Giustizia: la nobiltà di Pannella in sciopero della fame e la mitezza legionaria di Gasparri di Luigi Manconi Il Foglio, 20 luglio 2011 1. Sul Foglio del 15 luglio Luigi Amicone e Lorenzo Strik Lievers invitano questo quotidiano a condurre - come sa fare magnificamente quando proprio ci tiene - una efficace mobilitazione a favore di una politica di riforma del sistema penitenziario italiano. Una simile iniziativa è drammaticamente urgente e indifferibile e mi auguro che il Foglio presti ascolto. Intanto, va notato come l’azione di Marco Pannella abbia già conseguito qualche risultato. Penso che ciò si debba, in primo luogo, proprio al repertorio d’azione scelto: e, specificatamente, allo sciopero della fame. Questo ha già ottenuto un’ampia risposta all’interno delle carceri. E comprensibilmente: il carcere è forse il luogo dove il corpo assume un senso più potente e ineludibile. Di conseguenza, lo sciopero della fame - la rinuncia a nutrire il proprio organismo - “dà corpo” a una domanda incontenibile di giustizia: e questo, forse più di qualunque altro messaggio, può incontrare la sensibilità della popolazione detenuta. Il corpo di Pannella che dimagrisce e si disidrata, che si debilita e, allo stesso tempo, diventa cavernoso (non più solo la voce, ma quella sua grande cassa toracica); e, poi, l’illanguidirsi dell’organismo che pure conserva una sua ferrigna secchezza, quell’allungarsi di dita, capelli, ciglia e sopracciglia e quel diventare tutto più aguzzo e, dunque, intrattabile e tuttavia accogliente in quanto inerme e disarmato: ecco, tutto ciò costituisce una realtà tangibile e palpitante, che il detenuto e il suo corpo ristretto conoscono bene. Pannella, e quanti intraprendono lo sciopero della fame, dicono: mettiamo in gioco ciò che abbiamo. E, per molti, ciò che abbiamo è l’unica cosa che abbiamo: la nuda vita e l’organismo fisico che la custodisce. È il messaggio più intellegibile e ragionevole per chi si trovi prigioniero. L’ironia dei satolli e dei soddisfatti, dei bennati e dei ben pasciuti sui cappuccini di Pannella e sulla sua “dieta intermittente”, mai la potreste udire all’interno di una cella. Lì sanno bene cosa voglia dire disporre solo ed esclusivamente del proprio corpo (e altrettanto ritiene Pannella “dopo sessanta anni di non-democrazia”). Sino a qualche anno fa, infatti, la principale forma di comunicazione in carcere era quella espressa nell’atto del “tagliarsi”: ferirsi su tutto il corpo, cucirsi le labbra e i genitali, ingoiare oggetti. Il corpo come solo mezzo di comunicazione, carta su cui scrivere (ferite e tatuaggi), strumento per lanciare messaggi. Il proprio sangue come inchiostro di un linguaggio irreparabilmente cruento. Lo sciopero della fame in carcere ha comportato spesso la morte (e non solo per Bobby Sands): per questo il corpo smagrito e quel torace cavo di Pannella pesano tanto nella sensibilità dei detenuti italiani. È la stessa ragione per cui pesano così poco nella percezione del ceto politico italiano. (Penso che vi sia un sottilissimo filo che accomuna i corpi ristretti dei detenuti ai corpi prigionieri del coma e dello stato vegetativo. Ma nessuno sembra volerlo cogliere, a parte Alessandro Bergonzoni). 2. Il senatore del Pdl, Maurizio Gasparri, intervistato dal Secolo d’Italia (16 luglio) a proposito delle critiche della Corte europea per i diritti dell’uomo di Strasburgo sull’applicazione del 41 bis, si è espresso come segue: “Astruserie di persone prive di buon senso (...). Quella relazione della Corte è carta da camino, materiale di scarto, buono per accendere il fuoco. Questi signori discettano di diritti in maniera astratta. Noi li ignoreremo, il nostro disprezzo sarà totale (...). E con quella relazione ci puliremo le scarpe. Usano gli stessi argomenti degli avvocati di Totò Riina”. Così, pacatamente, Maurizio Gasparri. Va notato che il giornalista del Secolo, che ha trascritto fedelmente le risposte del senatore, ha omesso di riportare l’ambientazione (la location, direbbe Deborah Bergamini). Entratone furtivamente in possesso, sono in grado di riprodurre l’atmosfera e le sonorità, registrate tramite un telefono cellulare. Il luogo è quello che una volta era un baretto, poi una paninoteca, oggi un pub. Il nome è rimasto sempre lo stesso: “All’allegro legionario”, e si trova lì, da qualche parte nei pressi di Tomba di Nerone. L’intervista a Gasparri si svolge in un clima di virile e ribaldo cameratismo: sullo sfondo il canto di “ma che ce frega ma che ce ‘mporta” si intreccia a quello di, “e nei suoi occhi un raggio d’infinito / s’accese pien d’audacia e balenò”. Mentre l’intervista prosegue, si sentono i suoni inconfondibili di rutti tonitruanti e di quella che sembra essere indubitabilmente una gara di scorregge. Dopo uno ssst che produce un provvisorio silenzio, irrompe il fragore dì una “pagnottella” (rumore liquido che si ottiene ponendo la mano sotto l’ascella e sbattendovi forte il braccio). Poi l’euforia si placa, ma quando Gasparri afferma che con le critiche di Strasburgo “ci puliremo le scarpe”, si sente nitidamente un: sì, spacchiamogli il culo a quei finocchi della Corte. Qui mi fermo, ma la registrazione integrale è a disposizione di un eventuale giurì d’onore (auspicabilmente formato da Giuseppe Ciarrapico, Martufello e Er Canaro). Giustizia: Marco Pannella sospende sciopero della fame con Rita Bernardini e Irene Testa Notizie Radicali, 20 luglio 2011 Marco Pannella è intervenuto durante la trasmissione di Riccardo Arena, Radiocarcere, in onda nella serata di martedì 19 luglio, annunciando la sospensione del suo sciopero della fame e invitando anche gli altri aderenti a tale iniziativa nonviolenta a sospendere lo sciopero. “Dobbiamo essere speranza, non solo averla e onorare ogni segno positivo, ogni millimetro di cammino nella direzione giusta invece che continuare in questa rovina verso il basso che sembra trainarci tutti con la sola forza della gravità. - ha esordito Pannella - Allora onoriamo questa occasione, onoriamo il fatto che il nostro Presidente della Repubblica con una espressione pubblica, abbia avuto la bontà, e la generosità di riconoscere la nostra storia di difesa dei diritti civili e del diritto e onoriamo che il Presidente del Senato Schifani abbia avuto la ragionevolezza di adoperarsi a favore di questo convegno [...] facendone noi tutti tesoro”. Dopo un ringraziamento generale a tutti coloro che condividono le ragioni di questa battaglia per il diritto ha annunciato i termini della sospensione: “Annuncio che da questa sera fino al primo agosto, ovvero fino ai risultati di quel convegno, onoreremo questo segno positivo con una sospensione dello sciopero della fame e della sete.” Ha voluto infine puntualizzare: “Badate bene: sospensione, non interruzione, tanto lo sciopero della fame quanto quello della sete, perché continueremo e riprenderemo le nostre iniziative non violente.” Lo sciopero di Pannella si protraeva dal 20 aprile scorso. Anche Rita Bernardini, deputata radicale, e Irene Testa, segretaria dell’associazione “il detenuto ignoto” hanno accolto l’invito di Marco Pannella, sospendendo insieme il loro sciopero che durava ormai da oltre 40 giorni. L’annuncio è stato diffuso attraverso la bacheca Facebook della Bernardini che ha scritto: “Ieri sera io ed Irene abbiamo sospeso lo sciopero della fame cenando assieme:) Ora cerchiamo di fare tesoro con Marco Pannella (anche Marcone ha sospeso) di questo convegno del Senato alla presenza del Presidente Napolitano”. Giustizia: Ferri (Magis. Ind.); riflettere su protesta Pannella, si apra confronto costruttivo Adnkronos, 20 luglio 2011 La protesta del leader radicale Marco Pannella contro il sovraffollamento delle carceri italiane “deve far riflettere tutti gli operatori del sistema affinché si arrivi presto a una riforma incisiva e che garantisca la certezza del diritto, del principio dell’esecuzione della pena, e che al contempo non diminuisca le garanzie di sicurezza dei cittadini”. Lo scrive in una nota Cosimo Ferri, segretario di Magistratura Indipendente, che invita a guardare all’incontro organizzato da Pannella al Senato il 28 e 29 luglio, alla presenza del Presidente della Repubblica, come alla “ripresa per un confronto costruttivo e propositivo a cui la Magistratura Associata deve guardare con grande attenzione”. “È necessario affrontare il problema con pragmatismo - osserva Ferri - occorre lavorare sulla tempistica, sulla riforma del processo penale, sulla qualità della risposta, sulla necessità di diversificare i tipi di strutture tra chi è in attesa di giudizio e chi invece deve scontare