Giustizia: morte di un detenuto ignoto di Luigi Manconi L’Unità, 23 luglio 2011 E poi col tempo mi hanno visto consumarmi poco a poco/ ho perso i chili, ho perso i denti, somiglio a un topo/ ho rosicchiato tutti gli attimi di vita regalati/ e ho coltivato i miei dolcissimi progetti campati in aria, nell’aria. (Daniele Silvestri) Marco Pannella sarà il primo a convenirne: fare lo sciopero della fame è un’impresa enormemente faticosa, dagli esiti incerti e dalle conseguenze assai pesanti, per il corpo e per l’anima. Questo vale per un uomo di 82 anni, da oltre mezzo secolo protagonista della vita pubblica, creativo manipolatore del proprio corpo, non solo attraverso la rinuncia a nutrirlo, ma anche tramite mille travestimenti e travisamenti, colpi di genio e coup de théatre, maschere e sonorità, silenzio assoluto e logorrea incontinente. Ma se per Pannella è una impresa improba, e comunque dall’esito imprevedibile, pensate a cosa sarà stato lo sciopero della fame per Ennio Mango. Detenuto nel carcere Pagliarelli di Palermo, Mango è deceduto nei primi giorni di luglio, a seguito di un lunghissimo periodo di astensione dal cibo, quale forma di lotta per ottenere il trasferimento, secondo quanto previsto dalla legge, in un istituto più vicino al luogo di residenza. La coincidenza tra lo sciopero della fame di Pannella, che infine ottiene attenzione e qualche piccolo risultato, e quello del “detenuto ignoto” di Palermo, è un tragico gioco del destino, particolarmente significativo. Tanto più che l’azione del leader radicale è stata accompagnata da quella di migliaia di detenuti, oltre che di familiari, avvocati, agenti di polizia penitenziaria, direttori di istituto e militanti politici. Ma mentre si svolgeva questa azione collettiva, destinata a sostenere la richiesta di un sacrosanto e indifferibile provvedimento di amnistia, la vita quotidiana del carcere, quella così ripetitiva e desolata, incubava mille altre sofferenze e preparava mille altre tragedie. In carcere lo sciopero della fame è un fatto abbastanza frequente, che rientra nella casistica degli “eventi critici” (come il legnoso linguaggio della burocrazia penitenziaria definisce tutti gli episodi non ordinari), e fa parte di quello che potremmo chiamare l’uso del corpo da parte delle persone prigioniere. È questione che ha una sua peculiarità. Per chi si trovi in libertà il corpo è uno strumento - ma uno tra molti di relazione con gli altri e col mondo, una potenzialità enorme, una chance ricca di pieghe e di infinite implicazioni. Per chi, invece, si trovi privato della libertà, il corpo è quasi (ma forse senza quasi) il solo medium, l’unico tramite, l’esclusiva misura della propria esistenza e del proprio ruolo sociale dentro l’ambito più ristretto e meno sociale che si possa conoscere (la cella, appunto). Di quale repertorio si dispone per dirsi e comunicare? Di quali voci e quali scritture? Il proprio corpo e (quasi) solo il proprio corpo. Chi entra in una galera o in un Centro di identificazione e di espulsione troverà che il più deprivato dei prigionieri e il detenuto spogliato di tutto, prima di chiedere qualunque bene e qualunque risorsa, domanderanno innanzitutto di comunicare: e la prima, e spesso la sola, modalità di-comunicazione è rappresentata - appunto - dalla propria stessa fisicità. Parlano, in primo luogo, le sofferenze e le bocche sdentate, le spalle ricurve e le cicatrici, le tracce più chiare sulla pelle di antiche e recenti ferite e i tatuaggi vividi e quelli scoloriti. È il linguaggio del corpo: e in molti casi, è il solo linguaggio dicibile e intellegibile. Se non si ha risposta, e quasi sempre non si ha risposta, ecco quel linguaggio del corpo farsi estremo e definitivo: il tagliarsi, il cucirsi (bocche e genitali), il tentare il suicidio, il darsi la morte. E lo sciopero della fame. Ennio Mango ne è morto, dopo quaranta giorni. Salvo Fleres, garante dei diritti delle persone private della libertà per la Regione Sicilia e senatore del Pdl, ha molto opportunamente fatto riferimento al secondo comma dell’art. 40 del codice penale, dove si legge: “Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”. Con ciò Fleres ha evidenziato quali possano essere, in tale circostanza (ma anche in mille altre simili), le responsabilità dell’amministrazione penitenziaria e della direzione del carcere nel non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire: ovvero, qui, il decesso di Mango. Lo sciopero della fame di Pannella è una forma di lotta non violenta per la vita (civile dignitosa) della popolazione detenuta. Lo sciopero della fame di Mango, non avendo potuto produrre vita e rispetto della legge, si è concluso con un’agonia. La morte di quel corpo è la morte, per l’ennesima volta, del diritto. Giustizia: il garantismo made in Pdl utile solo ai potenti di Dina Galano Terra, 23 luglio 2011 Per i circa quarantaduemila detenuti nelle carceri italiane in attesa di sentenza definitiva la vicenda politica e processuale di Alfonso Papa potrebbe perfino portare un barlume di speranza. Il giorno successivo al voto segreto che ha acconsentito all’arresto del deputato del Pdl, il partito di Berlusconi reagisce all’imbarazzo affidandosi alla retorica garantista. L’ex magistrato, chiuso nel carcere partenopeo di Poggioreale, già noto per l’elevato sovraffollamento e le condizioni fatiscenti della struttura, si ritrova vittima, oltre che del precario equilibrio politico interno alla maggioranza di governo, anche della macchina giudiziaria che negli ultimi anni è tornata a preferire la custodia preventiva in carcere come provvedimento di garanzia. Al di là di ogni giudizio “etico” invocato da alcuni esponenti leghisti o richiamo alla “legalità”, come pure hanno espresso autorevoli rappresentanti del centrosinistra, Idv in testa, il caso Papa costituisce un inedito nella recente storia parlamentare e apre almeno due ordini di riflessione. ? Ad autorizzazione disposta, in un colpo solo è stata disposta la sospensione delle garanzie costituzionali previste a favore dei parlamentari e sono emerse le carenze di un sistema giudiziario basato sull’anticipazione della pena. Il riconoscimento da parte del governo delle distorsioni della macchina giudiziaria (“Noi non siamo favorevoli all’impunità, ma a un uso più saggio della custodia cautelare”, aveva sostenuto alla vigilia del voto il Guardasigilli Alfano) è il primo inedito effetto della vicenda Papa. E i Radicali italiani, votando a favore dell’arresto, hanno deciso anche sulla base di quelle ragioni. “Il voto alla Camera è stato espresso sulla presenza o meno di un fumus persecutionis a carico dell’onorevole Papa”, chiarisce la deputata Elisabetta Zamparutti. “Si è chiesto se a carico dell’onorevole Papa la procura di Napoli avesse un atteggiamento persecutorio, che noi non abbiamo riscontrato. Trasformare Pa- pa nel baluardo del nuovo garantismo è inaccettabile da parte di una forza politica che, nell’arco di questa legislatura, non ha fatto altro che aumentare le pene e i reati, tentando misure garantiste all’unica condizione che il garantito fosse solo uno”. La decisione sulla sorte del parlamentare merita “la prudenza e lucidità propria di ogni provvedimento che decide della libertà personale”, asserisce Luigi Manconi, sociologo e presidente di A buon diritto. L’articolo 68 della Costituzione, così come è stato riformulato nel 93, “non impedisce le indagini ma pone un filtro (l’autorizzazione del Parlamento, ndr) quando quelle indagini diventano penetranti e intervengono su questioni fondamentali che hanno a che vedere con i diritti della persona”. Ecco perché la scelta a favore dell’arresto di Alfonso Papa, da cui Manconi non si sente di distaccarsi, sembra dimenticare “l’origine garantista di quella norma che era oculata e motivata, ed era finalizzata a tutelare i rappresentanti delle classi più deboli”. Anche per Marco Boato, ex parlamentare dei Verdi, definisce “un errore la leggerezza con cui si è proceduto alla Camera”. La sua posizione, che ammette essere “minoritaria e controcorrente”, spiega anche l’integrità del plenum parlamentare, venuto meno con l’arresto di Papa”. Si tratta, in sostanza, di interrogarsi se le garanzie ulteriori previste per i ruoli istituzionali debbano essere livellate alle poche tutele concesse ai più. “Occorrerebbe riflettere se non sia meglio aspirare a un’uguaglianza verso l’alto”, sostiene Manconi, “dove lo straniero, per lo più anonimo, che sconta in carcere una custodia cautelare possa attendersi un trattamento che non implichi la mortificazione della sua persona”. “Sull’abuso della custodia cautelare dalla maggioranza non sono mai venute posizioni di critica”, fa eco Boato, ricordando come si sia trasformata in concreto “in una pena anticipata”. Che, forse, il caso Papa potrà aiutare a rimettere in discussione. Giustizia: nel purgatorio dei “nuovi giunti” di Valentina Ascione Gli Altri, 23 luglio 2011 “L’anno scorso mi sono rotta il femore e per sei mesi sono andata a lavorare ugualmente, in carrozzina e con la bombola d’ossigeno. Ho messo a soqquadro Regina Coeli perché ascensore e montacarichi erano fuori uso. Hanno dovuto mettere in funzione tutto!”