Giustizia: l'amnistia è l'unica maniera ragionevole per affrontare i problemi delle carceri di Adriano Sofri Il Foglio, 17 luglio 2011 Ho letto e apprezzato l’editoriale di venerdì sulla situazione delle carceri, cioè dei carcerati e delle altre persone che vivono di galera, e gli auspici circa il nuovo ministro della Giustizia - che suonano un può come un giudizio indiretto sull’uscente e promosso ministro della Giustizia. Ora, vorrei dirvi senza esitazioni che tutto l’elenco di misure cui alludete nel vostro commento, e le altre che non avete citato (più importanti di tutte quelle che riguardino i detenuti tossicodipendenti e gli stranieri messi dentro perché stranieri), tutte queste misure dunque non farebbero nemmeno l’effetto di un ventaglio per signora sull’afa dell’agosto penitenziario italiano. Chiunque conosca la questione sa che la richiesta di Pannella e dei Radicali, e delle molte altre personalità e associazioni che si impegnano per i detenuti e per una minore indecenza della giustizia pubblica, la richiesta di un’amnistia, è l’unica in grado di affrontare con qualche ragionevolezza il problema. E che pensare, come voi pensate, che l’amnistia sia una cosa per la quale “non ci sono le condizioni”, vuol dire ipso facto rinunciare ad affrontare il problema. L’amnistia è l’unica misura che tolga da celle di tortura un numero abbastanza vasto di persone e restituisca uno spazio e un’aria appena respirabili a chi vi resti, e insieme sgomberi i tribunali da un arretrato di processi senza, futuro che è pesante quanto e più del debito pubblico, salvo che questo peso schiaccia solo quel popolo mutilato di detenuti per il quale il resto del mondo, in Italia e fuori, non ha tempo di commuoversi. E le istituzioni internazionali, benché di tanto in tanto si pronuncino, non sono impensierite dal default della giustizia nemmeno un milionesimo di quanto lo sono della finanza, perché le persone non valgono nemmeno un milionesimo di euro. (Parentesi: in questi giorni Rita Bernardini, sulla scorta di un’inchiesta di Ristretti Orizzonti sugli appalti di mense e spacci in carcere, sta interrogando il governo sulla fantastica entità del costo per detenuto del mantenimento in carcere: 3 euro virgola 80 centesimi al giorno, prima colazione pranzo e cena. Poi gli appaltatori si rifanno sulla spesa. E immaginatevi i posti in cui da quella cifra bisogna detrarre le ruberie). Ora, la parola amnistia, come ricordate voi, è diventata impronunciabile dalla politica e dagli opinionisti a causa della viltà dei molti e del cinismo di alcuni, perché l’amnistia era già la misura indispensabile al tempo dello scorso indulto, perché avrebbe fatto evadere, coi detenuti rimessi fuori, una quantità maggiore di pratiche giudiziarie giacenti e inerti, sicché decretare l’indulto senza amnistia era un assurdo logico e pratico. Lo sapevano bene, ma si spaventarono della propria ombra e della campagna cinica dei demagoghi speculatori sulla galera altrui. Ci fu un vergognoso fuggi fuggi. Furono pochi a non rinnegare o tacere per viltà le loro opinioni, e fra i più autorevoli di quei pochi Napolitano e Prodi (cui la triviale campagna contro l’indulto preparò la caduta). Da allora, la frasetta sull’amnistia diventata impraticabile nelle condizioni eccetera viene ripetuta a memoria così da dimostrare che un errore commesso una volta può diventare la premessa di un errore perenne. I dati di fatto, a cominciare dalla percentuale di recidive tra i detenuti che non hanno mai usufruito di misure alternative e di indulto, e tra quelli che li hanno ottenuti, sono bellamente ignorati. Così, a questa demagogia vile e a questa viltà demagogica si sacrifica, con la verità, l’interesse alla sicurezza comune, il rispetto del diritto e della Costituzione, la vita dei carcerati e la dignità degli operatori della cosiddetta giustizia. Perfino notizie come la partecipazione ai digiuni di esponenti dei più in vista dell’Ordine degli avvocati passano in silenzio, e finiscono travolte dalle reazioni d’ordine dell’Ordine. Perfino le notizie sui magistrati che si ricordano, quando se ne ricordano, che le loro sentenze si traducono in illeciti e brutali sequestri di persona, passano sotto silenzio. Allora, senza farsi molte illusioni, e neanche poche - niente illusioni, è una delle traduzioni possibili di spes contra spem - unitevi almeno alla voce di chi dice: amnistia. Meglio dirla, la cosa appropriata, anche se “non ci sono le condizioni”. Del resto, la frasetta “non ci sono le condizioni”, è una specie dì parola d’ordine universale, un’insegna da affiggere sulla porta chiusa del pianeta d’oggi. Giustizia: Pannella domani da Napolitano; presto in Senato convegno sulla “grande riforma” TMNews, 17 luglio 2011 “Molto probabilmente già domani il presidente del Senato, Renato Schifani procederà a convocare per una data molto ravvicinata il grande convegno dove finalmente si potranno conoscere e valutare ragioni, modalità, mezzi, obiettivi della proposta di Grande Riforma istituzionale e sociale della Giustizia (con la sua tragica appendice penitenziaria) che da decenni il Partito Radicale avanza, oggi ancora di forte, sempre più evidente attualità, urgenza, necessità e sostegno di opinione pubblica”. Lo annuncia il leader storico dei Radicali italiani Marco Pannella in una nota. “Domani - aggiunge - sarò ricevuto dal Presidente della Repubblica al quale riferirò anche lo stato attuale, caratterizzato anche dal profondo e ampio connotato nonviolento della lotta per affrontare e risolvere il più grave problema istituzionale e sociale italiano, nell’ambito causale della crisi democratica e dello Stato di Diritto che, con l’attuale Regime, la Repubblica, le sue istituzioni e il suo popolo soffrono e subiscono”. Silvio Viale, presidente di Radicali Italiani, domani in sciopero fame su amnistia Silvio Viale, presidente di Radicali Italiani e consigliere comunale a Torino eletto nelle liste del Pd, sarà in sciopero della fame domani per sostenere l’iniziativa di Marco Pannella sull’amnistia. L’iniziativa, annuncia Viale, sarà ripetuto anche per le prossime sedute del Consiglio Comunale, per sensibilizzare il sindaco Piero Fassino, i consiglieri e gli assessori. “Si possono condividere o non condividere le proposte di Marco Pannella - afferma Viale - ma non si può negare che vi sia l’urgenza di affrontare i temi del degrado delle carceri e della giustizia. È urgente che il Governo e il Parlamento aprano un dibattito per trovare soluzioni che siano in grado di risolvere i problemi”. All’appello di Pannella hanno già aderito numerosi sindaci e oltre 400 parlamentari di tutti i gruppi. Giustizia: muore a 73 anni in 41-bis; gravemente malato, famiglia denuncia cure inadeguate La Sicilia, 17 luglio 2011 Il presunto capo del clan mafioso di “Palermo-Resuttana” Vincenzo Troia, 73 anni, cugino dello storico boss Mariano Tullio Troia, è morto l’altro ieri notte nel carcere milanese di Opera dove era detenuto al 41 bis. Il decesso arriva nel pieno delle polemiche innescate dal regolamento del “carcere duro” approvato dal Parlamento all’indomani delle stragi del 92-93. Gravemente malato da 2 anni, il presunto boss del quartiere Resuttana, attraverso il suo legale, Sergio Monaco, aveva fatto decine di istanze, allegando consulenze mediche in cui si attestava l’incompatibilità del suo stato di salute con la detenzione in carcere. I familiari di Troia hanno presentato denuncia lamentando proprio la scarsa attenzione riservata al congiunto dall’autorità giudiziaria e contestando le relazioni dei periti nominati dai collegi che hanno invece sempre ritenuto che il padrino potesse restare in cella. Qualche giorno fa la Corte europea ha bacchettato l’Italia sulla violazione dei diritti umani in fatto di carcere duro. Il Dipartimento degli affari giuridici avrebbe ventilato l’ipotesi di cancellare il 41 bis e questa voce ha fatto scattare la reazione di parlamentari e associazioni antimafia che ritengono il 41 bis un ottimo strumento per stroncare l’organizzazione mafiosa nelle carceri. Nella relazione del Dipartimento si legge, tra l’altro: “In prospettiva si potrebbe pensare di trasformare il 41 bis da regime speciale a regime ordinario di detenzione o addirittura a pena di specie diversa inflitta dal giudice con la sentenza di condanna e prevedere meccanismi di affievolimento o revoca nel corso dell’esecuzione alla stessa stregua di quanto accade per tutte le altre pene in genere”. Parole che qualcuno ha letto come una sorta di “resa” dell’Italia nella lotta contro Cosa nostra. “Sul 41bis nessun affievolimento, nessun arretramento, nessuna marcia indietro - dice il Guardasigilli