Giustizia: e ogni estate ci ricordiamo del cimitero dei vivi… di Bruno Simili La Repubblica, 15 luglio 2011 Puntualmente, al pari di ogni estate, si torna a parlare di emergenza carceri. Come se la situazione drammatica in cui sono costrette a vivere nel nostro Paese oltre centomila persone, tra carcerieri e carcerati, per il resto dell’anno fosse tollerabile. In realtà la situazione italiana è nota da molti anni e la Corte europea dei diritti dell’uomo continua a segnalarne la gravità. Sia per la crescita della popolazione carceraria (più che raddoppiata in meno di vent’anni, passando da 25.000 a 61.000 detenuti), sia per lo stato delle carceri, “il cimitero dei vivi”, come lo chiamò Filippo Turati oltre un secolo fa. Del resto il sistema carcerario italiano è un sistema “chiuso” che, al prezzo di tre miliardi di euro l’anno, produce il 70% dei recidivi in circolazione. Ma più si rinuncia a ogni tentativo di reinserimento, più la recidiva sale. Così la porta delle carceri diventa una “porta girevole”: si va in galera, si torna nel mondo dei “civili”, ma poi, presto o tardi, in galera si rientra. Come è stato documentato anche nei giorni scorsi, la situazione della nostra regione è drammatica. I detenuti in Emilia-Romagna sono quasi 5.000, la metà dei quali stranieri, rispetto a una capienza di 2.400 posti, cui si aggiunge la cronica carenza di agenti. A fronte di una tale emergenza, che si rincorre, aggravandosi, anno dopo anno, occorre riconsiderare l’idea del carcere non come un luogo del tutto distinto dal resto. Un “non-luogo” che non ci riguarda. La legge fornisce già indicazioni in questo senso, rifiutando il carcere come discarica del disagio sociale, tutto centrato sul mero controllo dei corpi, ma inteso invece come rivolto a persone, seppure private della libertà, integre nei diritti fondamentali: salute, affetti, lavoro, studio, religione, movimento, privacy, manifestazione del pensiero (oggi, mediamente, la spesa giornaliera sostenuta per la “rieducazione” di ciascun detenuto è pari a 20 centesimi di euro). Un luogo concepito non come la fine di una vita ma l’inizio di un nuovo percorso. Che una volta per tutte sia in grado di invertire la tendenza dei suicidi (arrivano a triplicare nelle condizioni di maggiore affollamento). Non occorre rileggersi Bentham né Foucault per figurarsi la crudeltà fisica di edifici come la Dozza o il Pratello, che devono fare i conti con i cronici problemi di sovraffollamento (all’Emilia-Romagna spetta il “primato” nazionale). Lo ammette anche il ministro: “siamo seduti su una bomba che può esplodere da un momento all’altro”. Ma intanto i progetti per l’edilizia carceraria non vanno avanti. Grandi proclami, molte promesse e ritardi. Quindi lievitazione dei costi (il carcere di Gela è in costruzione da mezzo secolo). Ma sempre meno risorse, come è stato ricordato dal presidente del Tribunale di sorveglianza di Bologna Francesco Maisto, che ha competenza sulla Dozza e su tutti i tredici istituti della regione (“stanno finendo i soldi per l’acquisto dei generi di prima necessità per i detenuti: dalla carta igienica al sapone”, ha denunciato il sindacato di polizia penitenziaria). Eppure, come dimostra l’esperienza pilota di Bollate, le norme scritte che prescrivono un carcere civile possono concretizzarsi, primo passo per restituire, con la dignità, i diritti di cittadinanza. Soprattutto grazie al contatto con il “fuori”, ad esempio attraverso la collaborazione tra amministrazione penitenziaria e istituzioni locali, approfondendo le esperienze già avviate. Perché una donna o un uomo che rientrano nella società dopo anni di vessazioni subite, spesso senza aver potuto godere di alcun tipo di assistenza, non possono che rappresentare un peso e un ostacolo per la società stessa. Oltreché, naturalmente, un enorme fardello morale. Giustizia: il sovraffollamento carcerario si combatte anche applicando le leggi esistenti di Desi Bruno* Ristretti Orizzonti, 15 luglio 2011 Ricordo a tutti che nelle regole penitenziarie europee approvate dal Comitato dei ministri degli stati del Consiglio d’Europa già nel 2006 è scritto che la mancanza di risorse non può giustificare condizioni di detenzione che violino i diritti umani .A partire da questa regola qualcosa si può comunque fare, affinché la sconsiderata riduzione delle risorse destinata al penitenziario non diventi un alibi per non operare laddove è possibile. Tutte le carceri del paese sono al limite della resistenza a causa del sovraffollamento, con un aumento della tensione nei luoghi di privazione della libertà personale, e con tutto il corollario che ne può derivare in termini di violenza, disperazione, violazione della dignità della persone. Le riforme sono necessarie, ma nulla vieta che si possa già ridurre il sovraffollamento a partire dalle leggi esistenti, sia per quanto riguarda le persone condannate in via definitiva sia per chi è in custodia cautelare. La soluzione per far fronte all’immediato, da più parti invocata, passa attraverso una puntuale applicazione, per le persone condannate in via definitiva, della legge Gozzini del 1986, recuperando le autorità competenti il senso delle misure alternative che, dati alla mano, concorrono ad abbattere i numeri della recidiva. Si tratta, innanzitutto, di una importante sfida culturale che il nostro Paese, prima o poi, non potrà esimersi dall’affrontare se davvero si vuole contribuire a creare sicurezza reale per la società tutta. Al di là della soggettiva percezione di insicurezza che può provare il singolo cittadino dinanzi all’ipotesi di un condannato che sconta la pena in misura alternativa i numeri sono inequivocabili: la percentuale di abbattimento della recidiva in questi casi è straordinaria, producendosi per questa via la responsabilizzazione del soggetto il che significa sicurezza per la società. Così come un diverso uso della misura cautelare carceraria, coerente con la normativa vigente, impedirebbe a migliaia e migliaia di persone di entrare in carcere per pochi giorni, con oneri immensi per lo stesso e inutile impatto con la privazione della libertà personale e i drammi che ne conseguono. Poi, non bisogna stancarsi di ripetere che va subito ripresa la riforma del codice penale, la riscrittura delle leggi sulle droghe, sull’immigrazione, la cessazione del legiferare in via di emergenza inasprendo le pene e aumentando le figure di reato, l’abrogazione della cd. ex Cirielli, per quanto riguarda la disciplina della recidiva. Solo interventi di riforma che siano strutturali rispetto al tema della pena potranno garantire un approccio tendente alla soluzione complessiva della questione, con una risposta punitiva nella forma della carcerazione che dovrebbe riguardare solo quei casi in cui vengono lesi beni di primaria importanza, con una riforma del codice penale tendente al superamento della centralità della pena detentiva, prevedendo una diversa tipologia di sanzioni, tra cui l’utilizzo dei lavori socialmente utili, o che comunque prevedano condotte riparative e restitutorie nei confronti dei