Meno galera, più lavori di pubblica utilità Il Mattino di Padova, 18 luglio 2011 I più spericolati al volante hanno meno di 30 anni. Sono circa 2000 i giovani italiani che ogni anno muoiono sulle strade per colpa dell’alcool. Dal 2010 sono stati introdotti degli inasprimenti delle pene per chi viola le regole della strada: chi, per esempio, viene sorpreso alla guida in stato di ebbrezza può essere condannato fino a un anno di carcere, ma la legge dice anche che la pena detentiva può essere sostituita con quella del lavoro di pubblica utilità. A Padova, grazie a una convenzione tra Comune, Tribunale, e alcune associazioni, la persona fermata perché guidava ubriaca tra le diverse opportunità avrà anche quella, pur “evitando” la pena detentiva, di “assaggiare” da vicino la galera, lavorando per l’associazione “Granello di Senape”, che fa volontariato proprio in carcere. Abbiamo allora affidato al Comune di Padova la spiegazione di come funzionerà questa Convenzione, e poi abbiamo chiesto a un ragazzo, a cui è stata ritirata la patente, di raccontare il costoso e faticosissimo percorso a ostacoli che bisogna fare per averla indietro. Una pena realmente “alternativa” per chi guida in stato di ebbrezza Di recente il Comune di Padova e il Tribunale hanno sottoscritto una Convenzione per consentire alla persona, sanzionata per guida in stato di ebbrezza e/o sotto l’effetto di sostanze, la possibilità di svolgere un lavoro di pubblica utilità per un determinato periodo di tempo in sostituzione della pena detentiva e pecuniaria. È bene specificare che il lavoro di pubblica utilità - previsto dal Codice della strada - non è però consentito nei casi in cui l’automobilista, in condizioni psico-fisiche alterate, si sia reso colpevole di incidente stradale. Il lavoro viene svolto, senza alcun compenso, nelle strutture individuate dalla Convenzione, nei termini e nelle condizioni stabiliti dal giudice attraverso la sentenza. La Convenzione ha definito un totale di 19 posti di lavoro, individuando strutture gestite da Enti/Associazioni e Cooperative che hanno, per la maggior parte, come missione il contrasto e la prevenzione del disagio e dell’emarginazione. L’obiettivo è infatti quello di dare all’attività da svolgere una valenza educativa, proponendo alle persone sanzionate esperienze di lavoro che le mettano in contatto e a confronto con una umanità che soffre o che è ai margini. Si è dunque cercato di far riflettere i soggetti sulla loro condotta nel contesto di ambienti emotivamente coinvolgenti. Tra le strutture che hanno aderito alla Convenzione mi fa piacere citare la Casa di Reclusione di Padova e l’Associazione Granello di Senape, partner preziosi dei Servizi Sociali di Padova nell’ambito del progetto “Il carcere entra a scuola. Le scuole entrano in carcere”. Il progetto propone, da vari anni, un percorso formativo che impegna ogni anno alcune migliaia di studenti delle scuole medie inferiori e superiori della Città e i loro insegnanti sui temi della legalità, del rispetto delle regole e dei comportamenti positivi. Durante le visite in carcere i giovani ascoltano, tra l’altro, le esperienze di vita dei detenuti il cui esordio, non di rado, li vede protagonisti con atti di bullismo o con comportamenti trasgressivi, come la guida in stato di ebbrezza o sotto l’uso di sostanze. Grazie alla Convenzione le persone impegnate nel lavoro di pubblica utilità saranno quindi chiamate a incontrare gli studenti e i detenuti in carcere, a esporre la loro esperienza direttamente in classe agli studenti e infine a supportare gli educatori in carcere nell’attività di ascolto ai detenuti. Ecco dunque che trova utile e concreta applicazione il principio della valenza educativa che è stata posta alla base della individuazione dei posti di lavoro dalla Convenzione stipulata con il Tribunale. Desidero concludere questa presentazione, infine, ricordando lo slogan della campagna di prevenzione alcologica dei Servizi Sociali “Alza la testa, non il gomito!”, che rappresenta un invito rivolto in particolare ai giovani per una vita positiva e responsabile. Lorenzo Panizzolo Dirigente Servizi Sociali, Comune di Padova Patente: se te la ritirano, riaverla costa caro! “Mi hanno ritirato la patente solo perché ho bevuto un bicchiere di vino…”, “mi hanno trovato positivo alla cannabis…”, “hanno ritirato la patente a un mio amico perché…”. Negli ultimi tempi capita sempre più di frequente di parlare con qualche conoscente e sentirsi dire qualcosa del genere. Bè, per mia sfortuna, ma soprattutto a causa della mia stupidità, mi è capitato di entrare nel girone infernale del “ritiro patente”. Nel momento in cui ho chiesto di riaverla è iniziato il calvario. Mi sono recato presso la commissione medica patenti, mi è stato dato un modulo che ho dovuto riportare compilato, allegando delle marche da bollo e le ricevute dei versamenti fatti sul conto corrente del Ministero dei trasporti. La prima visita mi è stata fissata dopo circa tre mesi. Arrivo negli uffici della commissione e aspetto il mio turno. Dopo mezz’ora d’attesa, consegno allo sportello i documenti che mi sono stati richiesti, e mi dicono di attendere, sarò chiamato dagli ambulatori. Cerco un posto a sedere che non c’è, siamo in tanti qui oggi. Dopo più di un’ora e dopo essermi sottoposto all’esame della vista, vengo convocato negli ambulatori, davanti alla commissione: mi annunciano che per riavere la patente dovrò sottopormi a degli esami approfonditi, e per farlo dovrò rivolgermi al settore di Medicina legale. Chiedo un’altra mezza giornata di permesso al datore di lavoro, vado a Medicina legale, mi fissano per due mesi dopo una visita, dove mi dovrò presentare con la ricevuta del ticket, che devo pagare presso gli uffici della ASL.. Per l’esame che dovrò fare io è di circa 450 euro. Passano due mesi e mi presento all’appuntamento a Medicina legale, dopo la canonica attesa di un’oretta, mi riceve una dottoressa che, trascritti tutti i miei dati anagrafici, mi chiede da che punto preferisco mi venga tagliata una ciocca di capelli e mi spiega che i capelli saranno esaminati e da lì riescono a capire se ho fatto uso di stupefacenti negli ultimi 5-7 mesi. Poi mi fa un sacco di domande, per capire le mie abitudini e il mio rapporto con le sostanze e con l’alcol. Mi congeda dopo mezz’oretta dicendo che per circa un mese sarò chiamato, a sorpresa, dagli operatori di Medicina legale e dovrò presentarmi lì per sottopormi allo screening tossicologico (esame delle urine). Pochi giorni più tardi, infatti, ricevo una telefonata e vengo invitato a presentarmi il giorno dopo, alle 14.45 a Medicina legale. Arrivo e in attesa, sedute sui gradini e un po’ ovunque, trovo almeno trenta persone. Quasi tutte giovani, un paio di anziani e non più di tre ragazze. Tutti lì per sottoporsi all’esame delle urine, tutti hanno avuto problemi con la patente, o a causa dell’alcol, o dell’assunzione di droghe. Uno alla volta siamo chiamati in un bagnetto, provvisto di telecamera, per riempire una provetta con la nostra urina. Prima che arrivi il mio turno passa più di un’ora. Lì, in quel bagnetto sorvegliato dalla telecamera, ci dovrò tornare altre 4 volte. Per cui, da oggi mi possono chiamare in qualsiasi momento per dirmi di tornare il giorno dopo all’ora x. L’unica giustificazione valida per un’eventuale assenza è un certificato medico, altrimenti salterebbe