. Se vuole sa essere una vera rompiscatole, Ada Palmonella. “Mi chiamavano scassac...”, precisa lei. Lei, che da oltre un ventennio presidia come psicologa le barricate del fronte penitenziario, a sessant’anni si mostra più combattiva che mai nonostante una malattia cronica le imponga la somministrazione costante dell’ossigeno. Affatto stanca di rivendicare i propri diritti di professionista e battersi per il giusto riconoscimento del contributo che la sua categoria offre al recupero dei detenuti. Anche se, quando si riferisce ai suoi assistiti, preferisce parlare di “persone detenute”. L’idea di persona, che in carcere appare sempre più trascurata, defilata, resa opaca da condizioni detentive che inducono e conducono all’imbarbarimento, ritorna infatti centrale nel servizio di supporto psicologico. “Spesso sono presi dalla strada. Inseguiti, arrestati senza avere il tempo di avvisare la famiglia. E come avere un infarto ed essere portati in ospedale. Dopo avergli fatto le foto e preso le impronte digitali li portano da noi”, o almeno dovrebbero, stando al regolamento dell’amministrazione, “e dopo dieci minuti di colloquio si rasserenano sempre, inevitabilmente. Smettono di piangere, ritrovano se stessi, la propria dignità e ritornano normali. Di nuovo esseri umani”. Persone, appunto. La dottoressa Ada Palmonella svolge la propria attività con altri sette colleghi nel reparto “Nuovi giunti” del carcere romano di Regina Coeli, a pochi passi dal Tevere e dalla movida trasteverina che, specialmente in queste sere d’estate, stona non poco con il sottofondo dolente che percorre i corridoi al di là delle inferriate. Il suo compito è valutare le condizioni psicologiche di chi ha appena varcato la soglia del carcere, il pericolo che compia atti di auto o eterolesionismo, e dunque indicare per ciascuno se, ad esempio, si renda necessaria la detenzione in una cella di quelle cosiddette “a rischio”, senza lenzuola né suppellettili, o in una cella normale. Lo psicologo è generalmente la prima figura in abiti civili che si può incontrare dal momento dell’arresto e quei primi, pochi minuti di colloquio servono ad attutire l’impatto con il mondo penitenziario. Un impatto violento soprattutto per chi, magari appena maggiorenne, è alla prima esperienza con la galera. Non è un caso, infatti, che il rischio di suicidio sia notevolmente più alto nelle prime ore o nei primi giorni di detenzione, quando il senso di smarrimento e lo sconforto sono così profondi da poter più facilmente prendere il sopravvento. È dunque un ruolo delicato e di grande responsabilità, quello degli psicologi penitenziari, perfino in grado di fare la differenza nel destino di un detenuto, eppure - denuncia Ada Palmonella non tenuto sufficientemente in considerazione. Al contrario: è spesso bistrattato e marginalizzato, lasciato in coda alle priorità come un optional del quale è anche possibile fare a meno. “Siamo pagati a ora: 17 euro lordi, come i collaboratori domestici, anzi, magari come loro! Il tariffario del nostro Ordine però ne prevede 80. Non abbiamo ferie, né malattie e non avremo una pensione. Praticamente non esistiamo. Non ci danno nemmeno l’indennità di rischio spiega - che in carcere viene concessa persino ai ragionieri che non hanno mai visto un detenuto in vita loro. Noi invece ci sediamo di fronte a loro ogni giorno. Soli davanti a persone appena portate dentro, omicidi, ad esempio, che potrebbero non aver ancora esaurito la carica aggressiva”. Molte volte la figura dello psicologo resta schiacciata negli ingranaggi della macchina penitenziaria, lamenta Palmonella, che li confina nell’ombra di medici e psichiatri. “Ma il nostro è un lavoro diverso, noi non diamo farmaci”, che spesso servono solo a sedare i detenuti, “noi sappiamo sollevarli senza medicine e li aiutiamo a cambiare dentro”. È il cambiamento del sé, sostiene la psicologa, la vera chiave per contrastare la recidiva, ancora più di un percorso di inserimento professionale. “Quasi tutti i detenuti quando erano in libertà avevano un lavoro retribuito, ma questo non gli ha impedito di compiere dei reati. Siamo sicuri che con un nuovo lavoro non torneranno a delinquere?”, chiede. “La maggior parte di loro non si rende conto dell’entità del reato commesso, mi dicono: “dottore ma in fondo ho solo rubato una macchina, ho solo svaligiato un appartamento...”. Si tratta di restituire un valore alle persone e alle cose: se il furto non costituisce per loro un fatto grave, nulla li fermerà dal rubare nuovamente, bisogna fornire loro un altro schema di riferimento dei valori della vita e della realtà. Gli psicologi hanno gli strumenti per scoprire le risorse interne che le persone, e in questo caso le persone detenute, non sanno di avere per guardare il mondo con occhi nuovi, come fosse la prima volta”. Un trattamento di cui però, alla luce degli ulteriori tagli applicati al monte ore degli psicologi, si possono avvalere solo pochi fortunati. “La nostra professione nasce con 64 ore mensili, scese poi a 51 e successivamente a 39. Adesso ne abbiamo 24”, alle quali va inoltre sottratto il tempo necessario a chiamare i detenuti e a farli accompagnare al colloquio, tempo che inevitabilmente si allunga nel regime di sottodimensionamento ormai cronico della polizia penitenziaria che vede a volte un solo agente costretto a sorvegliare un intero piano. E intanto la popolazione penitenziaria aumenta. “Il regolamento del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ndr), che ho appeso in infermeria, dispone che i detenuti nuovi giunti passino prima dalla matricola, poi dallo psicologo e dopo dal medico - spiega la dottoressa - ma quando arriviamo noi, alle 10 o alle 11 del mattino, li troviamo già tutti sparpagliati e dobbiamo recuperarli nelle altre sezioni, dove non c’è posto neanche per sedersi. Molti mi sfuggono, in un turno di tre ore riesco a vederne al massimo cinque e gli altri, si ammazzino pure? Non è bello sentirsi chiamare, sentire invocare il proprio aiuto e non poterlo dare perché non c’è tempo. Farebbero prima a dirci chiaro e tondo che non ci vogliono, perché quella che viviamo e una situazione ridicola, umiliante per noi e per i nostri assistiti, lavorare in questo modo non serve a niente. Abbiamo scritto diverse lettere per denunciare la nostra condizione, ma il ministro Alfano non ha mai risposto. Praticamente non esistiamo, gli unici a essersi interessati a noi sono Rita Bernardini e Marco Pannella”, afferma la psicologa, che annuncia una causa per mobbing. Eppure, nonostante la frustrazione di dover operare in un contesto così desolante, il supporto degli psicologi penitenziari può ancora aprire squarci di grande umanità. E ottenere risultati che gettano ombre, legittime, sulla scelta di sottrarre ulteriori risorse al trattamento dei detenuti e stanziare, invece, fior di quattrini per la costruzione di nuovi istituti. “Non molto tempo fa - racconta - ero sulla via Aurelia ferma al semaforo e c’era li un signore che vendeva fazzoletti, accendini... a un certo punto mi sono accorta che mi stava infilando un sacco di cose in macchina attraverso il finestrino, così allarmata gli ho chiesto: “quanto mi costa tutta questa roba?”, e lui: “niente, dottoressa, perché lei ha saputo tirarmi fuori e quindi io adesso le do quello che ho”. “Sono queste le cose belle del mio lavoro”, osserva Ada Palmonella. Questi i successi di cui si giova l’intera società. La società che di fronte alla crisi del carcere preferisce voltarsi dall’altra parte. Giustizia: intervista a Marco Pannella; nelle carceri, lo Stato contro l’umanità di Andrea Colombo Gli Altri, 23 luglio 2011 Alzi la mano chi, di fronte a questa o quella improvvisata dei radicali, on ha sacramentato di brutta, maledicendo gli aiuti offerti al più antico partito italiano nella sua eterna lotta per la sopravvivenza. Poi capita che mentre un intero sistema politico e mediatico gira a vuoto intorno a se stesso, solo Marco Pannella riesce a costringere politicanti e giornalisti ad accorgersi che nelle carceri italiane la mattanza è quotidiana e che dietro quelle sbarre giustizia e democrazia sono state le prime a rimetterci la pelle. E allora anche i più inviperiti si ritrovano a pensare non senza una sincera gratitudine: “Meno male che ci sono i radicali”. Pannella, siete stati, ancora una volta, gli unici a richiamare l’attenzione della