singoli e della collettività. * Avvocato, già Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Bologna. Membro del Comitato scientifico Coordinamento Garanti Territoriali. Giustizia: i “sans papier” delle carceri di Valentina Ascione Gli Altri, 15 luglio 2011 Non è stata una protesta, quella inscenata dieci giorni fa a Roma dai direttori delle carceri e degli uffici dell’esecuzione penale esterna, davanti alla sede del Ministero della Funzione Pubblica. Enrico Sbriglia, segretario nazionale del sindacato direttori penitenziari (Si.Di.Pe.) che ha promosso e guidato la manifestazione - “la prima nella nostra storia” - preferisce definirla denuncia. La denuncia di chi da sei anni è chiamato a gestire un’emergenza straordinaria, ma ormai saldamente radicata nella quotidianità, senza un contratto di lavoro che ne definisca formalmente ruolo e funzioni. “Siamo dei sans papier”, spiega, “forse avremmo dovuto mobilitarci prima che la situazione degenerasse fino a questo punto, ma siamo pur sempre servitori dello Stato e scendere in piazza per chiedere quanto già previsto dalla legge ci costa fatica. È come ribellarsi a un padre o a una madre”. Un corto circuito, un disturbo bipolare in seno alle istituzioni che si scatena quando lo Stato è il primo a tradire le sue stesse regole. Quella di Enrico Sbriglia è una testimonianza di trincea, appassionata e senza filtri, che raccogliamo in una torrida domenica di luglio raggiungendolo al telefono nel suo ufficio nel carcere di Trieste. È la descrizione di un malessere profondo che affligge, all’interno della comunità penitenziaria, anche coloro che la sera possono varcare i cancelli per tornarsene a casa propria. Impossibile però lasciarsi alle spalle, anche solo fino al mattino seguente, il dramma che giorno dopo giorno si rinnova dietro le sbarre, o il disagio che nasce e matura in condizioni di lavoro ostili, spesso proibitive. Qualcuno infatti non ce la fa. “Negli ultimi anni si sono suicidati due colleghi, entrambi in modo cruento, con un colpo di arma da fuoco”. La memoria va al provveditore regionale della Calabria Paolino Quattrone e ad Armida Miserere, direttrice del carcere di Sulmona, tristemente noto per l’alto tasso di suicidi. “Dicono che siano nella norma, i suicidi, ma io contesto che si possa “normare” un fatto così tremendo. Trattare il suicidio in chiave statistica equivale a trasformarlo in un affare burocratico”. Così il carattere eccezionale proprio di ogni tragedia si maschera di normalità, una normalità dai confini deformi, assottigliati, stiracchiati nel tentativo, troppe volte riuscito, di comprendere anche ciò che il buon senso vorrebbe fuori dall’ordinaria amministrazione. Come, ad esempio, la differenza tra la capienza regolamentare e la capienza tollerabile degli istituti penitenziari, che sembra derogare a un diritto in virtù della sopportazione possibile, ma non scontata, di un disagio. “Ma la tollerabilità di una capienza sta esattamente nella sua regolarità, non al di fuori - osserva Sbriglia, mi sembra così ovvio...”. Le carceri non sono alberghi e nessuno chiede che lo diventino, precisa il segretario del Si.Di.Pe., lo Stato però dovrebbe essere, oltre che compassionevole, il primo garante dei diritti umani. Diversamente, andrebbe ad ingrossare le fila di chi quei diritti preferisce ignorarli o, peggio, calpestarli. Eppure la forbice tra quel che è posto a fondamento di uno Stato di diritto e sancito dai principi costituzionali, e ciò che invece accade appare sempre più larga. La disattenzione al mondo delle carceri è evidente e trova conferma nel disagio dei dirigenti costretti a mobilitarsi per rivendicare i propri diritti di lavoratori e che nel corso della manifestazione hanno distribuito il testo dell’ordinamento penitenziario listato a lutto per sottolineare, appunto, la distanza che separa la legge da quello che realmente si fa negli istituti di pena in materia di salute, prevenzione e sicurezza. Il dibattito che negli ultimi tempi si è sviluppato sul problema del sovraffollamento e sulle possibili soluzioni ruota quasi esclusivamente intorno all’edilizia penitenziaria. “Il mattone è il nuovo totem del mondo carcerario, l’attenzione è interamente rivolta alla costruzione di nuove strutture che si aggiungerebbero a quelle realizzate negli ultimi anni e ridotte in stato di abbandono”. Si fa una previsione dei posti letto, “o meglio dei loculi”, necessari a sistemare la popolazione detenuta, senza però preoccuparsi di quelle figure professionali - come educatori, assistenti sociali, psicologi, mediatori culturali, infermieri, medici - che svolgono un’opera di mediazione indispensabile al funzionamento di un istituto di pena. Una timida eccezione è forse prevista per l’assunzione di agenti di polizia penitenziaria, sempre più soli a fronteggiare le problematiche dei reclusi, ma ciò non fa che dare corpo alla sensazione che, come spiega Enrico Sbriglia, “lo Stato prediliga ormai gli apparati di contenimento, controllo e repressione rispetto a quelli rieducativi”. Capovolgendo così le proporzioni alla base del sistema di sicurezza descritto dall’ordinamento penitenziario che consiste nel “bilanciare l’uso eccezionale della risorsa forza con l’ordinario uso della risorsa rieducazione”. “Ci fanno spegnere l’emergenza a mani nude, senza neanche farci bere”, afferma, lasciando filtrare il sospetto che la disattenzione verso le questioni contrattuali non sia un fatto episodico, né casuale. “Il governo vuole costruire nuove carceri ma da 15 anni non si bandiscono concorsi per dirigenti, mentre quelli per magistrati e commissari si fanno regolarmente. Si sta militarizzando il sistema penitenziario”, denuncia ancora il leader del Si.Di.Pe., che spiega come la sicurezza non si ottenga solo con le armi e le manette, ma soprattutto investendo, attraverso il carcere, nella rieducazione e nel recupero dei detenuti. “Il recupero non è una favola metropolitana. Nella stragrande maggioranza dei casi, chi è riuscito a trovare un lavoro serio non è più tornato in carcere, ma si è mescolato tra la gente comune”. Sbriglia punta dunque il dito contro quel metodo tutto italiano che Carlo Nordio e Giuliano Pisapia hanno definito panpenalismo e che vede risolvere con l’introduzione di nuovi reati i problemi sociali ai quali non si sa come far fronte. “Ti punisco per quello che sei, non per quello che fai. Oggi tocca agli immigrati irregolari, a chi domani, ai disoccupati?”, chiede. Un metodo che infatti fa prigionieri, in tutti i sensi, soprattutto tra i poveri e gli emarginati, tra gli ultimi della società, e che sposta sempre più in là il traguardo di carceri meno affollate e finalmente più vivibili. Quale soluzione, allora, per far fronte alla crisi? Come ogni “penitenziarista puro”, Sbriglia è diffidente nei confronti di amnistie e indulti, che sono a suo avviso la débâcle dell’idea penitenziaria poiché non tengono conto della storia personale del detenuto e vanificano lo sforzo a portare avanti percorsi di recupero. Tuttavia ammette - e chiarisce che si tratta di una posizione