Angelino Alfano - anzi, se è possibile, marcia avanti attraverso una sempre più efficace attuazione. Ricordiamo che nella legislatura precedente governata da Berlusconi il carcere duro fu stabilizzato, che in questa legislatura è stato rafforzato, che in questo momento, nelle nostre carceri, c’è il numero massimo di detenuti da quando tale istituto giuridico esiste”. Condannato a 12 anni per associazione mafiosa in primo grado, oggi Troia avrebbe dovuto essere giudicato in appello. Affetto da una grave forma di diabete e da una cardiopatia, Troia dal marzo del 2009 al maggio 2012 ha presentato decine di istanze all’autorità giudiziaria. Solo il tribunale del riesame di Milano ne ha disposto il ricovero al centro ospedaliero di Opera ma, secondo i familiari, il detenuto non si sarebbe mosso dalla cella. Qualche settimana fa, dopo una caduta, si era fratturato il femore. Dalla sesta sezione della Corte d’appello di Palermo, che oggi avrebbe dovuto giudicarlo, era arrivato l’ultimo no alla scarcerazione. A seguito della denuncia dei familiari - che vogliono si accerti se vi siano responsabilità nella morte, visto che diversi medici avevano certificato la gravità del suo stato di salute - sul corpo di Troia è stata disposta l’autopsia. “È stato un fulmine a ciel sereno, una grande fregatura - ha dichiarato la presidente dell’associazione familiari delle vittime di via dei Georgofili, Giovanna Maggiani Chelli - perché proprio ora? Comunque per me il 41 bis non viola i diritti umani. Quegli stessi diritti umani che i boss come Salvatore Riina si sono messi sotto i piedi la notte dei Georgofili. Un fatto è certo, oggi a Palermo si sta celebrando un processo sulla cosiddetta trattativa tra Stato e mafia. Un complicato accordo che tra i vari punti prevedeva l’uscita dal carcere di centinaia di mafiosi”. Giustizia: detenuto domiciliare sta male; rifiutato da 4 ospedali, muore dopo il ricovero Il Messaggero, 17 luglio 2011 Detenuto domiciliare rifiutato da 4 ospedali: “Non è grave”. Tragica odissea di dieci giorni tra Subiaco, Tivoli e Roma. I familiari: vogliamo chiarezza. Pd: sanità laziale allo sbando. La Regione Lazio ha chiesto alla direzione sanitaria della Asl RmG di attivare immediatamente una commissione d’inchiesta sul decesso di Giorgio Manni, il 51enne che per cinque volte, secondo quanto hanno raccontato i familiari al Messaggero, è stato rimandato a casa dagli ospedali a cui aveva chiesto aiuto. “Ho contattato il direttore sanitario - dice il presidente Renata Polverini - e ho sollecitato l’avvio immediato di una verifica affinché si faccia piena chiarezza su quanto accaduto negli accessi al pronto soccorso”. “Per cinque volte - dicono i familiari di Manni - è stato rimandato a casa dagli ospedali a cui aveva chiesto aiuto. Ha implorato di essere ricoverato perché aveva grossi dolori all’altezza dei reni e non riusciva a respirare. Ma in quattro diversi ospedali di Roma gli hanno risposto che poteva curarsi a casa. Solo la sesta volta quando ormai le sue condizioni erano disperate, al pronto soccorso di Subiaco hanno ceduto e hanno deciso di trasferirlo al Policlinico Tor Vergata, dove l’altro giorno è morto”. Ora i familiari di Manni chiedono che “sia fatta chiarezza” riferendo che “anche la richiesta del medico di famiglia è rimasta inascoltata”. Dal pronto soccorso di Subiaco, racconta la sorella, hanno risposto: “Si ribadisce l’assoluta incongruità di accessi al pronto soccorso, ancor più se effettuati utilizzando il servizio 118, per una sintomatologia cronica”. “Mio fratello urlava sto morendo, sto morendo non riesco più a respirare, perché non mi ricoverano - continua la sorella - E noi ci sentivamo impotenti. Ora vogliamo che sia fatta chiarezza, domani sarà effettuata l’autopsia. Perché per cinque volte mio fratello è stato respinto dal pronto soccorso mentre stava morendo?”. Il Direttore generale Tor Vergata: non potevamo fare di più. “Non potevamo fare più di quello che abbiamo fatto - dice Enrico Bollero, direttore generale del Policlinico di Tor Vergata - Abbiamo accolto il paziente e lo abbiamo sottoposto alle diagnosi e alle terapie del caso. È chiaro che sono dispiaciuto per ciò che è avvenuto, ora bisogna aspettare gli accertamenti dell’autopsia per una valutazione”. Montino: situazione sanitaria a rischio, la Regione non può più far finta di niente. “L’odissea vissuta da Giorgio Manni è semplicemente terribile e suona come un atto di accusa rispetto ad un sistema sanitario regionale allo sbando - dice il capogruppo Pd Regione Lazio Esterino Montino - Nella vicenda si intreccia, fino a farla detonare, quella miscela esplosiva che andiamo denunciando da tempo fatta da personale medico sotto stress, ospedali depotenziati o in via di smantellamento, pronto soccorso di strutture d’eccellenza oberate dagli accessi e sempre meno in grado di dare la giusta valutazione ai casi che si presentano. Non voglio strumentalizzare la vicenda, ma credo che, oggettivamente, l’impegno del medico di base, della famiglia dell’uomo e persino dei carabinieri nulla abbiano potuto contro la precaria organizzazione di strutture ospedaliere ridotte ai minimi termini e turni di lavoro di medici ed infermieri inaccettabili derivati dal blocco del turn-over. Come rappresentante delle istituzioni credo di dover chiedere scusa alla famiglia di Manni e credo debba farlo a maggior ragione la presidente e commissario ad acta, Renata Polverini. Ma non basta. La presidente istituisca subito una Commissione d’inchiesta per capire quali ragioni abbiano prodotto un black-out cosi grave del sistema e individuare tutte le responsabilità anche personali, ma soprattutto faccia convocare un Consiglio straordinario sulla situazione della sanità nel Lazio già nei prossimi giorni dando seguito ad una nostra richiesta inascoltata da sei mesi per apportare i necessari correttivi ad un piano di riordino disastroso. Faccio notare che dei quattro ospedali coinvolti in questa storiaccia, quello di Subiaco è destinato alla chiusura il prossimo ottobre, mentre il Cto è già stato depotenziato e come denunciato più volte, i Dea dei grandi ospedali non possono garantire a tutti i pazienti la qualità e l’attenzione necessarie. Ricordo che proprio nei giorni scorsi l’Ordine dei medici della provincia di Frosinone ha lanciato un allarme sulla possibilità che, perdurando questa situazione, si vadano creando condizioni tali da mettere a rischio la vita dei pazienti. Il loro appello è caduto nel silenzio, dopo la triste storia di Giorgio Manni la Regione non può più far finta di niente e deve assumersi le proprie responsabilità”. Tribunale diritti del malato: il problema è il deserto di strutture. “Non si possono trattare i pazienti come pacchi, rimbalzarli da un ospedale all’altro - dice Giuseppe Scaramuzza, presidente del Lazio del Tribunale dei diritti del malato-Cittadinanzattiva - Siamo davvero sconcertati dal problema della medicina territoriale: in questo caso c’è un medico di famiglia scrupoloso che ogni volta lo ha mandato in ospedale. Ma non essendoci alcuna attrezzatura a livello territoriale, il malato è stato “rimbalzato”. Il deserto delle strutture sanitarie e territoriali è il vero problema del Lazio, molto evidente nella provincia di Roma. Chiudono gli ospedali, ma non vengono date alternative, bisogna rispettare il principio della contemporaneità: ai cittadini va data un’alternativa agli ospedali. Se ci saranno delle responsabilità ci costituiremo assieme alla famiglia affinché non si ripetano casi del genere”. Ignazio Marino: istruttoria ai carabinieri del Nas. “È un quadro impressionante quello riportato dalla stampa di oggi, per questo ho chiesto ai carabinieri del Nas in servizio presso la Commissione d’inchiesta di avviare una istruttoria subito”. Così Ignazio Marino, presidente della Commissione d’inchiesta sul Servizio Sanitario Nazionale. “Quanto accaduto va verificato al più presto, perché è inaccettabile che una persona malata sia obbligata a cercare assistenza spostandosi di ospedale in ospedale, per trovare da sola una soluzione. Sembra profilarsi una preoccupante inefficienza della rete di emergenza e urgenza regionale, per questo ho chiesto ai Nas di acquisire tutti i documenti relativi al paziente e quanto sia necessario a certificare le richieste di aiuto ai nosocomi e i motivi del mancato ricovero”. Proietti: immediata chiarezza. “Come è possibile che un uomo recatosi per sei volte al Pronto Soccorso venga rimandato puntualmente a casa, fino all’ultima in cui è morto? Questo è accaduto a Giorgio Manni, un cinquantenne agli arresti domiciliari, che è stato protagonista di una tragica odissea tra