocca le attività dei formatori, o li costringe a cambi di programma imprevisti: “Per tutti i corsi che si svolgono all’esterno della sezione penale, ma pur sempre dentro alle mura del carcere, come per esempio quelli di giardinaggio, è sempre richiesta la presenza di un agente di polizia penitenziaria per scongiurare possibili evasioni - afferma Rubini - Questo non sarebbe un problema, se solo la polizia penitenziaria non soffrisse di gravi carenze di organico: nei fatti, la situazione in cui spesso ci troviamo è che la persona che dovrebbe venire con noi non è disponibile perché impegnata altrove, e noi, non potendo più fare quel che avevamo pianificato, dobbiamo reinventare la giornata all’ultimo momento. In questo modo, se riusciamo, spostiamo la lezione all’interno modificando il programma - conclude - ma questo non è sempre è possibile”. Firenze: con i Radicali 840 necrologi di detenuti in Piazza Beccaria Notizie Radicali, 25 luglio 2011 Ottocento quaranta necrologi di persone morte in carcere dal 2002 ad oggi letti al centro di piazza Beccaria. Questa l'iniziativa che l'Associazione per l'iniziativa radicale fiorentina "Andrea Tamburi" ha messo in campo questa mattina in una delle principali piazze del capoluogo toscano. È andata così in scena la ‘tragedia di centinaia di detenuti defunti dietro le sbarre per suicidio, malattia o cause ancora da accertare". Sotto una forca allestita per l'occasione, sono stati letti a turno il necrologio degli 840 morti nelle carceri italiane dal 2002, con nome e cognome e relativo istituto penitenziario. "Abbiamo organizzato questa iniziativa - ha spiegato Maurizio Buzzegoli, vicesegretario dell'associazione radicale "Andrea Tamburi" -in primo luogo per ricordare le vittime del carcere ma anche per sottolineare il collasso del sistema penitenziario italiano. 1840 detenuti morti dal 2000 ad oggi, 658 dei quali per suicidio: un suicidio dovuto anche all' ambiente che li circonda: edifici fatiscenti e antiquati dove lo spazio vitale del detenuto è inferiore ai 2 mq e la cause principali di questo sovraffollamento sono da rintracciare nelle leggi criminogene che sono state legiferate negli ultimi anni come la Bossi- Fini piuttosto che la Fini-Giovanardi,la cui applicazione ha portato la popolazione carceraria oltre quota 160.000, un terzo in più di quella consentita,(68.000 detenuti rispetto ad una capienza massima di 40.000) provocando, inoltre, una forte carenza d'organico della Polizia Penitenziaria. Sollecitiamo le istituzioni a prendere provvedimenti urgenti di fronte a quella che è una vera e propria emergenza che non è degna di un Paese democratico. Da oltre due mesi - ha concluso - grazie allo sciopero della fame e della sete di Marco Pannella (momentaneamente sospeso) chiediamo un provvedimento di amnistia, unica soluzione possibile e indispensabile". Catania: martedì 26 luglio manifestazione dei Radicali per l'amnistia e la giustizia Notizie Radicali, 25 luglio 2011 Martedì 26 luglio a partire dalle ore 11 a Catania, dinanzi alla casa circondariale di Piazza Lanza, avrà luogo una manifestazione per l'Amnistia e la Giustizia. A 36 anni dall'approvazione delle norme sull'Ordinamento penitenziario (Legge 26 luglio 1975, n.354), e a più di 11 anni dall'emanazione del Regolamento penitenziario (Dpr 30 giugno 2000, n.230), il carcere si presenta come una realtà assolutamente estranea ai vigenti principi giuridici e costituzionali. Dinanzi allo stato di scandalosa illegalità delle carceri italiane e al collasso di una giustizia paralizzata da milioni di processi pendenti, chiediamo al Parlamento di assumersi la responsabilità di approvare un' "Amnistia per la Repubblica", che consenta allo Stato di interrompere la violazione permanente del diritto interno e internazionale, superando così la propria condizione di "delinquente professionale". Un'amnistia legale, ai sensi dell'art. 79 della Costituzione, mentre oggi è in atto un'amnistia mascherata e di classe rappresentata dalle oltre 150.000 prescrizioni ogni anno. Un'amnistia, dunque, intesa non come semplice atto di clemenza verso i detenuti, ma come provvedimento di riforma strutturale che apra la strada al rispetto della legalità e alle necessarie riforme del sistema penale, a partire dalle depenalizzazioni e dal potenziamento delle misure alternative alla detenzione.Pannella ha sospeso (ma non interrotto) l'iniziativa nonviolenta in ossequio all'attenzione del Capo dello Stato Dopo 91 giorni di sciopero della fame (e 5 giorni di sciopero anche della sete) Marco Pannella ha sospeso la sua iniziativa nonviolenta in attesa dell'esito del convegno dal titolo "Giustizia! In nome della legge e del popolo sovrano" che si terrà a Roma il 28 e il 29 luglio alla presenza del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Anche Rita Bernardini, deputata radicale, e Irene Testa, segretaria dell'associazione "Il detenuto ignoto" hanno sospeso il loro sciopero della fame che andava avanti ormai da oltre 40 giorni. All'iniziativa nonviolenta, la più grande della storia repubblicana, hanno aderito finora oltre 19.000 detenuti, 4.000 loro familiari e decine di agenti, psicologi penitenziari, educatori, direttori di carcere, volontari, avvocati dell'Unione Camere penali, militanti radicali e cittadini comuni. Anche i detenuti del carcere di Piazza Lanza e 46 loro familiari hanno aderito allo sciopero della fame. Con riferimento alla capienza regolamentare della casa circondariale di Catania Piazza Lanza, abbiamo segnalato alcuni mesi fa una grave incongruenza fra il dato pubblicato sul sito del ministero della Giustizia, attestante una capienza regolamentare di 361 posti, e le informazioni fornite dalla direzione del carcere, secondo cui la capienza regolamentare è di 