tutto e dovrei ricominciare praticamente da zero. Questa trafila, per me, questa volta, dura esattamente 4 settimane, in tutto 5 esami delle urine, più quello iniziale del capello. Dopo circa un mese dall’ultima chiamata, ricevo una telefonata che mi invita a presentarmi di nuovo davanti alla commissione. Qualche giorno dopo sono lì, prendo il numeretto, dopo un po’ mi chiamano allo sportello, e uno dei commissari mi annuncia che gli esami sono perfetti, e che da oggi posso guidare, ma tra 4 mesi dovrò sottopormi nuovamente a tutti gli esami, dovrò fare la stessa trafila, cioè: andare in commissione patenti prima un paio di volte solo per prenotare la visita, poi andarci per la visita, poi andare sei o sette volte a Medicina legale, oltre che pagare nuovamente le marche da bollo e i vari versamenti, anche il ticket, in pratica, la prossima volta, oltre a dover sborsare circa 500 euro per le varie spese, dovrò nuovamente chiedere al mio datore di lavoro una decina di mezze giornate di permesso per rinnovare la patente. Tra quattro mesi ricomincia la trafila, per me e per altre centinaia di persone. Andrea Giustizia: l’imminente implosione del sistema carcerario di Valter Vecellio Notizie Radicali, 18 luglio 2011 L’altro giorno il segretario della Uil-Penitenziari Eugenio Sarno ha diffuso cifre e dati che costituiscono un affresco da brivido: nelle carceri italiane sono rinchiusi qualcosa come 67mila detenuti (64.081 uomini e 2.848 donne), a fronte di una disponibilità reale di posti detentivi pari a 43.879. Un surplus di 23.050 detenuti in più rispetto alla massima capienza, che determina un indice medio nazionale di affollamento pari al 52,5 per cento. In ben dieci regioni italiane, il tasso di affollamento vari dal 15 per cento al 50 per cento. In nove dal 51 per cento all’80 per cento. L’unica regione italiana che non presenta una situazione di sovraffollamento è il Trentino Alto Adige. Capofila, per sovraffollamento, la Puglia (79,4 per cento), seguita da Marche (71,8 per cento), Calabria (70,6 per cento), Emilia Romagna (69,7 per cento) e Veneto (68,0 per cento). L’istituto con il più alto tasso di affollamento si conferma quello di Lamezia Terme (186,7 per cento), seguito da Busto Arsizio (152,17 per cento), Brescia Canton Mombello (146,6 per cento), Varese (145,3 per cento) e Mistretta (143,8 per cento). Il 50 per cento (102) delle strutture penitenziaria presenta un affollamento dal 50 per cento all’80 per cento; il 35 per cento (72) un affollamento dal 2 per cento al 49 per cento. Dal 1 gennaio al 30 giugno del 2011 si sono verificati 34 suicidi in cella. Nello stesso arco temporale in 135 istituti sono stati tentati 532 suicidi, dei quali oltre duecento sventati in extremis dal personale di polizia penitenziaria. Il maggior numero di tentati suicidi si è verificato a Cagliari (28). Seguono Firenze Sollicciano (25), Teramo (19), Roma Rebibbia, San Gimignano e Lecce con 18 tentati suicidi. In 160 istituti si sono verificati 2583 episodi di autolesionismo grave. Il triste primato spetta a Bologna (112), a seguire Firenze Sollicciano (106), Lecce (93), Genova Marassi (77) e Teramo (66). Ad aggravare il quadro complessivo concorrono i 153 episodi di aggressioni in danno di poliziotti penitenziari, che contano 211 persone ferite. Sempre dal 1 gennaio al 30 giugno 2011 in 175 istituti si sono verificate 3392 proteste individuali (scioperi della fame, rifiuto del vitto, rifiuto della terapia). Proteste collettive (battiture, rifiuti del carrello) invece in 126 istituti. “Questi numeri, coniugati all’imminente esaurimento dei fondi per l’ordinaria amministrazione”, dice Sarno, “testimoniano e certificano l’imminente implosione dell’intero sistema penitenziario. Nel mentre continuano a propinarci la solfa del piano carceri (fantasma) nessuno ha voluto (o potuto) rispondere ad una semplice domanda, ovvero con quale personale si intenderà attivare le nuove strutture (se e quando saranno edificate) o i padiglioni di recente edificazione. In tal senso abbiamo esempi che non possono non preoccupare: i nuovi penitenziari di Rieti e Terni sono solo parzialmente funzionanti per l’impossibilità di garantire gli organici necessari. Basti pensare che nel 2001, con circa 43mila detenuti, la polizia penitenziaria poteva contare su circa 41.300 unità. Al 30 giugno di quest’anno con 67mila detenuti e una quindicina di istituti aperti nell’ultimo decennio, le unità di polizia penitenziaria assommavano a 37.368 (di cui 2936 impiegate in strutture non detentive). A conti fatti il reale disavanzo nella polizia penitenziaria assomma a circa 8000 unità. Quindi cresce il rammarico per la mancata assunzione straordinaria di circa 1600 unità determinata dalla manovra finanziaria. Per quanto concerne i profili amministrativi, l’organico previsto è di 9.476 unità. Al 30 giugno 2011 le unità effettive erano 6.753. I ruoli con le maggiori scoperture risultano essere gli Educatori (- 372), gli Assistenti Sociali (- 534), i Contabili (- 308) e i Collaboratori Amministrativi (- 1033). Non crediamo servano ulteriori commenti per illustrare la devastazione che colpisce tutti gli operatori penitenziari, costretti ad operare sempre più soli ed abbandonati nelle frontiere penitenziarie”. A questa cruda, drammatica denuncia, come rispondono il ministero della Giustizia e il Dap? Con il silenzio. L’inerzia è eretta a sistema, l’indifferenza è programmatica. Cresce, nel frattempo, la mobilitazione. Questa sera, a Bari, avrà luogo una fiaccolata silenziosa davanti al carcere di Bari “per denunziare ancora una volta il grave problema del sovraffollamento e delle condizioni di vita nelle carceri italiane”. L’ennesimo suicidio avvenuto il 27 giugno 2011 nella Casa Circondariale di Bari, il quinto in sei mesi nelle carceri pugliesi, il secondo in meno di tre mesi, dice l’avvocato Eugenio Sarno, presidente della Camera Penale del capoluogo pugliese, “costituisce l’inesorabile conseguenza delle condizioni disumane in cui vivono in Italia i detenuti, e conferma il collasso del sistema penitenziario. Nelle carceri non vi è alcun rispetto della persona, valore fondamentale della nostra civiltà occidentale. Le condizioni delle carceri italiane, infatti, minano ogni giorno la salute e la dignità delle persone detenute. L’art. 6 del regolamento penitenziario afferma che “i locali in cui si svolge la vita dei detenuti devono essere igienicamente adeguati”. La realtà è ben diversa, denuncia Sarno: “Persone rinchiuse in piccole celle per 22 ore al giorno, celle buie, fredde d’inverno e roventi d’estate, dove i detenuti consumano anche i loro pasti, con un piccolo lavandino, dove spesso l’acqua non esce, con letti a castello (anche a quattro piani) accatastati alle pareti. A tutto ciò devono aggiungersi le difficilissime condizioni di lavoro degli operatori penitenziari, soprattutto della Polizia Penitenziaria, spesso costretti a turni massacranti a causa delle gravi carenze di organico”. In Puglia la capienza regolamentare sarebbe di 2.492 detenuti, ma le presenze effettive corrispondono a 4.486 detenuti. Drammaticamente emblematico il dato relativo al carcere di Bari che, pur con una sezione chiusa, ospita ben 550 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 210. Occorre che la società civile si mobiliti e che anche i media riconquistino il ruolo di forza determinante