personale - che, nello stato in cui versa attualmente il sistema penitenziario, l’amnistia potrebbe rappresentare uno strumento utile. Purché, però, accompagnata da una riforma complessiva del codice penale, che va sfrondato di tutti quei rami secchi che impediscono di mettere a fuoco i veri reati e chi li commette. E purché le risorse derivanti dal minor carico di lavoro siano orientate esclusivamente al sistema penitenziario, per assumere direttori e personale. Solo così, conclude, l’amnistia troverebbe una sua ragionevolezza anche di tipo amministrativo. Giustizia: Tribunali di Sorveglianza ko, a Milano 15 magistrati per 4.032 detenuti di Filippo Grossi Italia Oggi, 15 luglio 2011 Una carenza di personale amministrativo nei tribunali di sorveglianza e un numero “limite” di magistrati. “Nel distretto di Milano abbiamo un totale di 15 magistrati di sorveglianza per un numero complessivo di 4032 detenuti con sentenza di condanna passata in giudicato. Un numero esiguo, se si considera che quest’anno abbiamo avuto anche una situazione di vacanza contemporanea di 4 magistrati e che al distretto milanese fanno capo anche due importanti città come Pavia e Varese”, spiega Pasquale Nobile de Santis, presidente del Tribunale di sorveglianza di Milano. “Dove siamo davvero in difficoltà”, prosegue de Santis, “è però nella carenza di personale amministrativo dove siamo decisamente sotto organico: purtroppo, da tempo, sono bloccate le assunzioni ma il lavoro aumenta di continuo con il rischio di una scarsa efficacia del nostro ruolo che è quello di stabilire le misure alternative per i detenuti”. “È chiaro”, evidenzia de Santis, “che se funziona bene il sistema delle misure alternative, che noi magistrati di sorveglianza attuiamo in stretta cooperazione con la struttura penitenziaria che in questo delicato compito ci dà una grossa mano, diminuisce drasticamente il rischio di una ricaduta, ossia di una recidiva di chi delinque”. La carenza di personale amministrativo e ausiliare nel disbrigo delle pratiche relative al lavoro dei magistrati di sorveglianza, e perciò di un buon funzionamento del sistema carcerario orientato ad una rieducazione sociale del detenuto, non è però soltanto un problema milanese, ma è comune anche a due altri grandi distretti come Roma e Napoli. “Siamo in carenza di almeno 20 unità amministrative”, spiega Giovanni Tamburino, presidente del Tribunale di sorveglianza di Roma, “e soffriamo pesantemente la mancanza di personale di cancelleria - che comprende attualmente 62 persone contro le 82 che dovremmo avere - perché il distretto di Roma, che comprende anche Viterbo e Frosinone, oltre ad avere a che fare con un totale di 3.543 detenuti definitivi (dato aggiornato al 30.4.2011, ndr) ha la competenza esclusiva sui reclami dei decreti di 41-bis, che sono complessivamente circa 700 in tutta la Penisola, a cui si aggiunge la competenza esclusiva riguardo le decisioni da prendere sui collaboratori di giustizia, che sono all’incirca 600 e che fanno capo al Servizio centrale di protezione che ha sede a Roma”. “Da questi numeri, oltreché dall’importanza delle due diverse competenze esclusive per tutta Italia”, evidenzia Tamburino, “si capisce che non possiamo permetterci di avere un organico ridotto all’osso; a ciò, si aggiunga che - almeno in linea teorica - la pianta organica dei magistrati di sorveglianza del distretto di Roma sarebbe di 17 unità compreso il presidente, ma nella realtà siamo in 14 più il sottoscritto perché due dei nostri magistrati sono in aspettativa: è chiaro che non può bastare un numero così limitato per la delicata funzione che ricopriamo”. Anche il distretto del Tribunale di sorveglianza di Napoli lamenta un forte ritardo di personale amministrativo, nonostante nel capoluogo campano il problema del numero dei magistrati di sorveglianza, per un totale di 19, non è così sentito come invece avviene per Roma e Milano. Giustizia: ascoltare Pannella… le carceri solo il primo impegno del prossimo Guardasigilli Il Foglio, 15 luglio 2011 Il prossimo ministro della Giustizia sarà pressato da varie parti perché affronti con priorità questa o quest’altra questione. È comprensibile, visto che il blocco imposto dalla magistratura organizzata blocca da anni qualsiasi riforma organica della giustizia. Mentre cerca di trovare il filo di un discorso riformista in grado di ottenere un consenso sufficiente, il Guardasigilli dovrebbe occuparsi invece dell’emergenza carceraria, che sta diventando davvero intollerabile. Su questo tema, che ha spinto Marco Pannella a praticare lo sciopero della fame e della sete, si sta concentrando finalmente l’interesse anche di settori piuttosto vasti della politica. Il presidente del Senato, Renato Schifani, dopo aver ricevuto il patriarca radicale, ha dato il via a una “cellula di crisi” congiunta per affrontare la questione del sovraffollamento degli istituti di pena, che rende penosa la condizione dei carcerati ma anche quella degli agenti di custodia. Numerosi parlamentari (269 deputati e 100 senatori) di ambedue gli schieramenti hanno sostenuto la richiesta di interventi urgenti, sui quali quindi è probabile si possa radunare una maggioranza bipartisan. Ora si tratta di passare ai fatti, e questo dovrebbe essere il primo impegno del nuovo ministro della Giustizia. Le cose che si possono fare, anche se non ci sono le condizioni per promulgare un’amnistia come richiede Pannella, sono molte. Dalla messa a disposizione effettiva delle carceri già costruite ma non ancora omologate, all’applicazione estensiva della concessione degli arresti domiciliari a chi deve scontare l’ultimo anno di pena, alla estensione delle pene alternative al carcere ai reati che non destano allarme sociale, all’abbassamento della soglia d’età al di sopra della quale non si ricorre alla carcerazione, a misure specifiche per i carcerati ammalati, Se il clima politico è di collaborazione e se il ministro saprà sfruttarlo, non è proibito sperare che qualcosa di buono si possa fare e molto presto. Giustizia: Napolitano facci morire… di Valentina Ascione Gli Altri, 15 luglio 2011 Quota cento è stata superata. Quota cento morti in carcere solo dal primo gennaio scorso. È un parziale da record e se l’andamento dovesse confermarsi così drammatico anche per i prossimi mesi, questo 2011 potrebbe rivelarsi l’anno più nero delle prigioni italiane. Dietro le sbarre dunque si continua a morire, di malattie, abbandono ed esasperazione. I suicidi sono già più di trenta. Del resto in carcere ci si toglie la vita circa 20 volte in più che fuori. Se infatti uccidersi non è facile, vivere nelle patrie galere è ancora più difficile, spiega Carmelo Musumeci, detenuto da oltre vent’anni e attualmente al carcere di Spoleto, dove continua a scontare la sua pena senza fine di ergastolano ostativo. Carmelo non aveva in tasca altro che la licenza elementare, quando si sono aperte per lui le porte carcere, e due mesi fa ha festeggiato la laurea magistrale in diritto penitenziario. Da fuorilegge a dottore in legge, senza metter piede fuori dalla