Giustizia: nelle sovraffollate carceri italiane si rischia un’estate di rivolte di Matteo Mascia Rinascita, 29 giugno 2011 Nelle calde serate dell’estate italiana risuonerà il suono dei pentolini sbattuti sulle sbarre delle carceri. I detenuti hanno avviato infatti una serie di proteste all’interno di vari istituti dello Stivale. La situazione all’interno delle celle è divenuta ormai insostenibile. Le cose non vanno meglio tra i ranghi della Polizia penitenziaria. I sindacati sono in stato di agitazione da qualche giorno. In certe Regioni l’Amministrazione si sarebbe addirittura resa responsabile di condotta antisindacale. Alla totale assenza di dialogo e relazioni tra i dipendenti e i vertici del Dap, a Piacenza, si è aggiunto un provvedimento molto grave. Due ispettori in servizio nella città emiliana - entrambi rappresentanti sindacali - sarebbero stati trasferiti senza alcuna valida ragione e senza informare il sindacato di appartenenza. Una rimozione che ha portato i segretari dei sindacati ad interrompere i rapporti con le controparti. Intanto gli agenti sono costretti a tenere la contabilità del numero delle morti in carcere. L’ultimo detenuto che ha deciso di farla finita si è tolto la vita avanti ieri all’interno del penitenziario di Bari. L’uomo, un ventottenne detenuto per reati di droga, dopo il colloquio con i propri familiari è rientrato nella cella e si è impiccato, utilizzando le lenzuola che ha legato alle grate della finestra del bagno. La notizia è stata diffusa dal segretario nazionale del Sappe, Federico Pilagatti. Il sindacato degli agenti qualche giorno fa aveva denunciato l’aumento del numero di suicidi in carcere in Puglia in questo primo scorcio del 2011 con quattro casi, ora saliti a cinque, contro i sei suicidi del 2010. “Senza dimenticare - ricorda Pilagatti - tutti i tentativi di suicidio sventati all’ultimo momento grazie al coraggio della Polizia Penitenziaria”. “Sicuramente in questo suicidio - afferma il Segretario - ci saranno delle ragioni di carattere familiare, ma l’assenza di un sostegno psicologico in una situazione di degrado, di condizioni igienico sanitarie da terzo mondo, avranno influito negativamente sull’insano gesto”. Epiloghi di una detenzione in condizioni disumane che sono destinati ad aumentare. Il numero dei detenuti sta aumentando senza sosta. Le proteste organizzate dai Radicali e da varie associazioni che si battono per la tutela dei diritti dei detenuti non sono in grado di smuovere le coscienze della classe politica. Se Marco Pannella non avesse intrapreso lo sciopero della fame e della sete nessuno avrebbe parlato delle condizioni in cui versano gli istituti di pena. Tutti si sarebbero comportati come se niente fosse. Le storie dei detenuti a cui vengono negati i permessi per le cure, le vicende di chi è costretto a scontare la pena lontano dai propri cari, l’ingiustizia dei bambini ristretti insieme alle madri non sarebbero mai finite sulle pagine dei quotidiani. Ipocrisia che avrebbe fatto il paio con le statistiche che parlano di un deciso calo nel numero dei reati consumati. Ma se i reati diminuiscono perché le carceri scoppiano? Un motivo è da ricercare nella legge che colpisce lo spaccio di droga. Il “Libro bianco” presentato da Antigone e da altre sigle ha evidenziato come il numero di tossicodipendenti in carcere sia nettamente aumentato dal 2006, anno di approvazione della legge Fini - Giovanardi. I dati del Rapporto dimostrano infatti che se nel 2006 i tossicodipendenti in carcere rappresentavano il 27% del totale degli ingressi, nel 2008 il numero è salito al 33% mentre nel 2009 si attesta al 28,9%, con una leggera flessione nel 2010 con il 28,4%. Un’altra emergenza è rappresentata dai detenuti stranieri, persone che spesso non possono godere delle misure alternative alla detenzione. Un capitolo a parte meriterebbe poi l’analisi del dato che riguarda le persone ristrette in attesa di giudizio. Un numero spropositato che dovrebbe spingere ad una revisione della normativa sulle misure cautelari. In quasi la metà dei casi chi si trova oggi in custodia cautelare non farà rientro in carcere dopo la sentenze definitiva o il proscioglimento dagli addebiti. Le Commissioni giustizia di Camera e Senato potrebbero sfruttare gli ultimi due anni di legislatura per ridisegnare la normativa carceraria. Far passare tutto sotto silenzio rischia ormai di diventare un comportamento criminale. E, in questo caso, a delinquere è lo Stato. Giustizia: carceri, l’emergenza dimenticata di Alfio Bolzonello La Tribuna di Treviso, 29 giugno 2011 Quasi 70.000 detenuti a fronte di una capienza di poco superiore a 45.000, il 153% di sovraffollamento, secondi a livello europeo dietro solo alla Bulgaria. Dal 20 aprile Marco Pannella ha iniziato uno sciopero della fame per portare l’attenzione del Paese su questa ennesima emergenza dimenticata, alla sua iniziativa oltre a detenuti e loro familiari, hanno aderito anche gli avvocati dell’Unione delle Camere Penali e gli Psicologi carcerari. Oltre 15.000 gli italiani impegnati a chiedere attenzione al Governo ed al Parlamento per lo stato delle carceri italiane che non rispettano più i principi di umanità, di spazio, di assistenza previsti dalla Costituzione, secondo la quale le pene devono tendere alla rieducazione e non devono essere contrarie al senso di umanità. Gli psicologi evidenziano anche lo stato di disagio psichico della popolazione detenuta, l’alto numero di suicidi riguardanti sia i detenuti che la polizia penitenziaria e le continue violazioni alla dignità delle persone. Attenzione viene chiesta anche per le problematiche del personale che lavora nelle carceri ed in particolare per gli agenti di custodia, tutti costretti a farsi carico fisicamente e moralmente di un lavoro massacrante. Il Garante per i Diritti dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni afferma che è necessario un intervento immediato che riduca il sovraffollamento ed un intervento strutturale che riformando il codice penale punti a ridurre la carcerazione e ad aumentare le misure alternative, ma non per questo meno punitive, alla detenzione. Anche le due realtà carcerarie presenti a Treviso, la casa Circondariale e l’Istituto Penale Minorile, hanno grossi problemi di sovraffollamento oltre che di ristrettezza di spazi per le attività formative, di lavoro, di cura, ecc.; la lotta avviata da Pannella ci consente però di meglio valutare alcune realtà positive che le caratterizzano. Nella Casa circondariale, all’attività della falegnameria da qualche anno è stato affiancato il laboratorio di incisione del vetro con produzione di vasi, bicchieri e altra oggettistica in cristallo. Prodotti, pubblicizzati anche nel sito nel Ministero della Giustizia, che si possono acquistare presso la sede della Cooperativa Alternativa a Vascon. Nell’Istituto Minorile continua l’attività della Bottega Grafica che realizza gratuitamente manifesti, loghi, brochure per Enti Pubblici, Associazioni di Volontariato ed Organizzazioni del Terzo Settore. Dalla Bottega di Treviso è uscito anche il manifesto per l’Assemblea Nazionale dell’Avis svoltasi a Bergamo il mese scorso. È interessante l’esperienza della Bottega Grafica perché fa contaminare i giovani “delinquenti” con le positività delle attività e dei valori degli Enti e dei Volontari. Uno strumento utilissimo per la formazione ed il reinserimento sociale dei giovani a fine pena. Da ultimo, è bello citare che presso la Cooperativa Pace e Sviluppo a Treviso sono in vendita le borse da donna fatte dalle detenute del carcere di Venezia utilizzando i teli in pvc di una mostra che la Cooperativa ha utilizzato per presentare il ciclo idrico e per parlare di acqua nelle scuole. Borse che oltre ad essere pezzi unici creati a mano, coniugano capacità artistiche e voglia di riscatto con obiettivi sociali ed ecologici. Tre piccole storie che diventano faro per uscire dall’emergenza contro la quale 15.000 cittadini italiani ci chiedono di reagire. Giustizia: Pannella digiuna per i detenuti... ma l’amnistia è per chi li tiene in galera così di Mauro Mellini www.giustiziagiusta.info, 29 giugno 2011 Marco Pannella, mette ancora una volta in giuoco la sua esistenza per dar voce ad una protesta. Quella sacrosanta, umanissima, carica di indignazione per le condizioni dei detenuti ammassati nelle carceri del nostro Paese. Per un sistema giudiziario che studia sempre nuove norme penali e procedurali, per aumentare il rifornimento di sempre nuova carne da galera ed il prolungamento dello stoccaggio, che proclama “l’assoluta necessità” di ogni invasiva e repellente forma di “prova” destinata a tale rifornimento, demonizzando le “fisime garantiste”... che imporrebbero di preferire che un reo resti impunito, piuttosto che un innocente sia condannato e mandato all’ammasso e che, soprattutto imporrebbero di ridurre al massimo la carcerazione preventiva, praticata su un “materiale umano” destinato, pur con lo scarso rispetto del principio “in dubio pro reo”, ad essere poi, in alta percentuale, dichiarato innocente senza manco una parola di scusa. Protesta ed indignazione non hanno necessariamente parte politica, né ubbidiscono a criteri di coerenza, né possono essere valutati a seconda degli sbocchi che ad esse possono seguire. Un’azione politica può raccoglierle, può trarne forza, può alimentarle. Ma, in sé, non sono “politica” (nel senso più elevato del termine) se non in quanto “tutto è politico”. Se la protesta ed il digiuno di Pannella hanno ottenuto attenzioni e consensi che altre volte sono mancati a simili iniziative, ciò non è dovuto soltanto al fatto che per, fattori molteplici e diversi, anche molti scettici si sono accorti che si tratta di una messa in giuoco, di un rischio estremo e che estrema appare la determinazione nel portare avanti una così rischiosa “operazione”. Pannella ha avuto consensi a destra e a sinistra da Feltri a Costanzo, dal Presidente Napolitano. E da Palamara (Anm). Si direbbe che sia riuscito a coinvolgere soggetti disparati, ottenendo un successo, francamente, insperato. Se a ciò dovesse seguire veramente la nomina a Senatore a vita da parte del Capo dello Stato, allora, a parte il valore di riconoscimento per la persona di Marco, si dovrebbe dedurne che l’attenzione e la condivisione debbano necessariamente superare lo stadio emozionale per tradursi anche in qualche concreto provvedimento. Quale? Pannella, in verità, non si è limitato ad esprimere sdegno e protesta. Ha lanciato, con la testarda insistenza di cui è capace, la parola d’ordine: “amnistia”. È chiaro che con questa lo stadio della mera espressione emozionale è superato. Ed è altrettanto chiaro che il consenso o il dissenso all’iniziativa di Pannella non può limitarsi alla valutazione morale di una sua scelta esistenziale nell’affrontare drammi del nostro tempo. Chiedere l’amnistia è una determinazione politica (al pari di quella che dovrebbero compiere Parlamento e Presidente della Repubblica, per concluderla) e nessuno può permettersi il lusso di una risposta di consenso senza assumersi una responsabilità politica, la responsabilità, anzitutto di capire quello che vorrebbe dire “amnistia”, di conoscerne e valutarne l’eventuale portata. Dalla quale, in ultima analisi, dipenderebbe l’incidenza del provvedimento stesso sulla situazione carceraria. E nel resto. A cominciare dalla specifica finalità che Pannella attribuisce a questa invocata