per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla necessità di considerare il detenuto, che deve giustamente pagare i suoi debiti con la società, comunque, persona con tutti i suoi diritti. Non esagera dunque Sarno quando parla di “barbarie”: “La nostra Costituzione, ha inteso affermare e tutelare i diritti di tutti i cittadini, pertanto crediamo che l’opera di denuncia e di sensibilizzazione sia importante per far comprendere che senza il superamento della cultura della pena carceraria non risolveremo mai i problemi di sovraffollamento, dei suicidi in carcere, delle recidive”. Giustizia: il “Garage Olimpo” nei penitenziari italiani di Simona Bonfante www.libertiamo.it, 18 luglio 2011 Ismail Ltaief è un giovane uomo tunisino, ex detenuto nel carcere di Velletri. Lì Ismail faceva il cuoco. A un certo punto si accorge che gran parte delle derrate destinate ad alimentare la popolazione penitenziaria viene “sottratta” da secondini e funzionari. Ai detenuti, da mangiare, davano pasta in bianco, sempre. Okkey, Ismail denuncia. Figurarsi, ai ladri st’iniziativa non piace per nulla. Lo prendono con le buone, all’inizio. Gli dicono: sta zitto e avrai la tua parte. Parla e ti parcheggiamo in un cubo di cemento. Ismail non ritratta. E la “lezione” arriverà, puntuale. Pressioni psicologiche, piccole violenze. Poi, visto che il tunisino non cede, viene predisposto per lui il più radicale “metodo Cucchi”. Avete presente, no? Ecco, verrà massacrato, Ismail, ridotto in fin di vita. Ma ne esce vivo, come un miracolato. Ed è fortunato poi anche perché il magistrato di sorveglianza che si occupa del caso a seguito delle sue denunce indaga, comprende il pericolo di vita che corre il ragazzo, trova riscontri alle accuse e, a dispetto dell’omertosa intransigenza del fronte degli accusati - quelli che, in verità, dovrebbero rappresentare lo Stato, ovvero la legge - ebbene rinvia a processo gli agenti picchiatori e i funzionari ladri. Oggi la prima udienza. Il caso di Ismail è stato reso noto dall’associazione radicale Il detenuto ignoto alla quale lo stesso tunisno si era rivolto, non appena uscito dal carecre, per chiedere supporto legale. Una storia di vergognosa gravità, la sua. Il pianeta penitenziario italiano, però quello è. Rita Bernardini, per dire, ha appena sollevato un’altra questione che la dice lunga su come funzioni là dentro. La società appaltatrice delle mense penitenziarie, ovvero quella che rifornisce tutte le carceri italiani grazie ad una gara vinta allo stra-ribasso (3 euro e 80 al giorno per i tre pasti - colazione, pranzo e cena), è la stessa che gestisce gli spacci interni. Orbene, con 3 euro e 80 al giorno, che vuoi che venga dato da mangiare ai reclusi, sbobba, no? Ecco, e visto che di sola sbobba non si campa, i detenuti sono costretti a comprarsi da mangiare allo spaccio, dove - toh - i prezzi degli alimenti sono da gastronomia extra-chic. Ripetiamo: questo non è un problema dei detenuti. Nelle carceri si è ormai sviluppato un sistema criminale governato sotto le insegne di Stato. Esagera Pannella? Esagerano i penalisti, gli operatori penitenziari, Rita Bernardini, i 30.000 cittadini che con il vecchio lottatore non-violento si battono con la privazione del cibo per restituire un senso alla altrimenti così vuota definizione repubblicana di democrazia? Giustizia: Napolitano: scrupolosa attenzione a battaglie Pannella per libertà civili Adnkronos, 18 luglio 2011 Le battaglie di Marco Pannella per “le libertà civili e i diritti dei cittadini” sono degne di “scrupolosa attenzione”. È quanto si legge in una nota diffusa dal Quirinale, dove questa mattina il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha ricevuto il leader radicale. Nel corso dell’incontro, prosegue la nota, Pannella ha riferito al Presidente Napolitano delle “iniziative in corso per affrontare i problemi istituzionali e sociali della giustizia con particolare riferimento alla tutela dei diritti dei detenuti nelle carceri italiane”. Il Capo dello Stato nella lettera inviata a Pannella il 23 giugno scorso, per invitarlo “in nome non solo dell’antica amicizia ma dell’interesse generale, di desistere da forme estreme di protesta di cui colgo il senso di urgenza, ma che possono oggi mettere gravemente a repentaglio la tua salute e integrità fisica”, aveva richiamato “l’attenzione di tutti i soggetti istituzionali responsabili sollecitandoli ad adottare le indispensabili misure amministrative, organizzative e legislative” sulle battaglie di Pannella per una piena affermazione e tutela delle libertà civili e dei diritti dei cittadini. In particolare, conclude la nota, il Capo dello Stato si era soffermato sulle questioni “del sovraffollamento delle carceri, della condizione dei detenuti e di una giustizia amministrata con scrupolosa attenzione per tutti i valori in giuoco, con serenità e sobrietà di comportamenti”. Giustizia: Marcenaro (Pd); introduzione del reato di tortura sarebbe segno di civiltà Dire, 18 luglio 2011 Domani, martedì 19 luglio, in occasione del 10° anniversario dei fatti del G8 di Genova, la sala Nassyria del Senato ospiterà una conferenza stampa di Amnesty International. Nel pomeriggio dello stesso giorno (ore 14) Amnesty International sarà audita dalla Commissione Straordinaria per la promozione e la tutela dei diritti umani sull’introduzione nel codice penale italiano del reato di tortura. “L’introduzione di questo reato - ha dichiarato Pietro Marcenaro, presidente della commissione - che è stata fino ad oggi ripetutamente negata, non costituisce solo un principio di civiltà affermato dalle convenzioni internazionali cui l’Italia aderisce e una tutela della dignità e dei diritti dei cittadini privati della libertà. Essa rappresenta anche una garanzia per i carabinieri e per gli agenti di pubblica sicurezza e della polizia penitenziaria la cui azione è ancorata alla difesa della legalità e della Costituzione”. “In occasione di questo decimo anniversario dei fatti di Genova - ha proseguito il senatore Pd - i poliziotti e i carabinieri italiani hanno il diritto di non essere confusi con i responsabili di violenze e di violazioni della legge che la giustizia deve poter colpire”. Bologna: alla Dozza solo 1 detenuto su 100 ammesso al lavoro fuori dalle mura Redattore Sociale, 18 luglio 2011 Su quasi 1.200 presenze alla Dozza solo 12 detenuti lavorano all’esterno e circa 130 svolgono lavori all’interno del carcere. Ziccone (responsabile educativo): “Difficile per i detenuti trovare un lavoro e calano gli incentivi per chi assume”. La Dozza scoppia. Nel carcere di Bologna si trovano attualmente 1.200 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 490 posti. Ma di questi solo uno su cento (12) riesce a uscire con un permesso di lavoro. “Delle quasi 1.200 persone presenti all’interno della casa circondariale della Dozza, circa un migliaio presentano richiesta di svolgere lavori.” A parlare è Massimo Ziccone, responsabile educativo della Casa circondariale della Dozza. Ma di questi, quanti sono quelli che ce la fanno davvero? Ben pochi. “Sono 12 quelli ammessi a lavorare all’esterno, ma fino a cinque o sei anni fa erano una sessantina” - continua Ziccone. Nonostante il lavoro sia uno dei capisaldi del percorso rieducativo, a partire dall’articolo 21 dell’Ordinamento penitenziario, che stabilisce che “negli istituti penitenziari devono essere favorite in ogni modo la destinazione