cella. Appena undici ore di permesso - di libertà anche dalla scorta - gli sono state concesse dal Tribunale di Sorveglianza in occasione del gran giorno, per discutere la tesi e brindare insieme a chi l’ha sostenuto. Un permesso di necessità riconosciuto solo in caso di eventi gravi o lieti, ma irripetibili. Che però non cambia di una virgola la durezza di un regime detentivo dal quale i benefici penitenziari sono espulsi. Un regime contro cui Carmelo Musumeci si batte dall’interno, invocandone l’abolizione con le uniche armi di cui dispone: la carta e la penna. E al quale ha perfino dedicato la propria tesi di laurea, dal titolo “La pena di morte viva: ergastolo ostativo e profili di costituzionalità”. Pochi giorni fa Musumeci ha ricevuto la visita della deputata radicale Rita Bernardini e di Irene Testa, segreteria de “Il Detenuto ignoto”, entrambe in sciopero della fame dal 6 giugno scorso affinché si ponga fine all’illegalità delle carceri italiane. E in quell’occasione ha voluto affidare alla parlamentare - firmataria di una proposta di legge per l’abrogazione dell’ergastolo - una lettera da consegnare al Presidente Napolitano firmata dagli ergastolani in lotta per la vita del carcere di Spoleto. “Signor Presidente della Repubblica - ha scritto - noi “uomini ombra” non possiamo avere un futuro migliore, perché non abbiamo più nessun futuro. E per lo Stato non esistiamo, siamo come dei morti. Eppure a volte, quando ci dimentichiamo di essere delle belve, ci sentiamo ancora vivi. E questo è il dolore più grande per degli uomini condannati a essere morti. A che serve essere vivi se non abbiamo nessuna possibilità di vivere? Se non sappiamo quando finisce la nostra pena? Se siamo destinati a essere colpevoli e cattivi per sempre? Molti di noi si sono già uccisi da soli, altri non ci riescono, ci aiuti a farlo Lei. Come abbiamo fatto anni fa, Le chiediamo di nuovo di tramutare la pena dell’ergastolo in pena di morte”. Un appello drammatico, sconveniente, ma davanti al quale non si può restare indifferenti. Un cittadino che invoca la morte come via di fuga segna sempre una sconfitta, per un Paese e per le sue istituzioni. Anche se si tratta di un “uomo ombra”. Giustizia: non c’è ipotesi abolire 41-bis; Cedu chiede applicare carcere duro con condanna Agv News, 15 luglio 2011 Comunicato del Ministero della Giustizia: “In relazione a quanto riportato nella Relazione sull’esecuzione delle sentenze della Commissione europea dei diritti umani (Cedu) al Parlamento per l’anno 2010 e relativo alla presunta proposta di sopprimere il regime detentivo previsto dall’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario, si precisa quanto segue: l’ipotesi prospettata nella relazione, concernente i ritardi giurisdizionali, non è certamente quella di abolire il regime dell’articolo 41bis. Ma piuttosto di stabilirne l’applicazione con la sentenza di condanna. L’attuale sistema, determina sensibili ritardi in quanto impone una continua proroga del regime preceduta da complessi accertamenti e seguita da lunghi procedimenti di impugnazione. Procedimenti dovuti ai necessari approfondimenti da parte degli organi di polizia, prima, del giudice di sorveglianza, della Corte di cassazioni, poi. Tali ritardi determinano, nel frattempo, limitazioni considerevoli di diritti, frequentemente evidenziate a Strasburgo, e che sono causa di condanna per l’Italia (ad es. Causa Montani c. Italia - Sezione Seconda - sentenza 19 gennaio 2010 (ricorso n. 24950/06 e sent. 20 gennaio 2009- Zara). Le risorse umane che, secondo la relazione, si libererebbero se il regime di carcere duro fosse previsto nella sentenza di condanna, sono solo quelle delle forze di polizia, che non sarebbero chiamate a continue verifiche, e della magistratura di sorveglianza, che non sarebbe posta in condizione di dover provvedere continuamente, con inevitabili ritardi nelle decisioni. Una lettura del brano della relazione in questione, diversa da quella sopra esposta, non solo non è rispondente alle intenzioni dei redigenti resa chiara dalla collocazione del testo tra le conseguenze dei ritardi nell’esercizio della giurisdizione, ma è in aperto contrasto con quanto evidenziato dalla stessa relazione in altra parte ove invece viene espressamente trattato il tema del trattamento penitenziario e si evidenzia come un regime carcerario duro sia ritenuto ammissibile dalla Cedu, purché previsto in relazione a motivate esigenze (sentenza Mole 12 gennaio 2010)”. Lettere: i detenuti studenti e la burocrazia della scuola… dal Gruppo insegnanti volontari nel carcere di Mantova La Gazzetta di Mantova, 15 luglio 2011 Desideriamo far conoscere uno spiacevole caso verificatosi alla fine dell’anno scolastico. Da più di dieci anni era in corso una fattiva collaborazione con l’Istituto professionale da Vinci al quale presentavamo, come privatisti, i detenuti da noi seguiti, per sostenere gli esami di idoneità o di maturità. Abbiamo sempre riscontrato una costante attenzione e una pronta disponibilità da parte del personale dell’istituto. A tal riguardo ci piace ricordare che alcuni ragazzi hanno potuto conseguire, durante la detenzione, sia il diploma di scuola superiore che di laurea. Quest’anno, per volontà in particolare della presidenza della suddetta scuola, che peraltro ha formulato un progetto di solidarietà con il carcere sostenuto anche dalla Provincia, i rapporti si sono interrotti senza giustificazione e senza una risposta in tempi utili delle scelte programmatiche della scuola stessa. Il dirigente ha manifestato un atteggiamento di insofferenza e di chiusura adducendo difficoltà di natura burocratica a nostro avviso pretestuose, rifiutandosi di ammettere un detenuto alle prove di idoneità al secondo anno del corso di operatore elettrico. Inutili i nostri tentativi e quelli della Direzione del carcere per avere un incontro allo scopo di definire in positivo la questione. Da qui l’amarezza di noi insegnanti volontari che, nonostante le difficoltà dell’insegnamento e dello studio da parte del detenuto, abbiamo lavorato con impegno e serietà per tutto l’anno. Ci chiediamo se quanto è successo sia l’immagine della scuola che promuove l’integrazione, che sulla carta si dichiara sensibile a sostenere progetti di solidarietà ma che , in realtà, non dimostra né sensibilità, né rispetto alcuno della diversità e del lavoro altrui e non considera l’importanza che ha il recupero personale e sociale di un detenuto. Tutto sarebbe naufragato, quindi se non fossero intervenuti, con la loro totale disponibilità, competenza e sensibilità, il Direttore e una commissione d’esame formata da alcuni insegnanti degli Istituti Santa Paola che, sciogliendo le formalità burocratiche hanno permesso al detenuto una felice conclusione della sua fatica scolastica. Al direttore e ai commissari del Santa Paola è rivolto il nostro ringraziamento. Graziella Caporali, Marina Baguzzi, Roberta Campi, Elio Carasi, Erino Malvezzi, Alberto Rigamonti, Laura Vernizzi Lazio: Garante dei detenuti; situazione difficile a Frosinone e Cassino Il Velino, 