gli ospedali del Lazio. L’inaccettabile giustificazione del personale sanitario sembra appigliarsi al sovraffollamento delle strutture di cura laziali, ma ciò, avendo causato la morte di un essere umano, è assolutamente inaccettabile. Serve subito chiarezza”. Lo afferma Francesco Proietti Cosimi, deputato di Futuro e Libertà per l’Italia. Maroni: apprezzo l’immediata inchiesta della Regione. “Apprezzo - ha detto Angiolo Marroni, garante dei detenuti nel Lazio - che il Presidente della Regione Lazio Renata Polverini abbia chiesto l’immediato avvio di un’indagine interna per stabilire quanto accaduto. Lo stesso, sembra, farà anche la Commissione parlamentare di inchiesta sugli errori e i disavanzi sanitari”. Voltaggio: morte assurda. “È inconcepibile che a Roma si possano verificare episodi di malasanità come questo”. Lo afferma in una nota Paolo Voltaggio, vicecapogruppo Udc in Campidoglio e membro della Commissione Politiche Sanitarie di Roma Capitale. “Auspico che la magistratura accerti celermente ogni responsabilità e venga dato anche dalle aziende sanitarie un chiaro segnale di trasparenza e di fermezza”. Giustizia: la drammatica testimonianza di Mario Trudu, in carcere dal 1979 a cura di Raffaele Vinciguerra www.infooggi.it, 17 luglio 2011 La lettera che segue è di Mario Trudu, un pastore sardo condannato all’ergastolo e in carcere dal 1979: quindi, esclusi 10 mesi di latitanza tra il 1986 e il 1987, vive in carcere da 32 anni. Senza nessuna prospettiva di non morire lì dentro. Mario Trudu è un uomo rassegnato, ma non abbastanza, forse è la rabbia a tenerlo ancora vivo. Eppure anche lui ha chiesto la morte al posto dell’ergastolo ostativo e ha chiesto di essere fucilato in piazza a Spoleto (città dove sta attualmente scontando l’ergastolo) per dare soddisfazione a tutti coloro che i “delinquenti” li vogliono vedere morti, anche dopo 32 anni di carcere. Invece il Tribunale gli ha risposto che la pena di morte non è prevista dall’Ordinamento Penitenziario, né dalla Costituzione. Lettera di Mario Trudu. Spoleto, 17 luglio 2011 Sono nato l’undici marzo del 1950 ad Arzana. Mi trovo in carcere dal maggio del 1979 con una condanna all’ergastolo. Scrivendo questo testo non lo faccio pensando di poter ottenere qualcosa, ma per informare, perché qualcuno in più venga a conoscenza della situazione in cui si trovano le persone che sono recluse, come me, con una condanna all’ergastolo ostativo. Siamo coloro che ogni giorno affrontiamo la nostra tragedia, la nostra vita senza speranza, eppure, lottiamo e combattiamo per una vita migliore. Mi preme dire a coloro che si trovano nella mia medesima situazione, e verso coloro che eventualmente vi si troveranno in futuro, che bisogna fare qualcosa. Troppo spesso si sente parlare di certezza della pena, ma occorrerebbe parlare di certezza della morte, perché in Italia chi è condannato alla pena dell’ergastolo ostativo può essere certo che la propria morte avverrà in carcere. Spesso si sente nei salotti televisivi qualche politico che batte i pugni sul tavolo inneggiando alla certezza della pena. A questi vorrei gridargli in faccia che la mia pena è talmente certa da giungere fino alla morte. Solo certe menti malate e distorte possono riuscire a superare l’insuperabile. Non si può introdurre come è stato fatto nel 1992 la norma dell’art. 4 bis O.P. (che nega i benefici penitenziari se non metti un altro in cella al posto tuo) e renderla retroattiva, applicarla cioè a reati commessi diversi lustri prima. Lo stesso vale per l’art. 58 ter O.P. (persone che collaborano con la giustizia), uno scempio per uno stato che si definisce di diritto. Da quando nell’Ordinamento Penitenziario è stato introdotto questo articolo, se vuoi ottenere i benefici penitenziari, sei obbligato a “pentirti”, lasciando in questo modo che si dimentichi che rieducarsi (se errori ci sono stati in passato) non significa accusare altri, ma cambiare dentro di sé. Il pentimento che pretendono loro è l’umiliazione. Per loro collaborazione significa perdita di dignità, fuoriuscire dalla sfera umana. Come può collaborare chi ha è stato vittima di processi compiuti con la roncola nei cosiddetti periodi di “emergenza” in cui contava solo la parola dell’accusa e dove i testimoni della difesa venivano sistematicamente arrestati e processati anche loro? L’Italia, dagli anni ottanta ad oggi, pare essere un paese in emergenza perenne. Si può negare ad un condannato all’ergastolo, dopo che ha scontato già trent’anni di carcerazione, la possibilità di ottenere un permesso? Il due settembre del 2009 il Tribunale di Sorveglianza d Perugia, a una mia richiesta di tramutare la mia condanna all’ergastolo in pena di morte (da consumarsi con fucilazione in piazza Duomo a Spoleto) ha risposto così: “Poiché la pena di morte non è prevista dall’Ordinamento né ammessa dalla costituzione, si dichiara inammissibile l’istanza in oggetto”. All’ergastolano, viene dunque proibito anche di scegliere di morire perché si vuole che affronti la vendetta dello Stato fino all’ultimo dei suoi giorni. Io ho sempre creduto che gli unici che avrebbero potuto pretendere vendetta nei miei confronti fossero la famiglia Gazzotti, l’uomo che ho sequestrato e che a causa di quella mia azione quel povero uomo morì. Solo loro credo che possano fare e dire tutto ciò che vogliono nei miei confronti, ne hanno tutti i diritti. Sicuramente trent’anni di carcere formano un altro uomo, perché oltre ai valori ed abitudini che già possiedi, ne assorbi altri e rielaborandoli ne ricavi una ricchezza. La pena dell’ergastolo per chi la vive come me, è crudele e più disumana della pena di morte, perché quest’ultima dura un istante ed ha bisogno di un attimo di coraggio, mentre la pena dell’ergastolo ha bisogno di coraggio per tutta la durata dell’esistenza di un individuo, un’esistenza disumana che rende l’uomo “schiavo a vita”. Occorre prendere coscienza che l’ergastolano ha una vita uguale al nulla e anche volendo spingere la fantasia verso previsioni future, resta tutto più cupo del nulla. Si parla spesso del problema delle carceri, ma non cambia mai nulla (o forse qualcosa cambia in peggio e il problema del sovraffollamento delle carceri lo dimostra). I suicidi nelle carceri sono proporzionalmente in numero maggiore di diciassette volte rispetto a quelli che avvengono nel “mondo esterno”. I “signori” politici dovrebbero pensare veramente per un attimo al disgraziato detenuto che non può morire in carcere per vecchiaia. Parlo dei politici perché la responsabilità è loro, perché se la legge del 4 bis non viene cambiata siano consapevoli che noi ergastolani ostativi dal carcere non potremo uscire mai: che diano risposta a questa domanda questi “signori”!. Sto sognando, lo so! Purtroppo un ergastolano può solo sognare. Fino ad oggi la mia trentennale carcerazione è stata interrotta da soli dieci mesi di latitanza (periodo che va da giugno del 1986 ad aprile del 1987). Venti anni fa entrai nei termini per poter usufruire dei benefici penitenziari e da allora ho iniziato a presentare diverse richieste per poterli ottenere, ma sono state respinte sistematicamente tutte fino a quando nel 2004 mi venne concesso un permesso con l’art. 30 O.p. (otto ore libero, senza scorta) per partecipare alla presentazione di un Cd-Rom sulle fontane di Spoleto, realizzato in carcere da noi alunni del quarto anno dell’Iistituto d’arte. Trascorsi quelle ore di permesso a Spoleto insieme ai miei familiari venuti appositamente dalla Sardegna, ed in compagnia di alcuni professori. Nel novembre del 2005 mi fu concesso un altro permesso, questa volta di sette ore, per la presentazione di una rivista sui vecchi palazzi di Spoleto, che avevamo prodotto in carcere. Trascorsi quelle ore a Perugia sempre con i miei familiari. A questo punto mi ero convinto che il fattore di pericolosità sociale attribuitomi fosse oramai decaduto e di conseguenza mi illusi che, di tanto in tanto, mi sarebbe stato concesso qualche permesso utile a curare gli affetti familiari. Purtroppo non fu così, perché dopo quell’ultimo permesso tutte le mie richieste furono respinte. Inizio a questo punto a chiedere con insistenza un trasferimento in un carcere della mia regione di appartenenza, affinché i miei familiari potessero avere meno disagi ad ogni nostro incontro, ma nulla da fare: la prima richiesta fu rifiutata e le successive non ebbero mai risposta. Ho presentato a più riprese richieste di permesso necessità per poter andare a far visita a mia sorella Raffaella che non vedo dal 2004 e che non si trova in condizioni per poter affrontare lunghi viaggi, ma anche queste vengono negate motivando che lei