al lavoro e la partecipazione a corsi di formazione professionale”, il numero di quelli che riescono effettivamente a ottenere un impiego, sebbene per brevi turni o a tempo parziale, resta veramente molto basso. “Alla Dozza la maggior parte dei detenuti impiegati in un qualche tipo di attività retribuita svolge mansioni di tipo ‘domestico’ - spiega il responsabile educativo - all’interno della struttura e alle dipendenze dell’amministrazione carceraria. Questi lavori consentono di impiegare un centinaio di persone alla volta in turni di un mese”. Un secondo tipo di impiego, sempre interno ma che coinvolge un numero assai inferiore di persone, è rappresentato dai “lavori in convenzione”. Si tratta di laboratori organizzati da soggetti esterni all’amministrazione carceraria, principalmente cooperative sociali che collaborano con quest’ultima in attività finalizzate alla rieducazione e alla formazione dei partecipanti, ma che, alla Dozza, interessano meno di 30 persone. Ma il gruppo più piccolo in assoluto è quello dei detenuti ammessi a prestare un lavoro all’esterno del carcere. Dei 12 ammessi al lavoro esterno, 6 sono detenuti a pieno titolo, mentre la restante metà è ammessa al lavoro esterno sulla base dello status di semilibero, una figura prevista dall’articolo 48 dell’Ordinamento penitenziario proprio per permettere a chi è ammesso a tale particolare regime di “partecipare ad attività lavorative, istruttive o comunque utili al reinserimento sociale”. Il requisito più difficile da soddisfare però è quello di trovare concretamente un lavoro esterno. “La proposta di impiego deve provenire dagli stessi interessati - continua Ziccone - che devono presentarla alla direzione dell’istituto e vedersela poi approvare dal magistrato di sorveglianza. I potenziali datori disposti ad assumere detenuti sono pochi, e nonostante sia presente all’interno della Dozza un centro per l’impiego, per loro resta molto difficile trovare un lavoro”. È questa una delle ragioni per cui al Tribunale di sorveglianza, a cui spetta la valutazione delle richieste di lavoro esterno, arrivano così poche richieste. Il problema è anche di tipo economico: “Se la legge Smuraglia prevede agevolazioni fiscali per le imprese che assumono, che potrebbero essere così invogliate a far lavorare i detenuti, tali incentivi sono calati negli anni, e potrebbero sparire con i tagli dell’ultima finanziaria”. A questo va aggiunto, secondo Ziccone, che il lavoro dei detenuti all’esterno della casa circondariale in passato era visto in un’ottica di sfavore da parte dell’opinione pubblica. Una percezione, questa, che non sarebbe supportata dai fatti: i casi di reati da loro commessi durante le attività lavorative esterne sarebbero inferiori allo 0,1%, mentre le recidive tra i lavoranti esterni sarebbero 300 volte meno rispetto a quelle di chi esce dalla struttura a fine pena. Ma che lavori fanno i detenuti che escono dal carcere della Dozza? “Tra i detenuti ammessi al lavoro esterno, la maggioranza svolge mansioni di giardiniere, magazziniere o inerenti il settore dell’edilizia - afferma Ziccone. Certo, se si tratta di persone che già svolgevano un’attività lavorativa in proprio prima dell’ingresso nella casa circondariale, c’è anche la possibilità che continuino un lavoro autonomo: un commerciante cinese ha potuto continuare a gestire il suo negozio di bigiotteria anche durante il periodo in cui scontava la pena”. Quali sono quindi i requisiti richiesti per svolgere lavori all’esterno del carcere, e per quale ragione soltanto così poche persone sono ammesse a questo trattamento? “Innanzitutto per essere ammessi al lavoro esterno è necessario che il detenuto sia tale in via definitiva - conclude Ziccone - un dato statistico che spiega già molto sulla scarsità di lavoranti”. Ziccone fa riferimento al fatto che la casa circondariale di Bologna ospita in maggioranza persone in attesa di giudizio (e quindi “in transito”), mentre quelli con condanna definitiva sono una minoranza (circa 200 su quasi 1.200 presenze), dato confermato anche dal rapporto 2010 del garante dei detenuti. Le coop sociali: calano le richieste, servono più risorse I datori di lavoro ci sarebbero, ma spesso manca il collegamento tra imprese e detenuti. Pedretti (Agriverde): “Negli ultimi due anni nessuna richiesta”. Siddi (Altercoop): “Gli operatori lavorano sotto organico”. Le coop sociali che si occupano del reinserimento delle persone svantaggiate vedono sempre meno detenuti tra le proprie fila: e questo secondo chi ci lavora è dovuto al numero sempre calante di richieste provenienti dal carcere. Fabrizio Pedretti è presidente di Agriverde, una cooperativa agricola sorta nel 1986, trasformatasi in cooperativa sociale per il reinserimento lavorativo di soggetti svantaggiati nel 1994, che si occupa di giardinaggio, vivaismo e manutenzione parchi. “Negli anni abbiamo inserito numerosi detenuti nella nostra coop, sempre con buoni risultati: in passato ci sono state 4 assunzioni di reclusi - racconta. Ora però il numero di richieste è calato drasticamente, e negli ultimi 2 anni addirittura non ne abbiamo ricevuta nessuna”. Per Pedretti questa diminuzione è dovuta a un approccio più restrittivo del tribunale di sorveglianza, ora più restio rispetto al passato a concedere l’autorizzazione per lavori e attività esterne ex articolo 21 dell’ordinamento penitenziario. Il tribunale, secondo Pedretti, sarebbe stato influenzato negativamente da una serie di episodi problematici, ultimo dei quali l’evasione di Giulio Santoro, fuggito l’8 aprile scorso durante le prove di uno spettacolo teatrale. Per Pedretti la causa può essere la diffidenza da parte della magistratura, ma non solo: “Il turnover dei dirigenti all’interno del carcere della Dozza per molto tempo è stato alto, e solo negli ultimi anni si è tornati alla stabilità. Inoltre il problema strutturale della casa circondariale di Bologna e dei suoi pochi detenuti ‘definitivi’ è di cruciale importanza per la questione del lavoro”. Anche secondo Graziella Siddi, di Altercoop, cooperativa attiva nel settore carta, il dato è evidente: “Gli inserimenti nella nostra cooperativa sono diminuiti in maniera sensibile, ma nonostante il calo continuiamo ad avere lavoranti “ex articolo 21”: a settembre 2 detenuti si occuperanno di un magazzino della carta, mentre abbiamo in corso da anni una collaborazione con un recluso che sta per chiedere l’affidamento ai servizi sociali e uscire dal carcere”. Altercoop si occupa fin dalla sua nascita nel 1985 di inserimenti lavorativi di persone sottoposte a limitazioni della libertà, ma negli ultimi anni il numero di carcerati tra le sue fila è diminuito, e per Siddi questo calo è da leggersi in una chiave di risorse economiche: “Gli operatori sociali all’interno del carcere sono troppo pochi rispetto ai detenuti, lavorano sotto organico e ognuno di loro gestisce 50-60 persone: è naturale che non riescano a fare il loro lavoro come un tempo, non è colpa loro. Anni fa le richieste andavano dalle imprese al carcere per richiedere determinate posizioni, e anche nella direzione opposta per offrire lavoranti all’esterno. Ora questo flusso di domande è calato, probabilmente a causa del numero troppo grande di detenuti. Sono necessarie più risorse per questo servizio”. Anche per Siddi però le cause sono più di una: “Un’altra ragione potrebbe essere la diversa popolazione