Giustizia: viaggio nelle carceri, come in un girone infernale di Dina Galano Terra, 10 luglio 2011 La situazione dei penitenziari italiani è insostenibile tra sovraffollamento e mancanza di elementari norme igieniche. I detenuti sono in rivolta anche per appoggiare l’azione di denuncia di Marco Pannella. Mercoledì scorso cento direttori di altrettanti istituti di pena si sono dati appuntamento vestiti a lutto all’ingresso del ministero della Funzione pubblica di Renato Brunetta. Non hanno la carta igienica, i dentifrici e i materassi per i loro detenuti. Ma neanche un contratto di categoria che li riguardi. Come ogni anno, la protesta esplode nel periodo in cui le condizioni di detenzione sono insopportabili. D’ora in poi, una volta entrati si butta via la chiave. Non molto tempo fa si guardava al carcere italiano come a “un sistema a porte girevoli”, dove si scontano pene brevi o custodie cautelari, dunque si esce, per poi rientrare altrettanto rapidamente per recidiva e per mancanza di alternative all’esterno. Il 30 per cento degli ingressi torna in libertà dopo tre giorni. Il freddo meccanicismo della “porta girevole” colpisce sempre i più deboli per ceto, per istruzione, per inserimento sociale ed è il frutto sia delle più recenti politiche incriminatorie che si sono abbattute soprattutto su stranieri e tossicodipendenti, sia di una giustizia “di classe” che favorisce soltanto chi con mezzi propri riesce ad accedere al binario garantista del nostro bicefalo sistema penale. Quell’andirivieni dei soliti noti è stato da sempre riconosciuto come fattore predominante dello spropositato sovraffollamento penitenziario, al terzo posto in Europa, con oltre 67mila detenuti rispetto ai quasi 46mila posti disponibili. Da questa estate, invece, dovrà fare i conti con un concorrente da non sottovalutare. Dal 16 giugno scorso, infatti, le cooperative sociali e le imprese private si sono viste recapitare una circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria in cui si comunica “l’esaurimento del budget destinato agli sgravi fiscali e contributivi per l’anno 2011”. La nota, che ha già allarmato gli operatori del settore, si riferisce ai fondi destinati all’attuazione della legge Smuraglia (l. 193/2000), meritevole opera di collegamento tra realtà carceraria e mondo del lavoro e conquista del nuovo millennio, rubricata “norme per favorire l’attività lavorativa dei detenuti”. Con effetto immediato, dunque, le cooperative, i consorzi, le associazioni e le aziende dovranno scegliere se barrare la casella a favore della continuazione del rapporto d’impiego nonostante la decapitazione del contributo pubblico all’assunzione di detenuti in carcere o ai domiciliari, o quella della sua risoluzione per “giustificato motivo”. Tagli agli incentivi, si potrebbe tradurre. Mentre l’amministrazione “auspica che il datore di lavoro intenda mantenere i contratti con i detenuti ristretti in questa casa di reclusione”, è indubbio che non in pochi glisseranno l’invito. Le prime avvisaglie erano state intercettate a febbraio, quando una circolare interna al Dipartimento sollecitava a fornire i dati sulla forza lavoro nei termini previsti e “considerando il trend di costante crescita delle posizioni lavorative e quindi degli sgravi richiesti da cooperative e imprese”, a ritenere “indispensabile procedere a una consistente riduzione del budget”. I direttori dei penitenziari del Lazio sono stati i primi a essere colpiti dallo stop agli stanziamenti del Provveditorato regionale e i primi a lanciare l’allarme. Non agevolare il lavoro all’esterno, oltre che a tradursi in un danno per il percorso di reinserimento sociale che la Costituzione vuole tra i fini della pena (comma 3 dell’art. 25), significa congestionare le carceri sovraffollate, hanno sottolineato. Chiudere tutti in cella proprio durante l’estate. Nel solo 2010 hanno trovato un regolare contratto di lavoro presso cooperative sociali 518 persone recluse, mentre 348 hanno lavorato presso aziende private; sono state 2.000 quelli che, invece, hanno lavorato di giorno all’esterno per tornare a fine giornata in cella (regime di semilibertà o applicazione dell’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario); in media circa 7.000 l’anno hanno frequentato corsi di formazione professionale. A questi, infine, vanno aggiunti coloro che sono pagati dalla stessa amministrazione penitenziaria e che sono occupati nei servizi interni agli istituti. L’associazione Antigone, nella sua attività di vigilanza delle garanzie del sistema penitenziario e penale, ha lanciato un appello online a tutti gli interessati affinché si ponga rimedio. “Se dovesse essere confermato, così come pare, migliaia di detenuti in misura alternativa rientreranno in carcere in quanto licenziati dai loro datori di lavoro andando a peggiorare una situazione di affollamento penitenziario già insopportabile”. Infine la richiesta rivolta ai dirigenti del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria): “Usare tutti i soldi della Cassa delle ammende, compresi i milioni già promessi per progetti non ancora avviati oppure le decine di milioni messe da parte per l’edilizia penitenziaria, allo scopo di dare copertura finanziaria alla legge Smuraglia quanto meno sino alla fine dell’anno. Non fare questo ora sarebbe un errore tragico”. Un anno fa, il 6 luglio 2010, nasceva nella solennità conferita dalla presenza di Gianni Letta, del Guardasigilli Alfano e dal capo dell’amministrazione penitenziaria Franco Ionta, l’Agenzia nazionale reinserimento e lavoro per detenuti ed ex detenuti (Anrel). L’ente avrebbe espletato il compito di coordinare e favorire l’accesso all’impiego, proprio come “un’agenzia di collocamento”. Ma, secondo il suo stesso statuto, anche di promuovere una “rieducazione che punta al recupero umano, sociale e spirituale della persona”. L’afflato evangelico del nuovo Anrel è presto spiegato: oltre alle Acli nazionali e la Prison fellowship International partecipanti al progetto, l’intera gestione è stata affidata alla Fondazione “Mons. Di Vincenzo”, costola del Movimento del rinnovamento nello Spirito santo. Il valore dell’operazione stabilito in 4 milioni e 800mila euro. La fonte del gettito, la cassa delle Ammende (il fondo tradizionalmente destinato alle attività per il reinserimento dei detenuti). Anche un anno fa, cooperative e datori di lavoro privati si trovarono scalzati e protestarono con forza di fronte al trasferimento dell’ingente somma a un soggetto pressoché sconosciuto tra gli operatori carcerari. Presieduto da Salvatore Martinez, il Movimento del rinnovamento dello Spirito santo vanta in Italia più di 200mila aderenti, tra cui anche Angelino Alfano, neo segretario del Pdl. La sua base è a Enna, dove ha sede l’Ente morale “Istituto di promozione umana Mons. Francesco Di Vincenzo” mentre Caltagirone ospita l’unica esperienza realizzata con ex carcerati. Dal luglio 2010, il sito web dell’Anrel è ancora in costruzione. Oggi è tra i progetti di cui si chiede la sospensione. Quei cinque milioni di euro sarebbero utili all’attuazione della Smuraglia. A ben vedere, le risorse per far continuare almeno fino al 2011 i contratti di lavoro potrebbero essere estirpate al cosiddetto “Piano carceri”. Anche questo provvedimento di edilizia penitenziaria che impone la costruzione di venti nuovi padiglioni e di undici istituti di pena è figlio dell’amministrazione Alfano. E, in previsione, costerà 661 milioni di euro, la gran parte (circa 100 milioni) anche qui scippata alla cassa Ammende dei detenuti. Varato a giugno 2010, il Piano costituisce la principale misura del tridente composto da un provvedimento a favore della detenzione domiciliare (rinominato “svuota carceri”) e di un programma di assunzioni di personale di polizia (non realizzato), complessivamente finalizzato a decongestionare il sovraffollamento carcerario. Il “Piano carceri” cui il Commissario straordinario Franco Ionta sta lavorando da anni prevede la realizzazione, entro il 2012, di 9.150 posti detentivi, a fronte di un fabbisogno attuale di circa 23mila. Con la crescita media mensile di 700/800 nuovi ristretti, anche qualora si realizzasse nei tempi sarebbe insufficiente a far rientrare i penitenziari al di sotto della soglia della capienza tollerabile. A un anno e mezzo dalla proclamazione dello stato di emergenza nazionale, l’unico cantiere avviato è a Piacenza, mentre si prevede che la maggioranza dei nuovi posti letto si realizzi nelle carceri del Meridione, quelle di Puglia, Campania e Sicilia tra tutte. Spicca intanto la schizofrenica situazione degli istituti abbandonati di cui, nel settembre scorso, la Corte dei Conti ha chiesto al Dap “puntuale e circostanziata informativa”: il carcere di Morcone a Benevento, ultimato, abbandonato, ristrutturato e mai aperto; il Busachi in Sardegna, costato 5 miliardi di lire e mai in funzione; Castelnuovo della Daunia a Foggia, perfino “arredato inutilmente da cinque anni”; il Revere a Mantova, con i lavori fermi al 2000 e i cui locali sarebbero stati saccheggiati; Rieti, che dopo anni ha visto aperta soltanto una sezione femminile per la mancata disponibilità di personale in servizio. La beffa “svuota carceri” Il secondo troncone del piano di interventi deciso a Via Arenula prevedeva l’emanazione di un disegno di legge rubricato “Esecuzione presso il domicilio delle pene detentive non superiori a un anno”. Approvato definitivamente a metà