amnistia: quella di costituire il mezzo, di creare le condizioni, per le necessarie riforme della giustizia. Pannella, mentre non si è prodigato in spiegazioni sulla portata del provvedimento invocato, ne afferma la strumentalità come chiave e condizione per “le riforme”, come un assioma. E qui, quale che sia il grado di coinvolgimento emozionale nella protesta e nelle sue umanissime finalità, non si può tacere il più totale dissenso. Le amnistie non sono mai servite per arrivare a riforme vere ed auspicabili per la giustizia. L’ultima amnistia, quella coeva al codice del 1989, è stata proclamata proprio come “l’amnistia della grande riforma”. Al pari di tutte quelle che l’avevano preceduta con puntuale periodicità, non è servita che ad una “scolmatura”, al solito, delle carceri sovraffollate. Il nuovo codice, che conteneva (e contiene) un potenziale eversivo non solo per la giustizia, oltre ad una serie di bestialità, non ha affatto limitato l’accatastamento di materiale umano nelle carceri né ha ridotto la percentuale dei detenuti in attesa del giudizio (presunti innocenti) rispetto ai condannati, tra gli ospiti degli istituti penitenziari. Ma, soprattutto, di quale amnistia si tratterebbe? Forse il successo fin qui ottenuto dall’iniziativa di Pannella è legato proprio all’aver rilasciato assolutamente nel vago questo punto. Ma, un risultato pratico non può non passare attraverso una difficilissima risposta a questo interrogativo. Le amnistie periodiche della storia della (Prima) Repubblica hanno sempre escluso i reati più gravi, risolvendosi in una diversa graduazione del trattamento punitivo dei reati con una estremizzazione (diminuzione ulteriore della effettiva punizione dei reati meno gravi senza proporzionale riduzione delle pene effettive per i più gravi). Tale fenomeno non sarebbe, poi una sciagura se già non avessimo un ricorso parossistico all’aumento delle pene per i reati “alla moda”, oggetto delle “campagne”. Le pene per i reati di mafia, ad esempio, sono stati portati a livelli inconcepibili. Ed è per tali reati che l’abuso di mezzi di prova incivili, come quello della gestione dei pentiti, è presumibile abbia prodotto errori giudiziari devastanti per la pesantezza delle pene ingiustamente inflitte e mandati in galera innocenti che quando poi si parlava di amnistia, sarebbero “mafiosi” da escludere. Nessuno, salvo, forse, Pannella, penserà, al dunque, di proporre l’amnistia, o l’indulto, per tali reati. E potremmo continuare. Così saremmo alla solita operazione di “scolmatura” di cui abbiamo fatto esperienze tristissime nei decenni precedenti. Ma il discorso diventa ancora più arduo quando si parla delle “riforme”, cui la “scolmatura” delle carceri dovrebbe servire. Qui è chiaro che tra i molti che pure sono accomunati dall’odierno plauso a Pannella, vige la confusione delle lingue. Di riforme parla pure Palamara, presidente dell’Anm. È chiaro che intende altro da quel che intende Feltri, anche se è probabile che un po’ tutti evitino accuratamente una valutazione politica d’assieme, organica ed a fondo del problema. Certo, Pannella, non ha mai voluto prendersi il ruolo di riformatore della giustizia. Ha sempre rifiutato ogni discorso di approfondimento ed ogni confronto autentico al riguardo. Ha avuto intuizioni acute, ha evocato valori essenziali, ha saputo toccare corde emozionali con grande abilità. Ha pure, in verità, nella sua lunga storia, oscillato tra giustizialismo e garantismo. Ma questo non è certo, oggi, un demerito. Né a lui, che mette in giuoco la sua vita per un gesto di protesta, si può chiedere di trarne conseguenze politicamente praticabili e coerenti. Ma il gruppo di quelli che gli sono attorno e condividono la sua iniziativa, promuovono manifestazioni e vogliono animare dibattiti, tanto più se insistono nel definirsi “partito”, non possono non farsi carico di un minimo di concretezza nelle proposte e nello sviluppo dell’azione intrapresa. Direi che è anche un dovere verso Marco Pannella. Ma, soprattutto, credo che il rispetto che si deve a chi soffre in carcere, comporta il dovere di non rovinare il valore di una solidarietà e di una comune protesta con l’agitazione di una “soluzione” che non sia politicamente formulata e sostenuta, così da rappresentare, piuttosto, un alibi per quanti di questa nostra povera giustizia hanno fatto strumento delle loro velleità politiche e dei privilegi corporativi. Parlare con disinvoltura di amnistia, necessario presupposto per le riforme, è, infatti, un alibi autorevole ed insospettabile fornito a chi e riforme è pronto ad inventarsene molte purché lascino le cose come sono (e chi sta in galera, dove sta). Giustizia: Emergency; chiudere gli ospedali psichiatrici giudiziari di Michele Zecchi www.estense.com, 29 giugno 2011 Emergency si batte per porre fine alla istituzione dei manicomi giudiziari e per sensibilizzare le persone sulla vita all’interno degli ospedali psichiatrici giudiziari. Affinché si possa, in tempi celeri, superare l’attuale situazione di degrado e abbandono che vede coinvolte circa 1.600 persone in tutta Italia. Ne hanno parlato Riccardo Gotteschi, volontario presso l’opg di Montelupo in provincia di Firenze, Cesare Bondioli, psichiatra ed esponente di Psichiatria democratica, Samantha di Persio, giornalista, Mario Sacco, psichiatra presso l’ospedale di Cento, nel secondo dibattito degli Emergency Days di Ferrara, dal titolo più che indicativo, “Matti da (s)legare”. “Per i dottori che operano all’interno delle strutture le persone ospitate sono considerate pazienti, mentre per la giustizia italiana sono internati” dice Sacco, che prosegue: “non è un caso che esista questa doppia visione, perché l’ospedale psichiatrico giudiziario oggi unisce in sé sia l’istituzione del manicomio che quella del carcere. Luoghi che sono nati come posti di custodia e controllo e non di cura”. Le persone che oggi vengono recluse in queste strutture sono inviate su condanna del tribunale per aver commesso dei reati, anche di lieve entità, e corrono il rischio di non uscirne più a causa della quasi totale mancanza di strutture che siano in grado di riceverli al termine previsto della pena. Con il risultato che molte persone che sarebbero immediatamente dimissibili si vedono prorogare di 6 mesi in 6 mesi la permanenza forzata nella struttura. La commissione presieduta dall’on. Marino ha fatto luce sulla realtà italiana: di circa 1600 detenuti totali circa 400 sono persone che potrebbero essere rilasciate immediatamente poiché non costituiscono alcun pericolo per la società. Ma il rilascio non avviene poiché non ci sono alternative esterne in grado di accoglierli: spesso infatti la stessa famiglia di origine non riesce a farsene carico e le regioni non hanno creato, salvo rari casi, delle case di accoglienza. Una eccezione in questo contesto è rappresentata da Casa Zacchera, nel comune di Sadurano, in provincia di Forlì, che può accogliere 15 persone nel loro percorso di reinserimento. L’Emilia Romagna è infatti una regione all’avanguardia in Italia sia per i fondi speciali destinati ai percorsi alternativi sia per le strutture di accoglienza costruite. Ci sono esempi di volontariato e partecipazione come quello di Riccardo Gatteschi che 13 anni fa ha fondato presso l’ospedale psichiatrico di Montelupo il giornale Spiragli, sul quale trovano spazio i racconti, i disegni e le poesie scritte da una quindicina di detenuti. “Nel manicomio giudiziario non ci sono persone, lì sei la tua patologia e il crimine che hai commesso - aggiunge dice lo psichiatra Bondioli, è assolutamente evidente che i manicomi giudiziari debbano essere superati trovando soluzioni alternative, il servizio sanitario ad esempio può fare molto per prevenire intervenendo in prima persona ed essendo facilmente raggiungibile dalle persone”. “La legge di chiusura degli Opg non è assolutamente stata recepita da molte regioni italiane - prosegue Bondioli, lo Stato deve fissare un termine di chiusura e alternative che siano certe”. Giustizia: appello dei Garanti al Dap; unità di crisi per monitorare disagio Redattore Sociale, 29 giugno 2011 È la proposta avanzata questa mattina dal coordinamento dei difensori dei detenuti territoriali. “La nuova struttura dovrebbe servire a monitorare i disagi delle prigioni”. Il coordinamento dei garanti, riunito questa mattina a Firenze, ha annunciato che presenterà pubblicamente attraverso una lettera al capo del Dap la “proposta di costituire un’unità di crisi” necessaria alla riforma del carcere, non solo per il periodo estivo, ma fino a quando non saranno risolti disagi come i tentati suicidi e gli atti di autolesionismo”, oltre al sovraffollamento. In questa proposta “vogliamo coinvolgere anche le istituzioni pubbliche come Anci, Conferenza Stato - Regioni, coordinamento magistrati di sorveglianza”. Questo gruppo, ha spiegato il coordinamento dei garanti, “dovrebbe servire a monitorare le situazioni di difficoltà in carcere”. Infine, il coordinamento ha richiesto “l’istituzione, come avviene in altri paesi europei, del garante nazionale dei diritti dei detenuti”. Lettere: vite da detenuto attraverso le sbarre del carcere di Bari di Michele Laforgia (Volontario nel carcere di Bari) www.paperblog.com, 29 giugno 2011 Come si muore in carcere? Come si può morire a 28 anni dopo un colloquio con la propria famiglia? Sono due giorni che queste domande rimbalzano forte nella mia testa, incredulo, ancora una volta, per l’accaduto. Passo da un sito all’altro di giornali online alla ricerca di qualche parola in più sull’accaduto, scopro che il Corriere del Mezzogiorno non ha neppure la notizia, scopro che i commenti dei lettori su alcuni siti mi raccontano reazioni molto differenti dalla mia. Un bel giorno, in questo dannato paese, dovremo sederci a capire cosa vogliamo che sia il carcere, o forse dovremo solo sederci a raccontare la Costituzione a chi ancora non la conosce e blatera senza cognizione di causa su qualunque argomento. Sono certo che parlare di carcere senza aver mai varcato la soglia di un istituto sia uno degli errori più gravi che si possano compiere; nessuna descrizione renderà mai l’idea di ciò che si ascolta, di ciò che si respira, di ciò che si prova. Da un lato, leggo chi ricorda ai detenuti di essersela cercata e che, dopo tutto, una vacanza a spese dello stato non è poi così male, influenzato, immagino, dall’informazione (che parola grossa!) nostrana e da qualche stupido telefilm in cui una cella è pulita, con un bel televisore, ben arieggiata, con letti comodi ed ampi, ecc. Dall’altro chi invoca amnistie, indulti, leggi svuota carceri di vario genere e di dubbia utilità sul lungo periodo. Vi do una notizia che forse non conoscete: questo governo ha già attuato, nel silenzio generale della nostra pseudo - informazione, un provvedimento per svuotare le carceri; in sostanza ha dato la possibilità di scontare l’ultimo anno di detenzione agli arresti domiciliari piuttosto che in istituto. Il governo del fare, della certezza della pena, dei pacchetti sicurezza, ha mandato a casa detenuti di ogni tipologia (o quasi, perché chiaramente gli immigrati devono rimanere dentro) pur di svuotare le carceri; qual è stato il risultato? Assolutamente nessuno, la situazione è identica a prima. Lo stesso governo ha tagliato esattamente a metà i fondi per gli esperti psicologi e criminologi, in un periodo in cui il sovraffollamento ed altri problemi hanno