non si trova in pericolo di vita. Sono contento che mia sorella non sia in pericolo di vita. Sono state tante le mie richieste per un avvicinamento a colloquio al carcere di Nuoro, dove mi sarebbe stato possibile incontrare mia sorella, l’ultima l’ho presentata il due maggio 2011. Ma non mi hanno ancora risposto. Giustizia: Alfonso Papa; sarà per scelta del Pdl se finisco in cella da innocente Agi, 17 luglio 2011 “Se dovessi finire in carcere, sarà un’esperienza dolorosa e ingiustificata ma la vivrò serenamente”. Così Alfonso Papa, in una intervista a Repubblica. “Non sono stato accusato di alcuna percezione di denaro - afferma - sono del tutto estraneo alle accuse che mi vengono rivolte e sono ansioso di potermi difendere nel processo e dimostrare attraverso il processo la verità dei fatti”. Papa difende la moglie, Tiziana Rodà finita nell’inchiesta per consulenze: “Non c’è traccia, non le ha mai avute, né le ha chieste. Le notizie che la riguardano sono del tutto false”. E riferendosi alla P4 sottolinea: “per quanto mi riguarda non so cosa sia, non ho mai fatto parte di consorterie. L’ho appreso dai giornali e dalle carte dei Pm. Ma il Gip, con il no al 416, ha negato che esista una P4. Bisignani è un amico, dagli atti si evince che non conoscevo il carabiniere La Monica. Parliamo di una loggia segreta fra persone che si conoscono e che loggia sarebbe?”. Quanto alle dimissioni da deputato, Papa afferma: “sono pronto a fare i passi che mi saranno richiesti. Comprese le dimissioni”. E sul fatto di finire in carcere dice: “sarà una scelta del Pdl e della Camera”. Giustizia: Lisiapp; noi agenti vittime e non carnefici, nel mondo parallelo del carcere www.informazione.it, 17 luglio 2011 “Il Corpo di polizia penitenziaria ha bisogno di una rivisitazione della riforma ormai datata più di vent’anni”. Il carcere come avviene ciclicamente è ritornato alla ribalta! Anzi forse non è mai stato cosi all’onor delle cronache come in questi ultimi periodi. Ad affermarlo e il Dr. Mirko Manna segretario generale del Lisiapp (Libero Sindacato Appartenenti Polizia Penitenziaria) che sottolinea come purtroppo, sappiamo bene che per l’ennesima volta che se ne parla solo per vie di slogan oppure dei soliti cavalli di battaglia come indulto oppure amnistie. A ciò continua Manna la peculiarità del carcere che la società comune tende a dimenticare ricordandosene solo quando qualche detenuto meno anonimo muore all’interno di queste mura, o perché c’è una protesta dei detenuti. La chiave di volta per leggere le assurde vicende che stanno riempiendo i quotidiani e i telegiornali nazionali, senza escludere le tribune politiche e le trasmissioni tematiche, è proprio questo risveglio a cadenza ciclica che fa rabbrividire tutti gli uomini e le donne della Polizia Penitenziaria, considerate a volte ma molto spesso carnefici di coloro che fanno parte della società e non possono esserne considerati ai margini. Analizzando seppur in modo superficiale il problema, afferma il Segretario Generale Lisiapp chi si trova all’interno delle mura del carcere, sia esso persona detenuta o agente di Polizia Penitenziaria, sa bene che vive in una specie di mondo parallelo dove le regole di sopravvivenza sono dettate da complicate norme codificate che non tengono spesso conto delle difficoltà della coabitazione e che troppo spesso non rispettano i dettami costituzionali in materia di umanizzazione del trattamento e, non ultimo, dei diritti dei lavoratori. Non possiamo negare che nella situazione attuale è come se ci si trovasse in una società in cui le regole convivenza fondamentali fossero appalesate da ordini perentori e da leggi stringenti in un contesto in cui la limitazione del diritto di libertà si traduce in una compressione del diritto ad una vita degna di definirsi tale a causa delle condizioni abitative che impongono una convivenza forzosa e superiore a quella umanamente consentibile. Volendo poi affrontare il problema dei conflitti legati alla coabitazione, aggiunge il massimo dirigente sindacale, non bisogna trascurare il fatto che questi riguardano tutta la società perché i comportamenti violenti, si verificano anche fuori dalle mura penitenziarie e non trovano alcuna giustificazione al loro interno, ma accadono giornalmente tra i detenuti e contro il personale di Polizia Penitenziaria. La difficoltà di convivere con le limitazioni imposte dalle strutture il sovraffollamento la inadeguatezza degli ambienti che ospitano le persone detenute e un sistema di relazioni che passa attraverso la buona volontà e alla professionalità del personale, spesso poco formato per affrontare con efficacia momenti critici, sono alla base di una problematica che negli ultimi tempi è esplosa in modo eclatante. Non passa un giorno denuncia Manna senza che un agente finisca in ospedale per le percosse di detenuti violenti troppo esasperati dalle disumane condizioni di vita. Non dimentichiamo gli ultimi casi poco noti a volte all’opinione pubblica troppo distratta, come per quelli accaduti nelle strutture di Rossano in Calabria dove un detenuto aggredisce e ferisce 5 agenti, a Rieti dove sono finiti in ospedale 2 agenti di polizia, e ancora a Reggio Emilia un detenuto extracomunitario aggredisce ferisce 2 agenti, in Piemonte ad Ivrea altro detenuto extracomunitario aggredisce e ferisce anch’egli 3 agenti, e altri 2 agenti feriti all’Opg di Montelupo Fiorentino. Per chiudere appena la seconda decade del mese di luglio ricordiamo l’ennesimo suicidio di un assistente di polizia penitenziaria che si è tolto la vita nel suo paese di origine il primo luglio scorso era in servizio nella struttura penitenziaria di Parma. A questo fa notare il Segretario Generale oggi assistiamo invece sugli organi di stampa una massiccia visibilità al corpo di polizia penitenziaria sotto forma di “massacratori” come se a Sassari o a Velletri (ultimi casi di questi giorni) sia vigente una pratica che fa sprofondare il carcere all’epoca medioevale. Fermo restando che le autorità inquirenti accertino in fretta le responsabilità personali, non è giusto eseguire le condanne e l’appellativo di massacratori a tutto il corpo di polizia penitenziaria. Noi vorremmo che tutto il mondo politico/istituzionale si soffermasse sulle cose che si stanno verificando per riflettere sul risultato che avranno e, purtroppo, non possiamo smettere di pensare che il personale di Polizia Penitenziaria sia vittima e non carnefice. La spiegazione sta nella storia del Corpo sottolinea con forza il Dr. Luca Frongia segretario generale aggiunto del Lisiapp, che oggi, a quasi vent’anni dalla riforma ha bisogno di una rivisitazione di quella riforma in modo complessivo sia della propria legge istitutiva, dei decreti attuativi collegati e di tutte le norme che mai ne hanno pienamente qualificato la professionalità. Una forza di Polizia continua Frongia che, è bene ricordarlo, è costretta a vivere all’ombra di un direttivo non specifico al Corpo di polizia che sempre più spesso tendono a ritagliarsi un piedistallo da quale gestire senza condividere e coordinare concretamente il funzionamento complessivo delle varie figure che lavorano nel carcere. Un Corpo di circa 45.000 uomini e donne che ancora oggi non ha un vero vertice organizzativo autonomo, che soffre di una carente organizzazione ma anche da una precaria e costante assenza di corsi di aggiornamento del personale, una polizia che ha pochi giovani che vanno a sostituire chi da anni si trova nelle sezioni detentive, detenuti anch’essi con una semilibertà al contrario (liberi 16 ore al dì). Un Corpo che non ha mezzi moderni, costretto a lavorare in postazioni contrarie ad ogni legge sulla salubrità del posto di lavoro, che in alcune strutture risalenti a un secolo fa, sono presenti bagni dotati di turche senza un minimo di dignità per la propria persona, che è in prima linea senza il supporto di strumenti automatizzati, motivo per cui percorre chilometri al giorno ad aprire e chiudere celle stracolme di soggetti ristretti. L’elencazione delle difficoltà continua ancora il segretario generale aggiunto sarebbe molto più lunga e complessa, ma se le poche cose sopra riportate possono sembrare crude, non sono riportate per giustificare le violenze contro qualsiasi persona detenuta, costituiscono una realtà che va considerata. Per questa ragione è bene precisare che siamo pronti ad accettare quanto sarà accertato dall’Autorità Giudiziaria, come sempre fatto ,anche per quanto riguarda i casi di suicidio (di personaggi che sono diventate vittime passando prima per strade che hanno spezzato la vita di chi ha fatto il possibile per migliorare il mondo del lavoro) e