novembre scorso dopo una lunga battaglia parlamentare che ne ha visto stravolgere il testo originario, è un provvedimento che consente l’alternativa dei domiciliari a chi, purché “non si verifichi la concreta possibilità che il condannato possa darsi alla fuga ovvero possa commettere altri delitti”, rimane da scontare meno di 12 mesi di pena. La decisione, affidata alla discrezionalità del magistrato di sorveglianza, non ha nulla dell’automatismo auspicato da alcuni per dribblare le lungaggini burocratiche. In definitiva, la versione propagandistica di provvedimento amnistiale concesso per ridurre il sovraffollamento non ha dispiegato l’effetto auspicato di mandar fuori 8.000/10.000 persone. Dalla sua entrata in vigore, l’ormai sconfessato “svuota carceri” ha permesso l’uscita anticipata dalle prigioni di appena 2.666 detenuti. Le ragioni, oltre alla suddetta verifica del requisito soggettivo della non inclinazione a ripetere il reato o alla fuga, stanno tutte nelle disfunzioni del sistema nel suo complesso. Oltre il 47 per cento dei reclusi non sta scontando una condanna in via definitiva, il 50 per cento dei condannati, invece, resta escluso perché appartenente a categorie (come ex articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario) a cui è normalmente interdetta la fruizione di qualsiasi misura alternative. Da sottrarre, poi, tutti i detenuti stranieri che normalmente sono privi della garanzia dell’alloggio, indispensabile per concedere i domiciliari. Infine, quello che il ministro dell’Interno Roberto Maroni e Carroccio al seguito volevano far passare per “indultino” scadrà nel 2013 e fino ad allora è difficile credere che l’evoluzione delle condizioni del sistema carcere potrà favorirne l’applicazione. Battitura in corso Lo stesso fragoroso richiamo si alza prima della mezzanotte dai 206 penitenziari italiani. Nel gergo carcerario si chiama “battitura”: pentole e sedie percuotono ritmicamente porte blindate e inferriate. I detenuti protestano contro le condizioni di reclusione in spazi ridottissimi, le docce razionate, le appena due ore d’aria al giorno. In questo momento stanno “battendo” i sessanta internati di Saliceta San Giuliano, alle porte di Modena, i ristretti delle Vallette di Torino, gli sfortunati dell’Ucciardone (Palermo) che si sono meritati una denuncia per “schiamazzi notturni”. Ma è chiaro a tutti ormai che più si rumoreggia, più chi dovrebbe sentire diventa sordo. Dunque, quest’estate i detenuti sono passati alla più difficile delle proteste, rifiutando i carrelli delle vivande ed esponendosi a ulteriori ripercussioni. A catena, in migliaia, hanno aderito allo sciopero della fame che il radicale Marco Pannella sta conducendo dal 20 aprile scorso. Trani, Borgata Aurelia, Ferrara, Pesaro, Rovigo, Spoleto, Bologna procedono a oltranza. I familiari dei detenuti scelgono la stessa astensione dal cibo. Perfino i direttori degli istituti e i sindacati di polizia scelgono la protesta, di piazza, contro il sovraffollamento e le condizioni di lavoro insostenibili. Turni prolungati, insufficienza di personale e isolamento hanno portato i liberi che lavorano in carcere a sentirsi al pari dei loro detenuti. Mercoledì scorso cento dei direttori italiani si sono dati appuntamento all’ingresso del ministero della Funzione pubblica di Renato Brunetta vestiti a lutto. Perché non hanno la carta igienica, i dentifrici, i materassi per i loro detenuti, ma neanche un contratto di categoria che li riguardi, costretti come sono a uniformarsi ai rapporti di lavoro dei funzionari della polizia di Stato. Se perfino i responsabili delle case di pena italiane sono arrivati a sostenere l’utilità di un’amnistia, le proteste dei reclusi dovrebbero acquistare adeguato riconoscimento. A ogni cento posti letto corrispondono 148 detenuti. Qualcuno si deve arrangiare, e lo fa con materassi per terra, con l’innalzamento di un piano dei letti a castello, con la trasformazione in dormitori delle poche aree comuni rimaste. Nei corridoi, trasformati in celle, nelle palestre e perfino nelle stanze deputate alla degenza e alle emergenze sanitarie. Nel carcere partenopeo di Poggioreale i detenuti stendono asciugamani e lenzuola bagnate alle finestre per proteggersi dal caldo opprimente. In sette metri quadrati a Pesaro si vive in tre. Nel sesto raggio di San Vittore a Milano nello stesso spazio sono stipati in sei. Scabbia e tubercolosi sono segnalate in diffusione in molti istituti. A Viterbo a ogni detenuto spetta un’unica doccia al giorno e in un orario prestabilito. All’Ucciardone di Palermo, la cui costruzione risale al 1832, a maggio scorso è stato scoperto il “canile”, un quadrato di appena un metro quadro per lato, dove si veniva rinchiusi in isolamento per più di 12 ore. A Santa Maria Capua Vetere (Caserta) l’acqua è razionata e manca per 10 ore al dì. Al 30 giugno, nelle nostre prigioni si contano 67.394 ristretti a fronte di poco più di 45mila posti. Di questi, oltre 24mila sono stranieri e quasi 3mila le donne. Nei primi sei mesi dell’anno, sono cento i decessi avvenuti e documentati da Ristretti Orizzonti, trenta secondo le statistiche del dipartimento. Franco Ionta, il responsabile del Dap, in una recente intervista a Radio Vaticana ha tuttavia ammesso senza mezzi termini che “le carceri italiane hanno superato i limiti della sostenibilità”. Quell’emergenza, riconosciuta per decreto, che gli ha conferito poteri straordinari da commissario “non è affatto finita” e le concrete condizioni di reclusione rischiano quest’estate di darne prova ulteriore. I numeri dell’inferno Sono 67.394 i detenuti al 30 giugno 2010. 45.732 è la capienza regolamentare delle carceri italiane. Di tutti i carcerati, 24.232 sono stranieri: di cui il 21,1 per cento proviene dal Marocco, il 14 dalla Romania, il 12,5 dalla Tunisia. 28.257 sono in attesa di condanna definitiva, 14.148 aspettano il primo grado di giudizio (5.520 sono stranieri). 2.666 detenuti sono stati scarcerati con la legge 199/2010 (la cosiddetta “svuota carceri”). 884 i detenuti in semilibertà, 1.655 gli internati. 100 suicidi e “morti sospette” nei soli primi sei mesi del 2011. 42 detenute madri con 43 bambini sono nelle carceri, secondo i dati al 31 dicembre 2010.27.294 i detenuti per reati di droga nel 2010 (erano 14.640 nel 2006). Sono 178 magistrati di sorveglianza contro i 204 richiesti. 34.165 i poliziotti penitenziari in organico contro i 42.268 necessari. 1.031 sono gli educatori contro i 1.331 previsti. 1.105 gli assistenti sociali contro i 1.507 di cui ci sarebbe bisogno. Giustizia: sovraffollamento? ci sono 40 carceri costruite, arredate e vigilate… e inutilizzate di Alessandra Nucci Italia Oggi, 10 luglio 2011 Secondo il dossier “Carceri nella illegalità, la torrida estate 2011”, compilato dall’associazione “Antigone”, le cifre del sovraffollamento delle carceri italiane al 31 maggio erano di 67.174 detenuti a fronte di 45.511 previsti, ovvero circa il 148% della capienza regolamentare. Certamente uno scandalo a cui va messo fine, senza però farsi travolgere dalla disperazione. Perché l’Italia risulta disporre già di decine di istituti penitenziari, anche nuovi o restaurati, che nessuno ci spiega perché non si debbano utilizzare. E in rapporto alla popolazione, secondo gli ultimi dati del Consiglio d’Europa l’Italia ha meno detenuti della media europea, con 106,6 carcerati contro 143,8 ogni centomila abitanti. È utile inoltre un confronto con la California, uno stato che se fosse indipendente sarebbe la nona potenza industriale del mondo. L’Italia ha le carceri sovraffollate del 148%? Ebbene, in maggio la Corte Suprema americana ha emesso una sentenza di condanna alla California, patria delle star, del vivere rilassato, e dell’intellighentsia di Berkeley, perché riempie le sue carceri quasi al 200%. In cifre si tratta di 154.000 carcerati detenuti in un sistema studiato per 80.000, una situazione che dura non da adesso ma da 11 anni. La Corte impone di ridurre tale sovraffollamento, entro due anni, al 137,5% della capienza: di raggiungere cioè una percentuale di soli dieci punti inferiori a quella, giustamente deprecata, esistente oggi in Italia. I giudici americani non dicono come debba fare la California per raggiungere questo livello ma, analogamente a quanto avviene in Italia, le associazioni che denunciano il sovraffollamento puntano prima di tutto all’amnistia, depenalizzando il possesso di piccole quantità di droga (non solo la marijuana, già depenalizzata) e i reati minori, nonviolenti, contro la proprietà. Negli Usa, anche qui analogamente all’Italia, le obiezioni all’amnistia, che farebbe uscire di prigione circa 46mila detenuti, si basano sull’esperienza passata. Nei pareri dissenzienti stilati da due dei giudici della Corte Suprema si ricorda che negli anni Novanta i tribunali imposero un tetto al numero di carcerati a Philadelphia, la quale reagì cercando di liberare solo quelli meno a rischio di recidiva violenta. Nel giro di 18 mesi però la polizia ne dovette riarrestare migliaia, che “furono accusati di 79 omicidi, 90 stupri, 1.113 aggressioni, 959 rapine, 701 furti con scasso e 2.748 furti, senza contare le migliaia di violazioni delle leggi sulla droga.” In Italia, fra amnistie e indulti sono sedici gli atti di clemenza susseguitisi dal 1962 ad oggi. Le statistiche dicono che l’ultimo indulto (Legge 241 del 2006 ) scarcerò oltre 22mila persone, ovvero il 44,2 % dei detenuti. L’effetto fu di