155 posti e la cosiddetta capienza "tollerabile" è di 221 posti. Quest'ultimo dato, peraltro, è confermato anche da un recente rapporto della Uil-Pa. Per chiarire quest'aspetto, lo scorso marzo è stata presentata dai deputati radicali un'interrogazione parlamentare alla quale il ministro Alfano non ha ancora risposto, nonostante i numerosi solleciti. E adesso una nuova statistica, pubblicata il 30 giugno 2011 sul sito del ministero, attribuisce ancora una volta all'istituto catanese una capienza regolamentare di 361 posti. Che attendibilità hanno i dati sulla capienza regolamentare forniti dal ministero della Giustizia? Non è una questione soltanto numerica, dietro questi "numeri" ci sono persone in carne ed ossa, costrette a vivere come polli in batteria: 591 detenuti presenti a fronte di una capienza regolamentare di 155 posti. "Morire di carcere": 100 detenuti morti nei primi sei mesi del 2011. Oltre 1850 dal 2000 ad oggi. Secondo il dossier "Morire di carcere" elaborato dal Centro Studi di "Ristretti Orizzonti", nei primi sei mesi del 2011 nelle carceri italiane hanno perso la vita 100 detenuti. Nel 2010, anno in cui si è registrato il più alto numero di decessi in carcere, i detenuti morti sono stati 184. Dal 2000 ad oggi sono morti in carcere 1856 detenuti, di cui oltre 650 per suicidio. Una scia di sangue senza fine che non ha risparmiato nemmeno gli agenti di polizia penitenziaria (88 suicidi dal 2000 ad oggi), un corpo sottorganico costretto a lavorare in condizioni di stress spesso insostenibile. Martedì 26 luglio davanti alla casa circondariale di Piazza Lanza leggeremo i nomi di 850 detenuti morti fra il 2002 e il 2011 nelle illegali carceri italiane. Velletri (Rm): il 27 luglio un sit-in di protesta organizzato dal Sappe www.castellinews.it, 25 luglio 2011 Due sit-in di protesta organizzati dal primo Sindacato della Polizia Penitenziaria, il Sappe, per denunciare quanto i gravi disagi che il sovraffollamento delle strutture di Velletri e Cassino renda ancora più difficoltose le quotidiani condizioni di lavoro dei poliziotti in servizio nei penitenziari e per tutelare l'onorabilità del Corpo di Polizia Penitenziaria. Li ha organizzati, d'intesa con la Segreteria Generale del Sappe, la Segreteria Regionale del Lazio del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria. "La situazione penitenziaria in tutta la Regione Lazio è allarmante – spiega Donato Capece, segretario generale Sappe – e all'affollamento delle celle corrisponde una sostanziale carenza di Agenti dai Reparti di Polizia. Saremo a manifestare in piazza, davanti ai due penitenziari, il 20 a Cassino ed il 27 a Velletri, per denunciare quanto il grave sovraffollamento detentivo incida sulle già gravose condizioni di lavoro dei Baschi Azzurri del Corpo. Cassino, con una capienza regolamentare di 172 posti letto, ospita in media 280 detenuti. Sovraffollamento vuol dire lavorare in condizioni difficili, per le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria, ed eventi critici: che nel 2010 sono stati 1 tentativo di suicidio sventato in tempo dai nostri Agenti, 13 episodi di autolesionismo, 73 soggetti che hanno posto in essere ferimenti, 8 danneggiamenti di beni dell'Amministrazione (rotture cella e incendi) e 30 scioperi della fame. È evidente che servono urgenti interventi da parte dell'Amministrazione per porre un freno a questa grave situazione. Anche Velletri ha una situazione penitenziaria assai problematiche – prosegue Capece – ma il sit-in del 27 luglio sarà anche l'occasione per stringerci vicino ai colleghi della Polizia Penitenziaria che oggi si trovano al centro del ciclone per una vicenda giudiziaria sulle quale sarebbe opportuno evitare strumentalizzazioni e processi mediatici. È alla Magistratura che è affidato il compito di trovare riscontro alle accuse che un ex detenuto ha formulato: e noi confidiamo come sempre nel lavoro obiettivo e sereno dei giudici. Certo non possiamo accettare una idealizzazione del carcere quale luogo nel quale avverrebbero sistematicamente violenze in danno dei detenuti. Non accettiamo che le donne e gli uomini della Polizia penitenziaria che lavorano ogni giorno, a Velletri e nelle oltre 200 strutture detentive del Paese, con professionalità, zelo e abnegazione, vengano rappresentati con corrispondenze di stampa che, più o meno velatamente, associano al nostro lavoro i sinonimi inaccettabili di violenza, indifferenza e cinismo. Tutt'altro! A Velletri, nel corso dello scorso anno, ci sono stati 3 tentativi di suicidio e 10 atti di autolesionismo: e ad intervenire, come sempre, sono stati i poliziotti che hanno impedito più gravi conseguenze. Saremo in piazza per tutelare, quindi, l'onorabilità del Corpo di Polizia Penitenziaria". Messina: ancora un'ispezione all'Opg "Madia", ne risulta un "quadro allarmante" Gazzetta del Sud, 25 luglio 2011 La commissione parlamentare d'inchiesta sull'efficacia e l'efficienza del servizio sanitario nazionale è tornata a Barcellona venerdì scorso per una nuova ispezione all'Opg "Madia". Il presidente Ignazio Marino e la vicepresidente Donatella Poretti, reduci dalle visite alle strutture di Reggio Emilia, Aversa, Montelupo Fiorentino, sono giunti al Madia, senza preavviso, e hanno effettuato una ricognizione dei reparti, da cui è emersa ancora una volta "l'elevata e drammatica criticità" in cui versa l'ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona. La visita si è svolta tra l'altro, casualmente, due giorni dopo il suicidio di un ricoverato di origini calabresi in misura di sicurezza provvisoria dal 31 novembre 2010. "In assenza di novità di rilievo e con una disponibilità di risorse sempre più esigua, la situazione resta preoccupante ed è quanto il presidente Marino ha potuto