politica e dell’informazione sul dramma dei carcere... Non tanto del carcere quanto della giustizia e più ancora della sua appendice carceraria. Questo Stato ha prodotto una situazione istituzionale e sociale purtroppo nemmeno paragonabile con quella che realizzò e impose l’infame ventennio partitocratico fascista. Diciamola tutta: ormai, come un pò ovunque, nel mondo stiamo vivendo un processo di “democrazia reale” che sta alla democrazia come il socialismo reale stava al socialismo. Quando si parla di carcere, quasi tutti ne fanno nella migliore delle ipotesi una questione di umanitarismo. Tu invece sembri chiamare in causa non solo l’intero capitolo giustizia ma la stessa qualità dello Stato... Con questa realtà, lo Stato nega la sua stessa ragion d’essere. Rappresenta una quotidiana, dolorosissima, scandalosa, lenta, inesorabile tortura, una sempiterna messa a morte non solo di elementari principi umanitari, ma soprattutto della Legge: internazionale, europea, nazionale. La stessa Costituzione italiana è violentata, violata. Per questo noi ripetiamo che oggi la vita del diritto è condizione per il diritto alla vita. Ti dice nulla? Restiamo alla giustizia e al carcere. Hai iniziato a ottenere qualche risultato con la tua iniziativa? Se permetti “abbiamo” e non “ho”. Certamente abbiamo ottenuto il prendere corpo, anche ai massimi livelli istituzionali e in uno straordinario “campione” di popolo sovrano, della consapevolezza della necessità e urgenza di una soluzione direi storica di questa tragedia civile. Si ma concretamente, cosa chiedi di fare alla politica oggi in Italia? Quello che oggi, venerdì 22 luglio, proporremo a Tunisi con il Consiglio generale del Non Violent Radicai Party Transnational and Transparty: che si imponga ai governi, ovunque, anche il da loro in Tunisia, di rispettare e usare come -arma le loro stesse legalità tradite e abbandonate un pò ovunque, usando quindi come arma e strumento principale le carte costitutive dell’Onu e l’infinita serie di trattati generali e bilaterali che vincolano lo Stato tunisino non meno di quello italiano. In particolare, per quanto riguarda lo specifico dramma nostro, il 28 e 29 mattina, solennemente, nella sede del Senato, per iniziativa offertaci con straordinaria ragionevolezza e autorità dal presidente Schifami, con il patrocinio e la partecipazione del Presidente della Repubblica, si terrà un convegno per la grande riforma della giustizia, e (come noi proponiamo) per una grande amnistia trainante un poderoso complesso di misure riformiste, tutte prontissime, convergenti verso lo stesso fine. Anche qualora questa classe politica fosse in grado di assumere una decisione simile, non rischierebbe di apparire un mero atto di clemenza? Ma no. E chiaro che, in questa ottica, l’amnistia costituisce una cosa ben diversa da un atto di clemenza. Sarebbe invece un dato strutturale, tale da trainare tutti gli altri obiettivi convergenti e da tempo elaborati ai fini della decriminalizzazione. Avrebbe la stessa funzione che ebbe l’introduzione del divorzio, quando togliere il vincolo dell’indissolubilità del matrimonio comportò una serie di riforme a cascata. Oggi l’amnistia avrebbe una funzione di coagulo dei vari obiettivi come la depenalizzazione o le misure alternative. E il tutto comporterebbe la soluzione sia del “mostro carcerario” sia del nodo di una giustizia capace di assicurare una reale compattezza tra l’evento e il giudizio. A proposito di divorzio, pensi che la vittoria a sorpresa degli ultimi -referendum restituisca a questo strumento la funzione che aveva un pò perso anche perché inflazionato? Partiamo dall’inizio. Deve essere chiaro che in questo Paese la Costituzione è stata radicalmente tradita già dal decennio successivo alla sua approvazione, e quelli che oggi inalberano continuamente la necessità di difenderla sono nella migliore delle ipotesi i discendenti di coloro che hanno fatto della Repubblica italiana l’erede della monarchia fascista... Il Pci insomma... Con il, suo motto, che è sempre stato Pas d’ennemis à droite. Non era “à gauche”? Ma no! È a destra che non volevano nemici: dovevano andare d’accordo con la Confindustria, col Vaticano, con l’esercito... Innegabile, ma dov’è il nesso con i referendum? Nel fatto che uno dei tradimenti della Costituzione è stata l’impossibilità, per 24 anni, di usare lo strumento referendario. Poi, se possibile, è andata anche peggio perché la Corte costituzionale, anche se per la Costituzione i soli temi su cui non si possono fare referendum sono il fisco e i trattati internazionali, è riuscita a negare per 59 volte legittimità ai nostri quesiti, pur stilati da giuristi ben preparati! Nel ‘99 il referendum sull’abolizione della quota proporzionale non prese il quorum solo perché si erano “dimenticati” di togliere dagli elenchi elettorali i morti. Per ben cinque volte, pur di evitare i referendum radicali, è stata sciolta anticipatamente la legislatura. Ma soprattutto, dopo la vittoria di alcuni referendum’ importanti, come quelli sulla responsabilità civile dei giudici o sul finanziamento pubblico dei partiti, sono state fatte leggi che andavano in direzione opposta a quella indicata dai referendum, con un comportamento rigorosamente anticostituzionale. E per questo, non perché noi lo avevamo inflazionato, che lo strumento referendario sembrava non funzionare più. Insomma, Berlusconi non è stato il primo a fare il possibile per affossare il referendum... Berlusconi, come spesso gli capita, è stato la caricatura di uno che affossa i referendum. Niente a che vedere con l’efficienza di quegli altri, del regime partitocratico al potere da sessanta anni. Secondo te Berlusconi di quel regime non fa parte? Oggi sì. Berlusconi dalla partitocrazia è stato corrotto. Ma negli anni Ottanta noi Radicali, e anche i garantisti o quelli del 7 aprile, abbiamo potuto esprimerci solo grazie alla Fininvest. Anche dopo l’entrata in politica, almeno fino al ‘96, Berlusconi ha pensato davvero di costruire quel Partito liberale di massa di cui parlava. Prima delle elezioni del ‘96 aveva, firmato con noi un accordo in cui dichiarava che il primo atto della nuova legislatura sarebbe stata una procedura d’urgenza per la riforma sia della legge elettorale che del sistema istituzionale. Poi perse le elezioni e perse anche l’entusiasmo. E lo sai cosa fa, notoriamente, uno che perde l’entusiasmo? Va a puttane. A proposito di legge elettorale: nonostante la pessima prova dei sistemi arrivati dal ‘93 in poi tu resti convinto della validità del maggioritario? Nel ‘93 il referendum aveva stabilito che si dovesse passare all’uninominale maggioritario. Invece col mattarellum inserirono un 25% di quota proporzionale che era come un virus mortale. Vedo che adesso vogliono raccogliere le firme per altri due referendum sulla legge elettorale, ma sono entrambi bidoni. Primo, non credo che riusciranno a raccogliere le firme. Secondo, almeno uno dei due, quello di Passigli, verrà certamente bocciato dalla Corte. Terzo e più importante, tutti e due evitano il solo vero salto di qualità politico, storico e culturale che è il maggioritario uninominale, di cui il doppio turno alla francese costituisce una variante. Un’ultima domanda: se la partitocrazia domina da trent’anni e la democrazia è diventata solo un simulacro, su quali elementi di speranza scommette il Partito radicale? Alla fine anche il socialismo reale è caduto, no? Noi siamo la forza di resistenza e a un certo punto il Paese è puntualmente costretto a pronunciarsi sulle questioni poste dai radicali, come oggi sulle carceri o sulla partitocrazia, che noi denunciamo da decenni. Ma una cosa è certa: che la partitocrazia non può illudersi di andare avanti così, scaricando tutto sulle spalle di uno che non è un genio neppure del male come Silvio Berlusconi. Giustizia: oltre 5.000 marocchini in carceri italiane, audizione Console generale in Senato Asca, 23 luglio 2011 La Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani ha continuato l’indagine n materia con un’audizione del Console generale del Regno del Marocco a Torino, Noureddine Radi che ha illustrato l’azione di monitoraggio del governo di Rabat sui connazionali detenuti in penitenziari di altri Paesi. In Italia - ha detto - sono circa 5.000 i marocchini nelle carceri dei quali il 50% in Piemonte e in Lombardia. Ha poi riferito sui suoi connazionali nei Cie osservando che il problema è costituito dalla presenza di persone che hanno commesso reati con quelli trattenuti solo perché privi di permesso di soggiorno. Una convivenza che “è causa di numerosi problemi”. Nella stessa Commissione si è svolta un’audizione di rappresentanti di Amnesty International sulla introduzione del reato di tortura nell’ordinamento italiano. Giustizia: Alfonso Papa in galera come i poveri cristi… in carceri che sono incivili per tutti di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 23 luglio 2011 Davvero strano, “l’argomento Bernardini”: se i poveracci patiscono i dolori di ingiuste carcerazioni preventive, i parlamentari come Alfonso Papa non possono pretendere il privilegio di un’esenzione, e devono essere (mal)trattati come tutti gli altri cittadini. L’argomento usato dalla radicale Rita Bernardini per motivare il suo voto favorevole all’arresto di Papa si è propagato nei commenti e nelle dichiarazioni politiche. Almeno la Bernardini, come tutta la pattuglia radicale, ha le carte in regola per rivendicare una battaglia per carceri più civili e procedure più garantiste. Ma gli altri politici, invece di temere l’ira della folla contro i loro privilegi, non potrebbero spendere una parte del loro prezioso tempo per cancellare lo scandalo della carcerazione preventiva? La logica viene rovesciata, prendendo una forma bizzarra e paradossale. Invece di impedire che i magistrati facciano un uso disinvolto della carcerazione preventiva, invece di mettere in cima all’agenda una riforma seria che faccia cessare lo scandalo di una metà della popolazione carceraria in attesa di giudizio e di un quarto di essa destinata a vedersi assolta alla fine di un interminabile processo, invece di mettere fine a questa plateale e orribile ingiustizia, ci si mette a concionare con fervore demagogico sulla parità di trattamento tra i politici e quelli che l’onorevole Della Vedova ha chiamato i “poveri cristi”. Beninteso, è assolutamente vero che il centrodestra è garantista solo con se stesso, è tragicamente vero che quando si ha a che fare con i “poveri cristi” stritolati da una giustizia mostruosamente ingiusta il centrodestra berlusconiano o fa finta di niente o, peggio, si lascia trascinare dalla retorica forcaiola del law and order. Ma per riparare un’ingiustizia anonima, occorre distribuirla anche nella casta dei privilegiati? Per non lasciar sospetti su trattamenti di favore, si decide di eguagliare tutto al livello più basso di ingiustizia? È qui che la politica si dimostra fallimentare: nel non saper fare le riforme giuste. Giuste perché la condizione delle carceri italiane è troppo incivile. E incivile resta, anche se viene frequentata dall’onorevole Papa, in attesa di giudizio. Lettere: malati in carcere… aspettando il medico di fiducia di Stefano Anastasia Terra, 23 luglio 2011 Il carcere è quello che è. Il servizio sanitario pure. Ciò nonostante abbiamo faticato una decina d’anni per arrivare alla loro integrazione, nel senso che il servizio sanitario nazionale si è preso la responsabilità di assicurare le prestazioni dovute ai detenuti. I risultati ancora non brillano: resistenze, farraginosità, penuria di risorse fanno il loro mestiere … e poi, si tratta pur sempre di detenuti, l’ultimo gruppo sociale nella classifica dei meritevoli di prestazioni pubbliche. Per fortuna, più di trent’anni fa, quando l’assistenza sanitaria era ancora riservata ai medici del Ministero della giustizia, il legislatore pensò bene di lasciare ai detenuti la facoltà di avvalersi di un medico di fiducia. Non che i detenuti abbiano molte possibilità di farsi raggiungere, a proprie spese, dal proprio medico (quando lo abbiano), ma questa possibilità è essenziale perché il diritto alla salute sia adeguatamente disciplinato. Accade però che da qualche tempo in qua i pochi medici di fiducia che vengono chiamati in carcere debbano sottostare a una occhiuta disciplina autorizzatoria che, nei fatti, impedisce loro di rispondere alla richiesta dei pazienti. Da un paio d’anni, infatti, l’Amministrazione penitenziaria ha dato nuove disposizioni alle direzioni degli istituti, subordinando l’autorizzazione all’ingresso in carcere dei medici di fiducia ad accertamenti sulle loro persone e, soprattutto, all’acquisizione di un parere dalla Procura della Repubblica competente. Accade così che la Procura che portò a processo Tizio cinque, dieci, vent’anni fa, oggi - richiesta di un parere se possa essere visitato da un medico di fiducia - semplicemente non risponda o, nel migliore dei casi, risponda dopo uno, due, tre mesi, con buona pace del diritto alla salute e ad avvalersi del medico di fiducia. A monte di questa ulteriore vessazione ai danni dei detenuti è la solita fissazione sulla sicurezza. Imbrogliando le distinzioni operate dalla legge, volte a controllare ed eventualmente limitare il diritto al medico di fiducia solo in caso di imputati in attesa di primo giudizio (per ovvie ragioni cautelari), il competente ufficio ministeriale, infatti, ha bizzarramente deciso che le autorizzazioni alle visite mediche sono necessarie - come al solito - per la “sicurezza interna” e l’ordine pubblico. Sono così pericolosi i medici di fiducia? Può essere così arbitrariamente limitato il diritto alla salute? Può farlo una circolare ministeriale, in barba alla legge? Lettere: sono malato, disperato e non so più a chi rivolgermi La Sicilia, 23 luglio 2011 “Sono malato, disperato e non so più a chi rivolgermi”. Sono le accorate parole di un detenuto del carcere “Cavadonna” di Siracusa, che con una lettera racconta del suo stato di salute e la inutile battaglia condotta giornalmente per avere controlli e terapie. “Ho 38 anni e sono affetto da una seria patologia al fegato - scrive - per la quale necessitano cure adeguate. Da mesi chiedo di essere seguito, ma non ottengo nessuna riscontro. Nessuno si degna di rispondere alle mire sollecitazioni”. Il carcerato continua nel suo sfogo, parlando dell’invivibilità delle strutture penitenziarie anche a causa del sovraffollamento. “Sono ricettacoli di essere umani tanto da sembrare lazzaretti. La gente all’esterno non immagina lontanamente cosa vuol dire stare in carcere con un problema di salute serio e senza l’assistenza sanitaria. Non esistono giustificazioni che possano reggere. Continuano (il riferimento è alle autorità preposte) a scaricare le colpe di questa assurda situazione sul sovraffollamento, ma in realtà sono solo pretesti”. Il detenuto ritiene che in realtà ci sia solo indifferenza verso i problemi della popolazione carceraria. “Un medico, per coscienza anche professionale, deve sentire la necessità di intervenire laddove si riscontra una sofferenza seria. Invece il detenuto è trattato con troppa superficialità, quasi con fastidio”. E quindi un nuovo appello, perché le cose cambino. “Sono seriamente preoccupato per la mia salute. Il mio è un grido disperato”. Lettere: carcere di Viterbo, i politici si diano una svegliata di Giacomo Barelli (Fli Viterbo) www.viterbooggi.eu, 23 luglio 2011 Nonostante le massicce dosi di “caffeina” di questi ultimi giorni la nostra città ed i suoi amministratori comunali e provinciali su alcuni temi riescono comunque a “dormire”. Ed infatti, Viterbo sarà anche una futura città aeroportuale ( chissà….?) , diventerà sicuramente un importante centro turistico - termale ma per il momento tutti questi argomenti, tanto “gettonati” nei dibattiti tra i politici locali, sono solo virtuali. Viterbo, anche se a qualcuno non piace ricordarlo (probabilmente è anche poco chic ….e sicuramente non è politically correct) è, tra l’altro, una città carceraria. L’istituto penitenziaria di Mammaggialla è un carcere di massima sicurezza che può ospitare di norma circa 400 detenuti e che invece ne ospita oltre 700. Nonostante le vicende nazionali legate allo sciopero della fame di Pannella ed altri (vissuto da qualcuno dalle nostre parti più come un fatto di colore che come una battaglia di civiltà, non violenta) e una certa attenzione dedicata ultimamente da un parte della stampa locale alla vicenda, tuttavia la questione carceraria viterbese non sembra interessare né il sindaco Marini né il presidente Meroi, molto più attenti quando invece la parola carcere viene associata a privilegi di casta come nel caso delle autorizzazioni a procedere previste per i parlamentari. Una situazione quella di Mammagialla non diversa da quella di varie carceri italiani con 2 suicidi tra i detenuti ed 1 suicidio di un ispettore di polizia negli ultimi mesi e con un cronico sovraffollamento (oltre 700 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 400 circa) a cui fa da corollario un “normale” sottorganico della Polizia Penitenziaria con contestuale scarsità di educatori e sanitari. A fronte di tutto ciò vi è la situazione apparentemente paradossale ma la prassi per il nostro Paese, di numerosissime persone detenute “in attesa di giudizio” cioè “costituzionalmente presunti innocenti”, una circostanza questa che dovrebbe suscitare almeno un po’ di sdegno tra le file di quegli onorevoli, specialmente del Pdl come ad esempio il sindaco Marini, iper