fatto impennare il numero di suicidi dei detenuti. Che dire, complimenti vivissimi alla strategia di governo, ammesso che ce ne fosse una dietro queste scelte. La vita mi ha portato ad entrare in carcere una volta a settimana, per fortuna non da detenuto, ed io stesso non ho ancora bene un’idea su cosa sia la vita lì dentro. Una cosa però è ben chiara nella mia mente: varcata la soglia, chiunque tu sia, entri in un mondo con regole nuove, dove i tuoi schemi di ragionamento, di interpretazione degli eventi, non sono più validi; entri in una dimensione parallela, devi osservare, comprendere, adattarti, modificarti rispetto alle nuove regole, ai nuovi sistemi di valori, al nuovo ordine di importanza che le cose e le persone assumono. Ciò che per le statistiche è un numero, è in realtà una persona, una storia, non sempre fatta di delinquenza e devianza indistinta, è un essere umano con le sue emozioni e scelte, con i suoi errori, che non saranno mai gli ultimi di una vita comunque difficile. Non faccio certo giustificazionismo, anzi, non nascondo che alcuni siano in grado di farti venire voglia di buttare la chiave, di farti sentire inutile, incapace di fronte all’interiorizzazione della devianza e del non rispetto delle regole come unica modalità di approccio all’esistenza; semplicemente mi chiedo quale possibilità di riabilitazione ci sia in questo sistema carcerario, fatto di affollamento e strutture fatiscenti, di molta privazione della libertà e poca formazione, di ozio e non di lavoro, di poliziotti che lavorano in condizioni indegne e non di educatori, psicologi e criminologi. Sarebbe ora di avere una visione progettuale sul carcere e sulle pene in generale, senza essere tifosi pro o contro i detenuti, senza dover fare demagogia, senza dover inculcare negli elettori paure sulla sicurezza e sugli immigrati, senza, insomma, essere stupidamente miopi davanti ad una situazione che ha del tragico e dell’illegale e rispetto alla quale non bastano gli scioperi della fame e della sete di chi da anni propone esclusivamente amnisitie come soluzione. Nell’attesa, lavoriamo. Lettere: “Casa San Francesco” a Lucca, una storia fatta di persone di Massimiliano Andreoni (presidente Gruppo Volontari Carcere) www.loschermo.it, 29 giugno 2011 È una storia fatta di persone quella della Casa San Francesco, che il 21 giugno scorso ha compiuto 20 anni e che si appresta a festeggiarli con un piccolo - grande evento, venerdì prossimo, 1° luglio, piccolo nel bailamme degli avvenimenti della piccola Lucca (proprio quella sera ci sarà Guccini in Piazza Napoleone), grande se si pensa alle risorse umane, economiche, di mezzi dell’associazione. Sì, il Gruppo Volontari Carcere, nato negli anni 80 è l’impalcatura su cui è sorta la casa, sua espressione più evidente, ma non l’unica, anche se, come ho detto, ed i responsabili, i fondatori del tutto ci tengono sempre a sottolinearlo, parliamo sempre di un’esperienza “povera”, ma non certo nel senso più deteriore del termine. Personalmente, prima un pò per caso, poi, negli anni, anche “professionalmente”, mi occupo di carcere e lo frequento, anzi, “li frequento”, visto che ne ho potuti visitare diversi, fin dal 1990, quando, proiettato nell’esperienza del mio progetto di servizio civile (ricordate “la possibile scelta alternativa alla leva”?), “capitai” in una comunità di recupero del Ce.I.S. di Lucca, quella di Vecoli, e mi fu subito proposto: “Ti va di andare in carcere?”. Sì, non sembra proprio una domanda del tipo: “Vuoi un caffè?”, ma andò più o meno così. Ebbene quella esperienza di servizio civile in quel bel cascinale in mezzo alle colline lucchesi e quel mio “Sì”, hanno sicuramente condizionato, in senso positivo, e segnato, la mia esperienza di vita successiva. Da allora mi occupo di sociale e di servizi e progetti sociali, da allora non ho mai smesso una frequenza almeno settimanale in carcere. Quando più di 10 anni dopo il mio rapporto con il Ce.I.S., che successivamente era diventato un lavoro vero e proprio, si interruppe (solo dal punto di vista meramente professionale in realtà), mi sembrò naturale contattare il Gruppo Volontari Carcere che avevo più e più volte incontrato nei corridoi di San Giorgio (cfr. il nome con cui è maggiormente conosciuto il carcere a Lucca), piuttosto che ad incontri, convegni, eventi, ecc. Ed è proprio 10 anni fa che ho incontrato in maniera più forte l’associazione e sono stati 10 anni, fino ad oggi, intensi, ricchi di esperienze, di storie, di gioie ed anche di dolori e che mi hanno permesso anche di aumentare la mia presenza in carcere. La Casa San Francesco, al cui ingresso una iscrizione marmorea ricorda che è stata voluta, ed è veramente così, dall’allora Arcivescovo Giuliano Agresti, è una casa di accoglienza dalle cui stanze sono passati in un ventennio più di 1000 persone, alcune in cerca di “ristoro” dopo un’esperienza detentiva, alcune alla ricerca di se stesse, altre semplicemente che non avevano altro posto dove andare. Nel ripensare a loro non riesco a fare a meno di materializzare le storie in dei fitti dialoghi, dei racconti, dei nomi, come il mio amico di Sarajevo, sì credo di potermi dichiarare come un suo amico, che a 17 anni, con la sua città sotto assedio si è trovato un Kalashnikov in mano, per poi fuggire in Italia e, dalla padella nella brace mettersi insieme ad una banda di balordi che lo hanno poi condotto in carcere, pagare poi il suo debito con la società, ma non riuscire mai, a tutt’oggi che vive a Sarajevo, a poter ottenere quel pezzo di carta che gli consenta di restare in Italia, dopo averci lavorato per anni ed essersi anche diplomato, oppure un ragazzo tunisino di cui non ricordo il nome che dopo un periodo nella casa se ne andò e mi chiamò un giorno mentre era nell’allora centro di permanenza temporanea (ora Cie) di Bologna in attesa di essere espulso, oppure un ragazzo montenegrino “furbo” come una lince, o l’idraulico lucchese tanto bravo come “trombaio” (si dice così in vernacolo, ricordate), quanto amante di bella vita (e quindi rapine) e cocaina da tornare periodicamente in carcere (ed anche adesso, infatti, è lì). Nella casa poi c’è stato in questi anni un fitto intrecciarsi di rapporti, di amicizie, di relazioni, devo dire molto di più nei primi anni, attualmente sicuramente in calando, ma non è questo forse lo specchio dei tempi, laddove un pò ovunque nel nostro territorio, il volontariato sta invecchiando e paga, talvolta, la difficoltà di un ricambio generazionale? Comunque la storia racconta di gemellaggi con comunità parrocchiali, con nuclei familiari disponibili ad accogliere per qualche ora o per qualche giorno il detenuto in permesso premio, piuttosto che di sacerdoti disponibili a “rubare” qualche ora al loro incarico parrocchiale per svolgere qualche ora di servizio, come il trascorrere una notte nella casa. Ora più che mai, la vita della casa, come è evidente anche dalle brevi storie cui ho fatto cenno, è una storia di mondialità, di migrazione, e, chiaramente, di una migrazione sofferente, di persone che sono arrivate in Italia con i mezzi e le strade più strane e che, purtroppo per loro (ed anche per noi, non ho problemi a dirlo), si sono trovati poi a combattere con un permesso di soggiorno impossibile da ottenere, con un lavoro, anche se offerto, impossibile da svolgere legalmente, con una casa impossibile da affittare regolarmente, fino ad accettare magari attività offerte dal giro della malavita locale ed incappare regolarmente nelle maglie della giustizia. Non voglio certamente fare un ragionamento demagogico, ma sono proprio le storie, ed i numeri che ci dicono questo, laddove a San Giorgio la percentuale dei cittadini migranti ha da anni superato il 50% dell’intera popolazione! Che dire ancora? Non saprei, mi viene comunque da dire un grazie a tutti coloro e cito una persona per tutte, la responsabile della casa, Agnese Garibaldi, si sono impegnati in questi venti anni e con fatica, con difficoltà, con entusiasmo, con fede e fiducia, con successi ed insuccessi, hanno reso possibile tutto questo e soprattutto, in un mondo così a parte, così altro, come quello oltre le sbarre, “ci hanno messo la faccia”. Lettere: il Garante dei detenuti, una figura importante di Simone Campus (Consigliere comunale del Pd a Sassari) La Nuova Sardegna, 29 giugno 2011 Nella Giornata mondiale contro la tortura, la Chiesa ha beatificato suor Enrichetta Alfieri, “l’angelo di San Vittore” che ebbe a cuore - come ha spiegato l’arcivescovo di Milano, Dionigi Tettamanzi - la cura per una profonda alleanza tra socialità e spiritualità. Suor Enrichetta aiutò Mike Bongiorno (testimone nel processo di canonizzazione) e Indro Montanelli quando furono prigionieri dei nazisti. Contemporaneamente, i Radicali inscenavano a Roma “la tragedia degli 800 morti in carcere” dal 2002 per “denunciare le condizioni di tortura a cui sono quotidianamente sottoposte le migliaia di reclusi italiani”. Hanno partecipato, tra gli altri, la deputata Rita Bernardini, il segretario radicale Mario Staderini, Irene Testa de “Detenuto ignoto” e Sergio D’Elia di “Nessuno tocchi Caino”. La capienza delle carceri sarde è di 1.970 detenuti, ma i reclusi sono 2.171 con un tasso di affollamento del 110 per cento. Gli stranieri sono 952 (43,8% del totale), le donne 57, gli imputati 602 (27,7%). Secondo i dati dell’Amministrazione penitenziaria (aggiornati al 31 gennaio 2011), nel carcere di San Sebastiano la situazione sarebbe regolare, poiché la capienza è di 190 posti a fronte di 182 detenuti (di cui 40 stranieri e 21 donne). A marzo la Sardegna ha approvato con una legge regionale l’istituzione del Garante dei detenuti, ma non si è ancora provveduto alla nomina. Il Comune di Sassari è stato antesignano di questa battaglia di civiltà, provvedendo a istituirne la figura nel 2007. Sia pure in ritardo, il Consiglio Comunale elegge il nuovo garante. Un’autorità terza che opererà autorevolmente in un rapporto triangolare fra detenuti e amministrazione penitenziaria, prevenendo i conflitti e mediando fra i soggetti presenti in carcere. Sicilia: il Garante Fleres; amnistia non rimedia problemi… ma è l’unica soluzione rimasta Italpress, 29 giugno 2011 “L’amnistia non è una soluzione, soprattutto se si guarda al sistema penitenziario italiano, in atto incapace di produrre un recupero sociale e legale adeguato e sicuro. Tuttavia, in assenza di provvedimenti tempestivi in grado di ridurre il sovraffollamento, proporre pene alternative al carcere per i reati di minore allarme sociale, inviare i tossicodipendenti in apposite comunità di recupero, completare l’organico della polizia penitenziaria, realizzare nuove carceri meglio attrezzate, accelerare i tempi della giustizia, l’amnistia resta l’unica soluzione per un Paese già più volte condannato dagli organismi preposti alla difesa dei diritti e della dignità umana”. Ad affermarlo in una nota è il senatore Salvo Fleres, garante dei diritti dei detenuti di Sicilia. Istituti siciliani sono ormai al collasso “Da tempo denuncio lo stato di sovraffollamento delle carceri, in particolare quelle siciliane ridotte ormai al collasso. Numerose proposte ho formulato in tal senso ma, al di là di pochi interventi strutturali, null’altro è stato fatto”. Lo ha detto Salvo Fleres, garante dei diritti dei detenuti. “Inoltre - ha aggiunto - , ho già evidenziato l’opportunità di affrontare urgentemente in Parlamento ‘il problema penitenziariò