ancora una volta constatare" ha detto il direttore dell'Opg Nunziante Rosania. "Il numero dei ricoverati e degli internati - ricorda il direttore - ammonta a oltre 360 unità, i locali richiedono manutenzione urgente, il personale è insufficiente e il rischio è oramai la demotivazione. Siamo in mezzo a un guado e ancora non intravediamo prospettive concrete. La Regione non recepisce il Dpcm per il passaggio della sanità penitenziaria al Servizio sanitario regionale, gli accordi della Conferenza Stato-Regioni restano inattuati. Attendiamo con trepidazione le conclusioni della commissione Marino sperando che si possa avviare il necessario superamento dell'Opg. È notizia recente - ha aggiunto Rosania - che la Cassa delle ammende ha finanziato il progetto per la ristrutturazione del primo, del secondo e del sesto reparto, e siamo in trattative con l'amministrazione centrale per una evacuazione parziale di una trentina di persone, che ci consenta di avviare al più presto i lavori. Ma non è certo la soluzione". "La situazione non è cambiata di molto rispetto a un anno fa - afferma il cappellano padre Pippo Insana, responsabile della Casa di Solidarietà e Accoglienza - carenza di acqua, sovraffollamento, precarietà strutturali, personale insufficiente, impossibilità di svolgere attività socializzanti, celle con letti a castello che ospitano fino a 10 persone e il letto di contenzione, che ancora si utilizza, anche se più raramente, per le aggressioni tra ricoverati, ma anche nei confronti del personale e per chi si oppone all'assunzione della terapia. Storie purtroppo note. Di fronte a tutto ciò, e senza il sostegno delle istituzioni competenti, anche il direttore, di cui ammiriamo l'intraprendenza, la sensibilità e l'apertura, è impotente". In questo quadro, è opportuno ricordare i puntuali appelli del personale che opera nella struttura penitenziaria, i problemi di organico, le difficoltà oggettive in cui si opera. Montagne di documenti e interventi rimasti sinora inascoltati. Eppure segnali concreti di soluzioni alternative all'Opg vengono segnalati. La Casa di Solidarietà da anni accoglie e segue gli internati che hanno l'opportunità di uscire fuori dalle mura dell'ospedale psichiatrico. "Con il progetto "Ecco la novità" - spiega padre Pippo - proviamo a prevenire ed evitare l'internamento delle persone con disagio mentale. Puntiamo sull'informazione. Per tutta l'estate avremo un nostro spazio all'interno delle manifestazioni estive che si terranno in provincia. Proietteremo e distribuiremo copia del video-scandalo prodotto dalla Commissione Marino. Inoltre raccoglieremo le firme per chiedere alle autorità politiche un impegno perché si provveda ad attivare al più presto la normativa e i servizi che consentano l'abolizione degli Opg". L'associazione di padre Pippo ha attivato intanto 4 centri di ascolto a Giardini, Messina Nord, Milazzo e Barcellona, mentre a Patti, Capo d'Orlando e Sant'Agata Militello sarà presto operativo uno sportello specifico per i familiari di infermi di mente. A Oreto prosegue invece il progetto "Comunità Carmen Salpietro" proposto dall'Opg in collaborazione con il Dipartimento di Salute Mentale di Messina e finanziato dalla Cassa Ammende. Si tratta di un reparto esterno che ospita 15 ricoverati dell'Opg. Anche qui l'obiettivo è evitare le proroghe delle misure di sicurezza e favorire l'uscita duratura dall'Opg. Gorizia: per il carcere chiusura revocata, un'ispezione per ristrutturarlo Il Piccolo, 25 luglio 2011 La chiusura del carcere di Gorizia? Scongiurata. Revocata. O meglio, congelata. E affiora la possibilità (sempre più concreta) che si possa procedere con la ristrutturazione dell'attuale sede della Casa circondariale. A fare il punto della situazione è il sindaco Ettore Romoli che ha incontrato il ministro della Giustizia Angelino Alfano. "Per il momento, il decreto di chiusura della Casa circondariale di via Barzellini che era stato già preparato e firmato è stato congelato su mia pressione. Il ministro Alfano mi ha assicurato che tutto rimane fermo. Siccome, però, la questione non può restare "congelata" o in stand-by in eterno, gli ho chiesto di fare qualcosa, viste le condizioni in cui versa la struttura detentiva. Il risultato? Mi ha assicurato che prima di lasciare l'incarico darà disposizioni affinché venga effettuata un'ispezione-sopralluogo. L'obiettivo? Valutare la possibilità di effettuare alcuni interventi di ristrutturazione, indispensabili per rendere quantomeno vivibile il carcere, in attesa di individuare i finanziamenti per un intervento definitivamente risolutivo. Siamo, comunque, perfettamente consapevoli che è impensabile oggi trovare le risorse per realizzarne uno nuovo". Sistemare l'esistente avrebbe anche un vantaggio. Il Comune non dovrebbe scontrarsi con i cittadini o con questo o quel quartiere riguardo all'ubicazione di una nuova, eventuale struttura. "Insomma - chiosa Romoli - andremmo ad evitare sollevazioni di popolo. Speriamo che il nuovo ministro della Giustizia porti avanti le stesse idee di Alfano e ci dia una mano a migliorare il carcere esistente. Va assolutamente scongiurato qualsiasi taglio: c'è un rischio altissimo che la chiusura del carcere porti con sé la chiusura del Tribunale". Ma i sindacati, in tempi non sospetti, hanno espresso forti perplessità. Mentre i lavori del nuovo carcere di Pordenone (che ospiterà 450 detenuti) sono già stati avviati, in quello di Gorizia non si batte chiodo. La ristrutturazione resta assolutamente urgente, per garantire condizioni dignitose di soggiorno agli ospiti, ma anche la sicurezza dei dipendenti. Un intervento sull'edificio (risalente ai primi del Novecento), infatti, ridurrebbe, se non addirittura eliminerebbe, il grave problema del