pene a seguito di condanne passate in giudicato. Va rivisto il sistema delle pene. In questa prospettiva, la magistratura associata, pur nella diversa sensibilità delle sue articolazioni associative, sta dando e deve ancora offrire il suo importante contributo di impegno sul piano delle idee e delle azioni positive”. “L’attuale sistema penitenziario non garantisce, purtroppo, condizioni di vita in linea con i principi di umanità e dignità della persona - sottolinea il segretario di magistratura Indipendente - e mancano le risorse economiche, strutturali e umane per rendere il sistema carcerario adeguato e finalizzato all’attuazione del processo rieducativo del condannato e al suo graduale reinserimento nella società, come esige una concezione moderna della pena e come stabilito dalla nostra Carta Costituzionale”. Giustizia: tortura e diritti umani, in arrivo l’Authority di Eleonora Martini Il Manifesto, 20 luglio 2011 Che cos’è la tortura? “Gli arresti arbitrati nel carcere provvisorio di Bolzaneto con maltrattamenti e minacce di stupro e di morte, gli schiaffi, i pugni, la privazione di cibo, acqua e sonno, le posizioni forzate per tempi prolungati. Il raid nella notte tra il 21 e il 22 luglio 2001 alla scuola Diaz. Le aggressioni indiscriminate verso manifestanti pacifici e giornalisti. Cos’altro sono?”. Per Amnesty International, che ieri è stata sentita dalla Commissione di tutela dei diritti umani del Senato sullo stato di salute della nostra democrazia, sono “una macchia intollerabile nella storia italiana dei diritti umani”. Una vergogna che ancora attende, a dieci anni dal G8 di Genova, “un’assunzione di responsabilità e le pubbliche scuse alle vittime e a tutti gli italiani”. Nel nostro codice penale il reato di tortura non è mai stato inserito perché governi di destra e di sinistra hanno sempre sostenuto, senza tema del ridicolo, che da noi “non serve”. Ma secondo la definizione della Convenzione Onu ratificata dall’Italia nel 1988 ma mai attuata, è l’atto commesso da persona agente da pubblico ufficiale per “infliggere intenzionalmente” ad un’altra persona “dolore o sofferenze forti, fisiche e mentali”, al fine di ottenere informazioni o confessioni, di punirla, di intimorirla o di far pressione su di lei o su terzi, o “per qualsiasi altro motivo fondato su forme di discriminazione”. Il reato di tortura non si prescrive. E invece, ha spiegato in conferenza stampa al Senato Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia, “le sentenze di appello sulle violenze alla Diaz e a Bolzaneto emanate nel 2010 e le decisioni emerse in altri procedimenti riconoscono responsabilità di agenti e funzionari delle forze dell’ordine per violenze fisiche e psicologiche, calunnie, falso. Ciononostante, il riconoscimento giudiziario degli abusi non è stato accompagnato da sanzioni penali che ne riflettessero la gravità, a causa della mancanza del reato di tortura e della prescrizioni dei reati minori, conducendo così in molti casi all’impunità”. Nel frattempo, poi, come fa notare Lorenzo Guadagnucci, una delle vittime della Diaz, “nessuno dei condannati è stato sospeso dal servizio, al contrario di quanto impartito dalle direttive europee. Anzi, sono stati confermati e spesso promossi. Un messaggio terribile. Ed è incredibile anche il diniego all’introduzione di strumenti utili soprattutto alle stesse forze dell’ordine per operare in trasparenza e fare pulizia al proprio interno, come ad esempio un codice alfanumerico sulla divisa degli agenti”. E in effetti dall’uccisione di Carlo Giuliani in poi, “la ferita alla garanzia costituzionale e alla credibilità delle istituzioni si è trasformata in piaga e rischia di propagare l’infezione a tutto l’organismo dello Stato” come dimostrano, aggiunge Giusy D’Alconzo, ricercatrice di Amnesty international, “l’omicidio colposo di Federico Aldrovandi, quello volontario di Gabriele Sandri, le morti di Aldo Bian-zino, Giuseppe Uva e Stefano Cucchi mentre si trovavano in stato di custodia. C’è un vulnus legislativo e culturale ma una polizia moderna si gioverebbe moltissimo di un approccio più avanzato di quello corporativo fin qui dimostrato”. L’unico spiraglio di speranza arriva dal ddl in via d’approvazione al Senato che istituisce un’Authority indipendente per i diritti umani facente anche funzione di garante nazionale per i detenuti e di una bicamerale che sostituisca le attuali due commissioni parlamentari. “Un atto dovuto, dopo 20 anni dalla delibera Onu”, spiega il senatore Pietro Marcenaro, presidente della Commissione, che aveva presentato un primo ddl. Quello che stamattina otterrà l’ok del Senato, prima di passare alla Camera, è invece firmato dal ministro Fratoni e prevede una commissione di tre membri nominati secondo i “principi internazionali di Parigi”. È già qualcosa. Nel frattempo Amnesty, unendosi al Comitato Verità e giustizia per Genova che ha scritto una lettera al presidente della Repubblica, fa appello a Giorgio Napolitano affinché colga quest’”ulti-ma occasione per rimediare a un’omissione che ha menomato la credibilità delle istituzioni democratiche”. Porgendo le scuse alle vittime degli abusi di polizia e a rutti gli italiani. Giustizia; l’avvocato si trasformi in Sherlock Holmes, gli errori giudiziari diminuirebbero di Valentina Marsella Il Secolo d’Italia, 20 luglio 2011 Non c’è alcun ramo delle scienze investigative così poco praticato, eppure tanto importante, qual è l’arte d’interpretare le orme”, diceva Sherlock Holmes, il detective dei detective. Il primo 007 che ha reso popolare la criminologia, l’applicazione del metodo scientifico alle investigazioni criminali. Un modello che gli avvocati di oggi, nella fase delle indagini difensive, dovrebbero seguire per evitare l’errore giudiziario. Parola di Eraldo Stefani, avvocato e docente di Diritto e Scienze delle Indagini difensive nel master in Scienze forensi all’Università “La Sapienza” di Roma. Antesignano di un nuovo modello di avvocato-007, che si muove con dinamismo nelle maglie delle indagini difensive non limitandosi a guardare ma osservando con attenzione, che cerca le sue prove parallelamente al pm, Stefani ha dato vita a un sito internet dedicato all’errore giudiziario, dove fornisce la sua ricetta per evitarlo. Avvocati e magistrati, in un nuovo contraddittorio investigativo e probatorio, devono indagare ognuno nella ricerca della propria verità processuale, ma accomunati dallo stesso patrimonio di valori, dallo stesso bagaglio culturale e deontologico. Cosa che oggi appare sempre più una rarità. —¦ Avvocato Stefani, per evitare l’errore giudiziario, “occorre - come dice sul suo sito - che magistrati e avvocati abbiano lo stesso senso dello Stato e lo stesso patrimonio etico”. È perché spesso nelle indagini non c’è coesione ma guerra tra le due categorie? Sono fermamente convinto che la giustizia abbia bisogno sia di avvocati che di toghe che abbiano una comune cultura della legalità, un comune senso dello Stato e senso etico. Insomma una comune deontologia. Non a caso, i magistrati hanno un proprio codice che si sono dati per guardare a questo aspetto fondamentale, e noi avvocati una nostra deontologia. E dalla crisi della giustizia si esce solo per via etica. Quello che accade quotidianamente non sembra essere in linea con quello che dico: avvocato e magistrato devono avere un rapporto non solo di reciproco rispetto, ma di condivisione del potere nello svolgimento delle indagini preliminari. Ognuno svolge la sua indagine, ma serve un nuovo contraddittorio investigativo e probatorio in quella fase, pro-dromica a quella processuale. Da qui nasce la mia idea che la terzietà del giudice diviene sicura quando deve valutare entrambi i contributi. Altrimenti l’unico interlocutore investigativo resta il pm. Da 22 anni l’avvocato ha questo strumento a disposizione, può fare le sue indagini e cercare le proprie prove. Ma spesso non lo fa, avvicinandosi così allo “spettro” dell’errore giudiziario, che si annida quasi sempre nella fase iniziale delle indagini. Un virus che finisce per portare a una sentenza ingiusta, con un innocente in carcere o un colpevole fuori. —¦ Lo slogan del suo sito “è errore giudiziario condannare un innocente, è errore giudiziario assolvere un colpevole”... Dobbiamo garantire al cittadino il diritto di difesa, non solo attendendo le prove del pm. Ma dobbiamo tener conto del fatto che per un avvocato un colpevole che resta nella società e un innocente condannato è sempre un fatto negativo, due situazioni che vanno equiparate. Non può esserci distanza tra pm e avvocato, nel rispetto delle