nella sua interezza. Sovraffollamento, sanità, carenza di personale e di attività trattamentali, questi sono alcuni dei temi che devono essere trattati con urgenza. Infine - ha concluso Fleres, agli avvocati della camera Penale “Serafino Famà” di Catania, che hanno intrapreso la sciopero della fame, va tutta la mia stima e solidarietà”. Calabria: Nucera (Regione); la questione carceri è ancora irrisolta Ansa, 29 giugno 2011 “Resta una questione irrisolta la situazione delle carceri calabresi. A tre mesi dall’iniziativa promossa a Palmi assieme al Sappe, il Sindacato autonomo della Polizia Penitenziaria, lo scorso 12 aprile, ed ancora prima a Reggio e a Locri, per denunciare lo stato del sistema carcerario calabrese, ed alla vigilia della Festa dell’Associazione della Polizia Penitenziaria a Reggio Calabria, la situazione delle carceri calabresi rimane immutata”. È quanto afferma in una dichiarazione il segretario - questore del Consiglio regionale, Giovanni Nucera. “A nulla - prosegue Nucera - sono serviti appelli, conferenze stampa ed interrogazioni. Ed a nulla è valso il lungo sciopero della fame e della sete messo in atto dal leader nazionale dei Radicali, Marco Pannella, cui il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ha rivolto in questi giorni l’invito a desistere dalla sua battaglia, a causa delle sue drammatiche condizioni di salute. Ma preoccupante è anche la situazione delle carceri calabresi: 12 istituti di pena, con più di tremila reclusi, a fronte di una capienza di 1.849 posti, cui si aggiungono carenze di organico e blocchi del turnover”. “Sono numeri in continua evoluzione - prosegue Nucera - ma in negativo. L’ultima denuncia arriva dal sindacato autonomo di Polizia Penitenziaria Sappe della Calabria. Al reparto di polizia penitenziaria di Locri mancano 20 unità di personale rispetto agli organici, fissati dal Decreto Ministeriale del 2001, già di per sé insufficienti a garantire adeguati livelli di sicurezza e a permettere la fruizione dei riposi, dei congedi e delle altre assenze al personale. E la situazione in quella Casa circondariale è destinata ad aggravarsi dopo la decisione, seppure positiva del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, di attivare una sezione detentiva per detenuti del circuito dell’alta sicurezza. Tutto questo però, ed in questo siamo perfettamente d’accordo con il Sindacato Sappe, non può avvenire senza un adeguato incremento dell’organico”. Puglia: Vendola; in prossimo consiglio regionale varo Garante dei detenuti Ansa, 29 giugno 2011 Il presidente della giunta regionale pugliese, Nichi Vendola, ha ricordato che annunciato che nella prossima seduta del Consiglio regionale pugliese si dovrà affrontare il tema del Garante dei diritti dei detenuti. “Abbiamo oggi ricevuto - ha detto - una sollecitazione molto forte da parte dell’Anm ad occuparci di una situazione spaventosamente disumana delle carceri in Puglia. Il sovraffollamento ha percentuali tra le più alte in Italia ed a Bari è il 150 per cento: siamo al quinto suicidio e si registrano un’infinità di atti di lesionismo. Non sarà certo sufficiente varare questa figura del garante ma sarà l’occasione di una discussione alta che metta a fuoco i problemi e non solo”. Catania: sit-in degli avvocati davanti al carcere, si uniscono alla protesta di Pannella La Sicilia, 29 giugno 2011 Una protesta in linea con lo sciopero della fame di Marco Pannella storico leader radicale “in modo che non cali il silenzio su un tema ormai indifferibile: le carceri italiane invivibili”. Gli avvocati della Camera penale di Catania “Serafino Famà”, hanno fatto la loro parte, ieri mattina, con un sit-in davanti al carcere di Piazza Lanza. Un’iniziativa adottata in tutt’Italia dall’Unione delle Camere penali che ha portato gli avvocati ad attuare uno sciopero della fame a catena (già partito dal primo giugno) per fare in modo che la protesta sia ininterrotta. E i detenuti hanno “gradito” la manifestazione e l’hanno sottolineato battendo con pentole e cucchiai contro le inferriate, secondo il loro modo di comunicare con l’esterno. “Le carceri italiane sono incivili - taglia corto il presidente della Camera penale Giuseppe Passarello - e le carceri catanesi altrettanto, con una nota di demerito per il carcere di Piazza Lanza che strutturalmente risente della datazione borbonica. Se a questo si unisce il disinteresse della politica, dell’Esecutivo e quindi la mancanza sostanziale di fondi per qualsiasi iniziativa, ecco che viene fuori una struttura dove non è legittimo che nessun cittadino, colpevole o innocente, soffra la pena”. “Il problema comune per i detenuti di Piazza Lanza - dichiara l’avvocato Salvatore Liotta, componente della Commissione carcerazione speciale e diritti umani dell’Unione delle Camere penali - è quello della tempestività della facilitazione delle cure extramoenia. La più forte incidenza e quella delle discopatie, cioè di quelle malattie legate alle articolazioni che comportano difficoltà della permanenza in carcere sia per chi le patisce che per i compagni di cella perché gli spazi di Piazza Lanza non sono organizzati per chi non può muoversi e molto spesso questi detenuti hanno bisogno dei cosiddetti “piantoni”, cioè soggetti che vengono adibiti alla cura delle persone “allettate” o sulla sedia a rotelle. Altra questione è quella della gestione degli spazi di attesa per i parenti dei detenuti”. “Sono un problema anche le visite medico - specialistiche intramoenia - aggiunge l’avvocato Passarello - perché la sanità oggi nelle carceri siciliane è in un limbo. Non è stata ancora presa in carico dalla Regione ed è stata già dismessa dal ministero, quindi anche le visite specialistiche intramoenia comportano un problema. Avere un dentista o un cardiologo per un normale esame è un’impresa ardua, figuriamoci per una Tac o per un’ecografia”. Sulla proposta di amnistia che in queste settimane viene invocata da più parti l’avvocato Passarello è poco convinto: “I veri grimaldelli per risolvere questa situazione sarebbero: una cospicua depenalizzazione e una vera applicazione delle misure alternative alla detenzione. Queste ultime quando vengono applicate hanno un coefficiente di recidiva sotto l’1 per cento. Secondo la nostra esperienza, in genere, chi è affidato al servizio sociale o usufruisce della semilibertà o della detenzione domiciliare non torna a delinquere. Il problema è che la magistratura di sorveglianza interpreta e applica in un certo modo, non condivisibile, tutta la legge Gozzini che da più parti di indebolire se non di eliminare”. All’iniziativa era presente anche una rappresentante di Città Insieme. Siracusa: detenuto cade dal terzo piano del letto a castello; fratture varie e trauma cranico La Sicilia, 29 giugno 2011 Cade da un letto a castello di tre posti ed è in prognosi riservata. È quanto sarebbe successo ad un detenuto del carcere di Brucoli. Per discrezione non sono state fornite ulteriori indicazioni sull’uomo, solo che ha un età inferiore ai quaranta ed è italiano. Nella notte tra lunedì e martedì, l’uomo sarebbe caduto in modo accidentale dal letto a castello. Si è procurato fratture scomposte e trauma cranico che hanno impedito ai medici di anticipare i tempi di guarigione. Dopo le cure nella casa circondariale e quelle del pronto soccorso è stato trasferito all’Umberto I di Siracusa. I vertici della casa circondariale asseriscono che si tratta di un caso fortuito. La popolazione carceraria di Brucoli doveva essere, secondo la struttura, di circa 500 detenuti; oggi ne conta oltre 700. Spesso in una stessa stanza sono alloggiate più persone. Nella struttura non mancano i momenti di impegno per i detenuti: il 4 luglio prossimo sarà messe in scena “Proteo in carcerato” una versione riveduta e corretta sul mitico personaggio di Omero. Sulle scene, che si svolgeranno nel piazzale adiacente la casa circondariale, saranno gli stessi detenuti. L’episodio della scorsa notte sembra essere del tutto indifferente per la normale vita della casa circondariale. Dalla direzione del carcere escludono in maniera categorica che la vittima si sia procurato i traumi per propria volontà. Venezia: a Santa Maria Maggiore la situazione è invivibile… 161 posti, 345 detenuti di Maria Fiano Terra, 29 giugno 2011 Le associazioni che lavorano nella casa circondariale denunciano l’impossibilità di portare avanti progetti di recupero e reinserimento. La protesta delle carceri italiane continua da qualche settimana. 206 carceri. 68 mila detenuti a fronte di una disponibilità di 44 mila posti. Dal 2000 a oggi sono morti 1.800 detenuti, 650 dei quali si sono suicidati. Proviamo tra numeri e denunce a raccontare una storia. Che parla di carcere, di condizioni disumane, dì sovrappopolazione, di aumento di suicidi, di proteste dei detenuti che battono sulle inferriate, di scioperi della fame. Proviamo a raccontare una storia, quella di Santa Maria Maggiore, a Venezia. Che è un pezzettino di una storia più complessa. A Venezia, nella casa circondariale di Santa Maria Maggiore, la situazione è invivibile: 161 posti, 345 detenuti. 8 persone stipate in stanze per 4 su letti a castello a 3 piani quando non con materassi per terra. A questo si aggiunge la denuncia delle associazioni che lavorano in carcere sulla impossibilità di portare avanti progetti di recupero e reinserimento. Ma vogliamo raccontare anche la storia di una città che si mette in ascolto, che si mette in gioco e in discussione. Che per essere una città degna non può accettare che il suo carcere, in pieno centro storico, sia una vergogna. uno degli esempi meno dignitosi delle condizioni di detenzione. Un carcere dove si continua a morire. Dove i progetti di reinserimento meno funzionano e meno parlano alla città. È una storia che parte dal basso. dove società civile, associazioni, grappi musicali, singoli cittadini, spazi sociali si organizzano, drizzano le antenne e quelle proteste ascoltano e da quelle stesse proteste si fanno ascoltare. Un palco, gli amplificatori rivolti alle mura del carcere, arrivano gli strumenti ed iniziano concerti e interventi. Il tam tam nella rete ha funzionato. Iniziano gli Skaj, poi Giovanni dell’Olivo, Alberto d’Amico, le Donne di Carta, Big Mike, Pierpaolo Capovilla. Dalle feritoie delle finestre escono le scope con attaccati gli specchietti per vedere fuori. Esposti alcuni fogli con disegni e slogan. Partono gli applausi. Dentro e fuori. Da dentro si urla “ancora” e si applaude. Oggi vogliamo raccontare la storia di una città che per essere degna non accetta che una parte della sua popolazione, quella detenuta, viva condizioni disumane. Davanti al carcere decine e decine di persone provano a costruire ponti e si commuovono e si confrontano nei fazzoletti bianchi appesi dalle finestre. Una storia che parla attraverso le sbarre e i muri. Affronta le sue contraddizioni. Quelle di un paese che negli ultimi anni con leggi punitive sull’immigrazione e sulle tossicodipendenze, ad esempio, ha visto il carcere come unica soluzione a problemi sociali, producendo la detenzione massiccia di porzioni sempre più ampie della società (e questo riguarda il 70 per cento della popolazione detenuta). È una storia che parla di prospettiva ed urgenze: la necessità di attivare politiche di inclusione e depenalizzazione, di pensare ad alternative al reingresso in carcere. L’urgenza di attuare una efficace tutela della dignità e della salute