sovraffollamento, portando la capienza complessiva dai 30 posti attuali a un centinaio. "Si tratta - il commento fatto recentemente da Antonietta Esposito, rappresentante locale della Fns e dipendente del penitenziario - di un passaggio fondamentale: la struttura (che annualmente vede transitare un migliaio di persone) è fatiscente e soltanto una delle tre aree è usufruibile: le condizioni di vita e di lavoro sono al minimo, tenuto anche conto che spesso la capienza del carcere è aumentata fino a 3/4 e la situazione è destinata a peggiorare per la presenza del Cie". Ecco che le rassicurazioni di Alfano possono equivalere ad ossigeno. Anche se i sindacati (e gli stessi operatori che lavorano nella struttura) hanno imparato ad essere come San Tommaso e delle promesse non si fidano più. Pisa: carcere in emergenza, la denuncia della consigliera regionale Chincarini (Idv) Il Tirreno, 25 luglio 2011 "Ho potuto verificare di persona le condizioni fatiscenti in cui versa il penitenziario Don Bosco, una struttura sull'orlo del collasso, che ospita tre volte tanto il numero di reclusi per cui era stato concepito". è quanto dichiara la consigliera regionale Maria Luisa Chincarini (Idv) dopo una visita, insieme ad altri colleghi, del carcere pisano. "Il problema del sovraffollamento - aggiunge - si riflette su tutti gli aspetti della vita quotidiana di chi ci vive e di chi deve lavorarci. I detenuti vivono in condizioni spesso disumane in mezzo a mille problemi: dagli impianti che sono del tutto inadeguati all'acqua che viene a mancare per due o tre ore al giorno". "è sconcertante - prosegue la consigliera - che il numero delle guardie penitenziarie, a fronte della triplicazione dei detenuti, sia stato dimezzato diversi anni fa e non sia mai tornato al livello degli organici che era previsto inizialmente". Viterbo: Ugl; carcere di Mammagialla, un istituto penitenziario lasciato a se stesso www.ontuscia.it, 25 luglio 2011 "Ill.mo direttore lavoro al carcere di Viterbo dal 1993 e da alcuni anni sono anche rappresentante sindacale dell'Ugl Polizia Penitenziaria. Mi creda, da tanti anni a questa parte ho visto moltissime situazioni difficili succedersi nel tempo e infinite problematiche rincorrersi e reiterarsi ma oggi mi sento di affermare senza dubbi di aver toccato il fondo! 720 detenuti a fronte di una capienza di 400, carenza di personale di Polizia Penitenziaria pari al 42%, problematiche sanitarie estremamente complesse (hiv, epatiti, tossicodipendenti affetti dalle più gravi patologie). Come se non bastasse improvvisamente il nostro direttore viene assegnato ad altro compito andando a ricoprire un ruolo al Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria (Dap) a Roma. Cosa pensa di fare proprio il Dap? Ci manda un sostituto part time, già titolare presso un'altra struttura accompagnato da altri due dirigenti in missione che non possono conoscere nulla circa le dinamiche estremamente complesse che affliggono una città penitenziaria come Mammagialla che ormai procede sostanzialmente autogestita dal personale stesso che non posso esimermi dal ringraziare per l'alto senso di responsabilità che sta dimostrando. A nulla sono valse le nostre rimostranze né l'aver dimostrato a Piazza Montecitorio il nostro malcontento.... siamo stati lasciati soli... in tutti i sensi. Pochi, male armati e con un capo che, con tutto il rispetto per la sua persona e per le sue indubbie capacità, non può dedicarsi a tempo pieno a cercare di risolvere le citate problematiche". Danilo Primi, delegato regionale Ugl Polizia Penitenziaria Genova: Uil-Pa; distilleria “artigianale” di grappa scoperta nel carcere di Marassi Agi, 25 luglio 2011 Una distilleria artigianale di grappa è stata smantellata dagli agenti di polizia penitenziaria nel carcere di Genova Marassi. Lo comunica in una nota Eugenio Sarno, segretario generale della Uil-Pa Penitenziari. “Alcuni detenuti di origine romena, collocati in una cella della seconda sezione (detenuti con condanne definitive) , - scrive Sarno nella nota - avevano impiantato una vera e propria distilleria per la produzione di alcool, ricavato attraverso la fermentazione di frutta. Un sistema quello escogitato dai detenuti estremamente pericoloso, ma alquanto redditizio. La necessaria corrente elettrica, infatti, era assicurata attraverso una derivazione di fili elettrici dalla plafoniera del bagno, gli alambicchi e quant’altro servisse alla produzione delle sostanze alcoliche erano stati ricavati dagli oggetti di uso comune come bottiglie in vetro e plastica, pentolini e così via”. Secondo quanto riferito, durante l’operazione sono stati sequestrati tre secchi di bevanda superalcolica prodotta artigianalmente in cella. “L’operazione” è scattata sottolinea Eugenio Sarno “dopo che la settimana scorsa alcuni detenuti di origine sud-americana, allocati nella stessa sezione dei romeni, erano stati rinvenuti completamente ubriachi, tanto che gli stessi non esitarono ad aggredire e ferire un ispettore e due sovrintendenti della polizia penitenziaria che avevano chiesto chiarimenti”. Per la Uil-Pa Penitenziari la scoperta della distilleria clandestina in cella è un ulteriore sintomo delle difficoltà operative che investono il carcere genovese. “È del tutto evidente che il superaffollamento di Marassi coniugato alle croniche e gravi deficienze degli organici determina anche queste conseguenze” aggiunge il sindacalista. “Nella sola seconda sezione sono presenti circa trecento detenuti e con le attuali disponibilità di agenti penitenziari è praticamente impossibile procedere ai controlli e alle ispezioni previste. D’altro canto i nostri allarmi sulle effettive condizioni operative e strutturali di Marassi sono puntualmente cadute nel vuoto. Non c’è quindi da