ridurne il numero per 100mila abitanti da 102, nel 2005, a 66 nel 2006. Ma d’impatto le rapine raddoppiarono e anche gli omicidi aumentarono del 5 per cento, e a fine 2009 l’incidenza della popolazione carceraria era già risalita a circa 108. In numeri assoluti, l’indulto di 5 anni fa aveva fatto scendere i detenuti da 60.710 a 33.847 unità, ma appena tre anni dopo erano di nuovo 64.791, ovvero il 6,72% in più di prima del provvedimento di clemenza. A differenza però di quanto avviene in California, l’Italia delle altre strutture carcerarie le avrebbe. Secondo i dati forniti dal “Partito per gli Operatori della Sicurezza” sarebbero una quarantina gli istituti penitenziari già costruiti, spesso ultimati, a volte anche arredati e perfino vigilati, che permetterebbero di custodire i carcerati in condizioni più umane, di curare meglio i disabili psichici, di prevenire meglio i suicidi, di difendere meglio i detenuti più deboli, e di offrire condizioni migliori anche alle guardie. Ma i pochi che ne scrivono lo fanno prevalentemente per prendere le distanze dal “business delle carceri” e deplorare il fatto che “avanza il cemento”. Giustizia: non solo “secondini”, per la Polizia penitenziaria è il momento del rilancio di Giovanni Centrella (Segretario Generale dell’Ugl) Secolo d’Italia, 10 luglio 2011 Dalla Tav ai rifiuti di Napoli, dal contenimento del dissenso organizzato o spontaneo, violento e non, dall’emergenza sbarchi al rispetto dell’ordine pubblico, le Forze dell’ordine in tutte le loro declinazioni sono e saranno investite da una mole di lavoro immane, senza poter contare su mezzi adeguati, anzi con sempre minori risorse umane e finanziarie, circondate oltretutto da una quasi totale indifferenza da parte delle istituzioni e di certa stampa, ma non dei cittadini che invece apprezzano il loro ruolo. Tutto ciò mi preoccupa enormemente sia come cittadino sia come sindacalista, per questo credo sia giunto il momento di affrontare l’argomento sicurezza. Preciso subito che non intendo affrontare le ragioni politiche o ideologiche sottostanti alla questione, perché non è il mio mestiere e perché quello che conta sono solo i problemi oggettivi da risolvere, non le inutili dietrologie con le quali si finisce sempre a concludere il discorso con un’assolutoria, deprimente e qualunquista considerazione, del genere “tanto non cambierà nulla”, per poi evitare di sciogliere quella lunga serie di nodi dai quali dipende la sicurezza di tutti noi, delle nostre città e persino delle nostre fabbriche. Facciamo esempi concreti. Proprio ieri l’Ugl Polizia Penitenziaria ha organizzato a Roma una manifestazione a piazza Montecitorio, con cui la categoria ha dato voce al profondo stato di sofferenza esistente nel mondo carcerario per le insostenibili condizioni di lavoro e di vita, nelle quali si trovano le agenti e gli agenti, nonché detenute e detenuti. Suicidi e incidenti sono all’ordine del giorno, al punto che ormai non fanno più notizia. In verità non l’hanno mai fatta perché nessuno se ne occupa e se ne preoccupa, nonostante da parte nostra e non solo sia pervenuta al governo, in particolare al ministro della Giustizia, la richiesta mai esaudita di un confronto. Si tratta di lavoratori che possono “ambire” agli onori delle cronache solo quando sbagliano o vengono accusati di atti molto gravi. Ma non fa notizia, ad esempio, che a Pordenone la casa circondariale abbia sede in una fortezza del 1200, da me visitata, e dove gli 85 detenuti vengono sorvegliati solo da 39 agenti, quando ne servirebbero almeno il doppio. Così come presso la casa circondariale di Bellizzi Irpino chiunque può constatare lo stesso mancato rispetto delle più elementari norme di sicurezza: infiltrazioni d’acqua, illuminazione inadeguata, assenza di sistemi di automazione e il disagio evidente con cui sono costretti a operare gli agenti, a cui vanno aggiunte le non buone condizioni in cui vivono le detenute con figli. Il mondo carcerario è insomma uno di quei rari casi in cui le differenze tra Nord e Sud si annullano magicamente. Per avere una sommaria visione d’insieme dei problemi è sufficiente riportare qualche dato: nell’arco di tre anni si è verificata una riduzione di oltre il 50 per cento dei fondi assegnati alla manutenzione ordinaria e straordinaria delle carceri, dai 30.800.280 di euro del 2009 si è passati ai 15.118.789 del 2011. Tagli anche agli acquisti, alla manutenzione e al noleggio dei mezzi di trasporto, da. 31.503.560 di euro del 2008 a. 25.318.251 attuali. Un vero paradosso, se si pensa che i detenuti ristretti nelle carceri sono 21.360 in più rispetto a quelli che il sistema può accogliere. Servirebbe invece un piano straordinario per il settore che preveda almeno l’assunzione di 5.000 agenti di Polizia penitenziaria per riequilibrare i carichi di lavoro. In assenza di risposte, continuerò a visitare le carceri, soprattutto quelle più disastrate, fino a quando non verremo ascoltati e fino a quando non si darà vita a un piano degno di questo nome. Qualcuno però ci ha ascoltato: siamo stati ricevuti dal Capo della segreteria istituzionale del Presidente della Camera, dottor Alberto Solia, al quale abbiamo illustrato tutte le istanze di una categoria alla quale non viene riconosciuta né la specificità di ruolo né lo stesso trattamento giurdico-economico delle altre Forze di Polizia. Turni massacranti, anche di 11 ore, missioni effettuate ma non pagate, solo per dirne alcune, a fronte di stipendi totalmente inadeguati al costo della vita. Nostri iscritti e sindacalisti, che venerdì hanno manifestato davanti a Montecitorio, lo hanno fatto sacrificando un preziosissimo giorno di ferie e sono venuti da tutta Italia, da Nord a Sud. So che difficilmente ci si interroga sul mondo delle carceri ma è un errore, perché anche da questo aspetto della vita civile dipende la nostra sicurezza, il rispetto delle leggi, delle istituzioni e un più efficiente e formato Corpo di Polizia penitenziaria, che non sia chiamato solo a “fare la guardia” ai detenuti ma anche a contribuire ad un loro reale recupero nella società. Ma la protesta della Polizia penitenziaria è solo l’ultima di una serie da noi organizzate a sostegno delle ragioni di un delicato comparto. Nella seconda metà del 2010 il Coordinamento sicurezza dell’Ugl ha indetto ben tre manifestazioni per sollecitare l’attenzione delle istituzioni, in primis del governo, e dell’opinione pubblica. A luglio e a settembre il problema era la manovra, problema che già si sta ripresentando oggi, alla quale il settore allora ha dato, in termini di tagli, risorse pari a quasi ni per cento, sacrificando oltre alle retribuzioni degli operatori della sicurezza anche Volanti, Commissariati e Stazioni. I mancati adeguamenti economici hanno un loro peso “pubblico”, se si pensa alle missioni, agli straordinari che ordinariamente, si passi il gioco di parole, vengono chiesti e non puntualmente pagati alle Forze dell’ordine. Nel 2010 il comparto ha subito un taglio del 10 per cento, ma già nel 2008 la riduzione delle risorse è stata pari al 20 per cento. Taglio su taglio, si mette in ginocchio un’intera amministrazione e di anno in anno rialzarsi in piedi diventa un’impresa titanica. Non a caso le analisi, le comparazioni e le informazioni condotte da alcuni dipartimenti del ministero degli Interni sull’andamento finanziario di alcune strutture ministeriali, soprattutto quelle che hanno subito i ridimensionamenti più drastici, diventano sempre più puntuali. I tagli non colpiscono solo le retribuzioni, l’erogazione degli straordinari o, quel che è peggio, l’entità complessiva del personale sempre insufficiente, ma anche aspetti meno intuibili come le spese per l’affitto dei locali in cui sono accolti uffici centrali e prefetture, il cui onere è di gran lunga superiore alle cifre stanziate, oppure le spese di pulizia e di utenza delle Prefetture, la manutenzione ordinaria dei locali, fino ad arrivare ad incidere generalmente sui servizi di Pubblica sicurezza, dei Vigili del Fuoco, della Difesa civile. Ciò nonostante questo sia il Paese delle emergenze tra terremoti, rifiuti o il tragico avvio di un cantiere per l’Alta velocità, che ha comportato centinaia di feriti, con operai addetti ai lavori terrorizzati dalle minacce e dagli insulti. In sintesi il mondo della Sicurezza non ce la fa più e non ce la fanno più neanche i cittadini, mondi che alla fine - è bene non dimenticarlo - coincidono più di quanto non si pensi, tartassati da manovre restrittive, tasse e tassine, assenza di servizi sociali, scoraggiati da un complessivo spettacolo della politica che di sicuro non placa gli animi. In conclusione bisogna andare orgogliosi di quei cittadini, e sono tanti anche se invisibili, e dei rappresentanti delle Forze dell’Ordine, altrettanti, che nonostante tutto continuano a fare il proprio dovere, ad adeguarsi alle regole, a rispettare lo Stato. È a queste persone che bisognerebbe rivolgere maggiore attenzione, è di queste persone che si dovrebbe avere maggiore rispetto, perché sono quelle :he “fanno” un Paese e che lo mantengono unito. Giustizia: errore giudiziario; in carcere 8 mesi per omonimia, risarcito con 85mila euro di Franco Bechis Italia Oggi, 10 luglio 2011 José Vincent Piera Ripoli ha 48 anni. Sposato e poi separato, ha un figlio di quasi 15 anni restato con la mamma. Sulla carta di identità ha scritto “osteopata”. Più prosaicamente fa il fisioterapista in un paesino