per la popolazione detenuta e migliori condizioni di vivibilità. Firenze: Osapp; mensa sporca e cibo ammuffito, agenti la disertano Ansa, 29 giugno 2011 La mensa è sporca e, da quando è stato pure servito pane ammuffito, per protesta gli agenti della polizia penitenziaria la disertano. Succede al carcere fiorentino di Sollicciano. Lo rende noto in un comunicato il sindacato Osapp. “È da circa una settimana - spiega la nota - che il personale della polizia penitenziaria del carcere di Firenze Sollicciano per protesta non si reca in mensa a consumare il pasto di servizio. Con detta protesta, attuata autonomamente, senza bandiere sindacali, il personale denuncia la carenza di igiene presso tutti i locali mensa, sia in quelli per il confezionamento dei pasti sia in quelli adibiti alla somministrazione e consumò. La nota parla anche di “inosservanza delle norme igienico-sanitarie da parte del personale e di pessima qualità e penuria dei generi somministrati”. “Ieri - conclude la nota - dopo qualche provvedimento tampone e le assicurazioni delle autorità responsabili, la protesta era rientrata ma, manco a dirlo, ai commensali è stato servito pane ammuffito”. Camerino (Mc): successo per la pet therapy in carcere Corriere Adriatico, 29 giugno 2011 La pet therapy entra nella casa circondariale di Camerino. Grazie all’associazione Ippolandia di Gagliole ed allo splendido cane Borys il progetto ha coinvolto una dozzina ospiti della struttura di pena in un percorso di lavoro, strutturato su cinque incontri, in cui si è lavorato sulle emozioni e sulla comunicazione. Le due docenti del corso Monika Kinga Delmanowicz e Laura Cucculelli hanno spiegato al gruppo di studenti davvero inusuale le caratteristiche del più fedele amico dell’uomo, con una serie di lezioni di etologia, ed elementi di educazione del cane. L’interazione tra il dolce labrador e i detenuti è stata davvero molto positiva, in un interscambio di fiducia e responsabilità reciproche, con il cane che è riuscito a superare le difficoltà di relazione che spesso alcuni esseri umani hanno nei confronti degli animali. La vita coercitiva tra le quattro mura del carcere, non rende semplice manifestare le proprie emozioni ed il rapporto diretto con un animale permette di prendere maggiore consapevolezza del proprio vissuto e dei propri ricordi, come hanno posto in evidenza le due docenti, nel corso degli incontri. Al termine del ciclo di incontri è stato consegnato ai partecipanti un attestato, alla presenza dell’assessore comunale Enrico Pupilli e della direttrice della casa circondariale di Camerino, la dottoressa Lucia Di Feliciantonio. È questo il secondo anno consecutivo di collaborazione tra l’associazione Ippolandia di Gagliole e la casa circondariale di Camerino e visti i risultati positivi, sarà probabilmente ripetuto anche in futuro. Un detenuto lavora al canile di Colle Altino, gestito dalla Lega nazionale per la difesa del Cane di Camerino. Un altro progetto di pet therapy in passato si è svolto positivamente nella casa di riposo di Castelraimondo. Altri animali usati proficuamente da Ippolandia sono stati i cavalli e gli asini, nel corso di un progetto educativo che ha coinvolto una serie di disabili mentali. Oristano: detenuti archeologi, il progetto va in Germania La Nuova Sardegna, 29 giugno 2011 Le esperienze di lavoro negli scavi archeologici maturate dai detenuti della Casa circondariale oristanese saranno esportate in un Land della Germania (Lope Ost Detmonld). Sarà il risultato dell’azione di parternariato che la direzione della Casa ha avviato da ormai cinque anni. In questo caso, spiega il direttore della Casa Circondariale Pier Luigi Farris, si tratta della fase transnazionale del Progetto Archeo 2 dedicata soprattutto al patrimonio storico - archeologico. Se ne parlerà domani in un convegno in programma all’Hospitalis Sancti Antoni alle 10.45 con il patrocinio del Comune di Oristano e la presenza di tanti specialisti. Siena: Cenni (Pd); solidarietà e appoggio agli agenti per lo sciopero di domani Adnkronos, 29 giugno 2011 “Esprimo la mia solidarietà e il mio totale appoggio agli agenti della polizia penitenziaria del carcere di Ranza che domani, giovedì 30 giugno, scenderanno nel Piazzale Martiri di Montemaggio di San Gimignano (Siena) per denunciare la situazione drammatica dell’istituto di pena”. Con queste parole Susanna Cenni, parlamentare del Pd alla Camera, esprime il suo appoggio alla mobilitazione dei lavoratori del carcere di Ranza. Una protesta proclamata dalle varie organizzazioni sindacali per denunciare le difficoltà dell’istituto di pena, alla luce dell’ennesimo episodio di violenza avvenuto all’interno del carcere, lo scorso 23 giugno, che ha provocato il ferimento dell’agente penitenziario da parte di un detenuto. ‘Da mesi e mesi - prosegue Cenni - la situazione ha raggiunto livelli di una gravità inaccettabile. Il sovraffollamento, le difficoltà legate alla fornitura idrica, la carenza di organico concorrono all’aggravarsi della difficile vivibilità e all’impossibilità di gestire adeguatamente la quotidianità”. Napoli: 15 degenti dell’Opg in gita a Sorrento organizzata dalla comunità di Sant’Egidio di Carmela Maietta Il Mattino, 29 giugno 2011 Erano 21 anni che Alfonso non vedeva il mare. Che non si sedeva sulla spiaggia davanti a quell’immensa distesa di azzurro, che non si divertiva, come da bambino, a lanciare sassolini nell’acqua il più lontano possibile e contava i secondi per calcolare in quanto tempo il mulinello si richiudeva. Hanno dovuto quasi forzarlo quando è stato il momento di andare via per il pranzo. Luigi, invece, in un ristorante non c’era proprio mai stato. Nessuno in famiglia se l’era sentita di portarselo dietro, di farlo sedere a un tavolo in un luogo pubblico: lui, che non ci stava con la testa e che avrebbe potuto creare scompiglio. Ora invece, eccoli, insieme con altri 13 compagni alla Marina di Puolo a Sorrento, ospiti del ristorante “Baia Sorrento”. Le mani alzate al cielo, la testa all’indietro, gli occhi socchiusi, un bicchiere d’acqua, per simulare lo champagne, in mano e una voce che, da quasi soffocata, diventa via via più forte e chiara: “brindisi alla libertà”. Un brindisi fatto e rifatto un’infinità di volte, quasi che dall’alto qualcuno potesse ascoltarli ed esaudirli. È stata una giornata davvero particolare per 15 ospiti dell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Secondigliano, voluta e proposta da Antonio Mattone, portavoce della Comunità di Sant’Egidio, per “dimostrare che c’è anche la possibilità di conoscere la vita oltre le sbarre”. Sono momenti importanti, fa rilevare il direttore dell’Ospedale, Stefano Martone, per chi non può prevedere con certezza in che modo e dopo quanto tempo possa cambiare il giudizio di pericolosità sociale che li tiene ricoverati in una struttura sanitaria. Finiti dentro per una serie di reati, hanno tutti una fragilità psicologica, per cui spesso il reato è legato a un disagio mentale che li rende incapaci di intendere e di volere. Accompagnati anche dal direttore sanitario, Michele Pennino, e da diversi educatori, i 15 internati dell’Ospedale psichiatrico giudiziario sono stati, per così dire, gli ospiti d’onore delle famiglie Galano e Palomba che hanno messo a disposizione il ristorante e i loro chef, Raffaele Ingenito e Giuseppe Vitiello, i quali hanno optato per una rivisitazione dei piatti classici della tradizione costiera. Molto apprezzati i fiori di zucca, alici ripiene e bon bon di gambero, paccheri con zucca, cozze e basilico, filetto di pescato con patate arrosto e asparagi saltati. Non ha voluto mancare all’appuntamento anche lo chef Antonio Cafiero che come dolce ha offerto uno dei suoi cavalli di battaglia: la torta gigante di delizie al limone con la scritta “Benvenuti a Sorrento”. Una giornata caratterizzata, dunque, dalla normalità per chi ha messo in bilico il proprio futuro proprio perché ancora alla ricerca della normalità intellettiva. Per gli ospiti dell’Ospedale psichiatrico giudiziario, che attualmente sono 120, le giornate fuori le mura, è stato sottolineato, possono rivelarsi anche un test da non trascurare. Voghera (Pv): la Cgil denuncia; agenti sotto stress… e la situazione si aggrava La Provincia Pavese, 29 giugno 2011 Poche guardie penitenziarie per troppi detenuti. Questo è quello che ha portato la Cgil di Pavia a iniziare un’indagine sullo stato di salute dei lavoratori. Massimiliano Preti, segretario della Funzione pubblica della Cgil di Pavia spiega che “la situazione si aggrava, se pensiamo che lo Stato fornisce tutto il necessario al carcere, come i corredi per i detenuti, in base alla sua portata e con il sovraffollamento le forniture scarseggiano sempre più e questo è uno dei principali motivi di tensione”. Proprio a causa di queste problematiche e degli ultimi fatti accaduti la Cgil ha avviato un’indagine per valutare il grado di stress da lavoro correlato che oggi affligge numerosi poliziotti penitenziari. Con l’aiuto del medico legale Stefano Marton sono state distribuite delle schede a tutti i dipendenti. I risultati del progetto saranno proposti alla direzione del carcere. Il delegato della Cgil Nicola Garofano , che è agente capo della polizia penitenziaria, sottolinea un altro grave problema, quello dei doppi turni che molti agenti si trovano costretti a fare, oltre al problema delle ferie estive, che per quest’anno gli agenti riusciranno a fare a fatica. Per alcuni non si tratta neppure di ferie estive visti i periodi autunnali che purtroppo sono riusciti a concedere”. Dopo il periodo estivo, durante il quale dovranno essere compilate le schede di valutazione dello stress, la Cgil vuole organizzare un nuovo convegno dove discutere i risultati, cercare una soluzione al problema e approfondire i punti più critici del fenomeno di sovraffollamento e della mancanza di personale, utile alla sicurezza sia degli stessi agenti che dei detenuti. Turi (Ba): Sappe; un detenuto ha tentato il suicidio, situazione senza controllo Agi, 29 giugno 2011 “Ancora un tentato suicidio di un detenuto avvenuto verso le ore 22 di ieri nel carcere di Turi, che con l’elastico delle mutande ha tentato di impiccarsi alle grate della finestra della cella”. Lo rende noto un comunicato del sindacato autonomo della Polizia penitenziaria, segreteria regionale Puglia. “Pronto e provvidenziale - continua la nota - è stato l’intervento del personale di Polizia Penitenziaria che ha evitato che lo score dei suicidi in Puglia dall’inizio dell’anno arrivasse a 6 dopo quello di due giorni fa avvenuto presso il carcere del capoluogo. Ormai la situazione è senza controllo e per questo si chiede un’attenzione particolare affinché le Istituzioni e la politica possano dedicare un pò del loro tempo anche all’inferno che si vive nelle carceri Italiane”. Taranto: dopo l’udienza un detenuto tenta la fuga, bloccato e arrestato Ansa, 29 giugno 2011 Un detenuto ha tentato di evadere dopo un’udienza che si era tenuta al tribunale di Taranto: l’uomo è stato poi bloccato dalla scorta della polizia penitenziaria che lo aveva trasferito da Castrovillari (Cosenza) dopo un inseguimento a piedi. La breve fuga. Il fuggitivo, un trentenne tarantino condannato per ricettazione e reati contro il patrimonio, si è allontanato proprio nel momento in cui si apprestava a salire sul furgone della polizia penitenziaria, che avrebbe dovuto accompagnarlo al carcere di Turi (Bari), dove era stato destinato. L’uomo ha cominciato a correre e gli agenti hanno anche sparato in aria due colpi di pistola per indurre il fuggitivo a fermarsi. Sono intervenute cinque pattuglie dei carabinieri e i poliziotti della sezione “Falchi”. Dopo un breve inseguimento uno dei due agenti penitenziari è riuscito, con uno sgambetto, a far cadere il fuggitivo che è stato immobilizzato e accompagnato al carcere di Taranto. Ora dovrà rispondere di tentata evasione e lesioni. Uno dei tre agenti di scorta ha accusato un lieve malore ed è stato trasportato in ospedale per accertamenti. “Scarsa sicurezza”. Secondo il vicesegretario nazionale del sindacato Osapp, Domenico Mastrulli, “quello che è appena accaduto non è altro che l’ulteriore sintomo di estrema invocazione di un immediato rientro da tutti i servizi d’ufficio e servizi esterni dei poliziotti impiegati in compiti non istituzionali, per rafforzare le carenti forze delle scorte per detenuti e non per politici e personaggi “privilegiati” dalla posizione lavorativa”. La traduzione dei detenuti - secondo l’Osapp - avviene “sempre ben al di sotto dei parametri di sicurezza previsti dalle normative vigenti”. Massa: appalti “truccati” all’interno del carcere; imprenditrice patteggia la pena Ansa, 29 giugno 2011 Ha patteggiato la pena ad un anno, con sospensione, Morgana Martelli, imprenditrice arrestata il 6 luglio 2010 nell’inchiesta sugli appalti “truccati” all’interno del carcere di Massa. La donna era accusata di falso, truffa e abuso d’ufficio. Da subito, dopo l’arresto, aveva iniziato a collaborare con la procura di Massa Carrara e le erano state revocate le misure di custodia cautelare. Secondo l’accusa l’ex direttore del carcere di Massa, Salvatore Iodice, anche lui arrestato nell’ambito dell’inchiesta, facilitò la Martelli nell’attribuirle la docenza di un corso di formazione nel penitenziario, pagato da Provincia e Regione. Inoltre, sempre secondo la procura, Morgana Martelli faceva anche la “cresta” sugli acquisti compiuti per tenere il corso e per questo fu accusata anche di truffa aggravata. All’epoca dei fatti, secondo le indagini della polizia, il direttore Iodice e la Martelli avevano una relazione da circa tre anni. Nove le persone finite in manette nell’ambito dell’operazione denominata ‘Do ut des’. Oltre all’ex direttore del carcere Iodice, coinvolti imprenditori e funzionari pubblici accusati di facilitare ditte specifiche nell’aggiudicazione degli appalti per i lavori pubblici del carcere. Per loro il processo è in corso a Massa con sette dei nove imputati iniziali. Uno era la stessa Martelli; l’altro, l’imprenditore Prospero Santacroce che aveva scelto il rito abbreviato concluso con una condanna a due anni e sei mesi. Pisa: Fli; impegniamoci per migliorare le condizioni dei detenuti Il Tirreno, 29 giugno 2011 Riuniti nel primo congresso di Futuro e Libertà della provincia di Pisa, su sollecitazione della sen. Francesca Scopelliti, esprimiamo preoccupazione per il sovraffollamento delle carceri, che è una realtà anche in Toscana e a Pisa, oltre a esprimere solidarietà alla battaglia non violenta in cui si è speso personalmente, fino a mettere in pericolo la propria vita, il leader radicale Marco Pannella. Futuro e Libertà, come grande movimento popolare e liberale, del centrodestra europeo, conosce le sofferenze dei detenuti in attesa di giudizio; delle vittime delle lentezze giudiziarie; di coloro che sono in carcere a causa di una abnorme moltiplicazione e sovrapposizione di leggi penali. Quindi è nostro compito impegnarci perché queste sofferenze siano alleviate, attraverso riforme serie; attraverso quel programma di edilizia carceraria che è stata un’altra delle promesse tradite del berlusconismo, valutando la possibilità, per far fronte all’ennesima emergenza, di un provvedimento di clemenza. Massimo Balzi Coordinatore provinciale di Futuro e Libertà Alghero: detenuto si ferisce e inghiotte lametta da barba La Nuova Sardegna, 29 giugno 2011 Momenti di estrema tensione nel carcere di San Giovanni, dove da mesi la polizia penitenziaria denuncia un clima ben al di là dei limiti di sicurezza. E infatti nel fine settimana un detenuto ha dato in escandescenze inghiottendo una lametta, aggredendo un medico dell’infermeria e poi minacciando di uccidere con una scheggia di vetro chiunque gli capitasse a tiro. L’inizio di questa inquietante vicenda risale alla serata di venerdì, quando a un recluso cagliaritano di 34 anni (che finirà di scontare la pena nel 2014) viene comunicato il suo trasferimento nella colonia penale di Isili. Un provvedimento motivato dal progressivo sgombero della famigerata sezione “D”, ospitata in un’ala dell’istituto fatiscente e senza reti di protezione, nella quale a maggio si trovavano ancora agli arresti ventiquattro persone. Fatto sta che l’uomo alla vista degli agenti perde letteralmente la testa e con una lametta comincia a tagliarsi l’addome in diversi punti. Una scena da film dell’orrore che prende alla sprovvista persino le troppo poche guardie carcerarie. Bloccato in qualche modo, il detenuto ferito e sanguinante viene subito accompagnato verso l’infermeria, ma quel tragitto si rivela ben presto un inferno. Prima di arrivare nell’ambulatorio, infatti, l’esagitato inizia a spaccare ogni oggetto che gli capita tra le mani, arrivando persino a scaraventare giù per le scale il carrello dei medicinali e a lanciare un estintore contro la dottoressa di turno, che terrorizzata non può far altro che chiudersi a chiave in una sala assieme agli assistenti sanitari. Sono attimi di vero panico, anche perché in questi casi il rischio che l’aria di rivolta contagi l’intero carcere è sempre in agguato. Tanto è vero che l’uomo, ormai in preda a una violenta crisi isterica, riesce ancora una volta a liberarsi e a tornare rapidamente verso le celle, dove - dopo aver mandato in frantumi il vetro del sistema antincendio - si impossessa di una scheggia minacciando di “fare a pezzi” chiunque tenti di avvicinarsi o di sedarlo. A quel punto - secondo il racconto di alcuni testimoni - sarebbe stato il comandante della casa circondariale, Antonello Brancati, a cercare di risolvere la situazione diplomaticamente. Un tentativo riuscito soltanto in parte. Sempre stando a quanto si è saputo, lo stesso comandante si sarebbe sentito rispondere che “il carcere sta andando a puttane, che per gestire una galera non ci vuole una laurea ma grande esperienza, e che non si può stare chiusi in un ufficio senza sentire mai i detenuti”. Accuse pesanti, ma che - è bene ricordarlo - sarebbero eventualmente state pronunciate da chi in quel momento non era in sé. Il giorno dopo, revocato il trasferimento a Isili e disposto il ricovero dell’uomo nel Centro diagnostico terapeutico di San Sebastiano, tutti sperano che la situazione sia tornata alla normalità. E invece ecco che allo stesso detenuto viene in mente di inghiottire una lametta. Sono esattamente le due del pomeriggio di sabato quando lo portano d’urgenza al pronto soccorso dell’ospedale civile di Alghero. Ma, terminata la visita medica, l’uomo si rende conto che il furgone blindato non è diretto verso il carcere della città catalana, bensì a Sassari. Scoppia di nuovo il finimondo. Con le manette ai polsi il detenuto comincia a prendere a calci il cancello della scorta e a battere ripetutamente la testa contro il vetro che lo separa dall’autista, riuscendo a frantumarlo e procurandosi tagli ai polsi. È ancora emergenza: l’uomo, affetto da “epatite c”, succhia il proprio sangue o lo sputa in faccia agli agenti che a fatica riescono a immobilizzarlo. Ora i sindacati chiedono immediati provvedimenti. Genova: nel carcere di Marassi nascono le t-shirt equo-sociali realizzate dai detenuti www.cittadigenova.com, 29 giugno 2011 L’anno scorso hanno prodotto 25.000 magliette, con i versi delle canzoni di Faber De Andrè, per i concerti di Franco Battiato, Vinicio Capossela, Vasco Rossi e altri grandi della musica e continuano a farne, aggiungendo alle t-shirt anche borse di stoffa - ne stanno preparando 12.000 - e li attendono altre richieste. Sono i cinque detenuti della sezione Alta Sicurezza del carcere di Marassi impegnati, con borse lavoro, nel progetto ÒPress di Bottega Solidale con la Direzione della Casa Circondariale e l’istituto scolastico Vittorio Emanuele II - Ruffini che hanno incontrato nel loro laboratorio l’assessora provinciale alle carceri Milò Bertolotto con il direttore dell’istituto penitenziario Salvatore Mazzeo, il comandante della Polizia penitenziaria Massimo Di Bisceglie e Carlo Imparato di Bottega Solidale. Tre di loro in questi giorni sono impegnati anche negli orali dell’esame di maturità, uno iscritto a Scienze dell’Educazione sta preparando per ottobre un esame all’università, e un altro vorrebbe iscriversi a Giurisprudenza. Nel laboratorio del carcere di Marassi si progetta al computer la grafica per le magliette, gli shopper, ma anche manifesti e locandine di eventi e concerti “e per ogni t-shirt proponiamo più idee - dice una delle persone detenute - che vengono valutate con Bottega Solidale e quando la scelta è definitiva iniziamo a stampare le magliette con una speciale macchina serigrafica il cui telaio permette di lavorarne quattro contemporaneamente e per ognuna di usare anche colori differenti.” I tessuti arrivano dal mercato etico ed equo - solidale (le forniture più recenti sono di una cooperativa tessile di donne del Burkina Faso) e le tinture dei disegni e delle frasi riprodotte sulle t-shirt sono naturali, ma fissate con procedimento indelebile e resistente al lavaggio. “Questo progetto - dice Milò Bertolotto - è un esempio, molto bello e concreto, di quello che unendo forze e idee si può fare per creare nuovi ponti tra il carcere e la società, formando e preparando al reinserimento le persone recluse anche con la partecipazione costante e preziosa della Polizia penitenziaria. Il carcere deve essere il più aperto possibile e il territorio e le sue istituzioni devono saper dedicare grande attenzione alle persone che vi sono detenute e a chi vi lavora. Noi per la nostra parte cerchiamo di farlo con atti concreti, dando sostegno per quanto ci consentono le risorse disponibili, a progetti e iniziative specifiche, come la falegnameria di Marassi, gli eventi teatrali, la formazione. E con questo laboratorio abbiamo realizzato i nuovi biblio-shopper, un’iniziativa congiunta del mio assessorato e di quello alla cultura dell’assessora Anna Dagnino, per i libri con cui la Provincia rifornisce le biblioteche del territorio. Il logo è stato ideato da un detenuto di Chiavari e le nuove borse di tessuto equo - solidale riforniranno di volumi anche la biblioteca del carcere del Tigullio”. Il progetto ÒPress è nato “quasi per gioco nel 1999 - racconta Carlo Imparato - quando abbiamo iniziato a stampare le prime cinquecento maglietta per l’omaggio a Fabrizio De Andrè, che sono state acquistate in un attimo. Da allora il laboratorio si è consolidato, sviluppato con il sostegno della Direzione della Casa circondariale e della Polizia Penitenziaria, e continua a lanciare il suo messaggio equo - sociale oltre le sbarre.” Le carceri stanno scoppiando e più di tante parole lo dicono i numeri: 70.000 detenuti in Italia, 820 - il doppio della capienza - a Marassi, dove mancano all’organico 160 agenti della Polizia Penitenziaria, il 30% degli effettivi sulla carta. “Per sovraffollamento e