sorprendersi per quanto avvenuto nel carcere del capoluogo ligure. Questo e molto altro potrebbe ancora capitare se chi governa, ai vari livelli, l’universo carcere non decide di mettere mano seriamente ed in profondità ad un sistema sempre più avviato verso la completa implosione e la più deflagrante delle esplosioni”. Napoli: Laboccetta (Pdl) in visita a Alfonso Papa; in carcere fa bucato e lava pavimenti Adnkronos, 25 luglio 2011 “Durante la visita al padiglione Firenze sono stato nella camera detentiva che ospita l’onorevole Alfonso Papa e altri tre detenuti; la mia attenzione è stata attirata da una bella immagine di Padre Pio appesa ad uno degli armadietti”. Lo dichiara Amedeo Laboccetta (Pdl) che si è recato in visita ispettiva al carcere di Poggioreale. “Alfonso Papa, vincendo una sua comprensibile ritrosia, mi ha detto -aggiunge- che quello era il suo armadietto e che quella immagine, dipinta su quello che mi è apparso essere un tovagliolo di stoffa, gli era stata donata da un suo giovane compagno di detenzione del padiglione, tale Luigi Maisto, e che egli non riusciva, da quel momento, a staccare gli occhi da quella raffigurazione del Santo di Pietrelcina”. “L’onorevole Papa - continua - mi ha poi riferito di aver imparato a fare il bucato e che si sta impegnando per imparare a lavare il pavimento della sua temporanea dimora. Alla fine della visita, durata circa tre ore, ho poi voluto, insieme alla vice direttrice De Fusco, consumare il pranzo insieme agli agenti della Polizia Penitenziaria nell’area mensa da loro utilizzata”. Laboccetta ha visitato, con la vice direttrice Anna Laura De Fusco e il commissario Nunzia Di Donato della Polizia penitenziaria i padiglioni Torino, Avellino, Firenze e San Paolo, ove è allocato il Centro diagnostico terapeutico. “Ho parlato con moltissimi detenuti ristretti nei vari padiglioni - sottolinea Laboccetta - ed ho avuto modo di apprezzare, ancora una volta, l’ottima qualità del lavoro svolto dalla Dirigenza e dal personale di custodia. Sono stato particolarmente colpito dalla storia del detenuto Giovanni Zirottu che dopo aver girato molte carceri italiane e dopo vari episodi di autolesionismo, solo a Poggioreale ha ritrovato una condizione di serenità, ed attualmente si dedica, con apprezzabili risultati, al disegno ed alla pittura”. Bergamo: genitori dietro le sbarre, ci sono diritti da difendere L'Eco di Bergamo, 25 luglio 2011 In tempi di carceri affollate, di proteste, di dibattito politico sulla necessità di un'amnistia o di un nuovo indulto, il progetto che sta promuovendo la Casa circondariale di Bergamo sembra arrivare da un altro pianeta. L'obiettivo sono i detenuti genitori, i papà e le mamme che si trovano in carcere. Il fatto che siano detenuti, è il senso del progetto, non significa che debbano rinunciare al loro ruolo di padri e madri. Per questo, dopo una fase sperimentale con piccoli gruppi e alcuni momenti significativi come quelli di Natale e Pasqua, quando le famiglie dei detenuti si sono trovate a festeggiare insieme nella palestra dell'istituto - un caso che non ha precedenti nella storia penitenziaria italiana - il carcere vuole coinvolgere altre istituzioni del territorio, dal Comune ai consultori, dalle fondazioni ai sindacati. Anima di questo progetto è il professor Ivo Lizzola, preside della facoltà di Scienze della Formazione e ormai da 12 anni attento e partecipe frequentatore della Casa circondariale di Bergamo, non solo per ragioni professionali ("per i miei studenti fare tirocinio in via Gleno è un'occasione unica"), ma anche perché per un educatore il carcere rappresenta una sfida formidabile. Dal confronto con i detenuti emerge, fortissima, la paura di essere padri che hanno sbagliato, la voglia di sottrarsi, di fuggire, ma allo stesso tempo la necessità di dare risposte ai propri figli, di essere, nonostante tutto, ancora un punto di riferimento importante. Il progetto si rivolge anche alle famiglie dei detenuti. L'idea è quella di far comunicare e collaborare non solo i familiari, ma anche le istituzioni tra dentro e fuori: "Pensiamo per esempio alla scuola - dice Lizzola. Quest'anno due ragazzi figli di detenuti non sono stati ammessi all'esame di terza media. Se li avessimo seguiti fin da subito, coinvolgendo i loro padri in carcere, forse le cose avrebbero preso una piega diversa". Volterra (Si): quelli che si diplomano in cella, la Provincia premia i 9 geometri Il Tirreno, 25 luglio 2011 Un centista con lode, Gabriele Aral. Insieme ad altri otto diplomati geometri della classe 5ª CG, ovvero Ismail Kammoun, Gianluca Matera, Maurizio Spinolo, Oreste Stramaglia, Domenico Tudisco e Henryk Wilga. Classe 5ª DG: Antonio Andriani e Sebastiano Bontempo. Sono i nove detenuti geometri del Maschio di Volterra premiati dalla Provincia di Pisa. "Un riconoscimento per valorizzare l'impegno di questi ragazzi e per sottolineare il valore della scuola come possibilità di recupero da spendere all'esterno, quando queste persone usciranno", commenta l'assessore provinciale Miriam Celoni presente alla cerimonia. Con lei il preside del Niccolini Giuseppe Capasso, i professori Alessandro Togoli, Stefano Ghelli e Antonio Isolani. In prima fila anche il sindaco di Volterra Marco Buselli: "Per noi è una grande soddisfazione - dice. Non solo la scuola per geometri è salva, ma produce risultati di eccellenza. Dobbiamo lavorare insieme per il potenziamento della scuola in carcere, segno di grande civiltà". Orgoglio e soddisfazione anche nelle parole della direttrice del carcere, Maria Grazia Giampiccolo. Venezia: si conclude progetto teatrale "Passi Sospesi" presso Casa circondariale Ristretti Orizzonti, 25 luglio 2011 Il progetto teatrale "Passi Sospesi" attivo nella Casa Circondariale di Santa