15 luglio 2011 Nei due istituti i detenuti sono 802, a fronte di soli 497 posti disponibili. Oltre 800 detenuti reclusi, 300 in più rispetto ai posti disponibili (497), polizia penitenziaria con preoccupanti vuoti di organico, cronica carenza di risorse finanziarie e strutturali e, in più, una situazione sanitaria al collasso. Sono questi i numeri che testimoniano la difficile situazione che si vive nelle carceri di Frosinone e di Cassino. I dati sono stati diffusi dal Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni nel corso di una conferenza stampa. “Negli istituti della provincia di Frosinone si vive una situazione drammatica - ha spiegato Marroni - che rende inapplicabile la funzione di recupero sociale stabilita dalla Costituzione. Il sovraffollamento, reso più pesante dalla calura estiva, e la fatiscenza delle strutture si aggiungono alle carenze del personale di sorveglianza e ai tagli di budget imposti a livello nazionale, creando una miscela che diventa sempre più difficile da gestire. Nelle celle vivono ormai centinaia di persone spesso private della possibilità di usufruire dei più elementari bisogni primari, con gravi rischi per la salute collettiva e per la sicurezza stessa di quanti frequentano e vivono il carcere”. Il carcere di Frosinone ospita 520 detenuti, fra cui 115 stranieri provenienti da 34 Paesi, con forte prevalenza di romeni (40) e albanesi (24). “Frosinone - ha detto, inoltre, Marroni - è un carcere di confine dove esiste una perenne situazione di tensione tra gruppi di detenuti su base territoriale. Moltissime, infatti, sono anche le richieste di trasferimento. In questo contesto, le criticità più importanti sono il sovraffollamento e la difficile gestione delle situazioni sanitarie”. Circa la metà dei detenuti (257) sconta una pena definitiva, 77 sono in attesa di giudizio. In Alta Sicurezza sono in 130 mentre i detenuti nell’area precauzionale sono 49, di cui 27 sex offenders. I lavoranti sono fra i 112 e i 118, di cui metà con occupazione fissa. Gli agenti di polizia penitenziaria sono 222, di questi però solo 203 operano effettivamente nell’istituto. Nel 2001 la pianta organica prevedeva 259 unità per far fronte ad una popolazione carceraria di meno di 300 detenuti. I problemi principali legati all’assistenza sanitaria ai detenuti sono essenzialmente tre: La lunghezza delle liste d’attesa per svolgere, all’esterno, gli esami per le malattie gravi. Il garante ha inviato, a tal proposito, diverse segnalazioni alla Asl e alla direzione sanitaria del carcere; carenza di medici specializzati in carcere. Dopo la denuncia del Garante è stato riaperto, dopo 4 mesi, il gabinetto odontoiatrico. In carcere ci sono due psichiatri, mentre la presenza del cardiologo è saltuaria, l’ortopedico sembra aver sospeso il servizio e lo psicologo è presente per poche ore un solo giorno a settimana e incertezza sulla pianta organica. Un problema che interessa il personale infermieristico. Allo stato sono presenti solo tre infermieri di ruolo, integrati a rotazione da altri 20/25 infermieri esterni inviati dalla Asl per un ammontare di 48 ore mensili ognuno. Negli ultimi giorni i detenuti hanno dovuto far fronte al razionamento dell’acqua e alla chiusura delle condutture dei lava piedi. Un’altra criticità, che accomuna le carceri di Frosinone e Cassino è la difficoltà che i detenuti hanno nei rapporti con il magistrato di sorveglianza. L’istituto ha un’area trattamentale ampia ed attrezzata anche con un’officina, dove si svolgono laboratori teatrali e di musicoterapia e corsi di apicoltura, di educazione fisica, di pasticceria e di informatica. La scuola è il momento di aggregazione più importante con circa 150 detenuti frequentanti: ci sono due classi elementari (una per i comuni e una per l’alta sicurezza), 4 classi di scuola media e 6 per il primo triennio superiore Ipsia. “Le attività meriterebbero di essere sviluppate - ha aggiunto Marroni - ma le risorse economiche e il personale sono insufficienti e sono pochi i detenuti che partecipano. Recentemente il nostro Ufficio si è impegnato a finanziare un corso di informatica che consentirà a 30 detenuti di conseguire la patente europea”. Per quanto riguarda la socialità, i reclusi hanno diritto a due ore d’aria la mattina e a due il pomeriggio. Pesante è l’assenza di un’area verde. Il Garante, in collaborazione con la Uisp, ha finanziato la costruzione di un campo di calcio a 8, ma solo di recente la direzione ha autorizzato il montaggio delle reti di recinzione, in modo da rendere possibile l’accesso della struttura sportiva. La casa circondariale di Cassino ospita 290 detenuti, di cui 72 stranieri, a fronte di una capienza di 172 posti. I definitivi sono 183, 22 sono in attesa di giudizio. Nella sezione dei Sex Offenders sono presenti in 28. I lavoranti sono 57, di cui 17 con un posto fisso. La pianta organica del 2007 prevedeva 134 agenti di polizia penitenziaria in servizio con una popolazione di 128 detenuti. Oggi l’organico è di 154 agenti, di cui 16-24 presenti in carcere solo 2 giorni a settimana. Inoltre, gli agenti sono impiegati nei nuclei traduzione e per gli adempimenti a Formia e Gaeta e nella sorveglianza alla sezione dei Sex Offenders, in origine non prevista. In ambito sanitario, in carcere c’è una infermeria e la copertura medica è assicurata da un medico incaricato e da altri 3 sanitari. La presenza dello psichiatra una volta a settimana non basta a garantire l’assistenza ai detenuti. Insufficiente è anche la presenza dello psicologo (20h al mese). I tempi di attesa per le visite specialistiche sono lunghi, mentre ci sono diversi problemi per l’approvvigionamento dei farmaci. Il gabinetto dentistico è chiuso da aprile per inagibilità dei locali e l’odontoambulanza della Simo è stata sospesa per incompatibilità organizzative. L’istituto ha un ecografo ma non un tecnico, per cui occorre andare in ospedale per svolgere l’ecografia. Nei due istituti i detenuti sono 802, a fronte di soli 497 posti disponibili. Il carcere non ha un’area sufficientemente attrezzata per le attività trattamentali, per questo la scuola è il momento di aggregazione più importante. Oltre alle elementari e medie, l’istruzione superiore è garantita dall’istituto alberghiero: 34 studenti hanno conseguito un diploma o un attestato nel corso dell’ultimo anno. Lo spazio per i colloqui è distinto in una sala per i detenuti comuni, una per i sex offenders e un piccolo atrio interno destinato ad area verde. “La mobilitazione delle ultime settimane e l’intervento del presidente della Repubblica hanno attirato l’attenzione dell’opinione pubblica su una situazione insostenibile - ha concluso il Garante. In questi anni è mancato l’intervento della politica, capace solo di produrre leggi che puniscono con il carcere ogni condotta contraria alla legge. Oggi, però, è evidente che la domanda di sicurezza che arriva dalla società non può essere soddisfatta solo con il carcere. Serve, invece, un intervento di sistema che ponga fine a questa emergenza sociale. Una misura eccezionale che preveda, per