vicino ad Alicante, cuore della Spagna. Una vita normale. Fino alla mattina del 21 luglio 2009. Quel giorno bussa a casa sua la polizia spagnola. Ha in mano un ordine internazionale di custodia cautelare emesso dalla procura di Milano. José viene condotto davanti al tribunale locale. Udienza rapidissima: il medico ha una condanna definitiva a 15 anni di reclusione e 75mila euro di multa per traffico internazionale di stupefacenti. Da lì è trasferito nel carcere di Opera, rinchiuso in una cella con altri 4 detenuti stranieri. Si fa otto mesi di carcere e poi solo grazie a un pool di giovani avvocati di Milano (Simone Briatore, Stefano Pratus e Antonino Gugliotta) riuscirà a uscire perché è innocente. Verrà risarcito per ingiusta detenzione con 85mila euro, meno delle spese sostenute. La procura di Milano, il tribunale di Milano, la Corte di Appello di Milano, la polizia di Milano hanno tutti compiuto il più clamoroso degli errori giudiziari: lo scambio di persona. Con una incuria che è lo specchio del cancro più profondo di cui è ammalata la giustizia italiana. Nessuno ha verificato nulla. Perché un vero colpevole c’era. Aveva la stessa identità del povero osteopata perché gli aveva rubato il passaporto. E poi aveva sostituito la foto. Lui, il colpevole, era di pelle olivastra e con un faccione tondo: pesava più di cento chili. Soprannominato “El Gordo”, il Ciccione. Il medico incarcerato per otto mesi invece era minuto, pesava poco più di 50 kg. Sarebbe stata sufficiente un’occhiata alla foto. Ma nessuno l’ha data. E una dopo l’altra sono state imboccate tutte le vie possibili e inimmaginabili di una storia di straordinaria ingiustizia. Gli uffici giudiziari di Milano le hanno sbagliate proprio tutte. Dal pm Mario Venditti (quello delle inchieste sulla ‘ndrangheta in Lombardia) che firma la custodia cautelare nel 2005. Al gip Maurizio Grigo (quello di Mani pulite) che l’autorizza. Al tribunale di primo grado che lo condanna. Fino alla quarta sezione penale della Corte di appello di Milano che conferma quella condanna ingiusta. Il primo errore è il più clamoroso: lo scambio di persona. Nessuno controlla. L’inchiesta riguarda 132 imputati, in gran parte stranieri. Per i pm si tratta di narcos, e quindi chissenefrega. Gli extracomunitari interessano solo quando c’è da fare polemica sulle leggi del governo Berlusconi, altrimenti sono avanzi di galera senza diritti. L’ordine di cattura pesca nel mucchio, c’è anche Piera Ripoll. I pm di Milano sono sicuri della sua colpevolezza. Non sanno che faccia abbia, né che di che si occupi nella vita. Ma hanno una intercettazione telefonica, che per i pm vale più della Bibbia. Non c’è bisogno di verificarla. Nella intercettazione lui (che non è lui - il medico, ma un altro) parla di una partita di coca. Gli altri lo definiscono “El Gordo”, un italiano lo chiama “il Chiattone”. Si capisce che è grasso. I pm sanno che i carabinieri di Monza nel 2000 lo hanno fermato in Italia e identificato con il passaporto. Basta la notizia: nessuno si fa mandare la fotocopia del passaporto con la foto dell’uomo. L’intercettazione basta e avanza per mandarlo a processo. Lui forse è in Spagna, paese dove il medico per altro nel frattempo ha denunciato il furto del passaporto. Ma la convocazione a processo non gli viene notificata, non si conosce l’indirizzo. Negli atti verrà indicato come “s.f.d.”, senza fissa dimora (clamorosa bugia), così ci si toghe il problema. Per la giustizia italiana di rito milanese un uomo può essere processato in primo e secondo grado e condannato a 15 anni e 75mila euro di multa senza che nessuno si premuri di farglielo sapere. Però dopo che la condanna è divenuta definitiva, tutti se lo dimenticano. L’8 agosto 2008 - e siamo al grottesco - un pm di Milano gli concede uno sconto di pena applicando i nuovi benefici di legge: gli anni da passare in carcere diventano 12 e sei mesi. La pena pecuniaria passa da 75 a 65 mila euro. L’ordine è di accompagnarlo in carcere per scontare la pena. Ma viene eseguito un anno dopo. In carcere il medico spagnolo ha in mano il testo della sua condanna definitiva. È in italiano, e non conosce la lingua. Chiede una traduzione. Invano. Lo spiegherà a Matilde Pagani, funzionaria del consolato spagnolo a Milano che lo va a trovare, crede nella sua innocenza e si attiva. Il resto lo fanno gli avvocati: rintracciano la copia del passaporto falsificato, fanno vedere la foto ai magistrati, trovano la testimonianza di chi aveva rubato al medico quel passaporto, chiedono alla Corte di appello di Milano di riaprire il processo. Quelli si rifiutano e dicono di presentare una istanza di scarcerazione. Viene presentata. La stessa corte di Appello la respinge per motivi burocratici. Poi fra mille fatiche, la scarcerazione arriva. E anche l’assoluzione per non avere commesso il fatto. José ora è tornato al suo paese, ed è in cura costante da uno psicologo. Il vero narcos non l’hanno acchiappato. Questa storia incredibile sarà la cartina al tornasole dell’efficienza del Csm, che almeno un fascicolo dovrà aprire ora che è emersa. Se resterà come sempre senza colpevoli, sarà la pietra tombale della giustizia italiana. Lettere: “Matti in libertà”… l’inganno della legge Basaglia Europa, 10 luglio 2011 Cara Europa, ho il piacere di mandarvi una copia del libro di Maria Antonietta Farina Coscioni, deputata radicale nel Pd - intitolato Matti in libertà - l’inganno della “legge Basaglia” - degli Editori internazionali riuniti (p. 290, € 15). Il libro ha una postfazione di Sergio Staino e, come dice un sommario in copertina, sopra l’immagine di un uomo incatenato a una caviglia, racconta come il percorso interrotto della legge Basaglia è ricaduto su uomini e donne in tutta Italia, vittime innocenti di un iter legislativo che non ha cancellato gli ospedali psichiatrici giudiziari. Il libro è il reportage di storie di internati e delle loro famiglie. Vi sarei grato se poteste dedicargli una vostra recensione, sapendovi attenti alle problematiche sociali. Michele Altobelli, Firenze Risponde Federico Orlando E ai diritti civili, caro Altobelli. “Problematiche sociali e diritti civili”. Forgiando questo binomio è cambiata la lotta politica in Italia nella seconda metà del Novecento. Purtroppo oggi non ho la possibilità di recensire il libro, perché, come può vedere dalla prima pagina di Europa, ho altri impegni che riguardano gli stessi temi sociali e civili per i quali Maria Antonietta Farina Coscioni e gli altri suoi colleghi radicali e laici stanno combattendo alla camera: i temi del testamento biologico e della manovra clerico - bunga bunga, diretta a privarne gli italiani. Recensirò il libro non appena ne avrò la possibilità. Ma non ho voluto far passare la giornata di oggi senza almeno questa citazione, visto anche che si va verso le vacanze e ci si potrebbe dimenticare di queste cose tremende. Che, già di loro, sono minoritarie nell’interessamento collettivo. Voglio dire al lettore, quasi seguendo l’indice, che il libro, oltre alla premessa, raccoglie la materia in alcuni capitoli intitolati “Alcune storie”, “Matti in parlamento”, “Dai manicomi agli Opg”, “Gli Ospedali psichiatrici giudiziari”, “Il ricovero volontario e coatto per i malati in Francia, Germania e Svizzera”, “La disciplina degli ospedali psichiatrici giudiziari (Francia, Germania, Regno Unito, Spagna), “Emergenza da matti”; e poi, dopo una postfazione di Sergio Staino, alcuni allegati: il decreto del presidente del consiglio 1 aprile 2008 allegato C; l’intervento di Marco Pannella alla camera il 28 aprile 1978; la sentenza della corte costituzionale n. 367 del 2004; il Rapporto del commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa; Il governo e la sanità penitenziaria; le persone ristrette negli Opg al 30 maggio 2011. E poi biografia, ecc. A proposito: ho appena finito di ascoltare il notiziario delle 14 di Radio Radicale, che, con la voce del presidente dell’Inai!, annuncia per la prima volta in Italia (nel 2010) un numero di morti sul lavoro inferiore a 1000,; poi apro il libro che lei mi ha inviato, e leggo nelle prime righe: “Il dispaccio dell’agenzia Ansa è secco, “neutro”, proprio per questo ancor più colpisce e ferisce: nell’ospedale psichiatrico giudiziario (Opg) di Aversa si è consumata l’ennesima tragedia: un giovane quasi trentenne è morto. Si aggiorna così il triste bollettino del 2011, che registra ben 7 decessi in poco più di quattro mesi, tre dei quali per suicidio”. Il dramma, che qui resta sui “piccoli” numeri, si rinnova continuamente nelle carceri sovraffollate di detenuti: ogni tanto un morto, più spesso un suicida, sempre decine di migliaia di uomini ammassati in condizioni disumane, per i quali Marco Pannella è in sciopero della fame (e a tratti della sete) da oltre due mesi. Non tutti amano l’amnistia, anche chi scrive ha qualche perplessità su quell’istituto, ma un’azione di governo che miri almeno alla decompressione delle carceri sarebbe quasi universalmente accettata: depenalizzare, è questa la parola chiave di un sistema come quello italiano che s’inventa addirittura leggi criminogene. Credo che il problema posto agli italiani da Pannella e quello che la onorevole Coscioni illumina con questo libro, dovrebbero far parte di un’unica politica. Mi domando: e se un giorno il Pd indicesse una conferenza nazionale su questi due problemi, aperta all’università, alla scienza, alla politica, alle esperienze straniere? Nei