garantisti, seppur “a corrente alternata”. Tutto ciò invece lascia totalmente indifferenti istituzioni ed amministratori locali di Viterbo per i quali i problemi del carcere, quelli dei detenuti e delle loro famiglie che li vengono a trovare, le istanze degli operatori di Polizia Penitenziaria dei sanitari degli educatori ecc., sono questioni di ‘serie B’ di cui occuparsi magari a Natale e Pasqua (forse) e non in prossimità delle vacanze estive, questioni che non portano consenso (I detenuti rappresentano “i cattivi da punire” nell’immaginario collettivo non persone di cui occuparsi) e che riguardano una nicchia di persone in un certo senso anche loro di serie B, se poi aggiungiamo che ai detenuti, nonostante la legge preveda l’istituzione di seggi speciali per gli aventi diritto al voto, molto spesso non viene consentito di votare, risulta chiaro come il tema non possa che occupare l’ultimo posto nei pensieri dei nostri amministratori locali . Tuttavia la nostra classe politica sul tema ha una grande possibilità ed insieme una grande responsabilità attribuitagli dalla legge , quella per la quale i parlamentari, ed ad esempio il nostro sindaco lo è, hanno la possibilità di accedere liberamente alle carceri per quegli atti di “sindacato ispettivo” e controllo tali da poter monitorare la situazione in ogni istituto al fine della applicazione di una corretta politica penitenziaria. Ed è a tal fine che nello scorso congresso del mio partito, Fli, ho richiesto agli onorevoli presenti Buonfiglio e Di Biagio, che hanno accettato in prima persona di buon grado e mettendosi a disposizione, di farsi portavoce anche presso il Gruppo di Fli alla Camera dei deputati affinché si organizzino con la presenza di nostri parlamentari delle visite periodiche al carcere di Mammagialla al fine di raccogliere le voci e le istanze dei detenuti e degli operatori penitenziari e “portarle fuori” in tutte le sedi da quella Comunale a Provinciale fino appunto a quella parlamentare, con interpellanze, interrogazioni ecc. Palermo: nel carcere dell’Ucciardone vietati gli abiti e la biancheria “griffata” di Laura Anello La Stampa, 23 luglio 2011 È stata Rita Barbera, neo direttore del carcere, a preparare il nuovo regolamento interno. Vietati gli abiti firmati. Tramonta l’era dei detenuti in vestaglia di seta. Lontani i tempi del “Grand Hotel Ucciardone”, quando i boss ricevevano amici e picciotti in vestaglia di seta, quando don Masino Buscetta - ancora lontano dal pentimento - indossava l’abito scuro per partecipare al matrimonio della figlia nella cappella del penitenziario tra invitate in pizzi e chiffon, quando la festa di compleanno del mammasantissima Michele Catalano vide un trionfo di aragoste e champagne sui tavoli allestiti in palestra. Adesso nella fortezza borbonica orfana dei grandi boss, ormai rinchiusi nelle carceri di massima sicurezza fuori dalla Sicilia, è tempo di sobrietà. Anche nel modo di vestire. Un regolamento appena emanato dal neo-direttore del carcere, Rita Barbera una tosta che ha rivoltato come un calzino il minorile “Malaspina” prima di sedersi su questa poltrona bollente - vieta ai detenuti di indossare abiti firmati, con tanto di elenco delle griffe proibite: Prada, Gucci, Valentino, Versace, Vuitton, Armani, Adidas, Nike. E poi un “eccetera eccetera” che le guardie penitenziarie hanno interpretato in senso molto restrittivo: l’altro giorno la moglie di un recluso si è vista restituire un paio di jeans con un piccolo logo di Trussardi, un’altra giovane donna tre asciugamani marca “Navigare”. Troppo lussuosi, ha stabilito l’uomo in divisa. Così, nella saletta della “buca”, come i parenti chiamano lo sportello dove si fanno passare i borsoni con gli indumenti e gli alimenti per un massimo consentito di venti chili al mese, è scoppiata una mezza rivolta. “Ma come, lo dovete decidere voi che cosa può mettersi addosso mio marito?”, ha urlato la donna. “I detenuti non possono vivere nel lusso”, ha risposto seccamente la guardia, invitando tutti alla lettura del nuovo regolamento affisso in più copie alle pareti. Foglio in cui si avvisa anche di una futura perquisizione nelle celle per portare via gli indumenti “proibiti” e restituirli alle famiglie. “Mio marito resterà nudo come un verme: ha solo vestiti firmati, non per sfoggio ma perché durano di più, sono di migliore qualità - si lamenta una signora in attesa per il colloquio settimanale perché umiliarli? Perché costringerci a comprare la roba ai mercatini?”. La direttrice spiega che è un segnale: “Questo carcere nell’immaginario collettivo è legato alle vestaglie di seta dei padrini dice - ed è un ricordo da cancellare. In un luogo dove c’è già una sofferenza dovuta alla privazione di libertà, bisogna appiattire il più possibile le disparità di ceto sociale, l’esibizione di status, di potere, di supremazia economica. In carcere la differenza la fa anche una banalità, figuriamoci le griffe e i tessuti preziosi. È vero, ci sono anche i vestiti taroccati, non sarà facile distinguerli. Pazienza, si eviteranno anche quelli, sarà una lezione di civiltà economica”. Troppo forte ancora la memoria di un posto dove in passato succedeva di tutto. La cella dove fu avvelenato con un caffè alla stricnina Gaspare Pisciotta, il cugino traditore di Salvatore Giuliano, adesso è l’ufficio Matricola. I più anziani ricordano il “triangolo artistico” tra il pentito Gaspare Mutolo, il suo maestro Alessandro Bronzini (killer figlio di un maresciallo dei carabinieri) e Luciano Liggio, il superboss che rivendicava come suoi i quadri dipinti da Mutolo, almeno a sentire l’ex braccio destro di Riina. Qui c’è quell’ottava sezione dove si girarono alcune scene del film di Francesco Rosi dedicato proprio al bandito di Montelepre, appena inaugurata dopo più di un decennio di chiusura. L’unica con bagni singoli e condizioni accettabili, in un carcere che vede stipati 700 detenuti a fronte di una capienza di 500. Delle famigerate terza e settima i sindacati di polizia chiedono da tempo la chiusura, puntando il dito contro i muri scrostati, i bagni alla turca, la muffa, gli scarichi che funzionano a singhiozzo. Un carcere dove, racconta Giovanna Gioia, presidente onorario dell’associazione Asvope (associazione volontariato penitenziari), ci sono 250 detenuti che non hanno neanche mutande e calzini. Lei gestisce il guardaroba e lo sa bene. “Tanti extracomunitari, ma anche italiani poveri, senza famiglia - racconta. Compriamo la biancheria intima e le scarpe con quel che riusciamo a raccogliere, ricicliamo pantaloni, maglioni, giacche di seconda mano. Se questo regolamento serve a eliminare lo sfoggio di superiorità economica che in carcere è facilmente recepito dai più deboli, ben venga”. Archiviati i vecchi tempi, insomma. L’Ucciardone adesso è un carcere no-logo. Ragusa: il direttore risponde alle proteste dei detenuti per il caldo e il sovraffollamento La Sicilia, 23 luglio 2011 Carcere superaffollato e i detenuti soffrono il caldo. Il direttore Mortillaro: “Non possiamo dotare le celle di ventilatori, ma abbiamo messo dei frigo per l’acqua fresca”. L’eco delle polemiche suscitato dalle proteste di alcuni detenuti della casa circondariale di Ragusa sembra essere quasi del tutto svanito. Il caldo, quello insopportabile, opprimente per chiunque, quello ancora no. E con esso restano insopportabili le condizioni di chi, per svariate ragioni, si trova a dover trascorrere mesi o anni in carcere. Una privazione della libertà giustificata dalla legge, ma che non per questo deve costituire una privazione della più basilare dignità. Ne parliamo direttamente con il direttore della struttura penitenziaria, Santo Mortillaro, che entra nei dettagli della situazione. “La nostra casa circondariale - spiega - si trova a ospitare un numero di 193 detenuti, tutti maschi. Il momento estivo è di sicuro particolare e critico. Il primo fattore negativo è il clima che va ad incidere sull’umore e sulla qualità di vita dei detenuti”. Ricordiamo che il carcere di Ragusa ha una capienza di 130 persone con una tolleranza massima di 170, una cifra di sicuro superata in questo momento. “Noi - spiega Mortillaro - cerchiamo di fare il possibile con le risorse a nostra disposizione. Di certo possiamo dire che paghiamo una certa carenza di organico che, in ogni caso, può contare su ottime professionalità”. Tanti detenuti, pochi gli operatori. Come uscire da questa difficile situazione? “Lavoriamo molto - specifica il direttore - con diversi interventi rivolti a dare la massima attenzione alle persone, proponiamo loro delle attività che riempiano il temo altrimenti destinato all’ozio. Curiamo molto il momento dei colloqui e sul dialogo in generale per alleviare i momenti di tensione che, se trascurati, potrebbero produrre situazioni