carceraria di oggi rispetto ad alcuni anni fa: la maggior presenza di detenuti stranieri ha prodotto una frammentazione sociale superiore - conclude - e un minor passaparola all’interno dell’istituto in questi casi significa occasioni lavorative che vanno perdute.” Lavori domestici e laboratori di formazione, ma solo per pochi Sono circa 130 i detenuti che svolgono i lavori all’interno del carcere. Migliaia di domande per un centinaio di posti. Altre possibilità di lavoro e formazione arrivano dai laboratori organizzati da imprese e cooperative sociali Solo un’esigua minoranza dei detenuti che fanno domanda per lavorare riesce a svolgere un’attività nel carcere della Dozza. Tra coloro che riescono a lavorare, la maggioranza si dedica a quegli impieghi comunemente definiti “domestici”, ovvero mansioni che attengono al normale funzionamento della struttura e che vengono concesse ai detenuti sulla base di turni mensili. I lavori domestici che impiegano più persone sono quelli di pulizia, cucina e portavitto. Essendo così tante le domande e solamente un centinaio i posti disponibili, però, le persone che svolgono un turno lo ripeteranno solo 10 mesi dopo. Tutti i lavori all’interno della casa circondariale hanno la funzione di rieducare i reclusi, e prevedono una retribuzione, il cui nome tecnico è “mercede”. Un altro tipo di occasione d’impiego per le persone dentro la Dozza sono invece i lavori e i corsi organizzati da cooperative sociali o ditte in convenzione con l’amministrazione penitenziaria. Tali progetti devono essere approvati dalla direzione e offrono ai reclusi una possibilità di formazione professionale, in aggiunta alla “mercede”. Qualche esempio? Da tempo è in progettazione un’officina metalmeccanica all’interno della Dozza. Il piano vedrà coinvolte le industrie Gd, Ima e Marchesini che allestiranno una piccola azienda che darà lavoro a 12 detenuti. Il piano è destinato a partire dall’autunno 2011. Gli operai costruiranno un pezzo di una macchina che viene usata dalle tre industrie per produrre il packaging di vari prodotti. Tra le altre iniziative avviate nella casa circondariale, una è il piano di riciclaggio dei rifiuti elettronici (Raee) organizzato in collaborazione con Hera: 4 detenuti si occupano di disassemblare apparecchiature elettriche ed elettroniche che contengono materiali particolari da trattare separatamente. Dei 4 reclusi impiegati, a gennaio 2010 tre sono stati assunti dalla cooperativa IT2 con contratto a tempo determinato. Otto detenute hanno partecipato a un corso di formazione all’attività di sartoria organizzato dalla coop “Siamo qua”, che ha visto un secondo modulo iniziare in aprile 2010, mentre il consorzio di cooperative sociali Sic gestisce la tipografia “Il profumo delle parole”, e occupa un detenuto assunto (un tempo erano 2) con un contratto a tempo determinato. La tipografia purtroppo non ha molto lavoro ultimamente e sta cercando nuovi clienti altrimenti dovrà chiudere. L’ex garante dei detenuti Desi Bruno aveva già rivolto un appello alle pubbliche amministrazioni affinché utilizzassero i servizi della tipografia. Un’attività meno tradizionale vedrà invece i detenuti impegnarsi nell’allevamento delle api: Conapi, il consorzio nazionale degli apicoltori, e Alce nero - Mielizia, con il sostegno della Fondazione del Monte di Bologna e in collaborazione con la Provincia di Bologna e il Cefal hanno avviato un’attività di apicoltura con annesso percorso formativo e stanno lavorando alla realizzazione di un forno per la produzione di pane e altri prodotti biologici. L’attività lavorativa delle persone private della libertà personale è stata sostenuta in vari casi con l’utilizzo di stage di borsa lavoro finanziati dal Comune di Bologna attraverso l’Asp Poveri Vergognosi. A questo fine, nel 2010 sono stati stanziati 30 mila euro a favore dei detenuti e una cifra equivalente per le persone in esecuzione esterna della pena. Nel 2010 sono state erogate 57 mensilità di borsa lavoro delle quali 14 hanno riguardato il progetto Raee dei rifiuti elettronici, e la stessa somma dell’anno scorso è stata messa a disposizione per il 2011. Verona: carcere sovraffollato; due avvocati denunciano il ministro Alfano Ansa, 18 luglio 2011 Due avvocati veronesi hanno presentato una denuncia contro il ministro della giustizia Angiolino Alfano per maltrattamenti ai danni di detenuti ed abuso di autorità in relazione al sovraffollamento carcerario. “Il carcere di Verona doveva ospitare 251 detenuti, tollerabile un massimo di 472, ne ospita invece mediamente 850 nelle sezioni maschili e 70-80 nella sezione femminile - spiega l’avvocato Guariente Guarienti, firmatario della denuncia con il collega Fabio Porta. In uno spazio di circa 12 metri quadrati vivono quattro persone, costrette a vivere in una gabbia ed alternarsi, due in piedi e due a letto, perché quattro non possono stare in piedi contemporaneamente; ognuno ha tre metri quadri a disposizione, una situazione quasi di tortura permanente”. Per i legali “il ministro Alfano, al di là della sua responsabilità politica, deve essere indagato anzitutto per violazione dell’art.572, maltrattamenti in danno a persone affidate alla custodia, e 608, abuso di autorità nei confronti di detenuti”. “Non si possono imputare queste condizioni ai direttori delle carceri, ai giudici, agli agenti penitenziari e alle forze dell’ordine perché non possono influire sulle dimensioni delle celle - afferma Guarienti - la responsabilità fa capo al ministro che in tanti anni non ha provveduto a modificare la situazione per almeno ridurre la sofferenza dei detenuti”. L’Italia, ricorda il legale veronese, è già stata condannata dalla Corte europea - che ha specificamente parlato di “trattamenti disumani e degradanti” - a risarcire un detenuto bosniaco per non avergli concesso lo spazio minimo sostenibile di 7 metri quadri a persona, come stabilito dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura. La denuncia, depositata alla stazione principale dei carabinieri di Verona, è indirizzata al procuratore capo Mario Giulio Schinaia. Modena: il Comune; sovraffollamento del carcere sottovalutato, nessun nuovo operatore Dire, 18 luglio 2011 Nessun nuovo operatore assegnato, ma ben 54 agenti in meno rispetto a quelli che servirebbero, e 21 detenuti in più rispetti al numero massimo previsto. L’assessore Francesca Maletti: “Vuol dire che il ministero sta sottovalutando la situazione” Nessun nuovo operatore assegnato, ma ben 54 agenti in meno rispetto a quelli che servirebbero, e oltre 20 detenuti in più rispetti al numero massimo previsto. “Vuol dire che il ministero sta sottovalutando la situazione”. Lo afferma l’assessore del Comune di Modena alle Politiche sociali, Francesca Maletti, rispondendo in Consiglio a un’interrogazione di Maurizio Dori (Pd) sulla situazione del carcere di Modena. “Secondo i dati forniti dalla direzione, la Casa circondariale di Sant’Anna ospitava, a fine maggio, 430 detenuti di cui 28 donne. Il Comune ha più volte segnalato il sovraffollamento alle autorità competenti e sollecitato la nomina di un garante regionale, per tutelare il personale e i detenuti”, spiega Maletti. “L’indifferenza delle istituzioni mette a repentaglio l’incolumità degli operatori di polizia”, osserva Dori presentando l’interrogazione: la ricettività dell’istituto è di 220 detenuti, estensibile fino a 409, con 