reciproche funzioni. E una buona investigazione non è solo quella che individua elementi probatori per dimostrare l’innocenza di una persona, ma anche quella che conduce all’individuazione del responsabile, per fugare ogni dubbio sull’assoluzione. —¦ Quanto è importante avvalersi degli “007” per cercare la verità, e dunque per riconoscere l’innocenza di qualcuno? La collaborazione di 007 autorizzati è utilissima. L’avvocato deve fere ricorso all’investigatore perché a lui compete l’individuazione della fonte di prova. Un esempio su tutti sono gli 007 della Federpol, che ha fatto percorsi di formazione importantissimi negli anni; io ne sono consulente giuridico e socio onorario. Da antesignano delle indagini difensive in Italia, nei primi anni Novanta ho lavorato alla pubblicazione di un volume sull’investigazione privata nella pratica penale, per arrivare al 2005, al Codice dell’indagine difensiva penale, di ben 1300 pagine e unico in Italia. Ora arriva la seconda pubblicazione, un codice di 1500 pagine, disponibile da settembre. Inoltre, voglio evidenziare che l’avvocato di oggi deve essere un professionista dinamico, che non sta dietro una scrivania in attesa che il magistrato agisca. —¦ Le è mai capitato di scoprire, in una vicenda giudiziaria, chi era il vero colpevole, scagionando totalmente chi era stato accusato ingiustamente? Sì, capitò nei primi anni Novanta. Avevo investigato con uno 007: in questo caso non solo sono riuscito a fare scagionare la persona accusata ingiustamente, ma ho scovato il vero responsabile. La storia ruota attorno allo spaccio di stupefacenti: protagoniste due donne, che si somigliano come una goccia d’acqua. Si arriva a dibattimento, dove cito a testimoniare la persona che ritenevo responsabile; la donna si rende conto che l’ambiente le è familiare, forse troppo, così nelle udienze successive si astiene dal tornare. Chiedo così il suo accompagnamento coattivo e la contro-esamino. Come sono riuscito a inchiodarla? La donna accusata ingiustamente viene indicata come una persona che frequenta la città di notte, insomma del mondo della prostituzione; e infatti, la responsabile appartiene proprio a quell’ambiente. La vera colpevole si sta per sposare: l’investigatore vede le pubblicazioni in comune, si reca al matrimonio come finto invitato, e le scatta varie foto. La colpevole ha una somiglianza impressionante con l’innocente. È una sosia, e in tribunale la verità viene fuori, come in una Csi dal vivo, come avviene nelle finzioni cinematografiche. —¦ Lei ha scritto: “Il non ammettere l’errore giudiziario significa tradire due volte lo Stato: una prima volta perché in nome suo si è sbagliato e una seconda volta perché non è stato insegnato agli altri operatori, che potrebbero essere più prudenti per non incorrere nell’errore”. Cosa si può fare, a livello normativo? Credo che il fulcro della questione stia nella responsabilità civile del magistrato, che non può esserci solo per colpa grave. Perché quando si ha a che fare con la vita delle persone, bisogna essere molto accorti nel prendere delle decisioni. Lo Stato, e quindi il magistrato, se sbaglia, può fare un passo indietro. Ma è raro che abbia mai visto fare un passo indietro da parte di un pm. Dunque credo che sarebbe necessaria una modifica della norma sulla responsabilità civile delle toghe: tutti rispondiamo per colpa, e il pm non dovrebbe esserne esonerato. —¦ Quanto è importante trasmettere il recupero dei valori di cui ha parlato, per una riscoperta della deontologia professionale e dell’etica, dando così risposta alla domanda di giustizia del cittadino, sia esso indagato, imputato o vittima? È fondamentale riuscire a dare una formazione adeguata alle nuove generazioni, portare in università un insegnamento che sia comune ai futuri avvocati, come ai futuri magistrati, sulla cultura della legalità. Per prepararsi allo stesso modo, per ritrovarsi in quegli stessi valori come patrimonio intellettuale. L’avvocato di oggi ha un potere enorme di indagare, proprio come il pm, ma non lo fa. Attraverso l’università si potrebbe aprire ai giovani questa finestra sul mondo giudiziario. Toscana: Alessandro Margara nominato Garante regionale dei diritti dei detenuti Agenparl, 20 luglio 2011 Con 37 voti, Alessandro Margara è stato nominato Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale Firenze - Alessandro Margara è stato nominato, dall’aula, al primo turno, con 37 voti Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. Il voto si è svolto secondo le modalità di nomina del Garante, previste dalla legge regionale 5/2008 che richiede la maggioranza semplice. Su 45 votanti, 5 sono state le schede bianche e 3 quelle nulle. Lo comunica l’Ufficio Stampa Consiglio Regionale della Toscana. Allocca: finalmente colmato un grave vuoto “Finalmente la Toscana è riuscita a colmare un vuoto che durava ormai da quasi due anni, vale a dire dall’approvazione della legge 69 che istituisce questa figura. In una situazione al limite del collasso, come quella degli istituti di pena toscani, è un passo avanti concreto”. Esprime soddisfazione l’assessore al welfare Salvatore Allocca per la nomina, avvenuta stamattina in Consiglio regionale, del garante regionale dei detenuti. Nomina attribuita ad Alessandro Margara, ex magistrato, ex direttore generale del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e attuale presidente della Fondazione Michelucci. “La situazione di disagio che quotidianamente vivono detenuti e operatori – ha aggiunto Allocca – meritava di mettere fine a questa attesa. La nomina del garante non può certamente risolvere da sola tutti i problemi che, specie in alcune realtà, sono davvero enormi, ma la riconosciuta autorevolezza di Margara potra’ dare un importante contributo per affrontarli con determinazione ed efficacia”. Il garante regionale dei detenuti, in Toscana, è previsto per la prima volta nella legge regionale 64 del 2005 che regola la ‘Tutela del diritto alla salute dei detenuti e degli internati negli istituti penitenziari ubicati in Toscana’. L’istituzione, con l’indicazione di finalità, funzioni e modalità di nomina, avviene però soltanto quattro anni dopo, a fine 2009, con l’approvazione in aula della legge 69. I compiti principali sono quelli di un’autorità terza, tra le istituzioni carcerarie ed i detenuti, che collabora al miglioramento delle condizioni di detenzione e contribuisce al reinserimento. Si occupa di tutti i detenuti presenti in Toscana negli istituti penitenziari, penali per minori e negli ospedali psichiatrici giudiziari oltre alle persone ospitate nei centri di identificazione ed espulsione e dei soggetti presenti nelle strutture dedicate al trattamento sanitario obbligatorio. Svolge il proprio ruolo per assicurare alcuni diritti fondamentali: salute, miglioramento della qualità della vita, istruzione e formazione professionale, prestazioni finalizzate al recupero rieducativo ed al reinserimento nel mondo del lavoro una volta scontata la pena. Emilia Romagna: sovraffollamento supera il 182%; il 44% attende la sentenza definitiva Adnkronos, 20 luglio 2011 Nelle carceri dell’Emilia Romagna l’indice medio del sovraffollamento raggiunge il 182,66%, contro la media nazionale del 150,95%. Il dato, che pone la regione al secondo posto nella lista nera nazionale, è emerso dall’analisi della Relazione sulla situazione penitenziaria in Emilia Romagna nel 2010 redatta dalla giunta regionale e discussa oggi dalle commissioni Politiche sociali e Statuto, riunite in seduta congiunta. Il problema registra, inoltra, picchi superiori al 200% a Piacenza, Bologna, Reggio, Modena e Ravenna. La capienza regolamentare prevista per un totale di 2.394 persone si scontra in Emilia Romagna con la realtà delle 4.373 presenze registrate nel 2010, il 52,4% delle quali è rappresentato da stranieri (ben al di sopra della media nazionale pari al 36,7%). Ma la percentuale degli stranieri in alcuni casi, come Modena, Reggio Emilia, Rimini, Bologna e Parma supera il 60%. Per quanto riguarda la posizione giuridica dei carcerati, dalla relazione emerge che il 44,36% non ha una sentenza definitiva e tra questi il 44,5% è in attesa del primo giudizio. Tra questi ultimi il 62,15% è costituito da stranieri. I detenuti che hanno potuto usufruire di misure alternative in Emilia Romagna sono stati 1.047, un dato che va progressivamente crescendo rispetto agli anni precedenti. i lavori della commissione erano presenti gli assessori alle Politiche sociali, Teresa Marzocchi, e alla Salute, Carlo Lusenti. Con loro anche il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Nello