primi dieci anni della repubblica si faceva così con i grandi temi dello sviluppo, agricoltura, lavoro, mezzogiorno, previdenza, abitazione. Qualcosa allora, mi par di ricordare, passò dalle chiacchiere alla politica. Hai visto mai... Lettere: detenuto a Venezia; ho trombosi venosa, chiedo di essere curato adeguatamente Il Gazzettino, 10 luglio 2011 Egregio Direttore, inizio congratulandomi con Lei e i Suoi collaboratori per la professionalità con la quale quotidianamente svolgete il vostro lavoro dandoci modo di apprendere - anche a noi detenuti - notizie, articoli di ogni genere che pubblicate su carta stampata. Purtroppo, mi trovo a doverle scrivere questa lettera perché nella situazione in cui mi trovo non ci sono altri modi di comunicazione se non quello epistolare, e scrivo perché sto vivendo un grosso disagio con non poca preoccupazione per il mio stato di salute che qui, a Santa Maria Maggiore, viene preso con leggerezza, incompetenza e negligenza da parte dell’equipe medico sanitaria di scarso livello. Vi riporto il mio problema, anche se vi assicuro che ci sono tanti altri compagni che accusano le mie stesse problematiche. Da circa un anno mi trovo a dover convivere con una trombosi venosa alla gamba destra. Per questo motivo mi hanno messo un cura con un farmaco anticoagulante di nome Coumadin. Tengo a precisare che tale farmaco mi viene somministrato dal medico dell’Istituto senza però aver mai consultato l’esito di un ecodoppler in quanto, anche dopo le mie numerose ma inutili richieste di voler fare tale visita non mi hanno mai neanche prenotato un appuntamento. Poiché, con l’assunzione del Coumadin sono anche previsti dei prelievi sanguigni molto importanti che dovrebbero, essere fatti settimanalmente per controllare il dosaggio e l’efficacia che può facilmente variare. Dal mio arrivo in questo istituto il 9 marzo 2011 il primo prelievo si sono ricordati di farmelo solo dopo 3 mesi (8 giugno 2011) anche dopo le mie insistenti e ripetute richieste. Dal giorno 28 giugno ho deciso di sospendere l’assunzione del Coumadin come protesta perché non ricevo le cure necessarie. Pur essendo consapevole che la mancata assunzione del farmaco mi potrebbe provocare un’ischemia celebrare, un infarto o un ictus. Insomma ho un problema serio che purtroppo è preso con leggerezza dal reparto infermeria. Una domanda sorge spontanea: ma vi sembra giusto che io, come del resto tanti altri, solo perché detenuti si debba arrivare al rischio di compromettere la propria salute, e a proprio rischio e pericolo, solo per ottenere d’essere seguiti e curati nel modo giusto? Diverso è invece l’operato degli agenti di Polizia Penitenziaria che pur essendo sottoposti spesso a turni massacranti per la mancanza di personale si rivolgono sempre con educazione, discrezione e rispetto. Lettera firmata Umbria: Zaffini (Fli); è necessario decongestionare le carceri della Regione Asca, 10 luglio 2011 “Occorre procedere risolutamente per decongestionare le strutture detentive umbre, sollecitando ministero e Parlamento affinché si arrivi ad un piano di risoluzione della emergenza carceraria in atto da tempo”. È quanto propone il consigliere di Fli alla Regione Umbria, Franco Zaffini, annunciando un atto per impegnare la Giunta in tal senso. Zaffini, destinatario di una missiva del segretario generale aggiunto del Lisapp, sui “gravi problemi che la situazione crea per la sorveglianza degli stessi detenuti” ha rilevato “che le carceri umbre versino in condizioni critiche a causa del sovraffollamento e, soprattutto, del sotto organico di polizia penitenziaria è una denuncia che facciamo da tempo, per la quale abbiamo chiesto agli amministratori regionali di intervenire presso il Ministero in molteplici occasioni”. Zaffini ha ricordato che nel settembre 2009, il Consiglio regionale, su sua proposta, approvò un ordine del giorno che impegnava l’esecutivo regionale a dar seguito ad una serie di interventi previsti dai protocolli d’intesa siglati con il Ministero della Giustizia. “In particolare - ha detto - quel documento faceva riferimento ad una serie di azioni congiunte per la formazione del personale, nonché per l’edilizia residenziale destinata agli operatori e per l’incremento di fondi da destinare ai comuni, sedi di istituti e servizi penitenziari. Nella specifica competenza della Regione - ha ribadito - rientrava tutta la materia sanitaria delle strutture detentive: dall’apertura della sala infermieristica nel carcere di Capanne, alla creazione di un apposito reparto detentivo negli ospedali dei capoluoghi di provincia, tutte carenze che costringono gli agenti a doppi e tripli turni di lavoro per il piantonamento di un singolo detenuto ricoverato”. “Finora in Umbria - ha concluso - abbiamo visto amministratori, spendersi per l’istituzione del garante dei detenuti, ma rifiutarsi di istituire un fondo per le vittime del crimine. Ci sono state levate di scudi solidaristiche nei confronti di chi ha commesso un reato, ma poco o quasi nulla, è stato detto, o fatto, in favore di chi svolge un lavoro rischioso e faticoso come quello degli agenti penitenziari. Mutare prospettiva può essere un passo in avanti per affrontare il problema carcerario”. Modena: Pd; nelle carceri un disastro, troppi detenuti e poco personale Dire, 10 luglio 2011 Diminuire il sovraffollamento, incrementare il personale di sorveglianza, aumentare il ricorso alle misure alternative, favorire l’attività esterna al carcere attraverso i lavori di pubblica utilità e la formazione professionale, garantire il diritto all’istruzione con il ripristino dei corsi scolastici. Queste, in sintesi, le proposte del Pd di Modena sulle carceri che, in una nota, ricorda il secondo posto dell’Emilia-Romagna per il tasso di sovraffollamento degli istituti penitenziari. I detenuti in regione sono, infatti, 4.373 a fronte di una capienza regolamentare di 2.394, il che significa un indice di sovraffollamento pari al 182,5% (dato medio nazionale al 150,95%). A livello nazionale, inoltre, il 36,7% della popolazione carceraria è straniera mentre in Emilia-Romagna gli stranieri detenuti sono più della metà (52,4%). Nella casa circondariale di Modena sono presenti 430 detenuti invece dei 221 previsti dalla capienza regolamentare, con un tasso di sovraffollamento prossimo al 190 per cento. L’organico degli agenti di Polizia Penitenziaria delle tre strutture presenta una pesante carenza al Sant’Anna (60 unità in meno) rispetto alla popolazione che dovrebbe contenere il carcere (221); questa carenza diventa drammatica se rapportata al numero di detenuti effettivamente presenti. Una forte carenza di organico si registra anche nella Casa di lavoro di Castelfranco dove sono presenti 40 agenti con una popolazione carceraria di circa 110 detenuti. “La Regione e gli enti locali stanno facendo la loro parte mentre manca qualsiasi intervento del governo”, commenta il segretario provinciale del Pd Davide Baruffi. Il democratico in conclusione chiede che “il nuovo padiglione in costruzione al S. Anna sia destinato a redistribuire la popolazione carceraria presente e dotato degli organici necessari”. Aimi (Pdl): carcere sovraffollato a causa troppi stranieri “Amnesia e ipocrisia politica nella manifestazione del Pd davanti al Sant’Anna nel tentativo di scaricare sul governo le colpe del sovraffollamento, dimenticando di essere essa stessa non la soluzione ma la causa del problema”. Questo il commento di Enrico Aimi, vice coordinatore provinciale del Pdl alle accuse lanciate dai parlamentari del partito di Bersani contro le politiche del governo in tema di politiche penitenziarie. Il sovraffollamento della Casa Circondariale” ha proseguito Aimi “è innegabile ed è un problema serio che pone il personale della polizia penitenziaria e quello ausiliario, in serissime difficoltà. Anche per gli stessi detenuti, poi, le condizioni di vivibilità sono ben al di sotto degli standard auspicabili per un paese civile. Tuttavia, e qui arriviamo al punto, se questa è la fotografia del problema, a sinistra ancora una volta ci si dimentica delle cause e delle ragioni in conseguenza delle quali si è arrivati a questo punto. Chiediamoci piuttosto, una volta per tutte, come mai a livello nazionale i detenuti stranieri sono circa un terzo del totale, mentre a Modena la proporzione, per difetto, è opposta, con punte che raggiungono anche l’80%? “A qualche politico locale” ha proseguito il consigliere regionale “staranno probabilmente fischiando le orecchie. È comunque sentito e doveroso - ha subito aggiunto - un plauso all’attività della Polizia Penitenziaria per i risultati ottenuti in un anno difficile in cui sono stati scongiurati suicidi e gravi episodi di violenza. Non dobbiamo poi dimenticare - ha rimarcato ancora Aimi - che l’Italia sta attraversando la più grave crisi economica dal dopoguerra e sicuramente non a causa del Governo Berlusconi, grazie al quale sono stati invece evitati esiti infausti per l’Italia; ciò nonostante al Sant’Anna si sta costruendo ed è in via di ultimazione, un altro padiglione in grado di ospitare in condizioni di maggiore decenza tutti i detenuti. Il centrodestra risponde all’emergenza criminalità costruendo nuove carceri, la sinistra - centro promulgando indulti e politiche suicide in fatto di accoglienza . Dobbiamo dunque congratularci - ha rincarato Aimi - per la stupefacente faccia di bronzo politica con cui, ancora una volta ,è stato portato avanti