molto critiche”. Ricordiamo che è di qualche settimana addietro la polemica per la situazioni non proprio dignitose in cui alcuni detenuti si erano trovati a vivere. “Noi siamo sensibili - risponde Mortillaro - alle esigenze individuali, ma nei limiti del regolamento. Adesso, per esempio, abbiamo messo a disposizione dei detenuti dei frigoriferi per poterli rifornire di acqua fresca nel corso della giornata. Non possiamo, però, dotare le celle di ventilatori”. Le pesanti critiche piovute alla struttura di via Di Vittorio, sembrano dunque dovute al particolare momento estivo. “Ripeto - conferma il nostro interlocutore - l’estate è un momento in cui i detenuti sentono con maggiore vigore il distacco con l’esterno e con l’affetto dei propri cari. Avviene lo stesso in particolari periodi dell’anno come il Natale o la Pasqua. Per quanto è possibile puntiamo a riempire questi momenti con percorsi formativi che possano anche essere utili a chi è recluso. Abbiamo istituito in questi giorni dei corsi di bio danza, un corso musicale, il nostro cappellano è sempre molto disponibile per ascoltare i detenuti; sono in atto progetti di formazione e inserimento lavorativo che stanno arrecano benefici immensi alla struttura ed agli ospiti. C’è, inoltre, a Ragusa una pregevole rete di volontari che, ogni giorno si impegna per ascoltare i detenuti e costituire un ponte tra il mondo interno e quello esterno”. Siracusa: acqua razionata al carcere di Brucoli, erogazione solo per 15 o 20 minuti La Sicilia, 23 luglio 2011 I detenuti della Casa di reclusione di Brucoli continuano a lamentarsi per il razionamento dell’acqua, la cui erogazione avviene in un arco di tempo non superiore ai 15 minuti, in via eccezionale, di 20 minuti, non permettendo a tutti di effettuare la doccia. A farsi interprete delle lamentele dei detenuti è Davide Amenta, che sta espiando una condanna a trent’anni per omicidio, il quale rivela che, tra l’altro, nel momento in cui vengono aperte le docce l’acqua arriva o gelida o caldissima, col rischio di ustionarsi. E mentre sono sotto la doccia, l’assistente continua a invitarli a sciacquarsi per evitare di rimanere insaponati. Oltre al problema dell’acqua, che nessuno è mai riuscito a risolvere, “nella casa di reclusione di Brucoli - fa sapere il detenuto Davide Amenta - c’è quello del sovraffollamento. In celle di pochi metri quadrati devono coabitare anche quattro detenuti. La situazione è destinata ulteriormente ad aggravarsi per gli arrivi di nuovi reclusi che la direzione ha intenzione di distribuire nelle varie sezioni, nonostante siano tutte stracolme”. Altra nota dolente è quella del servizio sanitario. “Il detenuto che intende farsi visitare dal medico - afferma Amenta - deve mettersi in lista d’attesa almeno tre mesi prima. All’esterno si fanno delle battaglie per salvare la vita ai cani, ma in carcere chi pensa alla salute dei detenuti?”, è l’interrogativo del detenuto cui le autorità carcerarie e non solo, tra cui il Magistrato di Sorveglianza, dovrebbero dare una esauriente e convincente risposta. Cagliari: overdose in carcere, detenuto è stato salvato in extremis dagli agenti L’Unione Sarda, 23 luglio 2011 Celle sovraffollate e disperazione. L’unica alternativa sono droghe e farmaci. Giovedì mattina l’ennesimo caso di overdose a Buoncammino. Vedi le foto N on è chiaro se sia stato un tentativo di suicidio o uno sballo troppo forte. Di certo l’overdose che giovedì mattina stava per fulminare un giovane cagliaritano recluso nel carcere di Buoncammino non ha avuto esiti tragici solo per il pronto intervento degli agenti della Polizia penitenziaria che lo hanno immediatamente soccorso. L’istituto di pena è al limite del collasso: sovraffollamento e mancanza di personale rendono la situazione esplosiva. In una cella di pochi metri quadri sono stipate anche dieci persone che per stare in piedi sono costrette a fare i turni tanto è ridotto lo spazio. Avant’ieri mattina un ragazzo di 28 anni, cocainomane e con problemi psichiatrici, in carcere per una violenta aggressione e per motivi di droga, si sente male. I compagni di cella avvisano immediatamente i poliziotti in servizio. Gli agenti mobilitano i medici del centro clinico e il giovane viene trasportato in infermeria. Le cause di quel malore vengono identificate in pochi istanti: overdose di farmaci o droga. Episodi purtroppo frequenti non solo nel carcere cagliaritano. Medici e infermieri tentano di arginare una situazione che diventa più rischiosa minuto dopo minuto. Alla fine la decisione di chiamare il 118 che con un’ambulanza medicalizzata trasferisce il giovane al Pronto soccorso del vicino San Giovanni di Dio. Giusto in tempo. Secondo una prima ricostruzione il giovane detenuto avrebbe ingerito una grande quantità di pastiglie di Seroquel, un medicinale per il trattamento delle psicosi acute e croniche, inclusa la schizofrenia. Farmaci, alcol e droga sono le uniche alternative alla noia mortale dietro le sbarre. Di droga, in particolare, nel carcere cagliaritano ne circola in quantità. Arriva con i mezzi più impensati, soprattutto durante i colloqui. Un fenomeno in diminuzione grazie all’istituzione del Nucleo cinofili di Macomer che con blitz improvvisi rappresenta un ottimo deterrente. Ma non basta. Alcuni mesi fa nel giubbotto di un detenuto quartese gli agenti hanno trovato un panetto da 38 grammi di hascisc e 4 grammi di cocaina. Se gli stupefacenti son un lusso per pochi, diverso è il discorso sui medicinali. Il preferito, soprattutto tra i tossicodipendenti, è il Subutex, un surrogato dell’eroina. Le pastiglie sono difficili da individuare: piccole, inodori e insapori eludono il fiuto dei cani e i controlli della polizia penitenziaria. Firenze: EveryOne; sostegno iniziativa Radicali contro sovraffollamento carceri Img Press, 23 luglio 2011 Il Gruppo EveryOne, organizzazione per i diritti umani, sostiene convintamente l’iniziativa che domani, sabato 23 luglio 2011, l’Associazione per l’iniziativa radicale fiorentina “Andrea Tamburi” metterà in piedi a Firenze, in piazza Beccaria, a partire dalle 10,30, per rivendicare i diritti dei detenuti nelle carceri italiane e chiedere un provvedimento di amnistia. “Il nostro Gruppo” spiegano i co-presidenti di EveryOne Roberto Malini, Matteo Pegoraro e Dario Picciau, “è attivo da molti anni per la salvaguardia dei diritti di tutti, anche di coloro che - molti dei quali purtroppo anche ingiustamente - stanno scontando una pena in un istituto di reclusione. Dall’inizio del 2011 in Italia si sono verificati nelle carceri 68 decessi ufficiali, che in realtà sono molti di più, poiché l’Amministrazione Penitenziaria non considera come avvenute in carcere le morti verificatesi negli ospedali dove vengono trasferiti i detenuti in gravi condizioni. È palese” proseguono gli attivisti, “che nelle 208 strutture di detenzione italiane, dove sono attualmente accolti circa 67.600 prigionieri, contro una capienza massima di 45.543 posti, è in atto una violazione dei diritti fondamentali della persona: una simile condizione di sovraffollamento fa sì che si verifichino ogni giorno stupri ai danni spesso dei detenuti più giovani, aggressioni violente, prevaricazioni, intimidazioni e veri e propri episodi di persecuzione fisica e psicologica. Per questo motivo sosteniamo con forza” concludono Malini, Pegoraro e Picciau, iniziative di rivendicazione pubblica come quella messa in piedi dai radicali fiorentini, che mirano a sensibilizzare l’opinione pubblica su una tematica fondamentale in un Paese che si definisce democratico e civile e a richiedere con urgenza al Governo e al Parlamento l’adozione di misure risolutive in linea con le Carte internazionali per i Diritti Umani”. Secondo un recente studio condotto dal Gruppo EveryOne, negli ultimi vent’anni, più di mille detenuti si sono suicidati e almeno 20mila hanno tentato di togliersi la vita; vale a dire il 2% dei detenuti, una percentuale che non ha uguali non solo nel mondo democratico, ma anche nei regimi integralisti. Reggio Calabria: Ionta a commemorazione Paolo Quattrone, intitolata via in comune nel reggino Ansa, 23 luglio 2011 A Reggio Calabria e Laureana di Borrello si sono svolte due distinte cerimonie per ricordare la figura di Paolo Quattrone, il provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria della Calabria che si è suicidato l’anno scorso. A Reggio Calabria è stata celebrata una messa alla quale ha partecipato il direttore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Franco Ionta. “Sono qui - ha detto Ionta a margine della messa - per ricordare l’opera del provveditore Quattrone che ha speso sette anni della sua vita per migliorare le condizioni dei detenuti e per far lavorare meglio il personale di polizia penitenziaria in Calabria. Oggi