Cesari. Sul piano delle politiche sociali, Marzocchi ha ricordato che, pur nella ristrettezza delle risorse disponibili, sono state messi in campo progetti a sostegno agli sportelli informativi per i detenuti, misure per favorire reinserimento sociale attraverso il lavoro e il miglioramento delle condizioni di vita. In quest’ambito si collocano il protocollo per il teatro in carcere e il progetto “Cittadini sempre”. Quanto ai tirocini formativi e professionalizzanti che si realizzano sia in carcere che fuori, nel 2010 erano previsti percorsi per 261 partecipanti, al 30 aprile 2011 risultavano effettivamente iscritte 151 persone, tutti uomini. Sul fronte delle strutture, invece, è prevista la costruzione di nuovi padiglioni detentivi costruiti negli istituti penitenziari di Bologna, Ferrara, Parma e Reggio Emilia per un totale di 1.000 posti. “Per questi posti - ha precisato Marzocchi - abbiamo concordato che servano solo per diminuire il sovraffollamento favorendo la detenzione di persone del territorio in modo da facilitare l’accoglienza e il successivo reinserimento”. In materia sanitaria, invece, nel 2010 i fondi ripartiti tra le diverse Ausl per assistere i detenuti ammontano a circa 16 milioni. Tuttavia, a fronte di un finanziamento statale storico di 10 milioni di euro la Regione, ha ricordato Lusenti, “ha in parte faticosamente surrogato al grave sottofinanziamento” con risorse regionali per ulteriori 6 milioni. Il tutto senza dimenticare la difficile situazione in cui versa l’ospedale psichiatrico giudiziario (Opg) a Reggio Emilia, uno dei 6 esistenti a livello nazionale e per il quale è previsto un graduale superamento. La struttura reggiana, rispetto agli altri 5 Opg italiani, registra però il più elevato tasso di sovraffollamento (217,7%) e ha il maggior numero di detenuti stranieri (53 su un totale di 286). “Dati che rilevano - ha sottolineato l’assessore - un’assoluta inadeguatezza a svolgere funzioni terapeutiche e riabilitati dovute agli internati”. Sul caso la Regione ha avviato un monitoraggio per consentire la programmazioni di azioni per la dismissione della struttura e un tavolo di confronto con le altre Regioni, in particolare con la Lombardia. Lazio: Cisl; stato di agitazione della Polizia penitenziaria Redattore Sociale, 20 luglio 2011 La Fns-Cisl del Lazio “ha indetto lo stato di agitazione e chiesto interventi presso i vari uffici del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, programmando una manifestazione regionale collegata anche alle varie criticità che accomunano, purtroppo, tutti gli istituti penitenziari e i servizi vari della Regione Lazio”. Lo si legge in una nota. “I motivi - spiega il comunicato - sono soprattutto la carenza di personale di Polizia Penitenziaria, esistente in ogni realtà, superiore alle 1.000 unità che incidono fortemente nella gestione della sorveglianza interna ad ogni livello territoriale che è arrivata ad oltre 6.500 detenuti, maggiorata del 35% rispetto ad una capienza tollerabile di 4.500 - a livello regionale - posti e servizi di traduzioni e piantonamenti espletati sotto scorta: 800 detenuti reclusi, 300 in più rispetto ai posti disponibili (497), questi i numeri che testimoniano la difficile situazione che si vive nelle carceri di Frosinone e di Cassino; 726 i detenuti reclusi a Viterbo a fronte di soli 444 posti disponibili; 3.644 i detenuti reclusi nei cinque istituti della Capitale (Regina Coeli, Rebibbia Nuovo complesso, Rebibbia Penale, Rebibbia III casa e Rebibbia Femminile) a fronte di una capienza regolamentare di soli 2.600 posti. A Rebibbia Penale sono reclusi 389 detenuti contro una capienza di 370 posti. Rebibbia Femminile è, a livello nazionale, l’istituto con maggior numero di detenute: attualmente a Roma ce ne sono 376, oltre 100 in più rispetto alla capienza regolamentare di 274. A Regina Coeli, sono reclusi 1.141 detenuti a fronte di 724 posti. Gli istituti penitenziari con il più alto indice di affollamento risultano essere il Nuovo complesso casa circondariale di Civitavecchia (69%), seguita da Cassino (65,7%) e Frosinone (60,3%)”. “I lavoratori della sicurezza penitenziaria lamentano, inoltre, il forte taglio delle risorse per il lavoro straordinario, per le missioni e la manutenzione - conclude la nota. Per cui è evidente quanto drammatica sia la situazione”. San Gimignano (Si): la regione scrive ad Alfano “situazione di estrema gravità” In Toscana, 20 luglio 2011 Regione Toscana, provincia di Siena e comune di San Gimignano hanno inviato una lettera al ministero della Giustizia affinché si metta fine alla “pesante situazione di sovraffollamento e sicurezza del carcere”. Un altro appello lanciato al ministero della Giustizia e ai vertici dell’amministrazione penitenziaria, nazionale e regionale, per trovare una soluzione in tempi rapidi alla “situazione di estrema gravità” della Casa di reclusione di San Gimignano. La lettera, firmata congiuntamente dall’assessore regionale toscano al welfare Salvatore Allocca, dal presidente della provincia di Siena Simone Bezzini e dal sindaco di San Gimignano Giacomo Bassi, è stata inviata pochi giorni fa al ministro Angelo Alfano, al capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Franco Ionta, al direttore generale del personale del Dap Riccardo Turrini Vita e al provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Maria Pia Giuffrida. Regione, provincia di Siena e comune di San Gimignano, si legge nella missiva, rivolgono “un pressante appello affinché venga messa fine alla pesante situazione in atto nella Casa di reclusione, nella quale una serie di fattori negativi stanno pregiudicando gravemente la sicurezza della struttura ed in particolare degli operatori e dei reclusi, così come confermato dai recenti episodi di violenza”. Viene sottolineato, a tal proposito, l’elevato indice di sovraffollamento della struttura (nella lettera si parla di oltre l’80%; dati recentemente diffusi dalla Uil-Pa Penitenziari pongono San Gimignano al secondo posto in Toscana con l’82,6%, dietro soltanto a Sollicciano, che tocca il 94,6%) e la carenza di personale, meno 40% rispetto alla pianta organica prevista (sempre secondo i dati Uil-Pa Penitenziari, a livello regionale, a fronte di una dotazione organica di 3.021 unità ve ne sono in servizio 2.409, venendo così a mancare 673 persone destinate ai servizi d’istituto). “Questo stato di cose - prosegue l’appello - nonostante lo straordinario impegno di tutti gli operatori, dalla Direzione fino a ciascun agente, rende la struttura di difficilissima gestione, con conseguente abbassamento del livello di sicurezza per gli operatori stessi, della qualità del servizio per gli agenti e per i detenuti e con lo sviluppo di un sentimento di preoccupazione diffusa che coinvolge anche i cittadini del territorio che da sempre vivono con grande partecipazione le vicende della Casa di reclusione”. Regione, provincia e comune proseguono indicando i problemi arretrati che si sono accumulati nel tempo, anche per la mancanza di continuità gestionale dovuta al fatto che per oltre 5 anni la sede stabile della direzione o è stata vacante o è stata occupata transitoriamente. A tutto questo si aggiungono poi “i problemi strutturali, quali ad esempio le difficoltà di erogazione dell’acqua potabile e l’assenza di collegamento tramite trasporto pubblico da e verso i centri abitati della Valdelsa senese, che potranno trovare soluzione solo con un consistente intervento economico dell’amministrazione penitenziaria a fianco degli stanziamenti che il settore degli enti locali ha già dichiarato di voler destinare”. La lettera si conclude con la speranza che “l’appello non rimanga inascoltato e che vengano prese tutte quelle misure volte a ripristinare un clima di serenità, soprattutto riportando rapidamente la dotazione di personale in linea con quanto previsto dalla pianta organica”. Rossano (Cs): carcere è vicino al collasso, agenti pronti allo sciopero della fame Dire, 20 luglio 2011 Carenza di personale nell’organico della locale polizia penitenziaria e troppi detenuti rispetto al numero di persone che la struttura carceraria può ospitare. Questi i problemi più gravi che il carcere di Rossano deve risolvere al più presto. È quanto emerge dalla denuncia inviata al ministro della Giustizia, Angelino Alfano, da parte del Coordinamento sindacale unitario di polizia penitenziaria. In particolare, in maniera reiterata più volte dai primi di luglio, i firmatari il documento indirizzato al Guardasigilli - Giulia Buongiorno, Rita Bernardini, Antonio Di Pietro, e a Franco Ionta, Capo dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, rileva che il carcere calabrese è prossimo al collasso: il numero di guardie penitenziarie è al di sotto dei parametri legali rispetto al numero dei detenuti che affollano la struttura carceraria e le condizioni in termini di sicurezza sono allarmanti. Inoltre, le condizioni igienico-sanitarie della casa circondariale destano grave preoccupazione anche perché la struttura già dalla prossima settimana sarà in carenza di oggetti fondamentali per la pulizia personale. Il pericolo costante a cui gli agenti di polizia penitenziaria sono sottoposti si è manifestato particolarmente qualche giorno fa quando, all’interno del penitenziario, un detenuto straniero per protesta ha sradicato dal muro e dal pavimento i pezzi sanitari in dotazione alla cella, frantumandoli in più parti per lanciarli verso il personale, ferendo 5 agenti che sono finiti al pronto soccorso. Una condizione di emergenza che trova analogie con la condizione nazionale delle strutture carcerarie, e che a Rossano è ormai al limite al punto che buona parte della polizia penitenziaria, in attesa del peggio, si è autoconsegnata, termine che indica il fatto che coloro che hanno fatto questa scelta restano in carcere giorno e notte per vigilare e da giorni non rientrano a casa. E dire che proprio il carcere di Rossano nel 2003 era stato indicato dal Provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, Paolo Quattrone, come una struttura pilota con il compito di riabilitare il detenuto che, al termine di un percorso, scandito dal progetto “Ricostruirsi creando”, avrebbe usufruito della semilibertà per recarsi al lavoro. Per richiamare l’attenzione delle istituzioni su questa grave situazione, gli agenti di polizia penitenziaria sono in procinto di attuare uno sciopero della fame. Cagliari: nasce Gagli-Off, progetto per l’inclusione sociale dei detenuti L’Unione Sarda, 20 luglio 2011 In rete per dare un’opportunità lavorativa a soggetti detenuti e ridurre il rischio di recidiva. L’individuazione dell’inserimento occupazionale più adatto in base al profilo criminologico della persona: coinvolti 56 detenuti di Cagliari e Iglesias. Al via in questi giorni la seconda parte del progetto, dedicata a donne vittime di violenza, in collaborazione con alcune associazioni. Ed un’intesa con uno spin off dell’Università di Kent, per verificare come in Gran Bretagna lavorano sullo stesso campo. Realizzare attività finalizzate all’inserimento lavorativo e all’inclusione sociale dei detenuti degli istituti di pena di Cagliari e Iglesias con la sperimentazione di una nuova metodologia operativa: è l’ambizioso obiettivo del progetto “Gagli-OFF”, presentato questa mattina nei locali del Polo umanistico di Sa Duchessa da Cristina Cabras, professore associato di Psicologia giuridica, e dagli altri partner dell’iniziativa. Gagli-Off può infatti contare su una vasta e competente rete: dal Dipartimento di Psicologia dell’Università di Cagliari al Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria, alla società S.O.S. (Servizi all’Occupazione e allo Sviluppo), alla cooperativa sociale Kore e ad Ipogea, partner per la formazione. Ma al progetto collaborano anche il Tribunale di Sorveglianza e la Provincia di Cagliari per l’inserimento sociale dei detenuti. Uno dei punti innovativi è poi il percorso - parallelo a quello studiato e realizzato sugli autori dei reati - che si prende cura delle vittime: in questo caso, sono coinvolte tre associazioni che si occupano di sostenere le donne vittime di violenza (Donna Ceteris, Donne al Traguardo e il Centro di Accoglienza San Vincenzo). Insomma, una task force che punta ad individuare, attraverso attività di jail coaching e orientamento, il profilo specifico di ogni detenuto e individuare per lui il lavoro più adatto in relazione al quadro criminologico che gli esperti del Dipartimento hanno delineato. “La nostra attività - ha spiegato la prof.ssa Cabras (nella foto a destra) - mira ad identificare gli elementi critici di taglio criminologico che consentano di ipotizzare il rischio di recidiva. Dal punto di vista della metodologia, gli incontri realizzati con i detenuti mirano a valutare elementi valoriali, capacità di autocontrollo e competenze nella comunicazione del sé. Il nostro obiettivo principale è l’assunzione di responsabilità da parte della persona: per questo il Dipartimento prosegue nel monitoraggio, affiancato dai tutor di intermediazione sociale”. La fase di inserimento lavorativo sarà infatti supportata da tutor appositamente formati e specializzati. L’azione ha preso il via nell’ottobre dello scorso anno. I detenuti partecipanti (in totale 56, età media 40 anni) sono stati individuati dal Provveditorato e dagli operatori penitenziari in base al reato commesso (reati predatori e omicidio a Cagliari e violenza sessuale a Iglesias). Prevista l’attivazione di borse-lavoro per l’inserimento lavorativo. Gianfranco De Gesu, da un mese esatto Provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, ha invece sottolineato “l’impegno delle istituzioni a fare rete, in una regione ricca di iniziative come questa: vogliamo continuare la collaborazione con l’Università. Anche il confronto su questi argomenti con altre realtà europee è fondamentale”. Il riferimento è all’attività transnazionale prevista, con un partner inglese, la EISS (European Institute of Sociale Services), una società spin off dell’Università di Kent, che negli ultimi anni ha sperimentato processi di inclusione sociale per detenuti in Gran Bretagna. Presente all’incontro anche Giampaolo Cassitta, direttore dell’Ufficio Detenuti e Trattamento del Prap: “Gagli-OFF - ha commentato - può diventare un modello, anche per quanto previsto a favore delle vittime dei reati. Fondamentale la collaborazione con i due istituti di pena: è un’altra piccola scommessa che parte dalla Sardegna”. Il progetto vede coinvolte alcune realtà imprenditoriali sarde nelle quali i detenuti potranno effettuare tirocini ed esperienze lavorative, nell’ambito del percorso detentivo, sempre previo consenso del Tribunale di Sorveglianza. “È determinante - ha detto il presidente del Tribunale, Francesco Sette - l’individuazione di un’attività lavorativa che incida sulle difficoltà comportamentali della persona. Si deve avere il coraggio di rispondere alla violenza del reato non con la violenza della detenzione fine a se stessa, ma con l’offerta di un’opportunità che serva da stimolo anche al condannato per reati gravissimi come questi. In questo modo il tempo della detenzione viene usato per migliorare la persona e restituirla alla persona”. Brescia: consegnati al carcere 200 materassi, grazie alle donazioni di cittadini e onlus www.quibrescia.it, 20 luglio 2011 Sono stati consegnati mercoledì mattina al carcere bresciano di Canton Mombello i circa 200 materassi in sostituzione dei vecchi giacigli in gomma piuma (non a norma di legge) in dotazione ai detenuti. Grazie alle donazioni di privati cittadini, associazioni ed onlus, e al contributo offerto dal comune di Brescia, nelle scorse settimane sono stati raccolti circa 7.500 euro. Somma che ha permesso al garante per i diritti dei detenuti, Emilio Quaranta, e all’associazione “Carcere e territorio” di acquistare i materassi il cui numero è pari a quello della effettiva (sulla carta) capienza della casa circondariale di Brescia. In realtà, sebbene il carcere sia sovraffollato, è stato spiegato dal garante, che un acquisto superiore equivarrebbe ad avallare la situazione esistente, disumana e non più sostenibile, nella quale si trovano a vivere i detenuti a Canton Mombello, dove il sovraffollamento è pari al 152%. Bologna: magazziniere in semilibertà… com’è difficile per un detenuto farsi assumere Redattore Sociale, 20 luglio 2011 La riabilitazione dal carcere è sempre più difficile. Lo dice Maurizio, detenuto alla Dozza, a causa di “difficoltà burocratiche e dell’egoismo individuale di molti detenuti”. Lui un lavoro l’ha trovato, grazie a un corso di formazione e a una cooperativa “Prima di entrare in carcere non avevo mai lavorato, ma avevo una certa esperienza nell’associazionismo”. Purtroppo quella di Maurizio (il nome è di fantasia) non era una onlus ma un’associazione a delinquere, e questo dettaglio non piacque ai magistrati, che lo condannarono a 20 anni per diversi reati. L’esperienza lavorativa di Maurizio, 45 anni, bolognese, comincia attorno al 1999. Nel carcere della Dozza Altercoop, cooperativa sociale sorta nel 1985 proprio per il reinserimento sociale di detenuti, organizza vari corsi di formazione