sulle cause della morte del giovane nel reparto detentivo dell’ospedale romano, ma non possiamo tollerare le alzate di scudi di chi si ricorda del carcere solo in queste occasioni. Bisogna che questi autorevoli personaggi del mondo politico/giornalistico, si interroghino su quanti sono i detenuti con intento suicida salvati dalla Polizia Penitenziaria, e sul perché non si parla mai di quanti sono gli uomini e le donne aggrediti da persone violente che nel carcere come nella vita non hanno alcun rispetto della persona. Siamo davvero indignati per gli attacchi sulla stampa e da chi dovrebbe tenere in debita considerazione che la speranza di un recupero del reo non si decanta sulle pagine di un giornale o dalle frasi di un esponente politico ma si cerca con mezzi concreti e con attività che debbono coinvolgere tutta la società. Basta con l’ipocrisia di lavarsi la coscienza parlando di pochi martiri, ai quali comunque va il nostro umano rispetto, le vittime sono i 45.000 poliziotti penitenziari che a fronte di una necessità organica superiore alle 50.000 unità, subiscono ogni giorno carichi di lavoro terribili. Si trovino delle soluzioni immediate afferma Frongia per un incremento delle piante organiche invece di parlare solo di aumento dei posti per i detenuti, si parli di ripristinare le strutture penitenziarie compresi i fatiscenti Opg, che hanno bagni e caserme da terzo mondo, prima di costruire nuovi carceri. Abbiamo accolto il “piano carceri” con fiducia ma subordinandolo ad un massiccio piano di arruolamenti ma occorre anche un ripristino della dignità lavorativa del personale con interventi che possono anche sembrare troppo scontati come il rifacimento dei bagni che usano gli agenti nelle sezioni detentive. Di certo chiude il segretario Frongia è che l’esperienza insegna che nel passato una massiccia edificazione penitenziaria non ha prodotto carceri efficienti ma, è noto a tutti un proliferare di “obbrobri” che oggi sono completamente da mettere in sicurezza. Auspichiamo conclude il Segretario Generale Manna che la società, quella buona, si accorga che il carcere è la società stessa e non può restare l’altra faccia per sempre, altrimenti la lotta tra le vittime e i carnefici sarà sempre impàri. Lettere: i suicidi in carcere sono una sconfitta per la società di Egidio Sarno (Presidente della Camera penale di Bari) Ristretti Orizzonti, 17 luglio 2011 Lunedì 18 luglio alle ore 21 ci sarà una fiaccolata silenziosa innanzi al carcere di Bari per denunziare ancora una volta il grave problema del sovraffollamento e delle condizioni di vita nelle carceri italiane. L’ ennesimo suicidio avvenuto il 27 giugno 2011 nella Casa Circondariale di Bari, (il quinto in sei mesi nelle carceri pugliesi, il secondo in meno di tre mesi nel carcere di Bari) costituisce l’inesorabile conseguenza delle condizioni disumane in cui vivono in Italia i detenuti, e conferma il collasso del sistema penitenziario. Nelle carceri non vi è alcun rispetto della persona, valore fondamentale della nostra civiltà occidentale. Le condizioni delle carceri italiane, infatti, minano ogni giorno la salute e la dignità delle persone detenute. L’art. 6 del regolamento penitenziario afferma che “i locali in cui si svolge la vita dei detenuti devono essere igienicamente adeguati”. La realtà è ben diversa: persone rinchiuse in piccole celle per 22 ore al giorno, celle buie, fredde d’inverno e roventi d’estate, dove i detenuti consumano anche i loro pasti, con un piccolo lavandino, dove spesso l’acqua non esce, con letti a castello (anche a quattro piani) accatastati alle pareti. A tutto ciò devono aggiungersi le difficilissime condizioni di lavoro degli operatori penitenziari, soprattutto della Polizia Penitenziaria, spesso costretti a turni massacranti a causa delle gravi carenze di organico. I numeri parlano da soli. Attualmente in Italia le presenze effettive dei detenuti sono pari a 68.000, a fronte di una capienza regolamentare di 45.732. In Puglia la capienza regolamentare sarebbe di 2.492 detenuti, ma le presenze effettive corrispondono a 4.486 detenuti. Eclatante il dato relativo al carcere di Bari che, pur con una sezione chiusa, ospita ben 550 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 210. Occorre che la società civile si mobiliti e che anche i media riconquistino il ruolo di forza determinante per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla necessità di considerare il detenuto, che deve giustamente pagare i suoi debiti con la società, comunque, persona con tutti i suoi diritti. L’indifferenza verso ciò che accade oggi nelle carceri è una barbarie. La nostra Costituzione, frutto di battaglie per la libertà, ha inteso affermare e tutelare i diritti di tutti i cittadini, pertanto crediamo che l’opera di denuncia e di sensibilizzazione sia importante per far comprendere che senza il superamento della cultura della pena carceraria non risolveremo mai i problemi di sovraffollamento, dei suicidi in carcere, delle recidive. Occorre che la politica si renda conto che senza una adeguata prevenzione, una effettiva depenalizzazione, un rilancio delle misure alternative e una nuova normativa sulla custodia cautelare, la situazione delle carceri non potrà essere risolta. Per queste ragioni invitiamo i cittadini e le associazioni alla fiaccolata, che si terrà il 18 luglio p.v. alle ore 21, innanzi al carcere di Bari, in silenzio, senza comizi, senza bandiere, per testimoniare che, nonostante tutto, la fiamma dei diritti e delle libertà continua ad ardere e a dare luce a questo paese. Alla fiaccolata hanno dato la loro adesione Il Carcere Possibile Onlus delegazione di Bari “Giuseppe Castellaneta” - Associazione Antigone sezione di Bari - Ordine degli Avvocati di Bari - Associazione Italiana Giovani Avvocati - Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria - Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria. Pistoia: visita ispettiva al carcere di Rita Bernardini, al 41esimo giorno di sciopero fame Ansa, 17 luglio 2011 Ieri visita ispettiva al carcere da parte di una delegazione Radicale composta dalla deputata Rita Bernardini, Manila Michelotti, di Radicali Pistoia, Matteo Angioli, membro del Comitato Nazionale di Radicali Italiani e dal Consigliere Comunale dei Verdi Lorenzo Lombardi. Rita Bernardini è giunta oggi al 41esimo giorno di sciopero della fame: un digiuno intrapreso a sostegno dell’iniziativa nonviolenta di Marco Pannella, al quale hanno aderito ormai 28 mila persone - tra detenuti e loro familiari, direttori, agenti, operatori penitenziari, rappresentanti di associazioni e cittadini liberi - per chiedere un’“Amnistia per la Repubblica” che ponga fine allo stato di illegalità delle carceri italiane e ripristini il funzionamento della giustizia. Caserta: Opg Aversa; presto disponibilità di strutture per ricovero internati dimissibili Il Mattino, 17 luglio 2011 “Solo una goccia nel mare della sofferenza, le cose fatte in questi mesi non sono assolutamente sufficienti a migliorare la grave situazione dell’Opg di Aversa”. Lo ha dichiarato Nicola Caputo, consigliere regionale e presidente della commissione trasparenza nel corso dell’audizione sull’ospedale psichiatrico a cui hanno partecipato Anna Petrone (consigliere regionale e vicepresidente commissione sanità), Carlotta Giaquinto (direttore penitenziario Opg Aversa), Raffaello Liardo (referente progetti dimissione Opg), Giuseppe Nese (coordinatore attività Osservatorio regionale sanità penitenziaria Campania). “Abbiamo in più occasioni chiesto la chiusura della struttura di Aversa - spiega Caputo - Tra malattia e suicidi, si registra un’impressionante sequenza di morti che è indispensabile arrestare. Risulta improcrastinabile a questo punto - precisa Caputo - rimuovere qualsiasi ostacolo lesivo della dignità umana è un diritto di ogni cittadino, in qualsiasi situazioni si trovi”. Nell’Opg vengono trattenute anche persone che potrebbero essere dimesse o affidate a strutture alternative, che purtroppo sono ancora assenti. “Su questo terreno sono stati fatti passi avanti, nel corso dell’audizione abbiamo appreso che presto saranno presto disponibili due Sir, ovvero strutture intermedie, una si trova nel territorio di Piedimonte e l’altra a Marzanello. Queste strutture potrebbero alleviare il peso dell’Opg di Aversa”, annuncia Caputo. Reggio Emilia: appello per chiusura dell’Opg; mancano le condizioni per cura e sicurezza Dire, 17 luglio 2011 È stato lanciato ieri dalla “Società della ragione” a un incontro, organizzato in municipio, per sensibilizzare la cittadinanza sulle condizioni degli ospedali giudiziari. “Chiudiamo