i reati meno gravi, il ricorso agli arresti e alla detenzione domiciliare, che devono diventare la misura ordinaria di esecuzione delle misure cautelari e detentive”. Umbria: critica situazione della Polizia penitenziaria, manca il 20% del personale Asca, 15 luglio 2011 Secondo i dati forniti dal Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria relativi al 2010, la dotazione organica prevista per i quattro istituti penitenziari dell’Umbria è di complessive 1.060 unità. Il contingente di Polizia penitenziaria in servizio risulta di 804 unità, così ripartite: 785 presso gli Istituti di pena, 18 presso il Provveditorato regionale amministrazione penitenziaria e uno presso l’Ufficio esecuzione penale Esterna Perugia, sono presenti negli Istituti di Spoleto e Terni 64 unità appartenenti al Gruppo Operativo Mobile addetti alla custodia dei detenuti sottoposti a regime previsto dall’art. 41 bis. La carenza di personale di polizia penitenziaria secondo i dati forniti dal Provveditorato regionale amministrazione penitenziaria è così ripartita: Casa Circondariale di Perugia carenza del 37%; Casa Circondariale di Terni carenza del 24%; Casa di Reclusione di Spoleto carenza del 18%; Casa di reclusione di Orvieto carenza del 21%. A questi dati bisogna aggiungere la quota di personale assente per temporanea inidoneità al servizio che per il solo istituto di Spoleto sono 25 unità. Critica anche la situazione del personale dell’area educativa, che complessivamente nei quattro istituti di pena dell’Umbria raggiunge appena le 21 unità, nel corso del 2010 ogni educatore della casa circondariale di Perugia e della casa di reclusione di Spoleto hanno avuto rispettivamente, in media, in carico oltre 140 e oltre 130 detenuti, a fronte di una media regionale già alta di 96 detenuti. Sassari: detenuto ucciso in cella nel 2007, arrestate 3 persone Ansa, 15 luglio 2011 Tre ordini di custodia cautelare in carcere per omicidio sono stati eseguiti stamane a Sassari e a Voghera (Pavia) dai carabinieri del nucleo investigativo del comando provinciale di Nuoro e dalla polizia penitenziaria di Sassari. I destinatari sono un agente di polizia penitenziaria del carcere di San Sebastiano e due detenuti, accusati di aver ucciso, il 28 novembre 2007, in una cella di isolamento dell’istituto sassarese, il recluso Marco Erittu. La sua morte, fino a questo momento, era stata considerata un suicidio. Invece, dalle indagini è emerso che Erittu fu soffocato da due detenuti con la complicità di un agente, probabilmente per impedirgli di fare importanti rivelazioni. Due custodie di ordinanza hanno raggiunto i primi due in carcere a Sassari e a Voghera, l’altra l’agente di polizia penitenziaria a Sassari. I dettagli dell’operazione saranno illustrati alle 11 in una conferenza stampa convocata nella caserma del comando provinciale di Nuoro, in via Sant’Onofrio. La vittima, Marco Erittu, un tossicodipendente di 40 anni detenuto per droga, era stato trovato morto, apparentemente per impiccagione, nella sua cella al San Sebastiano, il 18 novembre 2007. Che non fosse stato un suicidio, gli inquirenti l’hanno appurato soltanto alcuni mesi fa, quando Giuseppe Bigella, un sassarese di 35 anni, in carcere a Voghera, ha confessato di aver ucciso Erittu mentre nel 2007 era detenuto per reati di droga. Il delitto - secondo il racconto del “pentito” - gli sarebbe stato commissionato da Giuseppe Vandi, 48 anni, noto agli inquirenti come spacciatore di droga e attualmente detenuto a Sassari: Vandi temeva che Erittu rivelasse agli inquirenti del suo coinvolgimento in gravi reati, probabilmente sequestri, di competenza della Dda di Cagliari. Vandi e Bigella hanno ricevuto stamane in carcere la nuova ordinanza di custodia cautelare per omicidio. Ad aprire la porta della cella di Erittu per far entrare il suo assassino - secondo l’accusa - è stato l’agente di polizia penitenziaria Mario Sanna, 48 anni, di Bonorva (Sassari), incensurato, raggiunto stamane dalla terza ordinanza firmata dal gip di Cagliari su richiesta della Dda. Alla conferenza stampa di stamane a Nuoro hanno partecipato anche la direttrice del penitenziario di Sassari, Teresa Mascolo, e la responsabile delle guardie carcerarie, Sandra Cabras. Durante le indagini i carabinieri hanno sequestro materiale ritenuto utile per individuare ulteriori responsabili dell’omicidio e per far luce sul movente. Per esempio, non sono chiari i motivi della presunta complicità della guardia carceraria nell’omicidio del tossicodipendente. Agente arrestato a Sassari. Capece (Sappe): istituzione sana “La Polizia penitenziaria è una istituzione sana e non si possono condannare le persone prima che la giustizia faccia il suo corso”. Lo ha dichiarato Donato Capece, segretario generale del Sindacato autonomo di polizia penitenziaria (Sappe), commentando l’arresto dell’agente Mario Sanna a Sassari con l’accusa di essere coinvolto nell’omicidio del detenuto Marco Erittu. “Confidiamo come sempre nella serietà del lavoro della magistratura. Ma non possiamo accettare - prosegue il segretario del Sappe - una rappresentazione del carcere come luogo in cui avverrebbero violenze in danno dei detenuti. I poliziotti e le poliziotte penitenziarie nel solo 2010 sono intervenuti tempestivamente, salvando la vita ai 1.137 detenuti che hanno tentato di suicidarsi. A Sassari l’anno scorso - conclude Capece - ci sono stati 14 tentativi di suicidio e 41 atti di autolesionismo: e ad intervenire, come sempre, sono stati i poliziotti penitenziari che hanno impedito più gravi conseguenze”. Lecce: detenuto suicida nel carcere super affollato, lunedì l’autopsia La Repubblica, 15 luglio 2011 È di 659 persone la capienza del carcere di Lecce ma la struttura di borgo San Nicola contiene 1367 uomini e donne. L’esubero è del 107,4%: 708 detenuti in più del previsto. Da ieri 707, perché uno di loro, Antonio Padula, 48 anni, di Francavilla Fontana, si è ucciso impiccandosi con i lacci delle scarpe. Gli agenti lo hanno trovato cadavere nella sua cella, alla fine di un’altra notte terribile, in cui ogni poliziotto in servizio ha fatto su e giù tra due sezioni, controllando (o cercando di controllare) 140 detenuti. Tra loro c’era anche Padula, reo confesso dell’omicidio di Antonio Donato Andrisani, soffocato e dato alle fiamme nella sua abitazione del Brindisino nel dicembre 2009. A spingerlo a legarsi i lacci al collo forse il rimorso. O la paura di trascorrere il resto della vita dietro le sbarre. Probabilmente anche la percezione di ciò che il carcere può significare. Soprattutto se l’istituto è uno di quelli super affollati. La struttura di borgo San Nicola è la vergogna della Puglia, regione già connotata dal maggior sovraffollamento penitenziario d’Italia. Se il surplus totale, calcolato dalla Uil-Pa, è di 1.961 presenze, ovvero del 79,4% rispetto alle previsioni, infatti, i numeri s’impennano quando la lente si sofferma su Lecce. I detenuti sono più del doppio rispetto alle possibilità della struttura: tre per ogni cella, costretti a muoversi a turno negli ambienti asfittici. Il