rivolti ai prigionieri del carcere. “Il corso era diviso in due tranche di 6 mesi l’una, la prima coinvolgeva 40 persone e la seconda 20. C’erano possibilità di impiego all’interno della cooperativa dopo il corso, e io fui scelto per il periodo di prova” racconta. Tra il corso e il primo periodo di prova, però, trascorsero 6 mesi. “Sono stato fortunato o forse fu merito della ditta - spiega Maurizio. Tanti altri si sarebbero rivolti a un’agenzia interinale invece di aspettare”. Il periodo di prova fu di 6 mesi, a cui ne seguì un altro di 3, entrambi finanziati da una borsa lavoro del Comune di Bologna. “La borsa garantisce i datori di lavoro - spiega Maurizio - loro si impegnano a dare formazione, e se lo giudicano opportuno anche impiego, a persone di categorie svantaggiate come i detenuti, ma in cambio è il Comune che paga la retribuzione per il periodo di prova. Una volta determinata l’affidabilità del lavoratore, la ditta stipula con lui un normale contratto di lavoro”. Maurizio era già dentro da 15 anni nel 2004 quando smise di essere formalmente un detenuto: da lavorante esterno ex articolo 21 dell’ordinamento penitenziario il suo status passò a quello di semilibero, regolato dall’articolo 48 e seguenti dell’ordinamento penitenziario. Una volta terminato il periodo di prova Maurizio fu assunto a tempo indeterminato e oggi lavora come magazziniere per Altercoop. “Ho svolto vari lavori qui - dice - la cooperativa si occupa di diversi settori e io con lei ho saputo adattarmi a diverse mansioni. Avevo iniziato come data entry al tempo dei corsi, poi sono stato addetto informatico e adesso magazziniere”. La giornata di Maurizio però si conclude tutte le sere allo stesso modo, tornando a dormire in carcere: “Passo la notte in una camerata da 3 persone, in un reparto dedicato a chi come me lavora all’esterno, detenuto lavorante o semilibero. Un tempo eravamo 80, ora siamo meno di 30, quindi un calo sensibile c’è stato di sicuro”. Come mai questo calo? “Secondo me la responsabilità è in parte di una politica di ristrettezza da parte dei magistrati di sorveglianza, e in parte della direzione”. E le aziende? “Io ho avuto la fortuna di avere una cooperativa che mi ha aspettato 6 mesi dopo la richiesta - afferma - non credo che siano molte le realtà disposte a fare altrettanto. Forse è anche per questo che le domande calano: se un datore di lavoro ha bisogno in un determinato momento, non può dover aspettare mesi per coprire la posizione richiesta”. Ma come fa un detenuto per lavorare all’esterno? “Le occasioni arrivano dentro il carcere sotto forma di corsi: alcuni servono solo a dare certe capacità ai detenuti, altre volte mirano a un vero e proprio inserimento lavorativo e quindi in questo senso danno possibilità anche oltre il loro termine - racconta ancora Maurizio - Un altro modo è la ricerca diretta: chi esce in un permesso premio spesso usa quel tempo per cercare un impiego”. E queste ricerche vanno a buon fine? “Ci sono datori di lavoro che quando apprendono che sei detenuto non ne vogliono sapere perché non si fidano, ma anche tanti che accettano la tua posizione e decidono di metterti alla prova - afferma. Seguono l’iter richiesto, e fanno domanda al carcere”. Un’altra forma poi è il passaparola, ma il tam-tam tra i detenuti negli ultimi anni si è molto indebolito. “Una ventina d’anni fa c’era più unità alla Dozza, le informazioni viaggiavano più facilmente e di una possibilità lavorativa potevano trarre vantaggio molte più persone - conclude -. Ora c’è un clima peggiore, e più egoismo. Molti si tengono strette le occasioni che hanno perché i gruppi che si formano, su base etnica ma non solo, tendono a separare le persone”. Velletri (Rm): pestato in carcere per aver denunciato agenti, ora rischia l’espulsione di Eleonora Martini Il Manifesto, 20 luglio 2011 Alla sbarra cinque agenti di custodia di Velletri per abusi contro Ismail Ltaief, detenuto tunisino che aveva denunciato sistematici furti di cibo destinati ai reclusi. Se il reato di tortura fosse contemplato nel codice penale italiano, forse sarebbe comparso nell’imputazione a carico dei cinque agenti di custodia del carcere di Velletri accusati a vario titolo di “brutali violenze fisiche e psicologiche” su un detenuto tunisino, Ismail Ltaief, che aveva tentato di denunciare una ruberia di carichi di cibo destinati ai carcerati. Il caso di Ltaief - criminale incallito di 45 anni, gli ultimi trenta passati in Italia ma quasi sempre in prigione, e oggi libero ma clandestino, disoccupato e senza fissa dimora - è uno di quei casi emersi grazie al monitoraggio continuo del sistema carcerario da parte dei Radicali italiani e che, secondo la deputata Rita Bernardini e la segretaria dell’associazione “Detenuto Ignoto” Irene Testa (entrambe in sciopero della fame dal 6 giugno scorso), “ha rischiato di diventare un secondo caso Cucchi”. I cinque poliziotti penitenziari, attualmente sospesi dal servizio e sottoposti a diverse misure restrittive, sono invece imputati nel processo che si è aperto il 14 luglio scorso per lesioni gravi e intralcio alla giustizia (l’ispettore Roberto Pagani e gli assistenti Giampiero Cresce e Carmine Fieramosca), e di violenza privata (gli assistenti Antonio Pirolozzi e Mauro Bussoletti). Reati che, a differenza della tortura, possono sempre cadere in prescrizione e per i quali comunque in concreto non rischiano più di tre anni di pena. Ma gli inquirenti di Velletri coordinati dal procuratore capo, Silverio Piro, starebbero lavorando anche ad un’altra indagine - secondo quanto riferisce il difensore di Ltaief, l’avvocato Alessandro Gerardi - che coinvolgerebbe “non solo il corpo degli agenti di custodia ma anche i vertici amministrativi, riguardo un’ipotesi di reato più grave, quella di peculato”. All’epoca dei fatti, fino al maggio 2010, Ismail Ltaief, “che lavorava nelle cucine del carcere di Velletri, si è accorto - racconta Gerardi - di un sistema che andava avanti da tanto tempo: alcuni agenti sottraevano ingenti carichi di cibo destinati ai carcerati. Riferisce di essere stato l’unico ad essersi ribellato, nonostante fosse stato blandito con promesse di vario genere. Poi è stato minacciato fino ad un pestaggio violento che lo ha condotto quasi alla morte”. Secondo i referti del pronto soccorso dell’ospedale Belcolle di Velletri dove il detenuto è stato trasportato l’1 giugno dopo un colloquio con il magistrato di sorveglianza, Ltaief riportava contusioni, ecchimosi e la “frattura dell’apofisi trasversa destra di L1” causate da un “mezzo di natura contusiva a superficie relativamente ampia” “animato da notevole forza viva”, e da “pugni e calci”. Secondo Ltaief, che in un’occasione aveva ritirato la denuncia di peculato e di abusi “convinto - dice - dalle guardie che si erano impegnate a lasciarmi in pace”, i pestaggi sarebbero avvenuti in tre occasioni. Nel frattempo avrebbe ricevuto minacce, come quella di venire “murato in un pilastro di cemento”, e tentativi di corruzione, come l’offerta di “15 mila euro per ritrattare”. D’altra parte, la posta in gioco è alta, sempre che si riscontri effettivamente il reato di peculato: “Arrivavano cozze, carciofi, peperoni - raccontava qualche giorno fa Ltaief in conferenza stampa con i Radicali - ma ai detenuti veniva data pasta in bianco”. Ora Ltaief è libero per fine pena. Ma nessuno gli offre un lavoro e dopo trent’anni rischia di venire rispedito in Tunisia. Salvo poi essere richiamato come parte civile il prossimo 10 novembre, alla seconda udienza del processo contro un pezzo dello Stato. Ascoli: cinque detenuti tentano evasione scavando un buco nel moro della cella Ansa, 20 luglio 2011 Denunciati cinque detenuti di Marino del Tronto. Per coprire il rumore dello scavo avevano adottato il sistema di cantare ad alta voce. In stile “Fuga da Alcatraz”, cinque detenuti del carcere ascolano di Marino del Tronto hanno provato ad evadere con il classico metodo del buco nel muro. Cinque detenuti nel carcere ascolano di Marino del Tronto sono stati denunciati per un tentativo di evasione attuato mediante il classico metodo del buco nel muro, stile “Fuga da Alcatraz”. Oltre alla denuncia per tentata evasione, i cinque (tutti italiani, originari di Marche, Puglia e Campania) sono stati denunciati per danneggiamento, e verranno inoltre divisi per essere prossimamente trasferiti in altre strutture carcerarie. Il tentativo è stato scoperto ieri mattina intorno alle 6, quando gli agenti della polizia penitenziaria hanno effettuato il controllo di routine delle celle; in quella dei cinque hanno rinvenuto il buco, profondo già lo