l’ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia e tutti quelli italiani”. È l’appello lanciato oggi dalla “Società della ragione” a un incontro, organizzato in Municipio, per sensibilizzare la cittadinanza sulle condizioni degli Opg italiani e delle persone che vi sono ospitate e chiedere l’adesione alla campagna nazionale “Stop Opg”. La campagna è stata lanciata da Forum Salute mentale, Forum per il diritto alla salute in carcere, Cgil, Antigone, Centro Basaglia, Conferenza permanente per la salute mentale nel mondo Coordinamento Garanti territoriali diritti dei detenuti, Fondazione Franco e Franca Basaglia, Forum droghe, Psichiatria democratica psichiatria democratica e Società della ragione. A Reggio, sede di uno dei sei Opg italiani, è l’assessore comunale alle Politiche sociali Matteo Sassi a farsi portavoce dell’abolizione. “Gli Opg sono luoghi di custodia, dove non ci sono le condizioni per curare ma neanche per garantire sicurezza alla collettività. Non sono in grado di attivare veri percorsi riabilitativi e rappresentano un buco nero del nostro ordinamento giudiziario”, dice. Piuttosto servirebbero piccole realtà sul territorio che diano risposte in termini di sicurezza alla comunità e di cura per la persona. I sei Opg italiani ospitano circa 1.400 persone. “Tuttavia - sottolineano i promotori della campagna - il problema del sovraffollamento non è centrale, è la concezione a essere sbagliata”, perché le “strutture sono inadatte a offrire percorsi di cura e di reinserimento”. Da qui la richiesta che arriva oggi da Reggio: finanziare subito i 350 progetti terapeutico-riabilitativi individuali e redigere una nuova legge basata sul fatto che l’incapacità totale di intendere e volere è talmente eccezionale da non giustificare l’esistenza degli Opg. Reggio Emilia: detenuto dell’Opg evade dall’ospedale, preso in stazione Agi, 17 luglio 2011 La carenza di personale tra gli agenti di polizia penitenziaria acuisce ogni giorno di più il problema del sovraffollamento. E non mancano gli episodi che accrescono l’allarme. L’ultimo, soltanto qualche giorno fa, con l’evasione di un ricoverato dell’Opg, poi rintracciato e fermato nei pressi della stazione ferroviaria. L’uomo, ricoverato all’Opg, nei giorni scorsi era stato trasferito al Santa Maria Nuova per alcuni accertamenti medici. Nessun piantone davanti alla sua stanza, nessun agente di scorta. E non per negligenza, ma per assoluta carenza di personale. Così, al pomeriggio l’uomo si alza dal letto, si veste, esce dalla stanza, lascia l’ospedale. Nessuno lo ferma. Ad accorgersi della sua scomparsa gli infermieri e il personale dell’ospedale cittadino, che danno immediatamente l’allarme. Alcuni agenti della polizia penitenziaria, avvertiti dell’evasione rientrano in servizio salgono su un’auto che arriva (in prestito) dal dipartimento di polizia penitenziaria di Bologna e si mettono alla ricerca dell’evaso. Che verrà rintracciato poco dopo nei pressi della stazione ferroviaria. “La situazione - dice Michele Malorni, segretario del sindacato Sappe - in questi ultimi mesi è ulteriormente peggiorata, la carenza di personale si fa sempre più pesante. Mancano gli agenti per le traduzioni”. Bologna: cercansi manodopera e pennelli per imbiancare le celle alla Dozza… Ansa, 17 luglio 2011 Hanno lanciato un appello a intellettuali, scrittori, uomini di cultura, dirigenti politici, semplici cittadini: rimboccarsi le maniche e imbiancare le celle del carcere bolognese della Dozza. L’appello, lanciato da Roberto Morgantini e Mattia Fontanella, e denominato, con un po’ di sarcasmo “Vernissage”, è già stato raccolto da Alessandro Bergonzoni. Nei giorni scorsi che la commissione diritti umani del Senato e il sindaco Virginio Merola hanno visitato il carcere lanciando per l’ennesima volta l’allarme per le condizioni del carcere. “C’è necessità - dicono Morgantini e Fontanella - urgente di intervenire. Di far sentire la propria voce di cittadini. Perché il carcere non è altro dalla città. Ne fa parte. Come le persone che sono, temporaneamente, in stato di detenzione. Perché il livello di civiltà di una comunità si misura dalla capacità di includere, farsi carico dei più deboli”. Per questo è stata lanciata la disponibilità “a promuovere azioni utili a rendere meno penosa e gravosa la permanenza in carcere. Da subito chiediamo agli intellettuali, scrittori, uomini di cultura, dirigenti politici, semplici cittadini di mobilitarsi per un obiettivo minimo ma fondamentale: rendere dignitose le celle in cui vivono i detenuti. Come? Intanto, imbiancandole. C’è bisogno di manodopera. Di vernici, tempera, pennelli e molto altro...”. Rossano (Cs): protesta degli agenti “arrabbiati per scarsa considerazione delle istituzioni” Gazzetta del Sud, 17 luglio 2011 Ha dormito in alcuni locali del carcere il primo gruppo di agenti di polizia penitenziaria che ha dato vita alla nuova modulazione della protesta che va ormai avanti da settimane. Come annunciato dal coordinamento delle organizzazioni sindacali, è stato dato corso all’auto consegna, ossia al termine del normale orario di lavoro, gli agenti rimangono nel penitenziario. Fanno ciò continuando anche a non consumare i pasti serviti in mensa. Una situazione ormai giunta al limite e per la quale, purtroppo, non sembra intravedersi una soluzione, almeno per il momento. Ad oggi, in fatti, nessun tipo di riscontro è pervenuto dal capo dell’amministrazione penitenziaria, Franco Ionta, in ordine alla richiesta d’incontro formulata con ben due documenti e sollecitata ormai da tre interpellanze parlamentari (due di Giovanni Dima e una di Antonio Di Pietro), nonché dal diretto coinvolgimento di un ministro della Repubblica. L’adesione del personale alle manifestazioni è quasi unanime e a tal proposito i sindacati sottolineano come ciò dia l’dea di come il disagio sia reale e non strumentale. Ad amareggiare di più gli agenti è la scarsa o nulla considerazione da parte delle istituzioni preposte nei confronti della richiesta di un incontro fatta da mesi, del disagio manifestato e della protesta attuata, senza mai venir meno al proprio impegno lavorativo pur se in condizioni ormai vicine al collasso. La situazione del penitenziario di Rossano, infatti, per come denuncia il coordinamento delle sigle sindacali, resta molto critica e vive in equilibrio assai precario, nonostante tutto il personale di polizia penitenziaria con grande senso di responsabilità operi per garantire all’utenza l’erogazione, nel miglior modo possibile, dei servizi, ritenendo importante lo status dl cittadino anche se detenuto. Dopo gli attestati di solidarietà, giunti da Giuseppe Caputo e dal sindaco Giuseppe Antoniotti, anche in virtù dell’aggressione subita da cinque agenti, rimasti feriti, nel tentativo di calmare un detenuto straniero che si era scagliato contro di loro, è di ieri la solidarietà manifestata anche dal sindaco di Cariati Filippo Sero. “Trasmettendo alle guardie carcerarie ed a tutto il personale di polizia penitenziaria sentimenti di sincera e convinta solidarietà - dichiara Sero - esprimo fortissimo sdegno e condanna per quanto accaduto. Purtroppo, aggiunge, si continuano a registrare gravi momenti di rottura del vivere civile, delle più elementari regole del rispetto reciproco e perfino dei reciproci ruoli, conseguenze che ci invitano a riflettere. Conosco da vicino i problemi e la realtà in cui versa il complesso penitenziario, per questa ragione, a nome mio personale e di tutta la Giunta, invito a tenere alta l’attenzione su questo pesante disagio, rispetto al quale l’impegno di tutti, ad ogni livello, non dovrà risparmiare sforzi”. La prossima assemblea degli agenti, per fare in punto della situazione, è prevista per mercoledì prossimo, ma non è escluso che, molto prima di quella data, possano essere messe in campo ulteriori azioni di protesta. Velletri (Rm): denunciò la corruzione nel carcere, ex cuoco pestato per aver parlato di Dimitri Buffa L’Opinione, 17 luglio 2011 La storia di Ismail Ltaief non è solo una vicenda di comune mala giustizia all’italiana consumatasi nel carcere di Velletri per la quale cinque agenti di polizia penitenziaria, tra cui tre addetti alle cucine, da oggi verranno processati a Velletri per reati che vanno dalle lesioni alla violenza privata. No, è anche l’eroica saga di un uomo, tunisino trapiantato in Italia, con precedenti per reati politici negli anni ‘80 e una condanna per detenzione di armi finita di scontare solo pochi mesi orsono, che è stato cuoco del carcere di Velletri nonché testimone di ruberie e di peculati sul cibo dei detenuti da parte di burocrati dell’amministrazione penitenziaria. E per questo minacciato