Maria Maggiore di Venezia dal 2006 e diretto da Michalis Traitsis di Balamòs Teatro, conclude il suo ultimo ciclo (Febbraio - Luglio 2011) con un progetto speciale, una rappresentazione teatrale fatta dal gruppo degli allievi detenuti dell'Istituto Penitenziario insieme ad un gruppo di allievi del laboratorio teatrale del Centro Teatro Universitario di Ferrara. Il laboratorio teatrale è stato condotto e coordinato da Michalis Traitsis e hanno collaborato Fabio Mangolini (presidente del Teatro Comunale di Ferrara attore e regista), Maria Teresa Dal Pero (attrice e cantante), Davide Iodice (attore e regista), Giuseppe Lipani (studioso di teatro), Marco Valentini (videomaker) e Andrea Casari (fotografo). Il lavoro che sarà presentato Martedì 26 Luglio 2011 presso la sala polivalente dell'Istituto Penitenziario Veneziano, ha il titolo "storie italiane", e offre alcuni spunti di riflessione su alcuni episodi, visioni, sogni e l'immaginario dell'italia dell'ultimo secolo. Un Italia vista da "dentro" e "fuori", un'Italia del passato recente e del prossimo futuro, infine un Italia che si interroga su se stessa. Il progetto è stato finanziato dal Comune di Venezia, Assessorato alle Politiche Sociali, Servizio Area Penitenziaria, è sarà presentato davanti ad un pubblico riservato a detenuti e esterni (educatori, assistenti sociali, volontari, operatori sociali, docenti universitari e studenti universitari). Tutto il processo del laboratorio è stato documentato tramite la produzione di materiale fotografico (Andrea Casari) e la produzione di un video (Marco Valentini). Gli ultimi tre anni i video documentari del progetto teatrale "Passi Sospesi" sono stati presentati alla Mostra di Venezia, nell'ambito dell'iniziativa "L'esperienza del progetto teatrale Passi Sospesi negli Istituti Penitenziari di Venezia". Balamòs Teatro opera anche nella Casa di Reclusione Femminile di Giudecca e quest'anno si lavora per presentare alla Mostra di Venezia l'iniziativa "Teatro e Carcere: lavorare al maschile, lavorare al femminile". Immigrazione: deputati Pd ispezionano Ponte Galeria e dichiarano “i Cie vanno chiusi” Redattore Sociale, 25 luglio 2011 La dichiarazione congiunta al termine dell’ispezione al Centro di identificazione e di espulsione. Anche Livia Turco che istituì i Cpt, dice sui 18 mesi “norma vergognosa e inaudita”. Due giornalisti ricorrono al Tar contro la circolare del ministero. “I centri di identificazione e di espulsione, così come sono vanno chiusi”. È la dichiarazione congiunta fatta dai parlamentari d’opposizione che hanno visitato il Cie di Ponte Galeria aderendo alla mobilitazione nazionale “LasciateCientrare”, che punta a rimuovere il divieto di accesso alla stampa istituito dal Viminale. Nella delegazione di sei deputati Pd e Idv che hanno compiuto un’ispezione durata circa due ore, c’era anche Livia Turco, firmataria con Napolitano della legge del 1998 che per prima istituì i Cpt e ora anche lei sostiene che questi centri, ormai peggiori delle carceri, debbano essere chiusi. “I Cpt erano una cosa diversa - ha spiegato la deputata democratica - si stava 30 giorni, il tempo strettamente necessario per essere identificati, il meccanismo di espulsione era totalmente diverso, era un’espulsione amministrativa e non l’accompagnamento coatto alla frontiera com’è nella Bossi Fini e men che mai il reato di immigrazione clandestina, quindi non c’entra assolutamente nulla. I centri così come sono non hanno ragione di esistere, sono strutture detentive, per cambiare questi centri bisogna abrogare la normativa”. Turco ha motivato la sua adesione al presidio “per chiedere al governo di ritirare questa assurda circolare che impedisce ai giornalisti di entrare in strutture di cui si deve sapere tutto, perché sono strutture detentive” e contro il decreto dei 18 mesi, definito “questa cosa vergognosa e inaudita, questa norma supera tutte le leggi liberticide fatte da questo governo sull’immigrazione”. Un gruppo di una ventina di migranti, all’arrivo della delegazione di parlamentari e giornalisti ha inscenato una protesta salendo sul tetto della struttura, urlando “vogliamo la libertà, qui stiamo malissimo” e sventolando uno striscione improvvisato con un lenzuola su cui hanno scritto ‘Libertà’. Al Cie è stato impedito l’accesso ai tanti giornalisti di testate diverse presenti e agli esponenti della società civile. Dalla Cgil con Vera Lamonica e Piero Soldini, alla rete Primo marzo. Gabriella Guido, referente del sit-in, ha detto che “la mobilitazione è per impedire che queste notizie vengano ancora taciute, ci sono nei Cie persone che non hanno commesso reati e l’Ue dovrebbe tutelare chi scappa da povertà e dittature”. Davanti a Ponte Galeria anche i vertici del sindacato e dell’ordine dei giornalisti, fra i promotori dell’iniziativa. “La civiltà di un paese si misura da come sono trattati gli ultimi e i filmati che escono dai Cie non sono una testimonianza di civiltà - ha detto il presidente dell’Ordine, Enzo Iacopino - la sfida per i giornali è non solo aderire oggi ma anche destinare delle persone a occuparsi stabilmente di questo problema”. Per Roberto Natale, presidente Fnsi, “con questa mobilitazione dimostriamo che per il giornalismo italiano la cronaca non è soltanto Avetrana e la ricostruzione minuto per minuto del delitto Rea, siamo insieme come nella battaglia sulle intercettazioni perché i cittadini sappiano e perché le persone recluse qui hanno diritti e sono quegli stessi ragazzi che hanno fatto le rivoluzioni sull’altra sponda del Mediterraneo e ai quali abbiamo mostrato solidarietà e commozione”. Ricorso al Tar. Intanto due giornalisti, Raffaella Cosentino e Stefano Liberti, hanno fatto ricorso al Tar del Lazio contro la circolare ministeriale n.1305 