spessore di un mattone (le pareti del carcere sono spesse due mattoni), e largo una ventina di centimetri. Per scavare il buco nel muro, i cinque si erano avvalsi di rudimentali attrezzi ricavati dallo smembramento di una pentola. Per coprire il rumore dello scavo, poi, avevano adottato il sistema di cantare ad alta voce. Solo un detenuto pugliese ha ammesso di essere l’artefice del buco, mentre gli altri hanno tutti negato. Bari: cento fiaccole contro le carceri-lager… sovraffollamento e suicidi Asca, 20 luglio 2011 Un centinaio di persone munite di fiaccole si sono riunite di fronte al carcere di Bari per dire no alla condizione disumana in cui vivono i detenuti. La struttura pugliese di detenzione è infatti tra le più affollate d’Italia. Le associazioni di volontariato e in particolar modo i sindacati di polizia penitenziaria hanno già denunciato in passato l’invivibilità delle celle. Alla fiaccolata di protesta c’era anche, tra gli altri, un ex detenuto, Nicola. Una presenza significativa soprattutto per gli organizzatori che sta a significare che una riabilitazione è più che possibile. Ma non sono solo le vessazioni e il “dormire a cinque metri dal soffitto”, come ha denunciato Egidio Sarno, presidente della Camera Penale di Bari, a preoccupare i manifestanti. I dati relativi ai suicidi sono infatti tra i più preoccupanti. L’ultimo suicidio in carcere è avvenuto a Lecce, nella prima metà di luglio. Ad oggi, solo in Puglia, sei detenuti si sono tolti la vita e altri tentativi sono stati sventati in tempo. Fossombrone (Pu): detenuto evaso, non rientrato da lavoro all’esterno Ansa, 20 luglio 2011 Un detenuto, Antonio Nastro, 52 anni, di Napoli, non è rientrato nel carcere di Fossombrone, dove è recluso per associazione per delinquere finalizzata a reati piuttosto gravi, dalla sede in cui è impegnato da diversi mesi in lavori socialmente utili. L’impegno lavorativo è diurno, e questa mattina Nastro non si è ripresentato in carcere. Posti di blocco e ricerche a tappeto da parte delle forze di polizia in tutta la zona. Evasione sul velluto dal carcere di Fossombrone. Un detenuto di 52 anni, Antonio Nastro, campano, in cella da anni per associazione a delinquere, condannato all’ergastolo, non è rientrato ieri dal permesso lavoro. In pratica, l’uomo aveva ottenuto la libertà mattutina lavorando per conto del Comune in attività sociali. Alle 13 doveva fare rientro in cella. Invece oggi non si è visto. Scattate le ricerche, sono stati mobilitati carabinieri e polizia oltre ad elicotteri delle forze dell’ordine. Fino ad ora, le ricerche non hanno portato ad alcun esito. L’uomo secondo le prime notizie, avrebbe come fine pena: mai, ossia ha una condanna all’ergastolo. È in carcere da 24 anni e nel frattempo ha potuto interagire col mondo esterno pubblicando molti scritti in vari blog parlando della sua condizione carceraria. È iscritto alla facoltà di Giurisprudenza dell’università di Siena. La sua condotta era ritenuta meritevole di sconti e permessi. San Cataldo (Cl): progetto “Vela”, iniziativa di educatori e assistenti sociali del carcere La Sicilia, 20 luglio 2011 Inizia a prendere corpo, alla Casa di Reclusione di San Cataldo, un progetto rivolto ai detenuti e, per la prima volta, alle loro famiglie, che prevede percorsi di recupero e di reinserimento sociale. Il titolo sa di fresco vento di legalità: “Vela”, infatti, è il nome del progetto ideato dagli educatori del carcere e dalle assistenti sociali dell’Uepe (Ufficio esecuzione penale esterna) di Caltanissetta. Scopo dell’iniziativa, incentivare la riflessione e quindi la presa di coscienza delle situazioni che hanno indotto il soggetto a delinquere, del ruolo che le famiglie hanno avuto nelle scelte di vita dei singoli individui, del significato che essi attribuiscono alle loro esperienze e la percezione che hanno di sé. Il progetto prevede la costituzione di un gruppo formato, di volta in volta, da 8 detenuti, che sceglieranno di aderirvi volontariamente e che saranno inseriti sulla base di diversi criteri: tra questi, l’espressa volontà di partecipazione al progetto, attraverso la sottoscrizione di un “patto trattamentale”; la disponibilità delle famiglie a partecipare agli incontri venendo coinvolte in forma attiva; la posizione giuridica di “definitivo”; pena in espiazione non inferiore a due anni; regolare condotta intramuraria. Rilevante il ruolo delle famiglie, intese come risorsa esterna fondamentale per la buona riuscita degli interventi di reinserimento sociale. La prima fase del progetto ha preso il via nei giorni scorsi, con una conferenza al carcere, cui hanno presenziato il direttore dott. Angelo Belfiore, il commissario della Polizia penitenziaria, dott.ssa Sabrina Martorana, l’equipe trattamentale e, in qualità di ospiti, il magistrato di sorveglianza di Caltanissetta, dott. Francesco Frisella Vella, oltre agli esponenti della comunità esterna, cioè Maurizio Nicosia, quale rappresentante del terzo settore e Vitale Emma, assistente sociale del Comune, i quali hanno illustrato ai detenuti i fini e le modalità dell’iniziativa. Sei sono gli incontri a tema previsti dal progetto, sia coi soggetti detenuti che, parallelamente, con i familiari, che vi prenderanno parte nelle giornate destinate alle visite in istituto. Vi saranno anche gli incontri tra gli operatori per la verifica ed il monitoraggio del percorso e l’attivazione delle risorse territoriali di residenza per una presa in carico, in visione anche della dismissione. La seconda fase, invece, prevede l’individuazione di strumenti che possano facilitare il momento di verifica e valutazione del caso (colloqui aggiuntivi coi familiari, graduale accesso ai benefici premiali, maggiore autonomia in ambito lavorativo); il mantenimento di contatti con gli enti territoriali per un monitoraggio anche dopo l’esecuzione della pena, per una valutazione ex post del percorso. Nel corso degli incontri verranno trattati argomenti quali la genitorialità, la legalità, le relazioni familiari e di coppia, la percezione del sé-emozioni, l’inserimento sociale e lavorativo. Tutto ciò attraverso dispositivi come l’autobiografia, la narrazione di sé, metafore, attività laboratoriali di gruppo condotte anche dagli operatori trattamentali. Bologna: leggere dietro le sbarre, fuga nella fantasia La Repubblica, 20 luglio 2011 Nel film “Mery per sempre” c’è un dialogo sul Conte di Montecristo. L’insegnante interpretato da Michele Placido chiede quale sia la parte piaciuta di più. Il giovane detenuto risponde: “Che domande! Quella della fuga, no?” Fuggire, almeno con la fantasia. Cercarsi altrove, magari in un libro. Potrebbe succedere, in carcere, magari grazie a un gruppo di lettura. È un’idea nata da un’esperienza di alcuni anni fa e dai lavoratori delle biblioteche Sala Borsa e Borgo Panigale, Casa di Khaoula, Villa Spada, Borges e, forse già in primavera, la Dozza potrebbe avere il suo gruppo di lettura. Già da tempo il servizio interbibliotecario consente i prestiti in carcere, e un’esperienza di un gruppo di lettura alla Dozza è già avvenuta nel 2008. Era “Codice a sbarre”, progetto di documentario radiofonico sulla letteratura in carcere, per scoprire cosa e come vi si legge. Detenuti italiani e stranieri si incontravano con Giulia Gadaleta della biblioteca Borgo Panigale, Azzurra D’Agostino (finalista al premio Viareggio come poetessa), il regista Fausten e il fotografo Roberto Giussani. Un progetto di Piattaforma Daemon, Mompracem (Radio Città del Capo), con Asterisco Radio, Sala Borsa e Casa Circondariale. Un blog (www.mompracemradio.it/codiceasbarre) racconta agli incontri e ne ospita anche le registrazioni. Nella prima si presentano i lettori, dalla seconda arrivano i libri: “Il bosco delle volpi” di Arto Paasilinna, “Gomorra” di Roberto Saviano, l’autobiografia di Malcom X e “Graceland” di Chris Abani. E adesso si vorrebbe ripartire. Ma non per documentare. Per leggere, scoprire, parlare e condividere. I problemi sono tanti: burocratici, legati ad autorizzazioni, ma anche pratici. Come costituire questi gruppi, ad esempio? “Non tutti i detenuti possono stare insieme o incontrarsi, parlare tra loro”, spiega Enrico Massarelli della Sala Borsa. Il che, per un gruppo di lettura, che come tale nasce per dar spazio alla voce dei testi e dei lettori, non è un problema da poco. E per ora le forze in campo non consentono di pensare a organizzare tre gruppi, uno per braccio del carcere bolognese. Altro problema: come scegliere i libri? “In un gruppo di lettura non si può pilotare la scelta dei libri - dice Massarelli - Il gruppo serve perché le