di morte, pestato a sangue in galera con la connivenza, ha detto, di alcuni agenti delle guardie carcerarie e oggetto persino di un tentativo di corruzione (rifiutò 15 mila euro per ritrattare) che ieri in una conferenza stampa alla Camera dei Deputati, organizzata dalla deputata radicale Rita Bernardini, alla presenza di Marco Pannella, del suo avvocato Alessandro Gerardi e di Irene Testa della associazione “Il detenuto ignoto”, ha voluto fare conoscere all’opinione pubblica italiana uno dei lati B del pianeta carcere. La storia di Ismail che faceva il cuoco e vedeva tutti i giorni sparire il cibo più pregiato che può passare quel tipo di convento, cozze e peperoni, niente di che, che però prendeva spesso la direzione della casa di alcuni degli attuali imputati (Roberto Pagani, Giampiero Cresce, , Carmine Fieramosca, Antonio Pirolozzi e Muro Bussoletti, tutti liberi ma con l’obbligo di firma) invece che quella della mensa del carcere è a suo modo esemplare. Gli altri detenuti erano costretti a mangiare pasta in bianco quasi tutti i giorni. Vuoi che qualcuno vada a controllare le prepotenze quotidiane di un piccolo penitenziario? Ma lui, Ismail, teneva un diario. Così, solo alla fine, in un brutto contesto di omertà, il 19 maggio 2010 la denuncia è giunta sul tavolo del magistrato. Il resto lo stabilirà il dibattimento. Milano: clochard ucciso a botte nell’ufficio della Polfer, due agenti condannati a 10 e 3 anni di Giuseppe Guastella Corriere della Sera, 17 luglio 2011 Pestarono a morte un clochard che aveva avuto l’ardire di provocarli in un battibecco. Entrato sulle proprie gambe con i due agenti, dall’ufficio della Polfer della stazione Centrale di Milano, l’uomo era uscito in barella per morire nell’ambulanza che lo portava in ospedale. Ieri la Corte d’assise di Milano ha condannato a dieci anni di carcere per omicidio preterintenzionale e falso uno dei due poliziotti e a 3 anni l’altro, accusato solo di falso. Giuseppe Turrisi, 58 anni, originario di Agrigento, viene fermato da Emiliano D’Aguanno e Domenico Romitaggio la sera del 6 settembre 2008 nei pressi della stazione Centrale. Sei persone parlano ad alta voce e bevono vino. Quando i due poliziotti si avvicinano, il gruppetto si scioglie, resta solo Turrisi. Ha una famiglia, dei figli, ma vive da vagabondo. Le telecamere di sorveglianza della stazione lo filmano mentre segue gli agenti fino all’ufficio, ma i poliziotti scriveranno in una relazione di servizio, da qui l’accusa di falso, che Turrisi barcollava ed era già sanguinante prima dell’ingresso, che li avrebbe minacciati con un taglierino e che, mentre intervenivano per disarmarlo, si sarebbe sentito male. Per il pm Isidoro Palma non fu così. “Per 35 minuti Turrisi è rimasto in balia degli imputati - ha detto il magistrato - che lo hanno picchiato per motivi di astio” . L’autopsia scopre ecchimosi al volto, al capo, al torace e al braccio sinistro, “infiltrazioni emorragiche” alla testa e alle reni, ma soprattutto una costola che, rompendosi, ha spaccato la milza. Si dice “soddisfatto a metà” l’avvocato Giuseppe Fiorella, il penalista che difende Romitaggio (ha avuto 3 anni), pronto all’appello, sicuro dell’innocenza del suo assistito. Commenti Roma: detenuto per 10 mesi accusato di rapina… ma è lui vittima di un furto d’identità La Repubblica, 17 luglio 2011 Detenuto per mesi per una rapina mai commessa. Fabrizio Bottaro, stilista romano di 40 anni, ha passato quasi un anno in carcere prima di essere scagionato. “Un classico furto di identità”, secondo il suo legale, Fabrizio Merluzzi. Ora i giudici hanno fatto decadere le accuse a Bottaro e trasmesso gli atti alla procura perché proceda contro l’uomo che lo aveva denunciato. Secondo il giudizio immediato, lo stilista, il 22 luglio dell’anno scorso, con un’altra persona, avrebbe minacciato un terzo uomo per farsi consegnare una Bentley. Ma al collegio dei giudici della VI sezione del tribunale penale di Roma sono bastate poche udienze per capire che L. N., titolare di una società di recupero di autovetture, e parte offesa nel processo, aveva fornito agli agenti del commissariato Viminale una versione dei fatti priva di riscontro. La vicenda è legata ad un tentativo di frode ai danni di una società assicurativa in relazione alla “sparizione” del veicolo. “Si ipotizza che lo stesso L. N. possa aver ideato una falsa rapina”, scrivono i giudici. Inoltre, secondo quanto accertato dalla polizia stradale di Trieste, impegnata in indagini sul riciclaggio di autovetture all’estero, l’auto incriminata era già sottoposta a fermo amministrativo ed era a rischio confisca. In aggiunta, il giorno dell’arresto di Bottaro, il 22 luglio 2010, la Bentley della quale è stato denunciato il furto in realtà era sparita da tempo. Lo stilista è stato scagionato perché il fatto non sussiste e il suo difensore ribadisce: “La vicenda avrà sicuramente un seguito. Per un anno il mio assistito è stato messo fuori dal mondo e, durante la detenzione a Regina Coeli, gli è stato anche impedito di incontrare il suo difensore”. La non colpevolezza dell’imputato è confermata dalle carte dei giudici: tra Fabrizio Bottaro e L. N. non c’è mai stata neppure una telefonata, né un solo elemento che potesse giustificare un processo. Cinema: al Giffoni Film Festival il calvario del carcere minorile in “King of Devil’s Island” Italpress, 17 luglio 2011 Un ignobile calvario di maltrattamenti e abusi sessuali all’interno di un carcere minorile fanno da sfondo a “King of Devil’s Island”, il film in visione oggi al Giffoni Film Festival, nella sezione Generator +16. La pellicola, tratta da una scioccante storia vera, che ricorda lo “Sleepers” di Bard Pitt, Kevin Bacon e Jason Patric, è interpretata da Stellan Skarsgard, pupillo di Lars von Trier (con il quale ha girato tra gli altri “Le onde del destino” (1995) e “Dogville” (2003) e la cui filmografia si arricchisce di titoli come “Schindler’s List” (1993) di Steven Spielberg, “Will Hunting - Genio ribelle” (1997) di Gus Van Sant, “Hustruskolan” (1976) di Ingmar Bergman, “L’insostenibile leggerezza dell’essere” (1988), “Caccia ad ottobre rosso” (1990) al fianco di Sean Connery. “King of Devil’s Island”, al Giffoni Film Festival per i ragazzi con più di 16 anni, è ambientato nella Norvegia dell’inizio ‘900. Il film racconta storie di giovani che si struggono per riprendersi la propria libertà e sfuggire all’impietosa violenza che regna sull’infernale isola-prigione in cui si trovano a scontare la propria pena. Vittime di abusi mentali e fisici da parte un regime oppressivo e sadico esercitato dalle guardie e dal direttore della prigione, i ragazzi trovano sostegno e speranza soltanto tra di loro. Un giorno, un nuovo detenuto, Erling, di 17 anni, progetta un piano per scappare dall’isola. Dopo un tragico incidente, Erling finisce per segnare i destini dei suoi compagni, guidando una violenta rivolta. I ragazzi riescono ad assumere il controllo della prigione, ma 150 soldati vengono inviati per ristabilire l’ordine. Diretto da Marius Holst, “King of Devil’s Island” è la terza pellicola del regista, già in concorso a Giffoni nel 2008 con “Mirush”. Immigrazione: migliaia di firme contro la vergogna dei Cie di Luciana Cimino L’Unità, 17 luglio 2011 Migliaia di italiani dicono no a quei lager contemporanei che sono i Cie (Centri identificazione ed espulsione). Sono arrivate ad oltre 2500 le firme raccolte sul sito dell’Unità a sostegno dell’appello lanciato dal Partito democratico e dal Forum immigrazione “No al carcere per gli innocenti”. Cittadine e cittadini che si rifiutano di rilasciare all’Italia definitivamente la patente di paese xenofobo e razzista. Il decreto-propaganda voluto dal ministro Maroni che porta la detenzione per i migranti da 6 a 18 mesi è appena passato alla Camera. Ora il passaggio al Senato, nel segno però di una protesta civile che monta ogni giorno di più. Come testimonia Fortresse Europe (l’aggiornatissimo blog di Gabriele Del Grande) da gennaio ad oggi sono state quasi quotidiane le rivolte o i tentativi di fuga. Persino quelli di suicidio. E tutto questo è nascosto all’opinione pubblica italiana perché la stampa, in base alla circolare 1305 emanata in aprile da Maroni, lì non può entrare. Domani, 25 luglio, è attesa una grande mobilitazione sotto i Cie di tutta Italia, organizzata da Fnsi con il Pd e la Cgil-Immigrazione di Piero Soldini che è fra i primi firmatari dell’appello sul nostro giornale. “Ho firmato perché la Cgil da sempre fa battaglie contro i Cie”. Soldini va dritto al punto: “Sono lager, anche se il ministro Maroni fa di tutto per negarlo impedendo l’acceso alla stampa, i cittadini