carenze d’organico questo è uno dei periodi peggiori per l’amministrazione penitenziaria - dice il direttore Mazzeo - e servono strumenti idonei e urgenti per deflazionare le carceri, però nonostante tutto si riescono a realizzare iniziative bellissime e importanti come questa, dimostrazione che se ci sono la volontà, le idee e la partecipazione possono prendere vita progetti originali e spendibili nel far acquisire ai detenuti competenze importanti anche per il dopo carcere. Qui siamo in Alta Sicurezza, la sezione dei reati più gravi, ma anche in questo contesto particolarmente complesso e difficile si può lavorare e far crescere la cultura del lavoro e della legalità”. Un impegno al quale tutto il personale della Polizia Penitenziaria si dedica “con grande convinzione - dice il comandante Massimo Di Bisceglie - perché i nostri compiti, oltre ovviamente alla sicurezza, sono molto importanti per tutte le attività trattamentali che preparano il reinserimento.” Caserta: sfiorata rissa nel carcere di Santa Maria Capua Vetere Ansa, 29 giugno 2011 È solo grazie al tempestivo intervento della polizia penitenziaria che all’interno del carcere di Santa Maria Capua Vetere non è avvenuto un regolamento di conti tra due gruppi di detenuti ritenuti vicini a due organizzazioni criminali attive nel casertano. Infatti, a seguito di una perquisizione gli agenti della polizia penitenziaria, coordinati dal commissario Michele Fioretti, nascosto sotto la guarnizione di una finestra hanno trovato un punteruolo, realizzato artigianalmente con un lungo chiodo fissato al manico di una forchetta. Secondo la polizia penitenziaria, che ha avviato immediatamente una inchiesta, il punteruolo doveva essere utilizzato, molto probabilmente, per una rissa che sarebbe dovuta avvenire nell’ora del passeggio (quando gli ospiti del reparto si ritrovano assieme) tra due gruppi di detenuti “comuni”. I reclusi della cella dove è stato trovato il punteruolo sono stati denunciati per possesso di strumento atto ad offendere. Saranno poi le indagini ad accertare le singole responsabilità. Sulmona (Aq): i detenuti coltivano l’aglio rosso, il progetto presentato in un convegno Il Centro, 29 giugno 2011 Si tiene oggi alle ore 16,30 presso l’istituto penitenziario di Sulmona un convegno sul tema “I detenuti custodi dell’aglio rosso di Sulmona”. Nel corso del convegno saranno presentati i risultati dell’attività sperimentale in corso nel carcere con la quale sono stati messi a confronto 11 varietà internazionali di aglio con quella tipica della Valle Peligna. Inoltre è stato realizzato un importante investimento nella coltura di aglio, coltivato secondo le tecniche dell’agricoltura biologica, nell’appezzamento sito all’interno del carcere. Lo rende noto il direttore del supercarcere Sergio Romice. Le attività agricole in corso rappresentano un importante legame con la società esterna poiché realizzate in collaborazione con l’Arssa (Agenzia Regionale dei Servizi per lo Sviluppo Agricolo) e con l’Ipaa (Istituto Professionale per l’Agricoltura e l’Ambiente. Il progetto è stato finalizzato alla tutela e salvaguardia della biodiversità agricola abruzzese, moltiplicando le varietà autoctone regionali in pericolo di scomparsa. Inoltre, si realizza orticoltura biologica, con la prospettiva di aprire un piccolo mercato di qualità. Al convegno partecipano Franco Cercone (storico e docente universitario), Antonio Ricci (divulgatore agricolo Arssa), Fabrizio Giuliani ( Presidente consorzio produttori aglio rosso di Sulmona), Cesare Tarantello (Assistente Polizia Penitenziaria), Antonio Castaldo (detenuto della Casa di Reclusione), Francesco Gizzi (Dirigente Scolastico Ipaa). Le attività realizzate quest’anno, tra campi sperimentali e produzione biologica di aglio, sono il punto di partenza per un progetto molto ambizioso dell’istituto: diventare un punto di riferimento per il rilancio e l’affermazione della coltura. Con il convegno in programma sarà presentato il lavoro in corso che candida l’Istituto ad avere un ruolo di primo piano nel processo di rilancio dell’aglio Rosso di Sulmona, un punto centrale nella moltiplicazione del seme certificato e garantito. In collaborazione con l’Arssa e con il Consorzio Produttori aglio rosso di Sulmona il carcere potrà essere la realtà produttiva che moltiplica le prime partite di seme provenienti dal laboratorio di micropropagazione, le moltiplica, prima in serra e poi in piena aria e, quindi, fornisce al consorzio produttori i nuclei produttivi di seme certificato. Da questi nuclei si produrrà aglio Rosso di Sulmona garantito e, a breve, caratterizzato anche dal marchio europeo di garanzia Dop - Denominazione di Origine Protetta. Libri: “Il carcere manicomio”, di Salvatore Verde di Federica Grandis www.gruppoabele.org, 29 giugno 2011 A Napoli vivono in dieci in una cella da sette metri quadrati. E per più di 20 ore consecutive siedono sullo stesso letto a castello. A Padova, invece, nelle celle singole ci sono tre persone, in quelle da quattro vivono in sei mentre in quelle da sei si vive in nove. Ieri, nel carcere delle Vallette di Torino, i detenuti hanno iniziato uno “sciopero bianco”: oltre a battere le sbarre delle celle con stoviglie e altri oggetti in modo da provocare un rumore assordante, i carcerati rifiutano il carrello delle derrate alimentari per protestare contro il sovraffollamento della struttura torinese. Tra il 2007 e il 2011 i detenuti d’Italia si sono triplicati: 67.174 persone a fronte di una capienza di 45.551. Peggio che in qualsiasi altro Paese d’Europa. “Il carcere manicomio”, libro appena uscito scritto da Salvatore Verde, edizioni Sensibili alle foglie, denuncia oggi un problema nel problema: nel testo, infatti, Verde, sociologo e giudice onorario al Tribunale dei minori di Napoli, descrive “un sistema che interna ciò che non riesce a trattare”. “Il carcere manicomio” racconta il rapporto perverso tra malattia mentale e prigione, denunciando come negli ultimi anni, già segnati da un sovraffollamento oltre ogni soglia di tollerabilità, si sia deciso di “estendere le maglie della carcerazione delle diversità e dei disagi urbani e mentali oltre ogni limite giustificabile”. Abbiamo chiesto a Salvatore Verde di parlarci delle sue ricerche sul tema. E spiegarci perché, come recita il sottotitolo del libro, dietro al carcere si celano storie di “violenza, pietà, affari e camicie di forza”. Il suo libro inizia descrivendo una recente inchiesta televisiva dedicata alla situazione carceraria nel nostro Paese. Un servizio ben fatto, documentato, attento: peccato che quell’inchiesta sia stata un flop, e che il canale che la trasmetteva ha raggiunto il minimo storico di share. Perché oggi nemmeno lo sciopero della fame fatto da Pannella o altre iniziative clamorose riescono a far sì che si parli di carcere? Perché raccontare gli istituti penitenziari significa “narrare l’inattuale”? Nello spazio discorsivo pubblico di questo Paese c’è un modo di declinare e raccontare le condizioni carcerarie improntato fortemente sulla paura. Un’ideologia penetrata nel nostro sentire comune ormai da diversi anni, probabilmente da quando sono state “importate” in Italia quelle ideologie tipicamente americane che hanno costruito simulacri di figure che rappresentassero quest’ opera di terrificazione sociale. Penso alle persone tossicodipendenti, ai migranti e ai diseredati delle grandi periferie: intorno a queste figure sociali si è alimentato per anni il sentimento della paura. In aggiunta a questo dato, oggi nel nostro Paese c’è un sistema politico che da oltre 20 anni non trova altra risorsa di costruzione del consenso che non sia, appunto, l’ideologia della paura. Non esiste in questo momento nessuna possibilità di costruire consensi intorno alle politiche del benessere, dell’avanzamento di civiltà, di democrazia e di socialità. È proprio questo che rende la situazione carceraria profondamente inattuale e che rende anche l’opinione pubblica insensibile rispetto alla condizione delle persone che sono chiuse nelle carceri. Lei scrive che “a garantire un equilibrio al nostro sistema penitenziario è oggi la progressiva sostituzione dei servizi sociali delle carceri con un sistema di tipo caritativo - filantropico”. Fino a quando una delega di governo di parti del penitenziario a welfare, sociale e impresa privata riuscirà a garantire questo equilibrio già così precario? Si tratta di una delega dalla vita corta. I canali del volontariato possono essere attivati produttivamente nella gestione di una fase di emergenza acuta, per un periodo limitato, per sostenere le devastazioni che una politica di riduzione delle risorse provoca nelle persone detenute, ma oggi siamo di fronte a tagli continui, definitivi, non certo estemporanei. E né privato sociale né volontariato possono supplire a tutto ciò che con questi tagli viene meno. Nel carcere dove lavoravo cinque anni fa, più della metà dei detenuti aveva la possibilità di impegnare la giornata con qualche attività formativa, di tipo scolastico o culturale: oggi questi spazi non ci sono più e il volontariato caritativo, che pure ha grandissima dignità, non riesce in alcun modo a supplire questi tagli. La verità è che oggi i detenuti stanno chiusi nelle celle fino a 22 ore al giorno, in molti istituti anche le quattro ore d’aria previste dal regolamento non riescono ad essere garantite per carenza di personale, quindi ne restano soltanto due. E in una cella come quella di Poggioreale, dove ci sono 12 persone, un solo bagno e brande che arrivano fino al soffitto, nulla riesce a sollevare la condizione di chi si trova a stare chiuso in una stanza 22 ore al giorno. I tagli netti a tutti i fondi impediscono oggi ai detenuti qualsiasi possibilità di riscatto. Un dato per tutti: in questa massa di sofferenza e di dolore che si trova oggi nelle carceri, i fondi per l’assistenza psicologica sono stati tagliati del 70%. E proprio a questo proposito, nel libro lei sostiene che negli istituti penitenziari si assiste ad una “sommersione chimica della sofferenza psicologica dei detenuti”, arrivando a parlare di “manicomializzazione del carcere”: cosa significa questa espressione? Nel mio lavoro parto da dichiarazioni pubbliche rese da dirigenti dell’amministrazione penitenziaria: se il dirigente di un ufficio centrale racconta alla stampa che l’80, 90 % dei detenuti di questo Paese assume qualche forma di farmaco di natura psichiatrica, dai più blandi ai più importanti, mi sento legittimato a dire che il livello di gestione del penitenziario ha assunto a pieno le sembianze di un manicomio, dove regnano l’anestetizzazione del disagio e la sommersione farmacologica della sofferenza. La medicina penitenziaria parla di 22mila persone in questo momento sottoposte a protocolli psichiatrici: se stessimo parlando di un territorio libero, un protocollo psichiatrico prevedrebbe il coinvolgimento della comunità, delle relazioni, del mondo dell’affettività della persona, ma se invece si è chiusi in un carcere il tutto si risolve alla somministrazione di farmaci. E stiamo parlando di 22mila persone su 69mila: non sono piccole cifre. Oggi le carceri sempre più di frequente sono portate a rivolgersi alla psichiatria nel governo del disagio e della sofferenza che gestiscono, e questo processo non può che andare sotto il nome di manicomializzazione della pena. Oggi 1.500 nostri concittadini sono reclusi negli ospedali