168 agenti di Polizia penitenziaria. “L’organico previsto - prosegue il democratico - è pari a 221, quindi c’è una carenza di 54 operatori, che comporta il ricorso a straordinari e la soppressione dei riposi”. Inoltre, aggiunge il consigliere, “il nucleo traduzioni e piantonamento deve soddisfare le esigenze dei tre istituti della provincia, con circa 500 tra detenuti e internati” e propone addirittura “una raccolta di fondi tra i cittadini, per sanare anche in parte una situazione non accettabile”. L’assessore chiarisce che “c’è ancora carenza di organico, ma per il periodo estivo è stato previsto l’invio di personale in missione. Attualmente gli operatori espletano 30 ore di straordinario mensile con un solo riposo settimanale”. Stando però ai dati forniti dalla direzione, fa sapere Maletti, “in nessun caso è messa in pericolo la sicurezza dell’istituto o della scorta. Ora sono in corso lavori per fornire le celle di nuove docce, riteniamo invece discutibile la scelta di investire, anziché nell’adeguamento della struttura, nell’ampliamento”. Ma su una cosa il Comune di Modena non intende transigere: “Quello che almeno chiediamo è che nel nuovo padiglione da 150 posti vengano trasferiti gli ospiti attuali e non sia aumentato il numero - afferma l’assessore - non ci sono state da parte del ministero nuove assegnazioni di personale: dei 41 agenti promessi ne sono arrivati solo 31. Non ritengo infine opportuna una raccolta fondi tra i cittadini: farebbe ricadere su di loro il peso di una scelta politica che non è locale”. Lanciano (Ch): uxoricida 81enne condannato tre giorni fa si suicida in un Centro anziani Ansa, 18 luglio 2011 Si è suicidato gettandosi da una finestra di un centro per anziani Luigi Del Bello, 81 anni, di Guastameroli di Frisa (Chieti), condannato tre giorni fa a 20 anni di carcere per avere ucciso il 21 luglio 2010 la moglie, Emidia Tortella (74). L’anziano era agli arresti domiciliari presso il centro; questa mattina poco dopo essersi alzato, si è lanciato dal primo piano della struttura riportando un gravissimo politrauma. Soccorso dal 118 è stato trasportato all’ospedale di Guardiagrele, e per l’aggravarsi della situazione è stato trasferito in elicottero al reparto neurochirurgico dell’ ospedale di Teramo dove è morto qualche ora dopo. Emidia Tortella, che era inferma, fu uccisa con una decina di coltellate al torace e al cuore. Opera (Mi): la riabilitazione è in forno… continua il boom delle carceri-panetterie di Fausto Biloslavo Il Giornale, 18 luglio 2011 Si parla sempre di carceri sovraffollate, di reclusi che si impiccano in cella o di star del crimine che fanno notizia in galera. Dietro le sbarre, però, ci sono pure altre realtà, come i detenuti di Opera, nei pressi di Milano e Marassi a Genova che sfornano ogni notte quintali di pane. Non solo per i compagni di celle, ma per il mercato esterno, il mondo libero. E a Trieste stanno per seguire lo stesso esempio, come è già capitato a Pavia, Bologna e Terni. Non solo: dietro le sbarre ci si ingegna nella produzione di prodotti alimentari per l’esterno, con i nomi più curiosi, dal vino “Il fuggiasco” agli amaretti “Dolci evasioni”, alle caramelle “Papillon”. “Ogni notte sforniamo una media di 6 quintali di pane, 365 giorni all’anno, oltre a pizza e focaccia. Fatturiamo un milione e mezzo di euro, ma a fine mese è sempre battaglia per far quadrare i conti” racconta al Giornale, Gianluca Rolla, parlando del panificio dentro il carcere di Opera. Responsabile della cooperativa “Il giorno dopo” fa lavorare 8 detenuti, su due turni, dalle 23 alle 6 del mattino quando viene sfornata l’ultima pagnotta. Il pezzo classico è il bovolino, un panino di 50 grammi, poi c’è il maggiolino, ma pure quello arabo per gli islamici e il pugliese su richiesta. Il pane del carcere di Opera finisce nella grande distribuzione, grazie a un accordo con Milano ristorazione, nei centri di accoglienza per gli stranieri, oltre che quelli di assistenza agli anziani del capoluogo lombardo. I detenuti panificatori guadagnano fra gli 800 e i 1.200 euro al mese, ma i risultati si vedono a fine pena. “Una volta scarcerato, uno dei ragazzi più bravi ha aperto in Lombardia un panificio assieme alla moglie” racconta Rolla. Il carcere di Marassi, a Genova, è l’altro istituto pioniere del pane al mondo libero. “Abbiamo cominciato con 10 chili e adesso ne sforniamo ogni giorno 3 quintali e mezzo” spiega Pietro Civello, di Italforno, la società che distribuisce i panini del carcere. I clienti esterni sono la Coop, ma pure ristoranti e la Caritas per il pane ai poveri. Sfornano anche le pagnotte al farro e alla soia, ma fra i detenuti che lavorano ogni notte imbiancandosi di farina ce ne sono due che facevano i panettieri prima di finire dentro. L’ultimo progetto sul pane dietro le sbarre è stato lanciato a Trieste nel carcere del Coroneo, dove i detenuti hanno già cominciato a servire il resto della popolazione carceraria. Adesso vogliono fare il salto di quantità rivolgendosi ai “commensali liberi”. I primi clienti garantiti sono le guardie carcerarie e risultano contatti in corso con i Vigili del fuoco. Il pane in eccedenza verrà distribuito ai poveri. Il direttore del carcere, Enrico Sbriglia, vorrebbe aprire addirittura uno “spaccio” fra il tribunale e il carcere, che sono contigui, “per permettere ai privati di prenotare pane e dolci”. L’intraprendenza del carcere non è piaciuta a Edvino Jerian, che a nome dei panificatori triestini ha protestato sulla stampa locale: “Siamo passati da 123 forni a una cinquantina con la concorrenza del pane sloveno, che viene acquistato dai supermercati. È una situazione già pesante e adesso ci si mette pure il Coroneo”. Nel 2008 erano sorti detenuti fornai anche nel carcere Dozza di Bologna e a Terni è nato dietro le sbarre il “Forno solidale”, per non parlare dei dolci. Al Due palazzi di Padova i dolci del Santo hanno ricevuto premi e riconoscimenti e sono stati serviti al G8 de L’Aquila. I prodotti “Dolci evasioni” di Siracusa, a base biologica, vengono distribuiti in tutta Italia. I detenuti si sbizzarriscono nei nomi e nelle etichette dei prodotti che poi vanno sul mercato. Roma: Sappe; sit-in a Velletri e Cassino contro il sovraffollamento delle carceri Adnkronos, 18 luglio 2011 Due sit-in di protesta organizzati dal Sindacato della Polizia Penitenziaria (Sappe) per denunciare quanto i gravi disagi che il sovraffollamento delle strutture di Velletri e Cassino renda ancora più difficoltose le quotidiani condizioni di lavoro dei poliziotti in servizio nei penitenziari e per tutelare l’onorabilità del Corpo di Polizia Penitenziaria. Li ha organizzati, d’intesa con la Segreteria Generale del Sapp, la Segreteria Regionale del Lazio del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria. “La situazione penitenziaria in tutta la Regione Lazio è allarmante” spiega Donato Capece, segretario generale Sappe e all’affollamento delle celle corrisponde una sostanziale carenza di Agenti dai Reparti di Polizia. Saremo a manifestare in piazza, davanti ai due penitenziari, il 20 a Cassino e il 27 a Velletri - riferisce - per denunciare quanto il grave sovraffollamento detentivo incida sulle già gravose condizioni di lavoro dei Baschi Azzurri del Corpo. “Cassino, con una capienza regolamentare di 172 posti letto, ospita in media 280 detenuti. Sovraffollamento - prosegue Capece - vuol dire