disagio è innegabile, come dimostrano i dati raccolti dalla Uil-Pa fino al 10 luglio scorso: in soli 6 mesi a Lecce hanno tentato il suicidio 18 uomini, mentre 93 hanno compiuto atti di autolesionismo e un poliziotto è stato aggredito. In sei occasioni i detenuti hanno messo in atto proteste organizzate e 79 volte, invece, hanno protestato singolarmente. Una situazione drammatica che si rispecchia nella decisione del leader radicale Marco Pannella che ha iniziato lo sciopero della fame per protestare contro l’emergenza carceraria e la situazione della giustizia. Un appello al quale ha subito aderito il governatore Vendola. Nel carcere di Lecce a fine giugno un trentottenne costretto sulla sedia a rotelle e non curato adeguatamente, ha tentato di uccidersi ingerendo due lamette. Il suo tentativo è stato sventato in tempo. Antonio Padula, invece, non è stato altrettanto fortunato. Gli agenti sono arrivati troppo tardi, ma anche il numero del personale è uno dei tanti paradossi di borgo San Nicola. Sono 750 a fronte di 1.367 detenuti, ma circa 240 sono delegati alle traduzioni e a compiti amministrativi, per cui il rapporto con le persone da sorvegliare diventa quasi di uno a tre. Impietoso. Disposta autopsia Sarà effettuata lunedì l’autopsia sul corpo di Antonio Padula, 48enne di Francavilla Fontana (Br), che ieri mattina è stato trovato cadavere nella sua cella nel carcere di Lecce. L’uomo, detenuto da quando aveva confessato l’omicidio di Antonio Donato Andrisani, soffocato e dato alle fiamme nella sua abitazione di Brindisi nel dicembre 2009, si sarebbe impiccato con i lacci delle scarpe. Tuttavia il sostituto procuratore di turno a Lecce, Nicola D’Amato, ha affidato al medico legale Roberto Vaglio l’incarico di effettuare l’esame del cadavere, al fine da escludere altre possibili cause del decesso. L’autopsia è un esame di rito che viene effettuato in casi del genere. Al momento non risultano persone iscritte nel registro degli indagati. Asti: accecò il compagno di cella con una penna, condannato a 8 anni Ansa, 15 luglio 2011 Condannato a otto anni di carcere per aver accecato un compagno di cella. È quanto stabilito ieri dal giudice del Tribunale di Asti nei confronti del detenuto egiziano Anvar Salama. L’episodio risale a luglio dell’anno scorso, quando il 24enne detenuto nel carcere di Quarto d’Asti durante una lite infilzò con una biro l’occhio sinistro del compagno di reclusione, il 32enne Mohamed Nafi, originario del Marocco. A scatenare la rissa tra i due furono dei problemi di convivenza in una cella troppo piccola. Bolzano: denuncia dei Radicali; il carcere è in condizioni pietose Alto Adige, 15 luglio 2011 Marco Pannella porta avanti il suo sciopero della fame da 85 giorni ormai, accompagnato dai Radicali che ieri hanno manifestato davanti alle carceri, compreso quello bolzanino. In via Dante un drappello di persone ha alzato i cartelli in difesa dei detenuti, che vivono in condizioni di sovraffollamento e in una struttura definita “vergognosamente fatiscente”. Contro una capienza di 90 posti in 130 detenuti rispondono all’appello, e se il progetto del nuovo istituto è in fase di studio, i Radicali auspicano decisioni prese in tempi brevi in modo da permettere ai detenuti una condizione di detenzione dignitosa. “Il nuovo carcere è diventato un’impellenza - afferma Guido Margheri, dirigente locale di Sel - la popolazione attuale è nettamente sopra la capienza possibile, e molto maggiore alla situazione prima dell’indulto”. “L’amnistia - aggiunge il consigliere comunale dei radicali Achille Chiomento - è l’unico mezzo democratico per ripristinare uno stato di diritto”. COSENZA: CORBELLI, ALFANO VERIFICHI SITUAZIONE CARCERE ROSSANO Asca, 15 luglio 2011 Il leader del Movimento Diritti Civili, Franco Corbelli, esprime ‘solidarietà agli agenti penitenziari del carcere di Rossano (Cs), che da più giorni protestano per richiamare l’attenzione delle autorità preposte su gravi e drammatiche problematiche e che sino ad oggi non hanno ricevuto alcuna risposta dall’Amministrazione Penitenziaria e dal Ministero della Giustizia”. Corbelli, da oltre 25 anni impegnato a denunciare il dramma delle carceri, “che, afferma, riguarda tanto i detenuti (sovraffollamento, reclusi malati e abbandonati) quanto gli agenti, anche loro di fatto vittime del sistema giustizia che non funziona”, parla di “vergognoso silenzio delle Istituzioni e chiede al ministro della Giustizia, Angelino Alfano, di scrivere, prima delle sue preannunciate dimissioni, di compiere un gesto responsabile e doveroso, far visita al carcere di Rossano, incontrare le guardie, sentire dalla loro viva voce i gravi e drammatici problemi denunciati e impegnarsi per l’accoglimento di queste giuste, legittime e sacrosante istanze”. Bari: “Il Carcere Possibile Onlus”; lunedì alle ore 21:00 fiaccolata davanti al carcere Ristretti Orizzonti, 15 luglio 2011 La delegazione di Bari de “Il Carcere Possibile Onlus” e la Camera Penale di Bari hanno organizzato la manifestazione per accendere i riflettori su quanto sta avvenendo negli Istituti di Pena in Italia e soprattutto in Puglia, dove in sei mesi vi sono stati cinque suicidi, due, in meno di tre mesi, a Bari. Gli Avvocati Virginia Ambruosi Castellaneta, Responsabile della Delegazione, e Egidio Sarno, Presidente della Camera Penale di Bari, vogliono far riflettere sulla drammatica condizione in cui vivono in Italia i detenuti, che preferiscono togliersi la vita pur di non continuare a subire gli effetti di una detenzione illegale. Dall’inizio dell’anno ad oggi, vi sono stati 105 decessi nelle carceri, tra questi decessi 35 suicidi. Un morto ogni 2 giorni e con l’estate la situazione, come ogni anno, potrà solo peggiorare. L’indignazione per quanto sta avvenendo potrà essere manifestata, da cittadini e associazioni, lunedì innanzi al carcere di Bari, partecipando alla fiaccolata. Porto Azzurro (Li): detenuto romeno si taglia le vene in cella, salvato dagli agenti Il Tirreno, 15 luglio 2011 Ha usato una lametta, quella concessa ai detenuti per farsi la barba, per tagliarsi in più punti le braccia, poi si è sdraiato aspettando la morte. Ma il tempestivo ed efficace intervento degli agenti della penitenziaria di turno, mercoledì sera, in carcere a Porto Azzurro, ha scongiurato il peggio. Non è la prima volta che grazie al personale della penitenziaria, in questa occasione intervenuto insieme a quello dell’area sanitaria dell’istituto e al medico e i volontari della Pubblica Assistenza di Porto Azzurro, viene slavata la vita a un detenuto. Si tratta infatti del terzo caso negli ultimi tre mesi (i due precedenti episodi risalgono a maggio). Ad accorgersi di quanto stava accadendo all’interno della cella occupata dal detenuto rumeno, di 40 anni, è stato uno degli agenti in servizio che ha immediatamente prestato il primo soccorso, insieme ai sanitari dell’istituto di pena, e allertato il 118. Medico e volontari della Pubblica assistenza hanno stabilizzato l’uomo, subito trasferito in ospedale. Le sue condizioni, inizialmente apparse critiche, sono