persone consiglino libri ad altri. Cercheremo il più possibile di non vincolare”. Anche perché i vincoli, in carcere, sono già tanti. Francia: la madre di Daniele Franceschi; ci impediscono di fare l’autopsia… pure in Italia Ansa, 20 luglio 2011 Daniele Franceschi è deceduto il 25 agosto scorso, a 36 anni, nel carcere francese di Grasse ma “un anno dopo le autorità francesi non ci hanno ancora mandato gli organi interni per poter fare un’autopsia qua in Italia e sapere di cosa è morto”. Lo ha detto la madre di Daniele, Cira Antignano, in un’intervista a Studio Aperto, su Italia Uno. Cira Antignano ha poi letto anche un passaggio della lettera che le sarebbe stata inviata mesi fa da un compagno di cella di Daniele: “Nei giorni precedenti al suo decesso, quando lamentava dolori al braccio - c’è scritto - ho preso a calci la porta della cella per notti intere, per chiamate il guardiano di turno e avere soccorso, il risultato è stato nullo”. Quel testo, però, non ha mai convinto lo zio di Daniele, Aldo Antignano. “Lo hanno lasciato morire - ha commentato la madre - lo hanno trattato come una bestia, non come un cristiano”. Poi, la donna ha letto un brano di un lettera di suo figlio per dimostrare che “non vogliono che si dica la verità”: “Il procuratore di Grasse - avrebbe scritto Daniele - mi ha minacciato di chiedere una grossa pena per il mio processo quando avessi testimoniato”. “Io voglio una spiegazione - ha concluso la signora Antignano - al esigo, loro se lo sono dimenticati, ma io no”. Usa: in California detenuti in sciopero della fame, chiedono migliori condizioni di vita www.giornalettismo.com, 20 luglio 2011 Lo sciopero dei detenuti californiani: le cifre variano, ma la gravità della protesta è assodata; centinaia rischiano la morte per battersi contro i soprusi in carcere. I reclusi in un terzo delle carceri della California stanno conducendo uno sciopero della fame per protestare contro la politica dell’isolamento. Le recenti testimonianze raccolte dal Los Angeles Times dimostrano che molti detenuti, che al momento sono alla loro terza settimana dello sciopero, hanno subito una drammatica perdita di peso e sono al collasso per la fame. Secondo la radio Kpcc, i detenuti, dei quali i gruppi più attivi sono nel carcere di Pelican Bay State, il Corcoran State Prison, e nel California Institute Correctional a Tehachapi, protestano rifiutando i pasti dal 1 ° luglio. Molti dei manifestanti sono in isolamento, altrimenti noto come “unità abitativa di sicurezza”. Hanno cinque richieste fondamentali: 1. “Eliminare le punizioni “di gruppo” e invece rafforzare la responsabilità individuale in caso di infrazione. 2. Abolire le politiche secondo le quali i detenuti in isolamento possono essere rimessi insieme al resto della popolazione carceraria regolare solo se forniscono informazioni sulle attività del gruppo. 3. Far rispettare le raccomandazioni della Commissione Usa per la sicurezza e contro gli abusi nelle prigioni (2006) per porre fine alla pratica dell’isolamento a lungo termine. 4. “Fornire cibo adeguato” e condizioni sanitarie decorose anche in isolamento. 5. Ampliare il California Department of Corrections and Rehabilitation e fornire programmi di educazione e di altre opportunità di riabilitazione per i detenuti. Le stime sul numero dei prigionieri variano in modo impressionante. Il La Times stima il numero di manifestanti a circa 400, mentre il New York Times riporta che circa 2.000 detenuti in California sono sotto sorveglianza medica. L’Huffington Post riferisce invece che quasi 1.500 prigionieri sono coinvolti. SolitaryWatch.com ha detto invece che al California Department of Corrections and Rehabilitation almeno 6.600 detenuti hanno rifiutato i pasti. Ovviamente esiste anche una componente politica che giustifica il ballo delle cifre: la maggiore o minore incidenza del fenomeno cambierebbe il peso della protesta e quindi la sua importanza all’interno dell’agenda mediatica e politica nazionale. Il problema è che essendo le porte dei carceri sbarrate sia per i giornalisti che per gli attivisti, la questione rimane confinata al testa a testa tra detenuti e gestori delle strutture. Uno dei detenuti che protestano a Pelican Bay, Todd Ashker, ha detto al New York Times, “crediamo che la nostra unica opzione sia cercare di ottenere qualche tipo di cambiamento positivo attraverso questo sciopero della fame… c’è un nucleo di noi che si è impegnato a portare questa azione fino alla morte se necessario”. La protesta arriva dopo una decisione maggio della Corte Suprema della California, che pur avendo ordinato di ridurre la popolazione carceraria di oltre 30.000 detenuti, non è legata al sovraffollamento. Il portavoce della prigione Terry Thorton ha detto al New York Times che poiché i membri del gruppo stanno conducendo lo sciopero della fame, ciò rafforza la necessità di isolarli. Sia il Los Angeles Times che la Kpcc hanno chiesto di visitare il reparto di isolamento a Pelican Bay, ma i funzionari hanno rifiutato. i sostenitori del carcere hanno invece aperto un blog per tenere aggiornato il pubblico sul movimento dello sciopero della fame. Chiaramente, finché la direzione dei carceri lascerà chiuse le porte dei dipartimenti di isolamento non solo ai detenuti ma anche ai media, si alimenterà il sospetto che i soprusi siano reali, e che la protesta sia legittima. Nel frattempo, siano 400 o 6.000, molti detenuti rischiano di morire, mentre i funzionari proseguono con la linea dura. Iran: tre condannati a morte per violenza carnale ieri sono stati impiccati Ansa, 20 luglio 2011 Tre uomini condannati a morte per violenza carnale sono stati impiccati nel nord-est dell’Iran, secondo quanto scrive oggi il quotidiano Khorasan. Le esecuzioni sono avvenute ieri nel carcere della città di Ghuchan. Sempre ieri altri tre uomini, anch’essi riconosciuti colpevoli di sequestro di persona e violenza carnale, sono stati impiccati sulla pubblica piazza a Kermanshah, nell’est dell’Iran. Queste ultime esecuzioni portano ad almeno 167 il numero delle persone messe a morte nella Repubblica islamica dall’inizio dell’anno, secondo notizie della stampa iraniana. Per quanto riguarda il 2010, sempre secondo notizie ufficiali, erano state 179 le esecuzioni capitali. Ma Amnesty International ha parlato di “almeno 252 esecuzioni” e Human Rights Watch di 388. Le autorità iraniane giustificano il forte aumento delle impiccagioni con la necessità di garantire la sicurezza sociale, ma il gran numero di esecuzioni, molte delle quali sulla pubblica piazza, non sembrano scoraggiare il dilagare di episodi di violenza carnale, anche di gruppo. Venezuela: scontri in due carceri di San Felipe e Cabimas, 7 morti e 20 feriti Asca, 20 luglio 2011 Almeno sette detenuti sono rimasti uccisi oggi in violenti scontri scoppiati nelle due prigioni venezuelane di San Felipe e Cabimas; circa una ventina i feriti. Lo ha reso noto il segretario della pubblica sicurezza dello stato di Yaracuy, Oswaldo Cardozo. Il mese scorso una rivolta esplosa nella prigione di El Rodeo ha causato 30 morti: seicento reclusi, su un totale di 2.800, si sono inseguiti a fucilate per ben due ore nel carcere nei pressi di Caracas. Nel 2010 oltre 300 detenuti sono rimasti vittime delle violenze nelle prigioni venezuelane. Serbia: arrestato Goran Hadzic, ultimo criminale di guerra ricercato Ansa, 20 luglio 2011 Le autorità serbe hanno arrestato Goran Hadzic, ultimo criminale di guerra ricercato. Lo affermano i media serbi. La notizia dell’arresto dell’ex capo politico dei serbi di Croazia Goran Hadzic giunge a due mesi dalla cattura dell’ex generale serbo bosniaco Ratko Mladic, che è attualmente detenuto nella prigione del tribunale penale internazionale per i crimini commessi nella ex Jugoslavia (Tpi), a Scheveningen. In questo stesso penitenziario dovrebbe essere trasferito Hadzic: una volta compiuti accertamenti e formalità, le autorità di Belgrado consegneranno l’ex fuggitivo alla giustizia internazionale. All’Aja, Hadzic potrebbe arrivare in tempo strettissimi, già entro domani o venerdì. Mladic, accusato di genocidio, crimini di guerra e contro l’umanità, ha già fatto la sua apparizione davanti ai giudici del Tpi per udienze pre-processuali. E all’Aja è attualmente in corso anche il processo contro Radovan Karadzic, l’ex presidente serbo bosniaco, anche lui accusato di crimini di guerra e contro l’umanità e di genocidio. In totale sono 161 i criminali di guerra incriminati dal Tpi per reati commessi durante il conflitto nella ex Jugoslavia. Con l’arresto di Hadzic, il Tpi completerebbe la propria missione.