un puerile tentativo di spostare l’attenzione dalle cause del problema agli effetti. Il Pdl “ha concluso Aimi” non accetta lezioni da chi ha condotto folli politiche sociali di accoglienza che hanno abbagliato e calamitato qui torme di disperati da ogni parte del mondo, ai quali è stata data tanta solidarietà - a nostre spese - in cambio di tanto odio e inspiegabile, violento, irriconoscente, disprezzo. Su questo il Pd dovrebbe manifestare con noi, iniziando a cambiare le proprie politiche: quelle stesse che al tempo del loro ultimo governo Prodi vedevano il Carcere di Modena ancora più affollato di oggi”. Livorno: protesta dei detenuti delle Sughere contro il sovraffollamento Il Tirreno, 10 luglio 2011 “Celle di 8 metri quadri in cui si affollano tre persone, dove la temperatura percepita è di 45 gradi”. In concomitanza con la mobilitazione del mondo delle carceri (prima i direttori poi il personale), Marco Solimano, garante dei diritti dei detenuti, denuncia ancora una volta lo stato di emergenza del carcere livornese delle Sughere. Lo fa con una simbolica conferenza stampa di fronte all’ingresso della casa circondariale. Mentre i detenuti presenti fischiano, facendo così sentire la loro voce di protesta contro le condizioni disumane in cui si trovano. Nel grande piazzale di fronte alle Sughere non c’è modo di ripararsi dal sole di mezzogiorno. È quello che capita regolarmente ai parenti dei detenuti che non hanno neppure una pensilina. “E nelle celle si muore di caldo”, dice Solimano. Dopo il rapporto dell’azienda sanitaria, il caso del carcere livornese è approdato in Parlamento. Un gruppo di esponenti del Pd e di Radicali hanno presentato un’interrogazione al Ministro della Salute e a quello della Giustizia. “All’interno del carcere - si legge nell’interrogazione - a causa delle condizioni fatiscenti c’è rischio di contrarre tubercolosi e scabbia”. I livelli di sovraffollamento sono inaccettabili, 440 detenuti a fronte di una capienza di 250 unità, le condizioni di vita sono disumane. E al sovraffollamento si affianca un sottorganico che costringe la polizia penitenziaria ad operare in emergenza perenne. “I magazzini sono vuoti: ciò significa che mancano le lenzuola, la carta igienica, i disinfettanti e la vernice”, rivela Solimano. Le docce sono coperte di muschio e muffa, stessa situazione per le pareti e i soffitti. E anche i detenuti hanno voluto farsi sentire. In concomitanza con la conferenza stampa hanno dato vita ad una rumorosa e pacifica protesta, gridando il loro disagio, fischiando e facendo risuonare contro le sbarre gli oggetti metallici a disposizione. Più di 200 detenuti hanno firmato un documento che sarà inviato al garante della Regione. Solimano, senza mezzi termini, richiama le autorità e il sindaco ad assumersi le proprie responsabilità: “Servono soluzioni concrete e immediate”. Immancabile una riflessione sui problemi del sistema giudiziario: “Il 60% di coloro che affollano le celle provengono da realtà di forte povertà - spiega Solimano - Un terzo dei detenuti potrebbe scontare la propria pena attraverso percorsi alternativi”. Alla conferenza è intervenuto anche Marco Filippi, senatore del Pd: “Il sistema carcerario - conclude - è indicatore del livello di civiltà di un Paese”. Feltre (Bl): aprirà un Centro per il reinserimento e la formazione degli ex detenuti Corriere delle Alpi, 10 luglio 2011 Un centro per il reinserimento e la formazione degli ex carcerati o di chi è interessato da una misura alternativa al carcere, sorgerà a Feltre. La sede del centro deve ancora essere definita come pure la natura giuridica dei soggetti accolti, fatto questo non di secondaria importanza considerato che la struttura dovrà automantenersi, prevedendo ottocento ore di stipendio al mese per un’assistenza h24. Ma intanto il progetto presentato dalla cooperativa Portaperta su sollecitazione del direttore dei servizi sociali dell’Usl Alessandro Pigatto, che ha fatto da apripista a questa struttura innovativa prima in provincia e fra le poche in regione, è stato promosso ieri dall’assessore regionale Remo Sernagiotto. Il personale non manca visto che si metterebbero in campo i sette dipendenti “ex Braite”, in cassaintegrazione dopo la chiusura della comunità terapeutica. E il progetto può decollare con il beneplacito della Regione. È stato il capogruppo Pdl in consiglio regionale Dario Bond a organizzare ieri l’incontro fra il presidente della cooperativa Portaperta Marco Slongo e l’assessore Sernagiotto, presente a Feltre per il giardino Alzheimer. Sul fronte del reinserimento lavorativo degli ex detenuti l’attenzione della Regione è massima. “Nella finanziaria del 2011 il sostegno a favore della formazione e del reinserimento lavorativo degli ex detenuti è stato raddoppiato passando da 500 mila euro a un milione”, spiega Bond. “La detenzione di una persona costa mediamente trecento euro al giorno. Formarlo e assicurargli un futuro costa molto meno oltre a essere una questione di civiltà”. Adesso il presidente di Portaperta Marco Slongo visiterà alcune strutture analoghe nell’hinterland milanese. “La condivisione del progetto con la conferenza dei sindaci è importante”, spiega Slongo. “Ma il progetto non rientra nella legge 22 e quindi prevede un iter più snello per l’attivazione senza la necessità di ottenere l’accreditamento e le autorizzazioni all’esercizio”. L’obiettivo del futuro centro è quello di accogliere ex carcerati, provenienti dal territorio locale, e seguirli fino al reinserimento lavorativo e abitativo. L’attività esula del tutto da quello che si fa nelle comunità terapeutiche per ex tossicodipendenti. Taranto: Vitali (Pdl) chiede un incremento straordinario del personale per il carcere 9Colonne, 10 luglio 2011 “Ho chiesto un incremento straordinario del personale per il carcere di Taranto al direttore generale della Polizia Penitenziaria Riccardo Turrini Vita, viste le problematiche che, anche a causa del sovraffollamento della struttura, si stanno verificando in quel penitenziario negli ultimi giorni”. Lo ha detto Luigi Vitali, responsabile Pdl per l’ordinamento penitenziario, dopo aver raccolto le richieste di aiuto dei sindacati di categoria. Nel giro di due giorni a Taranto si sono verificati due episodi che hanno messo a dura prova gli agenti di Polizia Penitenziaria. L’altro pomeriggio due detenuti sono rimasti ustionati a causa dell’esplosione in cella di una bomboletta di gas e ieri un ragazzo di 20 anni ha cercato di togliersi la vita con una corda fatta di stracci. A Salvarlo sono stati proprio gli agenti penitenziari. Stando alle stime fornite dalle organizzazioni di categoria, il carcere di Taranto, come anche le altre strutture pugliesi, vive una particolare situazione di disagio a causa del sovraffollamento della struttura. A fronte di una capienza massima di 315 persone, attualmente le persone detenute sarebbero 670. “Il direttore generale Turrini Vita si è mostrato disponibile ad accogliere le nostre richieste - ha aggiunto Vitali - , anche perché, pur in una situazione di emergenza che coinvolge tutte le carceri italiane, si rende conto che la struttura di Taranto è particolarmente sollecitata. Stiamo cercando di fare il possibile affinché l’organico attualmente in servizio nel penitenziario tarantino sia potenziato con trasferimenti temporanei di agenti che possano dare un po’ di sollievo a chi opera nell’emergenza da mesi”. “Mi auguro anche che - ha detto ancora Vitali, il commissario straordinario e capo del Dap Franco Ionta dia velocemente corso al Piano carceri che il ministro Alfano con tanto impegno e celerità ha messo in atto”. Spoleto: visita dei Radicali; il carcere è notoriamente sovraffollato e carente di personale www.ilsitodiperugia.it, 10 luglio 2011 Hanno coscientemente “disobbedito” alla prassi secondo cui le visite negli istituti penitenziari vengono sempre preannunciati con buon anticipo, proprio per avere la possibilità, nel rispetto delle prerogative riconosciute ai parlamentari, di avere una visione il più possibile veritiera ed originale dello stato del carcere di Spoleto, da tempo oggetto di denunce pubbliche (da parte dei radicali ma anche dei sindacati della polizia penitenziaria stessa) per il grave stato di sovraffollamento dei detenuti cui corrisponde una cronica carenza di personale preposto alla vigilanza e ai servizi interni, che contraddistingue questo penitenziario di massima sicurezza. Ieri così, dopo le 16 la deputata radicale Rita Bernardini, Irene Testa, segretaria dell’associazione Il Detenuto Ignoto e Liliana Chiaramello, segretaria di Radicali Perugia si sono presentate ai cancelli del carcere chiedendo di poter entrare per una visita ispettiva per l’appunto appunto non preannunciata. La Bernardini e la Testa, al 34mo giorno di sciopero della fame a sostegno della iniziativa nonviolenta di Marco Pannella (cui hanno aderito 20 mila persone tra detenuti, direttori degli istituti, guardie penitenziarie e semplici cittadini) hanno ribadito la necessità una “amnistia democratica” per tamponare una situazione inaccettabile per un democratico stato di diritto. Nei prossimi giorni conosceremo l’esito della visita. Palermo: Sindacati Polpen; chiusura e disinfestazione di 2 sezioni dell’Ucciardone Ansa, 10 luglio 2011 La chiusura per avviare la disinfestazione di due sezioni del carcere Ucciardone a Palermo. La chiedono i sindacati in una nota congiunta inviata al capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. “Le celle non vengono tinteggiate da anni, e le pareti - affermano - sono sporche e scrostate, in alcune zone del reparto sono piene di muffe di colore verde scuro”. Una situazione che secondo le organizzazioni sindacali provocherebbe danni alla salute sia dei detenuti che delle guardie carcerarie. “Gli effetti dovuti all’esposizione di muffe: microrganismi in edifici umidi sono le malattie allergiche - sostengono Sappe, Ugl, Cgil, Fns e Uil - come rinite, asma, polmonite da ipersensibilità, congiuntivite, e sintomi generali con affaticamento, cefalea, nausea e febbre”. Per i sindacati non è possibile che ancora oggi il personale è costretto a vivere e a prestare servizio in locali insalubri e fatiscenti, dopo innumerevoli interventi ed apparenti iniziative nulla è stato fatto di concreto. Benevento: agente Polizia penitenziaria tenta il suicidio, salvato dai Carabinieri Adnkronos, 10 luglio 2011 Un agente della polizia penitenziaria di 48 anni di cui non è stata resa nota l’identità ha tentato di togliersi la vita mentre si trovava nella sua abitazione a Benevento. L’agente ha utilizzato una lametta con la quale si è tagliato le vene. Sono intervenuti i carabinieri beneventani che gli hanno salvato la vita. Le condizioni del poliziotto sono gravi: si trova ricoverato in ospedale nel reparto di rianimazione. Reggio Emilia: Sappe; detenuto aggredisce due agenti Dire, 10 luglio 2011 Un’altra aggressione nelle carceri italiane. Questa volta è successo nella casa circondariale di Reggio Emilia, denuncia Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto Sappe: “Un detenuto di origine magrebina ha prima dato un violento schiaffo all’agente in servizio nel reparto e, subito dopo, ha aggredito un altro agente intervenuto sul posto, colpendolo con un pugno ad un orecchio”. I due agenti, riferisce Durante, hanno dovuto fare ricorso alle cure mediche, ma al momento non si conosce la prognosi. “Chiediamo all’Amministrazione provvedimenti esemplari, perché non è più possibile che i nostri agenti siano anche costretti a subire violenze per 1.200 euro al mese, lavorando tra mille difficoltà”. La situazione “nelle 206 carceri italiane è sempre più difficile, gli eventi critici (aggressioni, gesti di auto ed eterolesionismo, tentativi di suicidio, suicidi e danneggiamenti a beni dell’Amministrazione) superano i 200 al giorno”. La polizia penitenziaria, lamenta il Sappe, “fa sempre piu’ fatica a garantire i servizi istituzionali per la continua perdita di personale che va in pensione e non viene sostituito”. L’Emilia - Romagna, conclude Durante, “si conferma una delle regioni fuorilegge, per sovraffollamento e carenza di personale. Ci sono 2.000 detenuti in più rispetto ai posti previsti e mancano 650 agenti di polizia penitenziaria”. Roma: il Garante; detenuto in sciopero della fame da 40 giorni, condizioni critiche Dire, 10 luglio 2011 Sono critiche le condizioni di salute di Danilo Speranza, il Guru dell’associazione “Maya” nel quartiere romano di San Lorenzo, in custodia cautelare dal marzo 2010 recluso nel carcere di Rebibbia Nuovo Complesso con l’accusa di violenza sessuale su minori e truffa aggravata. Lo rende noto il Garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni. Da oltre 40 giorni Speranza ha iniziato lo sciopero della fame - cui si è aggiunto, negli ultimi dieci giorni, quello della sete - per protestare contro quello che ritiene essere un errore giudiziario nei sui confronti. Il detenuto chiede di essere ascoltato al più presto dall’autorità giudiziaria competente, il Tribunale di Tivoli. A Rebibbia l’uomo è ospitato nel reparto precauzionale (G 9): le sue condizioni di salute sono critiche, caratterizzate da un forte deperimento organico. Il detenuto rifiuta i colloqui ed ogni tipo di terapia. “Mi è stato riferito - ha detto Marroni - che già nelle prossime ore il medico del reparto chiederà il ricovero d’urgenza in una struttura esterna al carcere per evitare ulteriori complicazioni”. “Al di là della gravità dei reati di cui è accusato - ha detto il Garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni - quest’uomo ha il diritto inalienabile di vedere la sua condizione carceraria e giudiziaria valutata dai magistrati senza ulteriori ritardi. A prescindere da cio’ che decideranno nelle prossime ore i medici, è bene che le autorità inquirenti facciano presto, per evitare che una triste vicenda possa trasformarsi in tragedia”. Agrigento: il nuovo provveditore delle carceri siciliane domani visita il Petrusa La Sicilia, 10 luglio 2011 Quando nel 1997 venne inaugurato il carcere di contrada Petrusa, Maurizio Veneziano era il direttore. Domani mattina, a distanza di 14 anni da quei giorni, lo stesso Veneziano tornerà ad Agrigento, ma da provveditore del sistema penitenziario siciliano, “fresco” di una nomina giunta alla fine del mese scorso. Guidare il mondo delle carceri nel “bel paese” in questo periodo è quanto di più difficile possa essere chiesto a un funzionario dello Stato. Farlo in Sicilia rende tutto ancor più complicato, alla luce della straordinaria discrepanza tra strutture detentive spesso inadeguate e presenza di detenuti. Veneziano, nonostante sia un Under 50 ha maturato parecchie esperienze in giro per l’Italia e da capo del dipartimento siciliano promette di sfruttare al massimo questo bagaglio. A pochi giorni dalla prestigiosa nomina, Veneziano domani mattina sarà accolto dai vertici della casa circondariale agrigentina. Sarà una delle sue prime visite di cortesia certamente, ma anche e soprattutto pratiche, per tastare il polso della situazione in presa diretta, senza filtri. Veneziano arriverà a Petrusa di buon mattino, intorno alle 9 si terrà un briefing con i massimi rappresentanti della casa circondariale e della polizia penitenziaria. L’incontro con questi ultimi in particolare rivestirà un particolare valore perché a contatto con i detenuti ci sono loro, gli agenti che non amano molto essere chiamati “secondini”, agenti che con tanto sacrificio si confrontano con un’umanità davvero variegata. Al momento al Petrusa sono detenute circa 450 persone, forse anche di più, visto che comunque il dato ufficiale completo non è noto. Una cifra che rende il penitenziario al confine tra Agrigento e Favara uno dei più popolati, riempiendo una struttura realizzata da poco tempo, ma che già fa registrare spazi molto angusti e - secondo alcuni detenuti - fatiscenti. Una fatiscenza dettata essenzialmente dall’eccessiva popolazione che limita gli spazi. Da ricordare come all’interno dell’area del carcere sono in corso i lavori di costruzione della seconda ala del penitenziario, all’interno della quale a cantiere chiuso potrà essere rinchiuso un altro migliaio scarso di detenuti. Veneziano domani mattina farà dunque il punto della situazione in una delle carceri più in prima linea a livello nazionale. Un carcere di prima fascia, come viene considerato nella penisola tanto da essere meta di detenuti di un certo spessore, provenienti da altri penitenziari della penisola. Gente anche molto pericolosa e con un pedigree criminale di “tutto rispetto”. In questi anni il Petrusa si è ritagliato un ruolo importante nel panorama penitenziario italiano e Maurizio Veneziano che tenne a battesimo la struttura avrà modo di toccare con mano gli effetti e i risvolti di questa crescita costante. Pistoia: i Carabinieri arrestano due venditori ambulanti senegalesi, folla chiede di liberarli Adnkronos, 10 luglio 2011 I carabinieri hanno arrestato due venditori ambulanti senegalesi, ma un gruppo di persone è intervenuto cercando di farli liberare e lanciando offese contro l’azione condotta dai militari. È successo giovedi’ scorso a Montecatini Terme (Pistoia) ma la notizia è stata diffusa soltanto oggi. I due clandestini stavano vendendo borse e portafogli contraffatti, quando i carabinieri li hanno bloccati: i due africani sono scappati, spintonando i militari e la gente che si trovava a passeggiare per le vie del centro, tra cui una turista rimasta ferita. Poco dopo i due sono stati bloccati da altri militari, e a quel punto alcuni passanti hanno inveito contro i carabinieri con epiteti oltraggiosi, intimando loro di liberare i due senegalesi. Gli arresti sono stati invece confermati: i due clandestini dovranno rispondere di resistenza e violenza a pubblico ufficiale, lesioni personali, oltre che ricettazione e vendita di merce con marchi falsi. Immigrazione: illegali per legge… dalla “Turco-Napolitano” alla “Bossi-Fini” di Stefano Galieni Liberazione, 10 luglio 2011 Sono passati tredici anni da quando, era il primo governo Prodi, gli allora ministri Giorgio Napolitano e Livia Turco ottenevano dal Parlamento l’approvazione del testo unico sull’immigrazione. C’era la volontà di considerare i migranti come destinati a modificare profondamente la società italiana, ma soffiava già, e non solo da destra, la paura dello straniero. Vinse la paura, non si giunse a garantire il diritto di voto ai migranti, quella previsione fu stralciata dal testo originario, e si pensò di potere gestire l’arrivo dei migranti in maniera meccanica e approssimativa. Si istituirono i Cpt, ora Cie. Nel testo c’erano anche interventi per favorire l’inclusione sociale, peccato che, di governo in governo, con le ulteriori modifiche peggiorative introdotte, sia sempre rimasto un rapporto squilibrato tra le risorse utilizzate per reprimere e quelle destinate ad