lavorare in condizioni difficili, per le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria, oltre a eventi critici: che nel 2010 sono stati un tentativo di suicidio sventato in tempo dai nostri Agenti, 13 episodi di autolesionismo, 73 soggetti che hanno posto in essere ferimenti, 8 danneggiamenti di beni dell’Amministrazione (rotture cella e incendi) e 30 scioperi della fame. È evidente che servono urgenti interventi da parte dell’Amministrazione per porre un freno a questa grave situazione. Anche Velletri - conclude - ha una situazione penitenziaria assai problematica, ma il sit-in del 27 luglio sarà anche l’occasione per stringerci vicino ai colleghi della Polizia Penitenziaria che oggi si trovano al centro del ciclone per una vicenda giudiziaria sulle quale sarebbe opportuno evitare strumentalizzazioni e processi mediatici”. Ravenna: Bazzocchi (Lpra); il piano carceri avanza… il sindaco non dice nulla? Ravenna Notizie, 18 luglio 2011 “Apprendo che a Roma - dichiara Giulio Bazzocchi di Lista per Ravenna - il 18 maggio scorso, Franco Ionta, Commissario delegato per il Piano carceri e Vasco Errani, Presidente della Regione Emilia-Romagna, hanno siglato l’Intesa istituzionale per la localizzazione delle aree destinate alla realizzazione di nuove infrastrutture carcerarie previste dal Piano Carceri. Per risolvere l’emergenza dovuta al sovraffollamento delle carceri, in Emilia Romagna saranno realizzati cinque nuovi padiglioni detentivi a Bologna, Ferrara, Parma, Reggio Emilia e Piacenza, dove i lavori sono stati già iniziati a marzo. Ogni struttura, che amplierà gli istituti penitenziari esistenti e sarà dotata di quattro cortili di passeggio, avrà una capienza di 200 detenuti. I nuovi padiglioni, il cui costo previsto è di circa 11 milioni di euro ciascuno, saranno edificati in tempi rapidi secondo le disposizioni urgenti per la realizzazione di istituti penitenziari (legge 26 febbraio 2010, n. 26) stabilite per il Piano carceri. Come mai a Ravenna nulla di fatto? Come accade per esempio per le scelte in materia di viabilità ferroviaria e di manutenzione delle linee nonché dei treni (vedi la tratta Ravenna-Ferrara), anche per il Piano Carceri l’Emilia l’ha fatta da padrona, a scapito della Romagna. Non più tardi del 20 giugno 2010, all’indomani di una rissa scoppiata presso il carcere di Via Port’Aurea che coinvolse una ventina di persone, il Sindaco Matteucci tuonò nei confronti del Ministro Alfano: “È ora che faccia qualcosa per la sicurezza delle nostre carceri”! E concludeva: “Insieme ai nostri parlamentari studierò le iniziative da assumere per dare la sveglia ad un governo imbelle di fronte ad una situazione insostenibile”. Se non che, secondo quanto riferito dal sito del Governo, i lavori strutturali e di accordo proseguono ma evidentemente il nostro Sindaco non ha fatto valere la situazione a sua detta insostenibile del carcere di Ravenna per cercare di ottenerne un ampliamento, in previsione appunto dell’accordo del 18 maggio scorso. La situazione era ed è (visto che è passato un anno) veramente insostenibile o era uno spot cerca consenso? Al Sindaco la spiegazione”. Trento: presidente del Consiglio provinciale; no ad aumento numero dei detenuti Ansa, 18 luglio 2011 Il presidente del Consiglio provinciale di Trento, Bruno Dorigatti, ha visitato oggi pomeriggio la Casa Circondariale di Trento, accompagnato dalla direttrice Antonella Forgione e dal comandante della polizia penitenziaria. Dorigatti si è detto preoccupato per le notizie provenienti dal Ministero, che ipotizzano un aumento della capienza del carcere a 427 unità. “La struttura è stata realizzata per un massimo di 240 detenuti - ha osservato - e ciò significa che un aumento indiscriminato della capienza andrebbe a modificarne drasticamente la stessa natura. Questo è un istituto detentivo innovativo, immaginato per realizzare pienamente l’idea della pena in funzione della riabilitazione del detenuto”. Dorigatti ha apprezzato i primi investimenti concreti in attività lavorative e formative. “Il lavoro in carcere ha un valore superiore a quanto possiamo riconoscere: non è solo fonte di reddito, non è solo un mezzo di qualificazione professionale, ma ha una enorme valenza riabilitativa: attraverso la cultura del lavoro il detenuto acquisisce prima di tutto competenze sociali e relazionali, senso di responsabilità, fiducia in se stesso e negli altri”. Per questo motivo Dorigatti ha espresso l’auspicio che possano aumentare gli sforzi per offrire al maggior numero di detenuti la possibilità di accedere a queste attività interne. Il presidente del Consiglio - viene detto in una nota di palazzo Trentini - ha infine fatto propria la denuncia di una carenza di organico. Come ha affermato la direttrice, solo con una pianta organica completa si possono esprimere pienamente le potenzialità di questa struttura: “ho incontrato personale motivato, con buone idee e una visione moderna della pena detentiva - ha detto Dorigatti. Questo rappresenta la condizione di base perché il grande investimento che la Provincia ha fatto non rimanga un guscio vuoto, ma svolga appieno la sua funzione sperimentatrice e innovatrice a livello nazionale ed europeo. Il Ministero - ha concluso - rispetti i patti: su questo non siamo disposti a transigere”. Immigrazione: sui lager per i migranti il bavaglio di Maroni, giornalisti in rivolta di Marco Lionelli L’Unità, 18 luglio 2011 Il 25 diciamo no al carcere per gli innocenti ma anche al veto del Viminale che impedisce l’ingresso dei cronisti nei Cie. Già migliaia le firme raccolte. I nostri lettori non vanno in vacanza. Almeno non quando si tratta di firmare appelli importanti. Come quello che dice no al carcere per i migranti, persone innocenti, che scappano dalla povertà alla ricerca di un futuro migliore trattenute nei centri di identificazione fino a 18 mesi solo perché “colpevoli” di essere senza documenti. Una misura che calpesta i valori di proporzionalità, ragionevolezza ed uguaglianza sanciti dalla nostra Costituzione. La campagna, ideata dal Forum immigrazione del Pd e rilanciata. da l’Unità, ha già raccolto migliaia di firme sul nostro sito e adesioni importanti. Anche da parte dell’associazionismo, pronto alla mobilitazione. Come Spiega Tommaso Miraglia, responsabile immigrazione dell’Arci: “Il 25 luglio prossimo protestiamo tutti davanti a Cie per sostenere il diritto all’informazione e alla trasparenza. Denunceremo come questi luoghi siano di fatto l’emblema di tutto ciò che il governo è in grado di mettere in campo in tema di immigrazione e ne rappresentano ormai la prova del fallimento”. Perché, come abbiamo raccontato e denunciato più volte su queste pagine oltre a un decreto xenofobo Maroni ha imposto un bavaglio alla stampa sulla vergogna dei Cie. Per questo il 25, oltre a chiedere la chiusura dei lager di Stato, la Federazione Nazionale della stampa italiana, 1’Ordine dei giornalisti, l’Asgi, Articolo 21, Osf, European Alternatives e alcuni parlamentari dell’opposizione hanno deciso di manifestare contro la circolare interna con cui il ministro dell’Interno vieta ai giornalisti l’ingresso nei centri per migranti, sia quelli di accoglienza che auellidi detenzione. “Il ministro Maroni ha detto il presidente della Fnsi, Roberto Natale - deve riaprire i cancelli dei Cie o alimenterà terribili sospetti sulle condizioni e su quanto sta accadendo