in via di miglioramento. La causa del tentativo di suicidio sarebbe attribuibile a uno stato depressivo dell’uomo. Professionalità e tempestività dell’intervento sono state fondamentali per scongiurare la morte del detenuto, nonostante le poche unità di polizia penitenziaria presenti a causa della nota e grave carenza di agenti, costretti a coprire più posti di servizio contemporaneamente, con grande sacrificio, anche a causa dei quasi trenta poliziotti distaccati in altre sedi. Gli uomini della penitenziaria devono anche fare i conti con carenze strutturali, sopportare il mancato pagamento del lavoro straordinario e far fronte alla mancanza di fondi per il lavoro alla popolazione detenuta. Tutte questioni che da tempo vengono denunciate agli uffici superiori dalle segreterie sindacali del Sinappe e della Fsa-Cnpp di Porto Azzurro rispetto alle quali, anche alla luce di quest’ultimo episodio, si rende necessario un tempestivo intervento per evitare ulteriori gravi incidenti. Mamone (Nu): ladri in azione nella Colonia penale agricola, rubate 15 mucche L’Unione Sarda, 15 luglio 2011 Furto di quindici vacche, nella Colonia penale di Mamone. Un colpo messo a segno con troppa facilità, nei giorni scorsi, all’interno dell’istituto di pena. Istituto famoso fino a qualche decennio fa proprio per le ricche produzioni derivate dalla coltivazione dei campi e soprattutto dall’allevamento del bestiame, capi ovini e bovini. Un patrimonio affidato alla cura diretta dei detenuti, naturalmente sotto la supervisione degli agenti di polizia penitenziaria e dei vari esperti di settore incaricati dal provveditore regionale. Carni, formaggi e latticini in genere (tutti di grande qualità), una volta anche olio, erano fonti di reddito e di sostentamento per lo stesso istituto. È ormai da tempo, tuttavia, che la Colonia di Mamone è in caduta libera: pochi gli interventi per migliorare la situazione esistente, nessun progetto per lo sviluppo futuro di un carcere (con tutte le sue storiche diramazioni, dalla Centrale all’Annunziata a Ortiddi) che è stato un gioiellino del ministero della Giustizia. Con l’indulto del 2006 il caso era venuto alla ribalta delle cronache. Svuotato il carcere, non era rimasto nessuno che potesse accudire il bestiame, che potesse governare le stalle. Erano stati gli agenti, così, a doversi sobbarcare l’incarico di salvare il salvabile. A cinque anni di distanza, tuttavia, con una popolazione carceraria che è in maggioranza nordafricana, le condizioni non sono certo migliorate granché. Non a caso le vertenze aperte su Mamone sono parecchie. Ultima quella della mensa, con i sindacati di categoria costretti addirittura a chiedere “la pesa dei generi alimentari”. Ora, con questo furto di vacche, messo a segno in una struttura che dovrebbe essere il simbolo della sicurezza e della legalità, la situazione si ingarbuglia ancora di più. E non è certo la prima volta che i ladri entrano in azione nella Colonia penale. Sassari: l’ex assessore Cecilia Sechi è il nuovo Garante dei diritti dei detenuti La Nuova Sardegna, 15 luglio 2011 L’ex assessore delle Politiche sociali Cecilia Sechi è il nuovo garante dei detenuti del Comune. Ricercatrice universitaria, da sempre impegnata nel campo del sociale, Cecilia Sechi prende il posto di suor Maddalena Fois. L’elezione è avvenuta ieri pomeriggio a Palazzo Ducale. Il consiglio comunale ha dovuto votare tre volte prima di proclamare il nome del nuovo garante. Martedì scorso non era stato raggiunto il quorum dei due terzi e allora la votazione è ripresa ieri pomeriggio. Il nuovo garante è stato eletto con 24 preferenze. Sei voti sono andati all’ex consigliere provinciale Antonello Unida e dall’urna è venuta fuori anche una scheda bianca. Cecilia Sechi resterà in carica fino alla fine del mandato del sindaco Gianfranco Ganau. Il compito del garante è di definire e proporre interventi e azioni finalizzati a promuovere la reale garanzia e l’esercizio dei diritti fondamentali delle persone sottoposte a detenzione ovvero a misure limitative della libertà personale, definendo anche iniziative volte a garantire prestazioni relative al diritto alla salute. Milano: storie dal carcere sulle note di De Andrè, con la band di Trasgressione.net Redattore Sociale, 15 luglio 2011 La band di Trasgressione.net, un gruppo interattivo di studenti e detenuti delle tre carceri milanesi, in concerto domenica 17 luglio a Inzago. Il coordinatore: “Raccontare come dagli errori si possa tornare a giocare la partita della vita”. Dalle carceri di Milano ai personaggi imperfetti delle canzoni di Fabrizio De Andrè in un concerto della band di Trasgressione.net. L’associazione ha come obiettivo il confronto tra studenti e detenuti e, attraverso questo, lavora al recupero dei sogni abortiti di chi è dietro le sbarre e vuole rimettersi in gioco. L’appuntamento è per domenica 17 luglio, alle 21.00, nella Piazza Maggiore di Inzago (Mi). Un altro concerto è previsto per il 24 settembre a Piacenza durante il Festival del diritto. Un incrocio di storie sbagliate, quelle dei membri del gruppo e quelle di Miché, Marinella, Bocca di Rosa, il suonatore Jones, Andrea, il servo pastore e Princesa. 15 i testi di De Andrè scelti per l’occasione e interpretati dalla voce di Angelo Aparo, presidente e coordinatore di Trasgressione.net. Tra un brano e l’altro, la lettura di alcune poesie composte dai carcerati del gruppo sulla base di un’intepretazione biografica delle storie raccontate da De Andrè. Un modo per riflettere sulle difficoltà e le incertezze della vita e un dialogo nel segno della costruzione. “Perché l’imperfezione umana - spiega Aparo - non è soltanto la conseguenza di un problema ma anche un’occasione feconda di rinascita”. Il gruppo della Trasgressione nasce nella casa circondariale di San Vittore nel 1997 da un’idea di Angelo Aparo, psicologo per il ministero di Giustizia da oltre trent’anni. Da qualche anno è attivo anche nelle carceri di Bollate e di Opera. A farne parte, oltre i detenuti, una quindicina di studenti provenienti dalle facoltà di psicologia, giurisprudenza e filosofia. Non è tutto. Un anno fa è partito anche un gruppo rivolto agli ex-detenuti che si riunisce nella sede esterna dell’Asl di Milano in via Conca del Naviglio. In totale, sei appuntamenti alla settimana (due a San Vittore, due a Bollate, e due a Opera) da circa tre ore l’uno. Le finalità sono illustrate da Aparo: “Ragionare insieme sulle forme della trasgressione allo scopo di promuovere un percorso di crescita e di responsabilità dei condannati così come degli universitari”. La prevenzione al bullismo e alla tossicodipendenza nelle scuole è un altro dei compiti che il gruppo porta avanti: “Organizziamo convegni negli istituti scolastici e abbiamo avviato un’intensa collaborazione con molti insegnanti”, asserisce Aparo. E poi anche una serie di convegni aperti alla cittadinanza sul tema dell’autorità, del potere e del male. Da queste attività è inevitabile che si generi un processo di comunicazione tra il carcere e la società esterna, altro tema caro al gruppo.