ho incontrato la vedova di Quattrone e credo che sia giusto ripetere ciò che ci siamo raccontati. Quando fu deciso il suo ritorno in Calabria, Quattrone non esitò a lasciare il suo incarico per affrontare invece una realtà molto più difficile sul piano personale, familiare e professionale”. In Calabria Quattrone ha realizzato numerose iniziative tra cui la struttura di custodia attenuata a Laureana di Borrello, nel reggino. ‘Le realizzazioni che si devono a Quattrone - ha aggiunto Ionta - sono una ricchezza dell’amministrazione penitenziaria. Laureana di Borrello è sicuramente uno dei centri di eccellenza del sistema carcerario. Riuscire ad avere una detenzione migliore, attenuata, e con possibilità di lavoro, significa offrire concrete occasioni alle persone per un giusto reinserimento nella società”. Ed a Laureana di Borrello, il viale che conduce all’istituto a custodia attenuta è stato intitolato a Quattrone. “Un servitore dello Stato - ha detto il sindaco Domenico Ceravolo - che è stato capace di umanizzare le case di detenzione”. Alla cerimonia hanno partecipato numerosi agenti della polizia penitenziaria, la dirigente del Dap di Roma, Maria Luigia Culla, l’attuale provveditore dell’amministrazione penitenziaria della Calabria, Orazio Faramo, l’assessore alla cultura e legalità della provincia di Reggio Calabria, Eduardo Lamberti Castronuovo ed la direttrice del carcere di Laureana Angela Marcello. Al termine della cerimonia, alla vedova di Quattrone, Guglielma Puntillo, ed alla figlia Valentina, è stata consegnato una targa in legno realizzata dai detenuti dell’istituto. Trasporto detenuti processi, Ionta incontra Pignatone Il direttore del Dipartimento di Polizia penitenziaria Franco Ionta ed il procuratore capo della Repubblica di Reggio Calabria Giuseppe Pignatone hanno avuto un colloquio. Secondo alcune fonti si è trattato di un colloquio “finalizzato ad un efficace servizio di trasporto dei detenuti in atto giudicati dai tribunali di Reggio Calabria”. Una decina di giorni fa alcuni pregiudicati in regime di detenzione nel carcere di Vibo Valentia, coinvolti nell’operazione “Metà, non avevano potuto raggiungere il Tribunale di Reggio Calabria a causa della indisponibilità di alcuni mezzi di trasporto. Franco Ionta in serata parteciperà ad una messa in suffragio di Paolo Quattrone, direttore regionale delle carceri in Calabria, suicidatosi il 23 luglio dello scorso anno”. “Ho incontrato il procuratore di Reggio Calabria, Giuseppe Pignatone, che mi ha naturalmente assicurato la collaborazione dell’autorità giudiziaria ed altrettanto ho fatto io, perché credo che i grandi processi siano dei grandi successi per lo Stato a patto che questi si celebrino e non si rinviino”. Lo ha detto il direttore del Dipartimento di Polizia penitenziaria Franco Ionta, a margine dell’incontro con il Procuratore di Reggio Calabria, Giuseppe Pignatone. “Questo comporta - ha aggiunto - per noi un grande lavoro di organizzazione per evitare che possano saltare udienze e che possano dilazionarsi i tempi dell’accertamento delle responsabilità”. “La mia presenza in Calabria - ha proseguito Ionta - è anche dovuta ad accrescere la collaborazione tra le forze di polizia, autorità giudiziaria e sistema penitenziario, perché le operazioni di polizia si devono trasformare in processi ed in sentenze, ed in giuste condanne alle persone che lo meritano. Per fare questo occorre che tutte le strutture dello Stato si muovano all’unisono per evitare che l’attacco della criminalità organizzata possa prevalere sulle strutture dello Stato. E la risposta che viene dalla Calabria è sicuramente positiva”. Verona: la denuncia degli Avvocati contro Alfano inviata al Tribunale dei ministri Ansa, 23 luglio 2011 Il procuratore capo di Verona Mario Giulio Schinaia ha indirizzato oggi al tribunale dei ministri presso il tribunale di Venezia, per competenza specifica, la denuncia che due avvocati veronesi, Guariente Guarienti e Fabio Porta, avevano inoltrata il 18 luglio contro il ministro della Giustizia Angiolino Alfano per maltrattamenti ai danni di detenuti. Lo ha confermato oggi l’avvocato Guarienti ricordando che il collegio dovrà essere composto da tre magistrati sorteggiati tra quelli del collegio del distretto che avranno facoltà di svolgere indagini. I professionisti scaligeri si sono attivati in particolare per cercare soluzioni al sovraffollamento del carcere veronese di Montorio ‘che avrebbe dovuto - dice Guarienti - ospitare 251 detenuti ma ne ospita invece mediamente 850 nelle sezioni maschili e 70-80 nella sezione femminile. In uno spazio di circa 12 metri quadrati vivono quattro persone, costrette in una gabbia ed alternarsi, due in piedi e due a letto, perché quattro non possono stare in piedi contemporaneamente; ognuno ha tre metri quadri a disposizione”. Rossano Calabro (Cs): dopo incontro con il Prefetto, agenti sospendono proteste Ansa, 23 luglio 2011 È stato sospeso lo sciopero della fame iniziato ieri dagli agenti di polizia penitenziaria in servizio nel carcere di Rossano ed è cessata ogni forma di protesta messa in atto per denunciare le carenze dell’Istituto di pena. Lo hanno annunciato il segretario generale aggiunto del Sappe, Giovanni Battista Durante, il segretario regionale, Damiano Bellucci, ed il delegato regionale presso il carcere di Rossano, Nicola Agazio. Il personale della polizia penitenziaria da una settimana stava rinunciando anche al diritto ai pasti della mensa dell’istituto e si era autorecluso nel carcere non rientrando a casa a fine turno. La decisione di sospendere ogni forma di protesta, mantenendo comunque lo stato di agitazione, è giunta dopo l’incontro con il prefetto di Cosenza, Raffaele Cannizzaro, a cui hanno partecipato il direttore del carcere Giuseppe Carrà e Nicola Agazio. Il Prefetto ha garantito che visiterà il carcere a settembre prossimo per verificare i disagi degli agenti e ha fatto sapere che ha già inviato due lettere al capo di Gabinetto del Ministero della Giustizia. “La carenza del personale di polizia penitenziaria in Calabria ed in particolare a Rossano - ha detto Durante - è ormai un problema che rischia di portare al collasso le strutture carcerarie e se a questo si aggiunge la carenza di risorse economiche si arriverà a dover chiudere molti Istituti di pena. Qui a Rossano sono rimasti solo 60 mila euro per l’acquisto dei viveri ed i detenuti sono 1.200, questo fa pensare che entro la fine dell’estate non si riuscirà più a garantire neppure un pasto al giorno”. Dal canto suo Bellucci ha rimarcato la situazione del personale femminile di Polizia che “a Rossano conta solo due unità, insufficienti a garantire il servizio”. Roma: al policlinico “Gemelli” trapiantato il fegato a un detenuto di Poggioreale, già dimesso Ansa, 23 luglio 2011 È stato dimesso ed è in buone condizioni il detenuto del carcere di Poggioreale sottoposto a trapianto di fegato presso il policlinico Gemelli di Roma, dove era stato trasferito d’urgenza nei giorni scorsi. Operato nella notte tra l’8 e il 9 luglio dal professor Salvatore Agnes, il paziente era seguito da tempo dall’epatologo Gian Lodovico Rapaccini ed era in lista d’attesa presso il Centro Trapianti del Gemelli. L’intervento chirurgico, secondo quanto si è appreso, si è svolto senza complicazioni e con buona ripresa della funzione epatica dell’organo trapiantato. L’uomo, detenuto dal primo luglio a Poggioreale - aveva reso noto la settimana scorsa il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) - era affetto da una grave patologia e in attesa di trapianto. Quando il Centro Trapianti del Gemelli ha comunicato la disponibilità di un fegato compatibile, il detenuto è stato trasferito dal nucleo traduzioni e piantonamento di Napoli Secondigliano che, allertato dall’Ispettore di Sorveglianza di Poggioreale ha, nel giro di poche ore, consentito di sottoporre l’uomo al delicato intervento. Pisa: accordo tra Provincia e Uepe su lavoro e tirocini per i detenuti Il Tirreno, 23 luglio 2011 Favorire, attraverso lo svolgimento di tirocini, l’inserimento lavorativo e lo sviluppo delle competenze professionali di persone che stanno scontando condanne detentive al di fuori del carcere. Questo l’obiettivo dell’accordo siglato dalla Provincia - attraverso il Servizio sociale e occupazione - con la sede locale dell’Uepe-Ufficio esecuzione penale esterna. L’intesa prosegue una collaborazione in atto dal 2007, con il Protocollo Primula: sottoscritto anche da azienda Usl 5 e Sds-Società della salute, il documento prevedeva di promuovere fin da allora percorsi di cittadinanza, sempre per i soggetti che sono al centro anche del nuovo progetto di sostegno. Lungo la strada imboccata quattro anni fa, si è poi arrivati, nell’ambito del programma “Colmare le