all’interno dei centri”. Questo divieto costituisce un “bavaglio per tutta la stampa, italiana e internazionale. Ci ritroveremo davanti ad alcuni centri, chiedendo di poter entrare e soprattutto che questo decreto venga rimosso”. Una situazione paradossale mante. Perché con il bel tempo sono ripresi gli sbarchi in Italia: circa 300 migranti di origine subsahariana sono sbarcati ieri a Lampedusa dopo una tregua durata soltanto cinque giorni. Altri 16 cittadini di origine curda sono arrivati invece nel Salento: tra loro una donna in avanzato stato di gravidanza che è stata immediata ricoverata in ospedale. Un’altra cinquantina di migranti è stata soccorsa a Riace: erano su una piccola a barca a vela. Venti sono minori. Profughi disperati che arrivano dall’Afghanistan, dall’Iran, dalla Siria. Anche con loro, il ministro Maroni applicherà il pugno di ferro. Noi diciamo no. Nigeria: carceri sovraffollate, ma soprattutto sistema giudiziario dove l’arbitrio è la regola Peace Reporter, 18 luglio 2011 Owerri, capitale dell’Imo, stato nigeriano del sudest. È solo un puntino nella carta di un Paese grande più di tre volte l’Italia e con quasi 160 milioni di abitanti. Ma è un centro che ospita una delle più famigerate prigioni federali della Nigeria. Alle “Agghiaccianti storie del carcere di Owerri” ha dedicato di recente un reportage il quotidiano Vanguard, al quale, per dipingere il quadro è bastato dare la parola al manager che gestisce il centro. “La struttura era stata progettata per ospitare 500 detenuti, mentre oggi qui ce ne sono 1600”, ha raccontato Gregory Ademuwi. Alla situazione carceraria nigeriana, esplosiva, hanno dedicato report numerose organizzazioni non governative come Human Rights Watch. È un problema noto ma che non si riduce al solo sovraffollamento, alle celle che scoppiano, alla mancanza di servizi igienici, a razioni alimentari insufficienti, ai letti che non bastano per tutti o a una popolazione carceraria che è anche difficile da censire. Non sono queste le condizioni che rendono “agghiaccianti” le storie di Owerri quanto piuttosto il fatto che buona parte dei detenuti non sanno perché sono lì o per quanto tempo ci rimarranno. Il 70 per cento circa di loro non è stata ancora processata e quindi non ha ancora subito una condanna che, di fatto, sta già scontando. È angosciosa, ad esempio, la storia di Chiconso Okey Anumba, che ha fatto tre anni di carcere prima di andare a processo ed essere condannato ad un anno di prigione: era accusato di aver insultato la sua matrigna. Ci sono anche persone accusate di reati più seri nella prigione di Owerri, detenuti come Uche Obioha o Okechukwu Ogbonna, sui quali pesa un accusa di omicidio e da 14 anni sono in attesa di giudizio. Avranno ancora molto da aspettare, perché i documenti relativi ai loro casi sono scomparsi, andati persi. Daniel Ohaeri, ad esempio, non sa nemmeno perché ha trascorso 13 anni dietro le sbarre: i capi d’accusa contro di lui non sono stati nemmeno formulati. Ma Owerri è solo un punto di una mappa più grande, in un arcipelago di prigioni che sono un buco nero del diritto. Il problema, insomma, non riguarda solo il sistema carcerario, a valle, ma quello giudiziario, a monte, e cioè indagini eseguite in modo approssimativo, con scarsi mezzi e poca competenza, con procedure eluse, processi che non iniziano mai e, se cominciano, impiegano una decina d’anni prima che si arrivi a sentenza. Questa è la vera ragione dell’emergenza carceri, che nel Paese è nota, tanto da aver costretto il legislatore a pronunciarsi più volte in materia ma con risultati quasi nulli. E così accanto a Owerri, ci sono la prigione di Ikowi, con una capienza di 800 posti e 1900 detenuti registrati, dei quali solo 24 hanno subito un processo e una condanna; c’é Port Hancourt che, progettata per ospitare 804 persone, a luglio 2010 ne accoglieva più di 2.900, soltanto 117 delle quali processate e condannate. Le cifre le ha confermate la massima autorità del Paese in materia, Olushola Ogundipe, il Comptroller General del servizio penitenziario nigeriano, il quale l’anno scorso ha fornito le seguenti cifre; al 31 luglio 2010, la popolazione carceraria ammontava a 47628 unità, delle quali 34 328 (il 77 per cento) senza un processo. Di queste anime perse in attesa di giudizio, più della metà aspetta da più di cinque e meno di 17 anni. E allora, alle istituzioni non resta che ricorrere a soluzioni all’italiana quando la situazione diventa molto esplosiva, facendo uscire detenuti. Durante il regime dei generali, caduto nel 1999, spesso, in occasione di feste nazionali, le autorità liberavano qualche migliaio di prigionieri: quelli più anziani, più malati, quelli con handicap o i bambini. Il governo, però, per far fronte all’emergenza, ha trovato anche un’altra strada: la pena di morte. Per quanto, da quando il potere è passato nelle mani dei civili le sentenze capitali vengano eseguite con una frequenza minore, le condanne a morte vengono ancora comminate. Già nell’aprile e nel giugno dell’anno scorso, in due riprese, in riunioni speciali organizzate tra il vicepresidente e i governatori dei 36 stati, il governo federale aveva chiesto di eseguire condanne a morte per “decongestionare il sistema”. Non deve quindi sorprendere che a dicembre, la Nigeria si sia astenuta dal votare la risoluzione Onu sulla moratoria del ricorso alla pena capitale. Per rimanere solo ai primi mesi di quest’anno, dal 14 febbraio all’8 luglio sono state comminate almeno 11 condanne a morte per impiccagione. L’11 luglio, la Corte suprema ha confermato la condanna a morte per Rabi Ismail, attrice nigeriana accusata dell’omicidio di un amico, che lei avrebbe drogato e annegato in una diga per rubargli i beni. Anche per lei c’è un cappio pronto. Russia: morte avvocato in carcere; due indagati.. ma per difensori diritti umani non basta Ansa, 18 luglio 2011 Nuovi indagati nella morte di Serghiei Magnitski, il trentasettenne avvocato del fondo d’investimento britannico Hermitage Capital morto in carcere in circostanze sospette nel 2009 dopo essere stato arrestato per presunta evasione fiscale: oggi il comitato investigativo ha annunciato di aver aperto un’inchiesta contro due ex dirigenti del Butirka, il centro di custodia cautelare preventiva dove Magnitsk è morto. Si tratta della dottoressa Larisa Litvinova e dell’ex vice direttore del carcere Dmitri Kratov, che era il suo diretto superiore, entrambi accusati di negligenza per aver negato le cure mediche all’avvocato, che soffriva di cuore. Ma Svetlana Gannushkina, membro del consiglio per i diritti umani presso il Cremlino, ha definito lo sviluppo giudiziario una “misura molto debole”, sostenendo che non si tratta di un caso di negligenza e di morte colposa, ma di un caso di tortura. A suo avviso è un tentativo di allontanare la responsabilità dalle persone veramente responsabili della morte del legale. Oggi l’associazione dei medici per i diritti umani (Phr) ha reso noto all’Ansa la prima analisi indipendente su richiesta della famiglia: la conclusione è che la morte di Magnitski è stata “il risultato di una calcolata e deliberata negligenza medica e di un inumano trattamento in carcere”. L’associazione denuncia inoltre i severi limiti posti dalle autorità russe all’accesso alla famiglia o agli esperti internazionali indipendenti alla documentazione e agli esami medici, compresa l’autopsia.