aiutare. Da allora sono passati molti anni ed è sconfortante dover constatare come per l’allora ministro dell’interno, oggi Presidente della Repubblica, poco o nulla sia cambiato. Giorgio Napolitano continua a tracciare un solco netto fra l’emigrazione legale, da incoraggiare, e quella illegale, da combattere, anche con i respingimenti, con le espulsioni immediate. Ma come è possibile non capire quanto la storia di ogni singola persona migrante sia stata attraversata dalla condizione di irregolarità? Come si può non sapere che il 70 per cento dei migranti oggi in regola ha trascorso anni in clandestinità coatta e che tanti altri, in tale condizione ricadono, se perdono il lavoro? Il Presidente afferma che gli effetti di quanto sta accadendo in Nord Africa debbono essere gestiti dall’Europa intera. In pratica, per la settima potenza mondiale i circa 48mila profughi sbarcati da gennaio ad oggi rappresentano “un’emergenza continentale”. Ai tempi del conflitto nel Kossovo la Germania accolse in pochi mesi e in maniera degna, non certo nelle tendopoli, circa 400mila profughi, senza sollevare alcun polverone. Può il Capo dello Stato, l’unica autorità morale forse rimasta in questo paese alla deriva, definire l’Italia del 2011 ancora come paese di nuova immigrazione. Può plaudire a quel ministro degli interni che dichiara a sua volta di sentirsi in perfetta consonanza con il presidente. Quello stesso ministro che martedì, dopo aver fatto votare dal Parlamento una legge mostruosa sul testamento biologico invocata come grande disegno per difendere la vita, farà diventare legge un decreto che rende ancora più insopportabile la vita dei migranti. Il governo con questa legge finge di recepire, in ritardo, gli aspetti peggiori della direttiva europea del 2008 che permetterà la reclusione nei Cie fino a 18 mesi. Peggio di una galera. Il Presidente della Repubblica promulgherà una legge che permetterà a giudici di pace di decidere se e per quanto una persona possa essere trattenuta, se e come possa essere respinta o rispedita immediatamente a casa? È sin d’ora sicuro che aumenteranno le tensioni. Dai Cie, chiusi agli occhi degli osservatori, poco trapela. Si respira però l’aria della sorda rabbia di chi non ha più niente da perdere. La circolare che limita l’accesso ai Cie è ancora valida e prende sempre più corpo l’idea di una giornata di mobilitazione davanti ai Cie organizzata da giornalisti, politici, associazionismo antirazzista per il prossimo 25 luglio. Una giornata contro un muro di indifferenza e opacità, quella che da sempre circonda i centri, indipendentemente dalle forze politiche ai governo. Una giornata per fare sapere al paese che le nostre Guantanamo crescono e rinchiudono persone colpevoli solo di esistere. Per far sapere che al di là della retorica di facciata, è questa la maniera con cui si trattano i giovani che vengono da paesi in cui si stanno costruendo a fatica spazi di democrazia. Qualche parlamentare ha rotto gli indugi e ha scelto di andarli a vedere questi posti, ma per ora le grandi forze politiche non prendono impegni. Eppure sarebbe il momento giusto. Ieri Berlusconi ha rinunciato alla sua passeggiata programmata a Lampedusa, ufficialmente per non intralciare le operazioni di soccorso dei circa 1050 sbarcati, in realtà perché nell’isola avrebbe ritrovato contraddizioni non idonee. E allora, perché non cominciare ad ipotizzare, a sinistra, dialogando, un’alternativa a questa disumanizzazione delle persone? Forse il paese potrebbe dimostrarsi più avanti dei propri ministri in camicia verde o di un Presidente del Consiglio ormai alla fine. Afghanistan: nel carcere di Herat, dove le mogli trovano pace dalle persecuzioni dei mariti di Barbara Schiavigli Il Fatto Quotidiano, 10 luglio 2011 Io sguardo di Farida resta fisso sulla moquette, non ha mosso un muscolo raccontando la sua vita precedente quando era una moglie e una mamma afgana. Ma la risposta all’ultima domanda le sale dallo stomaco alle labbra come un pugno. I suoi occhi si sollevano e ti guardano: lo rifaresti? “No, ma solo perché ho dei figli”. Farida, 26 anni, una sera di due anni fa, ha aspettato che il marito si addormentasse nel letto e poi lo ha accoltellato a morte. Subito dopo ha chiamato la polizia. E ora sconta una pena di vent’anni nel carcere femminile di Herat. “La mia vita era un inferno. Mio marito si drogava, mi picchiava tanto forte che ogni volta credevo che mi avrebbe ucciso. Così ho dovuto farlo io. Si trattava della sua vita o della mia”. Data in sposa a 16 anni, a un ragazzo più grande di lei di 10, fin dall’inizio ci sono stati problemi. Ma erano soprattutto le botte che non riusciva a sopportare. Poi un giorno non ce l’ha fatta più. “Quel giorno avevamo litigato e le ho prese per l’ultima volta”, racconta Farida senza emozione. Il viso incorniciato nel velo, con una lunga veste blu. Accanto, l’ascolta il generale Sadiq, il direttore del carcere maschile e femminile di Herat: 2500 detenuti tra i quali 150 donne e 80 bambini, figli di detenute. I reati delle donne sono sempre legati agli uomini. Chi li uccide, chi scappa, chi si droga e chi si prostituisce. Farida se non vivesse con il dolore di non poter stare con i suoi figli, due in orfanotrofio e uno con sua madre, si direbbe serena. Il carcere le piace. È un’oasi di pace che protegge le donne dalla violenza che ha dominato le loro vite, non perché cattive, ma perché donne. Non è una soluzione, ma per molte le sbarre sono meno pesanti del matrimonio. Realizzato ed equipaggiato dal team italiano di ricostruzione provinciale (prt), 330 mila euro tra Ue e un 20% della Difesa italiana, ha tutto quello che le donne afgane desiderano: un ambiente pulito, niente botte e la possibilità di imparare. Ci sono corsi d’informatica, inglese, alfabetizzazione, sartoria e parrucchiera; una biblioteca, un campo di pallavolo, un asilo, una mensa, laboratori per tessere tappeti e vestiti tradizionali, il cui ricavato delle vendite va a loro. Quando usciranno, le ragazze avranno un mestiere. Marzia è un’altra ragazza che non vuole andarsene. Non ha avuto un processo, non è stata neanche accusata di niente. Il generale non sa che fare. È scappata di casa 9 giorni fa perché suo marito la picchiava. Ha 19 anni, sposata da quando ne aveva 13, ora è incinta. “Sono una schiava non una moglie, vorrei divorziare, ma lui non vuole, i miei genitori non mi aiutano e così sono fuggita”. Il generale scuote la testa, le dice che chiamerà il marito, che gli parlerà lui, ma che lei deve tornare, perché le buone mogli non scappano. Marzia annuisce, ma non concorda. È bella Marzia ed è forte. “Vorrei studiare, andare a lavorare, vorrei essere un po’ felice. Lasciatemi stare qui un altro giorno, poi tornerò a casa, solo un altro giorno”. Il generale solleva le braccia rassegnato. Le ragazze intorno a lei sanno di cosa parla. Sono tutte colpevoli di essere donne. E, la vita è dura soprattutto nelle campagne, non c’è nessuno da cui andare, non ci sono centri antiviolenza come nelle città, si finisce in carcere per cercare salvezza o nel tunnel della droga. Molte spengono il loro inferno col fuoco. La percentuale di suicidi in Afghanistan è altissima. “Non ho una famiglia, tranne una sorella piccola da mantenere. Non trovavo lavoro, mi sono prostituita per 6 mesi per darle da mangiare”, racconta Sakin, che con i suoi tratti orientali ci dice che viene dalla lontana provincia di Bamyan. Le hanno dato un anno, ha già fatto sette mesi e ha imparato bene l’inglese. “Quando esco non sarò costretta a rifarlo, mia sorella che ora ha 14 anni, si è sposata, non voglio più saperne degli uomini. Sono cattivi, lo sono tutti. Qui si sta bene, imparo cose nuove, posso leggere. Non sapevo nulla dei libri prima di venire qui, è come viaggiare senza neanche doversi muovere. Dico grazie Italia per questo”. Medio Oriente: sono 118 gli attivisti stranieri ancora detenuti in carceri israeliane Ansa, 10 luglio 2011 Hanno trascorso un’altra nottata nelle carceri israeliane i 118 attivisti stranieri che venerdì sono stati bloccati all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv per impedire loro di partecipare in Cisgiordania ad una settimana di manifestazioni anti-israeliane denominata “Benvenuti in Palestina”. Una portavoce del servizio carcerario israeliano ha precisato che questi attivisti - detenuti nella prigioni Ghivon (a Ramle) ed Ela (a Beer Sheva) - saranno rimpatriati, se possibile, nelle prossime 48 ore. Ha notato che in questa stagione i voli in partenza da Tel Aviv sono generalmente pieni e che non è dunque facile trovare per loro posti disponibili. Fra gli arrestati figurano cittadini francesi, belgi, spagnoli, bulgari e olandesi. Singapore: scarcerato lo scrittore inglese anti-pena di morte Agi, 10 luglio 2011 Il giornalista inglese Alan Shadrake è stato liberato a Singapore, dopo aver scontato cinque settimane di carcere per il suo libro-denuncia contro la pena di morte nel piccolo Stato asiatico. Il 76enne è stato espulso e messo su un aereo per Londra. Shadrake era stato arrestato nel luglio scorso con l’accusa di oltraggio alla magistratura per il suo studio sul sistema giudiziario di Singapore intitolato “C’era una volta un allegro boia”, in cui descriveva alcuni casi di condanne alla pena capitale e intervistava ex boia. A Singapore è prevista la pena di morte per omicidio e traffico di droga e il Paese ha uno dei più bassi tassi di criminalità del mondo.