psichiatrici giudiziari, e 350 di loro potrebbero già uscirne. Dopo le sentenze della Corte Costituzionale (del 2003 e 2004) che hanno aperto a molteplici possibilità di trattamenti alternativi all’Opg, perché siamo ancora a questo punto? Non credo che possiamo più permetterci di parlare di “ospedali” psichiatrici giudiziari: bisogna fare un’operazione linguistica di verità. Se parliamo di luoghi con le finestre sbarrate, fatti di celle e sezioni chiuse da cancelli e blindati, che hanno per recinto un muro con un camminamento percorso da uomini armati che impediscono l’uscita, parliamo di una prigione. E entrare in un luogo del genere, che ospita persone con una sofferenza mentale, vuol dire entrare in un manicomio criminale. Eppure la maggior parte degli operatori che lavorano in questi posti definiscono le persone chiuse lì dentro come “pazienti”, facendo un’operazione di nascondimento della verità che non possiamo più permetterci. È bene parlare di manicomi criminali se vogliamo almeno restituire verità agli uomini e alle donne chiuse in quelle strutture. Come lei ricordava oggi ci sono 1500 persone chiuse negli Opg, ma probabilmente sono molte di più le persone con sofferenze psichiche rinchiuse nelle carceri “normali”: da qualche tempo non tutti coloro che hanno una sofferenza mentale arrivano fortunatamente nel circuito degli Opg. Dico questo per ribadire che il rapporto tra sofferenza mentale e carcere non si esaurisce, oggi, nella questione Opg. Ma allora perché gli Opg continuano ad esistere? Recentemente ho letto una dichiarazione di Beppe dell’Acqua, responsabile del distretto di salute mentale di Trieste, che diceva con orgoglio che negli ultimi tre anni nel territorio del suo dipartimento di salute mentale nemmeno una persona è finita nei sei manicomi criminali italiani. Questo significa che in quel territorio ci sono ottimi servizi di salute mentale e delle buone reti aiuto e di sostegno delle persone che sono in difficoltà: è proprio questo processo sociale e istituzionale che funziona. E che si deve far funzionare, non certo ridurre con tagli e chiusure di servizi. Piuttosto che aspettare che ci siano le condizioni politiche per una trasformazione del codice penale in questo Paese (e oggi non ci sono), io credo che in questo momento dobbiamo lavorare sul fronte dei servizi, delle reti di sostegno e di aiuto. A fronte di un sovraffollamento che rende l’Italia un unicum rispetto agli altri paesi d’Europa, anche per il numero dei morti e dei tentativi di suicidio, quale spazio resta per le misure alternative? Con una criminalizzazione sociale così potente contenuta nei sistemi normativi che colpiscono i consumatori di sostanze e i migranti, non c’è alcuna possibilità di risolvere in fuoriuscita il problema del sovraffollamento del carcere. Mi spiego: se una persona arriva nel penitenziario è perché ha già subito pesanti processi di marginalizzazione ed espulsione sociale, ed è su questo livello che credo dovremmo lavorare. Le misure alternative hanno un presupposto fondamentale: io devo avere la possibilità di rappresentare al magistrato un percorso di vita alternativo fondato su risorse certe quali lavoro, abitazione e famiglia, e se non ho queste condizioni non accedo alle misure. Io penso che il problema con questi criteri non si possa risolvere: se vogliamo veramente risolvere il dramma del sovraffollamento carcerario dobbiamo agire a monte, evitando che una massa enorme di persone arrivi nel contenitore penitenziario. Non possiamo buttarli nel contenitore e poi studiare soluzioni giuridiche che ci consentano di farli uscire: non funziona. In queste Paese le misure alternative ci sono, esistono dalla riforma del 1975, ma al di là delle troppe limitazioni è anche vero che si tratta di un meccanismo estremamente sensibile agli umori della politica e dell’opinione pubblica, tanto da essere bloccato e frenato ogni volta che c’è un’emergenza criminalità. E allora il problema va risolto prima, o la situazione delle carceri diventerà ancor più drammatica di quanto già non lo sia oggi. Immigrazione: in 159 “reclusi” a Pantelleria in una ex caserma, atti di autolesionismo Agi, 29 giugno 2011 I migranti sbarcati a Pantelleria la notte tra il 17 e il 18 giugno si trovano ancora sull’isola, all’interno dell’ex Caserma Barone, poco distante dal centro urbano: “Sono reclusi lì, senza possibilità di uscire, da 12 giorni e si sono anche verificati alcuni episodi di autolesionismo a seguito del tentativo delle forze dell’ordine di prendere le loro impronte digitali”. Lo ha riferito Alice Piazza, una volontaria dell’Associazione no profit Amunì di Marsala che si occupa, tra le altre cose, anche di immigrati, reduce da una visita alla struttura avvenuta lunedì. Secondo il racconto dell’operatrice sociale, nel centro sono rinchiusi da ben 12 giorni, senza alcuna possibilità di uscire, in 159, tra uomini e donne, tutti di diverse nazionalità: si contano somali, nigeriani, togolesi, ghanesi e tunisini. “Molti di loro - ha raccontato Piazza - vivevano e lavoravano in Libia, ma a causa della guerra, sono stati costretti a fuggire. Sono reclusi in attesa di essere trasferiti chissà dove. Per utilizzare il telefono, vengono scortati ad uno ad uno dalle forze di polizia nel paesino che sorge sull’isola. Molti di loro sono già stati identificati e hanno fatto richiesta di protezione internazionale con l’ausilio di interpreti. A seguito delle ferite che si sono procurati alcuni degli immigrati detenuti nell’ex caserma, l’intero gruppo è stato minacciato di essere deportato nei Paesi d’origine, nel caso si verifichino nuovamente episodi simili. Piazza ha, infine, espresso forti perplessità circa la natura giuridica del centro in cui si trovano gli immigrati: “Non si tratta di un Cara, visto che agli extracomunitari è impedito di uscire, né di un Cie perché al suo interno vi sono dei richiedenti asilo. Non è neppure un Cai. Non vi è alcuna associazione che gestisce la struttura, sono presenti soltanto i carabinieri”. Svizzera: nessuna traccia del detenuto evaso ieri, era in carcere da più di 40 anni www.swissinfo.com, 29 giugno 2011 Una sessantina di agenti di polizia vodesi e neocastellani, assistiti dalle guardie di confine, hanno proseguito oggi le ricerche volte a rintracciare il detenuto datosi alla fuga ieri nei pressi di Provence (Vd), dopo aver minacciato due guardiani con un oggetto affilato. L’uomo, un giurassiano di 64 anni, è considerato particolarmente pericoloso. Dal 2009, il detenuto era incarcerato per misura di sicurezza a Gorgier (Ne), sotto la responsabilità del canton Berna. Il servizio bernese dell’applicazione delle pene ha indicato oggi che l’uscita accompagnata del detenuto non era stata autorizzata dal cantone, ma era di competenza del carcere di Bellevue a Gorgier. Il consigliere di Stato neocastellano Jean Studer si pronuncerà al riguardo domani. Secondo il giornale “Le Temps”, l’uomo ha trascorso più di 40 anni in prigione. Nel 1976 era stato condannato dalla Corte d’assise del Seeland a 12 anni di reclusione per aver violentato e ucciso una ragazza di 17 anni in occasione della sua prima licenza. Dieci anni dopo violenta la psicologa che lo aveva in cura, un atto per il quale è stato condannato nel 1988 dalla Corte d’assise di Ginevra a 15 anni di reclusione. Nel 2002 la giustizia ginevrina decide il suo internamento a tempo indeterminato. Gli inquirenti non dispongono per il momento di “piste concrete” in grado di localizzare il prigioniero, ha indicato la portavoce della polizia vodese Olivia Cutruzzola. Le ricerche coinvolgono anche la polizia francese. Venezuela: inferno nel carcere “Rodeo I” di Caracas di Monica Vistali www.agoramagazine.it, 29 giugno 2011 Impossibile comunicare con i 4 detenuti italiani trasferiti a Yare. Il blocco delle visite preoccupa i parenti dei prigionieri che vogliono scoprire il vero stato in cui versano i loro famigliari. La testimonianza di Padre Leonardo: carceri sovraffollate, armi e droga, i prigionieri in attesa della prima udienza. Dopo una breve telefonata martedì scorso, non è più riuscito a mettersi in contatto con i quattro italiani che usciti illesi dalla rivolta armata del “Rodeo I” e ora sono rinchiusi nel carcere ‘Yare IÌ. Padre Leonardo Grasso - responsabile di “Icaro”, l’Ong che fornisce assistenza ai connazionali in Venezuela - racconta che non hanno ancora ottenuto il permesso dalle autorità venezuelane per visitare i prigionieri. Il blocco delle visite genera inquietudine tra i familiari dei prigionieri, che da alcuni giorni reclamano il diritto di sapere se i loro figli, mariti e fratelli sono davvero vivi e lo stato di saluti in cui versano. Le liste diffuse dal governo, con i nomi di tutti i detenuti trasferiti in varie prigioni del Paese, non fanno diminuire la tensione perché tuttavia regna sovrana la disinformazione sia sugli avvenimenti passati che sulla situazione in cui si trovano adesso i detenuti. Secondo Padre Leonardo “c’è una mancanza d’informazione e solo ai giornalisti di “Canale 8” (network del governo) è consentito l’accesso alle prigioni. Per questo, qualcuno suggerisce che il trasferimento forzato dei carcerati del Rodeo e il blocco delle visite sono un meccanismo disegnato dalle autorità per impedire che si verifichi esattamente il numero delle vittime della rivolta (le cifre ufficiali dicono 26, ma altri parlano di quasi 90 morti). Un mare di criminali in cui galleggiano anche degli innocenti. Pochi programmi di riabilitazione, troppo tempo senza fare nulla, molta droga, e molte armi. Se si vuole capire il Rodeo, spiega Padre Leonardo: “Bisogna dimenticarsi dei film statunitensi con due uomini che parlano buttati su delle brande”. Nel Rodeo non ci sono celle: sono state buttate giù le pareti interne e ci sono spazi unici che ospitano un gran numero di persone, da 200 a 500. Questi sono chiusi con una porta che è la difesa del “padiglione”, controllata dagli stessi prigionieri organizzati in gruppi armati. In questi “saloni” i detenuti trascorrono le notti, gettati sul pavimento, su un pezzo di cartone o se hanno fortuna su una stuoia. Solo i “pranes” (così sono chiamati i capi delle bande) e chi ha molti soldi (tanti) possono permettersi uno spazio più tranquillo, condiviso con solo una dozzina di persone. Grave il sovraffollamento delle carceri. Nel 2007 vi erano circa 20 000 prigionieri in Venezuela - il sacerdote italiano racconta - mentre quest’anno il numero ha raggiunto i 48 000. Rispetto alle sole due nuove prigioni (il Coro e Yare III) che possono ospitare solo 800 persone ciascuna. Il soprannumero e il sovraffollamento di detenuti è particolarmente pericoloso soprattutto perché non c’è separazione in base al crimine e questo fa si che un adolescente al “primo furto” si ritrovino in mezzo a pericolosi criminali e assassini. Inoltre, l’80% dei prigionieri non hanno ancora avuto un processo - questo vuol dire che davanti alla legge sono ancora innocenti - e il 20% non ha ancora presenziato la prima udienza. Padre Leonardo ha detto che in 15 anni di attività con l’associazione Icaro, ci sono stati casi d’italiani detenuti per anni e poi rilasciato perché sono stati giudicati innocenti. In Venezuela ogni anno ci sono quasi 400 morti tra i prigionieri. Padre Leonardo ci fa capire la responsabilità delle guardie, vista la presenza di veri arsenali da guerra (nel Rodeo sono state trovate bombe a mano) dentro le mura del carcere.