alla fine conoscono le condizioni disumane che si vivono lì dentro”. La Cgil - Immigrazione fornisce anche dei dati. “Anche se Maroni lo nasconde l’Italia è il paese che fa meno rimpatri d’Europa; di quelli che vengono effettuati solo una misura irrisoria proviene dai Cie, un numero insignificante. Oggi la direttiva europea prevede i rimpatri assistiti che sono molto più laboriosi ma più corretti dal punto di vista umano. Tutti gli altri paesi europei che applicano in modo regolare la direttiva fanno più rimpatri dell’Italia con il suo cattivismo istituzionale”. Secondo Soldini non si può più nascondere quella che ormai è una verità tristemente assodata e che va combattuta, anche con lo strumento delle firme che convoglia l’indignazione dei cittadini e agevola la partecipazione: “Siamo al razzismo di governo”. “Su questo tema l’esecutivo è ostaggio della Lega e continua a fare norme irrazionali per propaganda ma che non hanno nessuna razionalità ed efficacia. È intollerabile che ci siano i Cie in un paese civile, è insopportabile il fatto che la detenzione sia estesa a 18 mesi. È solo una punizione senza efficacia, è un cattivismo senza obiettivi” ripete Soldini. Tra l’altro, spiega Soldini, “18 mesi di carcere duro senza tutele e senza diritti è oneroso per l’erario perché costa 50 euro al giorno per ogni “detenuto” quindi 30mila euro per 18 mesi”. Per la Cgil-Immigrazione va disvelata la “grande ipocrisia del governo”: “Dice che è impegnato nel contrasto all’immigrazione clandestina, facendo breccia anche nel centrosinistra, in realtà però il governo ha scelto l’immigrazione irregolare, quella ricattabile, perché è funzionale al lavoro nero, all’economia sommersa che nel nostro paese è un quinto del prodotto interno lordo. Abbiamo fatto una mappatura delle zone a rischio Rosarno, se sovrapponiamo la mappa dei Cie sorti dopo l’emergenza di questa primavera ci rendiamo conto che sono gli stessi luoghi dove si sfrutta la manodopera immigrata. Da una parte si alza la bandiera dell’immigrazione clandestina e si creano lager dall’altra si facilita l’incontro di domanda e offerta di lavoro nero”. Cuba: appello di Simone Pini; sono in carcere da un anno… ma non ho fatto nulla La Nazione, 17 luglio 2011 Drammatico appello di Simone Pini, il fiorentino detenuto nel carcere di Cuba, sotto accusa per la morte di una ragazzina. Quando in Italia sono le nove di sera, nel carcere di Combinado del Este, L’Avana, sono le tre del pomeriggio. L’ora d’aria. C’è chi fuma e c’è chi gioca a pallone. E chi si rode il fegato, dal 30 giugno scorso: Simone Pini, “l’italiano”. Squilla il telefono. Una voce scorbutica alza la cornetta. Dall’altro capo del filo, e del mondo, vogliono proprio lui. Siamo noi. Pochi secondi e il fiorentino, 43 anni, detenuto a Cuba perché accusato di aver partecipato a un festino hard in cui morì una ragazzina di dodici anni risponde: “Pronto...”. Per questa brutta storia, cominciata a Bayamo il 14 maggio del 2010, ci sono in carcere 14 persone. Oltre a Pini, altri due sono italiani: Angelo Malavasi, modenese, e Luigi Sartorio, vicentino. Pini e Sartorio, oltre a un crudele destino, dividono pure la stessa cella. Da un anno e un mese. E non vedono la fine. Anzi: “Dicono che sta per arrivare una richiesta di 25 anni di condanna - dice Pini - per dei reati fabbricati, come ai tempi di Stalin. Vogliono rovinarmi la vita, la situazione è di una gravita estrema. Chiedo una denuncia contro Cuba per violazione dei diritti umani o che siano obbligati a fare delle indagini giuste”. Ma sono state formalizzate le imputazioni contro di voi? “Ancora non sappiamo bene di che cosa ci accusano. Abbiamo sentito dire in questi giorni che è in arrivo questa richiesta. Per fatti avvenuti nei due mesi che io ero a Firenze. E io non so ancora chi è il mio avvocato. Siamo alla follia”. Come vi siete mossi in tutto questo tempo? “L’ambasciata italiana qui a Cuba ci dice di stare zitti, che se parliamo con la stampa peggioriamo la situazione. C’è toccato per un anno reggere questo silenzio. Ma io dal primo minuto in cui sono entrato qua sto lottando per la mia innocenza, ho mandato 50mila lettere da tutte la parti. Con le mie carte d’innocenza si stanno pulendo il c.... È un abuso dei diritti umani. Le mie prove sono inconfutabili anche a Cuba” Quali sono? “Ho molti testimoni, ho le chiamate telefoniche dall’Italia, quelle sono tutte partite da Firenze, da casa di mio padre, dai miei cellulari, dal centro telefonico messo dietro al mercato di San Lorenzo, che bisogna avere la scheda per chiamare da lì. E poi ci sono le prove dell’immigrazione: dicono chiaramente che io e Luigi Sartorio non eravamo a Cuba il 14 di maggio, ma mancavamo io dal 29 marzo, lui dal 1° aprile. Non sappiamo perché un organo del Ministero degli Interni cubano dice questo e la polizia, che è sempre organo del Ministero degli Interni, dica un’altra cosa”. Ma tutto questo non è stato preso in considerazione? “Faccio un appello al suo giornale affinché le persone che mi hanno visto al Pignone, il mio quartiere, i miei amici, si facciano vivi, raccolgano firme, si riuniscano in un comitato. Io ho fatto una cena alla casa del popolo del XXV Aprile, a metà aprile, sono stato al circolo Potente, al bar Fabbri, dove sono nato, andavo in un bar notturno dei benzinai al Galluzzo, in via Senese, conosco bene il proprietario. Il 15 maggio (il giorno dopo l’omicidio, ndr) io mi trovavo a Empoli, con i signori Angelo Amenta e Domenico Cugliandro: che tutte queste persone si facciano sentire, voglio che l’Italia sappia che non c’entro con questa storia. Anzi, dico all’Italia: investigate su di me. Quello che mi stanno facendo è un sequestro di persona, e stanno sequestrando tre italiani. Un altro italiano che, per fortuna sua non è più venuto a Cuba sennò sarebbe qui dentro con noi, è il signor D.F. (anch’egli fiorentino, di cui Pini indica nome e cognome, ndr). Cioè? “Questo signore è negli atti, c’è il suo nome da tutte le parti. È un altro ricercato che non è stato cercato, perché se Cuba chiede all’Italia il signor D.F. per “asesinado” e corruzione di minore, il 14 maggio, gli ridono in faccia. Noi purtroppo siamo venuti qua a fine maggio e mi sono trovato in mezzo all’inchiesta e m’hanno preso: quello è stato il mio errore, essere nel posto sbagliato al momento sbagliato”. E loro quali prove hanno contro di voi? “Nessuna. Ci stanno accusando su delle supposizioni, su una storia inventata e fatta cantare con la forza a più persone, che poi queste persone stanno tutte dicendo che questa storia non è mai esistita. Ci accusano due donne che non sappiamo nemmeno chi siano, così come non ho mai visto la morta, né io, né Sartorio, né Malavasi. E non avevamo rapporti neanche tra noi stessi, avevo soltanto appena conosciuto Malavasi”. Messico: rivolta nel carcere di Nuevo Laredo; sette detenuti morti, 59 evasi Ansa, 17 luglio 2011 Almeno sette prigionieri sono morti e altri 59 sono riusciti a fuggire dopo una rivolta scoppiata ieri nel penitenziario messicano di Nuevo Laredo, città frontaliera con gli Stati Uniti, nel nord del Messico. Lo ha annunciato il governatore dello Stato di Tamaulipas. Truppe dell’esercito hanno circondato l’edificio che ospita 1.238 detenuti. Secondo le autorità locali ci sarebbero anche diversi feriti. India: uomo muore per emorragia cerebrale in seguito a un interrogatorio della polizia Agi, 17 luglio 2011 Polemica in India, dopo che un uomo è morto di emorragia cerebrale in seguito a un interrogatorio della polizia a Mumbai in relazione agli attentati di mercoledì scorso. Faiz Usmani è stato portato in ospedale dagli agenti dopo essersi sentito male per problemi di ipertensione ed è deceduto dopo poche ore. Il figlio ha accusato gli agenti di essere responsabili per la sua morte: “Lo hanno prelevato e torchiato durante l’interrogatorio”. Usmani non era sospettato di essere coinvolto nel triplice attacco che ha fatto 19 morti nella capitale finanziaria del Paese, ma era stato fermato perché il fratello è un militante dei Mujaheddin indiani, un gruppo islamico locale, in carcere per una serie di attentati del 2008 nel Gujarat. “Lo abbiamo interrogato sì e no per un’ora”, ha affermato il portavoce della polizia, Nisar Tamboli, sottolineando che “era sotto cura di farmaci e non prendeva le sue medicine da tre-quattro giorni”. Un medici dell’ospedale Lokmanya Tilak di Mumbai ha confermato che il decesso è avvenuto per un’emorragia cerebrale, un fatto che di solito “capita quando una persona altrimenti normale è esposta a uno shock o a un disturbo mentale”. La polizia ha aperto un’inchiesta e la magistratura ha disposto l’autopsia.