distanze”, ad attivare, nel 2009, un gruppo di 10 tirocini di 5 mesi, finanziati da Provincia e Sds. Si è insomma costruita una rete che ha consolidato rapporti istituzionali, stabilendo strumenti e modalità di lavoro condivisi. Così nel 2010 ancora la Provincia ha provveduto a stanziare nuovi fondi, che hanno portato all’avvio in tempi rapidi di 7 tirocini da 6 mesi in media; e oggi, la sigla dell’accordo che è un’ulteriore tappa di questo percorso e che prelude alla partenza di altri tirocini. “Un settore in cui si sta investendo con ottimi risultati - spiega l’assessore provinciale al lavoro Anna Romei insieme a Carolina Esposito e Rossella Giazzi dell’Uepe - è soprattutto quello dell’agricoltura sociale, che permette di intervenire con più efficacia sulla ristrutturazione dello stile di vita e sul cambiamento dei paradigmi valoriali delle persone che hanno commesso reati”. Nel loro caso, l’esperienza del tirocinio ha una doppia valenza: da un lato legata al reinserimento occupazionale, dall’altro alla possibilità di realizzare una reale inclusione sociale, con il sostegno del sistema dei servizi pubblici, al pari di tutti gli altri cittadini”. Massa: l’ex direttore penitenziario finito in cella; solo e tra gli scarafaggi… ecco il mio carcere Il Tirreno, 23 luglio 2011 È uno strano gioco delle parti, quasi una dantesca legge del contrappasso: l’uomo che ha diretto il carcere, che ha aperto le porte perché la società entrasse in quell’universo “blindato”, si ritrova dietro le sbarre. In un carcere però - ci tiene a dirlo Salvatore Iodice - “ben diverso da quello che volevo io e che vorrebbe ogni cittadino garantista”. È a processo per aver pilotato - questa la tesi dell’accusa - alcune gare per la realizzazione di lavori proprio all’interno del carcere che ha diretto. Ma lui del processo non vuole parlare “per rispetto nei confronti dei giudici”. Qualcosa, però, se lo lascia sfuggire: “Non mi sento una vittima, ho strumenti giuridici per difendermi e, nonostante quanto ho patito, continuo ad aver fiducia nella giustizia, da quando è iniziato il processo ho certezza di avere a che fare con giudici sereni, equilibrati e attenti”. Si sente “come un uomo che ha preso tanti cazzotti” Salvatore Iodice e racconta il “suo” carcere, quello conosciuto sulla “sua” pelle: “Sono stato arrestato e portato a Prato (luglio 2010 ndr), ho vissuto in isolamento, in un ambiente angusto e malsano”. In piena estate sotto il suo letto - si concede qualche confidenza - crescono i muschi. Per lui non esiste privacy: “Ero guardato a vista 24 ore su 24, senza alcuna possibilità di socialità”. Solo ad un mese dalla scarcerazione (a novembre) si unisce ad altri detenuti: “Alcuni carcerati hanno sottoscritto una petizione perché potessi essere trasferito nella loro sezione. Mi era rimasta la loro pietà e la professionalità e sensibilità della psichiatra e dello psicologo”. Per Iodice il dolore più grande è quello dell’assenza: “Per 20 giorni non ho potuto ricevere lettere, ho chiamato a casa dopo 30”. A “fargli compagnia” ci sono “tantissimi scarafaggi e insetti di ogni tipo”. E ora “se nessuno mi darà una spiegazione - e arriva la frase più forte - sarò portato a credere che la carcerazione sia stata usata come fosse strumento di tortura. Ho subito - rafforza- una carcerazione umiliante e degradante, chi toglie la libertà ad una persona ha l’obbligo morale di garantirgli i diritti minimi. Ogni pm, con esperienza, sa che in quelle condizioni si dice il vero o il falso pur di uscire dalla disperazione”. Adesso cerca “di rialzarsi”, ma qualche piccola soddisfazione Iodice se la vuole togliere: “Mentre gli inquirenti acquistavano visibilità, io ero alla gogna”. E se adesso riguarda indietro cosa non farebbe?: “Il direttore al carcere di Massa, è un ambiente troppo difficile”. Tolmezzo: dodici detenuti ridipingono i muri della Casa circondariale Messaggero Veneto, 23 luglio 2011 Si è concluso con successo il corso per operatore edile - pittore decoratore di Enaip rivolto ai detenuti del carcere di Tolmezzo. Alla Casa circondariale di Tolmezzo ha dunque riscosso consensi il corso di 600 ore, finanziato dal Fondo sociale europeo, che ha coinvolto dodici detenuti in lavori di tinteggiatura, nella decorazione di muri interni e in tre pitture murali che abbelliscono e rendono più accogliente l’Istituto. Acquisire competenze professionali consente ai detenuti, una volta scontata la pena, di aumentare le possibilità di un loro reinserimento sociale e produttivo oltre a costituire, durante il periodo della detenzione, un momento educativo ad una quotidianità “normale”, basata sul lavoro, e migliorativo del personale equilibrio emotivo. Il progetto nasce dalla fattiva collaborazione tra la Direzione del carcere e l’Enaip Friuli Venezia Giulia. La direttrice della casa circondariale dottoressa Silvia Della Branca ha rimarcato l’importanza delle attività didattiche per la rieducazione dei carcerati, ed espresso la volontà di ulteriori collaborazioni future. La direttrice dei centri Enaip di Udine e Tolmezzo, Antonella Vanden Heuvel, ha da parte sua evidenziato, durante la presentazione dei murali, la professionalità dei suoi collaboratori, che da diversi anni con competenza, passione e sensibilità - ha detto - realizzano progetti finalizzati alla formazione di detenuti e di altre categorie appartenenti a fasce svantaggiate. Immigrazione: viaggio nell’inferno del Cie di Bologna, tra paure e proteste di Lorenza Pleuteri La Repubblica, 23 luglio 2011 Visita della deputata Sandra Zampa e della giurista Alessandra Ballerini, dopo gli incendi e la proroga del trattenimento fino a 18 mesi. “E poi si chiedono perché diano fuoco ai materassi. È il solo modo che hanno per provare a farsi ascoltare, per sfogare la rabbia e la paura, per chiedere libertà e dignità”. La giurista Alessandra Ballerini e la parlamentare Pd Sandra Zampa escono dal Cie di via Mattei con la faccia e le parole di chi ha visto “una situazione raccapricciante” e di “follia” del sistema. “Il termine accoglienza non si può usare - sottolinea l’onorevole - perché le persone chiuse all’interno sono trattate come detenute”. Come in carcere, peggio che in carcere. Chi finisce in galera sa perché e sa quando uscirà. Qui ci sono stranieri diventati clandestini perché hanno perso il permesso di soggiorno dopo il licenziamento e anni a sgobbare duro. Ci sono incensurati. Ci sono ragazze nigeriane rastrellate per strada, terrorizzate dall’idea di tornare da dove sono partite, con il debito con le maman ancora da pagare e i riti vudu che fanno paura. Gli uomini sono 47 (32 dei quali richiedenti asilo), le donne 32 (14 richiedenti asilo). Vengono da ogni parte di mondo. Alcuni “dormono su materassini appoggiati su blocchi di cemento”. I meno fortunati, dopo le azioni di protesta e gli spazi diventati inagibili, “stanno anche in 10-12 per stanza, praticamente a terra”. Per tutti il futuro è una incognita o la perdita di un anno e mezzo di vita vera, dopo la proroga a 18 mesi del periodo massimo di trattenimento. “Una pura vendetta contro gli immigrati e atto contrario sia alla cultura sia alle direttive Ue - incalza Zampa - È un’inciviltà tenere rinchiuse per 18 mesi delle persone che scappano dalla fame” e dalle guerre e dalle torture. “C’è una ragazza tunisina con il volto segnato dalle cicatrici e dalle tumefazioni - racconta sconvolta Alessandra Ballerini - L’avevo già incontrata a Lampedusa, qualche settimana fa. Anziché metterla in un centro per richiedenti asilo, come si sarebbe dovuto fare, è stata portata qui. Significa che la rimpatrieranno coattivamente, nonostante i rischi che potrebbe correre tornando in Patria. Nemmeno le ragazze nigeriane dovrebbe stare qui. Sono vittime delle tratta, andrebbero protette e tutelate”. Una parte degli ospiti è arrivata qui dal carcere tradizionale, in attesa dell’espulsione prevista come misura di sicurezza a fine pene: “Il motivo addotto è che devono essere compiutamente identificati. Non si può non chiedere perché non lo abbiamo fatto prima, mentre erano detenuti. Li hanno arrestati e imprigionati senza sapere chi fossero? Possibile? L’essere rinchiusi qui è una condanna in più, senza senso, senza spiegazione. Sembra invece una forma di vendetta portare dentro chi è stato scarcerato dopo la demolizione della Bossi-Fini relativamente alle ripetute inottemperanze agli ordini di espulsione”. Basterebbe la privazione totale della libertà a far sballare chiunque. “In più le condizioni igienico sanitarie sono pessime. I servizi igienici sono in uno stato inimmaginabile da fuori, da chi pensa di vivere in un paese civile. Anche quella del Cie - è l’affondo della giurista reduce dalla visita - è tortura. E poi si chiedono perché queste persone brucino i materassi”.