del primo aprile scorso, inseguito al diniego ricevuto dalle prefetture di Roma, Catania e Crotone. A presentare il ricorso sono stati gli avvocati Anton Giulio Lana e Andrea Saccucci, dell’Unione Forense per la tutela dei diritti umani. “Tale provvedimento - precisa l’avvocato Saccucci - costituisce un’indebita restrizione all’esercizio della libertà di stampa e informazione, garantita dalla Costituzione e dalle norme internaizonali in materia di diritti umani. Una restrizione fondata su motivazioni del tutto arbitrarie e discriminatorie”. Anche secondo l’avv. Lana si tratta di “una misura liberticida che tradisce ancora una volta l’intento di gestire la presunta emergenza degli sbarchi con metodi antidemocratici, tenendo all’oscuro l’opinione pubblica su cosa realmente accade nei centri”. Sel: la violazione più grave è il mancato diritto di difesa Cavalli, consigliere regionale di Sel, dopo la visita istituzionale all’interno della struttura di via Corelli a Milano: “Ogni volta che si entra in questi centri si sentono persone denunciare i pestaggi e le violenze subite. Ormai è un fatto accertato”. “La violazione più grave sta nel mancato diritto di difesa: qua dentro nessuno sa cosa gli stia succedendo”. Giulio Cavalli, consigliere regionale di Sel, è appena uscito dalla visita istituzionale all’interno del Cie di via Corelli, a Milano. “Ogni volta che si entra in questi centri -prosegue l’attore e politico-, si sentono persone denunciare i pestaggi e le violenze subite. Ormai è un fatto accertato”. Non appena la delegazione di parlamentari e consiglieri regionali (con l’aggiunta dell’assessore comunale al Welfare Pierfrancesco Majorino, in un primo tempo bloccato all’ingresso) ha varcato la soglia del centro, si è formato un assembramento di detenuti attorno al gruppo, ognuno con la sua storia da raccontare. Ciò che stupisce Chiara Cremonesi, consigliere regionale Sel, è che avevano in mano i loro documenti d’identità: “Non c’è una reale volontà di identificazione. Dal Cie si giustificano dicendo che nonostante il documento si tratta di persone che vanno espulse perché prive di permesso di soggiorno, e che i consolati sono lenti nel provvedere”. Aumentano i casi di autolesionismo e di tentati suicidi, l’ultimo proprio ieri notte. “Un’impennata che si è registrata nel corso delle ultime due settimane -spiega Chiara Cremonesi- legata alla decisione di prolungare la detenzione da 6 a 18 mesi”. Perché lo fanno? “Sono venuti a sapere che qualcuno, dopo essersi ferito, era stato graziato - risponde il consigliere regionale Sel Giulio Cavalli - non si sa in base a quale principio”. “Mi chiedo come abbiamo fatto a lasciare che questo diventasse possibile”, commenta. La vicenda più incredibile riguarda un uomo rumeno, rinchiuso da mesi nel centro. “Ha tre bambini nati tutti in Sardegna e dice che pagherebbe il viaggio per andarsene coi suoi soldi se solo lo lasciassero uscire”, racconta Giulio Cavalli. Il consigliere regionale Sel assicura che farà le verifiche necessarie per capire come mai questa persona si ritrova detenuto in un centro d’espulsione, nonostante sia comunitario. Uno dei numerosi aspetti su cui è necessario fare luce, rimasto oscuro in virtù della direttiva del ministero dell’Interno 1305, datata primo aprile 2011: un giro di vite che ha limitato l’accesso ai Cie solo a pochissime Ong internazionali, oltre a Croce Rossa, Caritas e gli altri enti che hanno convenzioni aperte con il Viminale. Norme sul prolungamento della permanenza nei Cie inaccettabili “È inaccettabile la norma che prolunga il trattenimento nei Centri di identificazione e espulsione (Cie) da 6 fino a un massimo di 18 mesi. Se già era odiosa una permanenza cosiddetta temporanea”, considerata necessaria per accertare lo status delle persone straniere, che in grande maggioranza non hanno commesso reati, il prolungamento configura un vero e proprio stato di detenzione”. È il giudizio di Sinistra ecologia libertà-con Vendola, sulle politiche del governo dell’immigrazione e sui Cie, nel giorno di mobilitazione nazionale contro il divieto per la stampa di non poter accedere ai Cie, affidato al Forum sui Diritti Civili riunitosi a Roma. “È incompatibile sia con i principi di libertà individuale che sono previsti dalla nostra Costituzione, sia con l’ordinamento giuridico che limita fortemente l’ammissibilità della prevenzione preventiva- prosegue il Forum dei Diritti Civili di Sel. Né vale l’argomento che si tratta di un adeguamento alle norme europee, perché queste prevedono un chiaro invito agli Stati a contenere i tempi di sosta forzata, non ad alzarli. Una maggioranza di centrodestra indebolita e divisa - insiste Sel - mette in atto politiche di chiusura xenofoba, con l’obiettivo di ritrovare e rianimare i sentimenti di paura che da sempre alimenta nel proprio elettorato”. Protagonista, osserva Sel, “la Lega Nord, sempre più arbitra degli orientamenti e del destino del governo. Sinistra ecologia libertà sostiene i diritti delle persone straniere, la limitazione per tutti delle forme di trattenimento e contenzione. Ritiene - conclude Sel - fondamentale per la propria politica sostenere la fiducia, l’accoglienza, le relazioni tra gli umani, senza acutizzare le oscure pulsioni dell’odio e del rancore vendicativo”. Nieri: consentire visite, no ragioni divieto “I Cie continuano ad essere luoghi senza trasparenza. In queste strutture è negato l’accesso anche ai parlamentari e ai consiglieri regionali che possono, invece, recarsi in carcere anche senza preavviso, per verificare le condizioni di vita dei detenuti. Eppure all’interno dei Cie ci sono persone che non hanno commesso alcun reato, la cui unica colpa è quella di essersi trovati un Paese inospitale, che ha addirittura prolungato a 18 mesi i tempi di permanenza”. È quanto dichiara Luigi Nieri, Capogruppo di Sinistra Ecologia Libertà nel Consiglio regionale del Lazio. “Non c’è ragione logica, giuridica e politica per questi divieti, se non il fatto che si sta facendo un uso arbitrario del potere. Si trattano questi migranti come persone da nascondere. Per questo aderiamo all’iniziativa LasciateCIentrare e chiediamo con forza che sia autorizzato l’ingresso nei Cie alla stampa e a soggetti esterni alla struttura. Numerose volte, ad esempio, ci sono giunte voci di maltrattamenti all’interno del Cie di Ponte Galeria. Denunce gravissime sulle quali occorre fare la massima chiarezza”, conclude Nieri. Immigrazione: Nabruka Mimuni "morta per carcere"… di Marco Rovelli L'Unità, 25 luglio 2011 Mercoledì scorso ero in piazza Alimonda, a Genova. Dieci anni. Sul palchetto ha parlato un carcerato, che ha ricordato a tutti le condizioni di incivile invivibilità delle carceri. Sulle morti, per suicidio o per altro, che si susseguono - tante -per quell'inciviltà, e la nostra dimenticanza. Allora mi è venuto in mente un fatto che avevo segnalato sul sito di Nazione Indiana: una morte in cui si condensa l'assurdità delle leggi sull'immigrazione. Si chiamava Nabruka Mimuni, tunisina, aveva 44 anni, era in Italia da più di 20 anni. Aveva un marito, e un figlio. Era stata catturata il 24 aprile 2009 dalla polizia mentre era in coda in questura per rinnovare il permesso di soggiorno. Aveva lavorato alla cooperativa 29 giugno di Roma. E aveva pure l'accento romano. Poi aveva perso il lavoro. E non c'è pietà, allora. L'hanno portata nel Cie di Ponte Galeria, nella campagna romana, e il 6 maggio le hanno comunicato che sarebbe stata espulsa. La mattina successiva le sue compagne l'hanno trovata impiccata in bagno. "Le guardie - ha detto riferendosi a quelli della Croce Rossa l'amica di Nabruka che la trovò morta, intervistata da una radio - ci hanno trattate come pezza di piedi": "e tutto per un foglio", ha detto. "La conosco dal 91, lei stava già qua. Lei non conosce più nessuno là, lei lavora qua". Ma nonostante il lavoro di 20 anni, la sua italianità, doveva andarsene. "Non capisco perché tutta questa cattiveria" diceva l'amica: "siamo sempre umani, non siamo cani...". Ascoltate l'intervista (su google Nabruka. Un omicidio e cliccate sul primo risultato), l'accento romano-maghrebino dell'amica che dice "noi pensavamo che usciva, invece è morta qua, mannaggia la miseria" e piange: "oramai lei non torna più, capito?" Chiediamoci se non starebbe a ciascuno di noi fare qualcosa per non dimenticarci di chi cade nel buio delle detenzioni. India: due italiani condannati all'ergastolo, l'accusa è di avere ucciso un loro amico La Stampa, 25 luglio 2011 Carcere a vita per i due turisti italiani Elisabetta Boncompagni e Tomaso Bruno, rinchiusi da diciassette mesi nel carcere di Varanasi in India con l'accusa di avere ucciso l'amico Francesco Montis in una stanza dell'albergo dove soggiornavano. Ieri pomeriggio, quando in Italia erano le 15 e nel paese asiatico le 18,30, il giudice ha condannato all'ergastolo la trentasettenne di Torino e il ventottenne di Albenga, in provincia di Savona, dietro le sbarre da domenica 7 febbraio 2010. Il tribunale indiano ha accolto la tesi dell'accusa, secondo cui la camera dell'hotel Buddha sarebbe stata teatro di un'esecuzione a sfondo sentimentale, compiuta dalla fidanzata del trentunenne di Terralba (Oristano) e dal suo presunto amante. Una ricostruzione smentita categoricamente dai due imputati, che hanno sempre negato qualsiasi relazione aldilà di una semplice amicizia e hanno raccontato che il compagno di stanza era stato male per un attacco di asma. Erano stati proprio i due condannati, tre giorni prima dell'arresto, ad avvertire telefonicamente la reception, chiedendo di chiamare un'ambulanza per soccorrere Montis. La corsa in ospedale si era purtroppo rivelata inutile e la polizia avevano deciso di sottoporre la vittima a un'autopsia per chiarire le cause del decesso. Il primo esame necroscopico aveva evidenziato sei ferite sul corpo dello sfortunato viaggiatore, accreditando come probabile l'ipotesi dello strangolamento. Per i due amici si erano così spalancate le porte del carcere. Nel frattempo, nuovi accertamenti autoptici hanno smentito le prime supposizioni, indicando in un soffocamento, causato dagli spasmi bronchiali, la ragione del trapasso. Questo scenario è stato avvalorato dalle dichiarazioni della madre di Montis, che ha spiegato come il figlio fosse un accanito fumatore e soffrisse da anni di problemi fisici. Nonostante le condizioni di salute, il sardo aveva deciso ugualmente di partire per un viaggio sul Gange con Boncompagni e Bruno, conosciuti a Londra, dove lavoravano come camerieri. Dopo circa tre settimane, la sua vacanza si è conclusa tragicamente, mentre per gli altri due villeggianti si è trasformata in un'odissea giudiziaria, caratterizzata da rinvii delle udienze per innumerevoli motivi (festività religiose, scioperi, lutti, visite istituzionali), da mobilitazioni politiche bipartisan in Italia e da testimonianze accusatorie rinnegate durante il processo da medici e poliziotti, tanto da lasciar sperare i due detenuti in un'assoluzione. A complicare la loro posizione ci avevano però pensato da subito le autorità indiane, cremando le spoglie di Montis e impedendo ulteriori approfondimenti. "Non vi preoccupate, questo è solo il primo round: ne seguiranno altri e riusciremo a dimostrare la nostra innocenza", ha detto Tomaso Bruno ai genitori, arrivati in India per seguire le fasi conclusive del procedimento, pochi secondi dopo la lettura del verdetto. Gli avvocati difensori hanno annunciato ricorso in appello all'Alta Corte di Allahabad.