Giustizia: le carceri italiane dimenticate dalla legge di Adriano Prosperi La Repubblica, 24 giugno 2011 “Quello della giustizia e della sua appendice carceraria è il tema principe della crisi del Paese”: così, parola più parola meno, sembra che abbia detto il ministro Angelino Alfano a Marco Pannella ricoverato per le conseguenze di un durissimo sciopero della fame e della sete sui problemi del carcere. Dispiace non poter essere d’accordo col ministro. Le sue parole sono un bell’esempio dell’arte del politico di mestiere di cambiare le carte in tavola. Il “tema principe” del Paese, cioè il problema dei processi di Berlusconi, non ha niente a che spartire con la questione carceraria. No, il carcere non è un’appendice del problema della giustizia, è “il” problema. Lo è in assoluto: noi non abbiamo per fortuna la pe-na di morte, ma abbiamo carcerazioni di una lunghezza tale da esserne l’equivalente. Eppure si dice che la gente chiede pene sempre più dure: sarà vero? Di fatto c’è solo che nel Paese non c’è un’emergenza criminalità. Tutte le statistiche dicono che in Italia il numero dei reati è fermo da anni. Eppure cresce di continuo l’affollamento delle prigioni. I numeri sono impressionanti: la capienza delle carceri è di circa 45.000 posti, i numeri reali sfiorano i 70.000. Capienza: è il termine in uso per le discariche. Il carcere è la discarica della società, la sua pattumiera, il luogo dove i rifiuti umani vengono chiusi, dimenticati, distrutti moralmente o fisicamente. Quei settantamila per oltre il 60% appartengono alle “fasce deboli” della società: immigrati, tossicodipendenti, gente senza dimora, sofferenti psichici. Chi sono i veri responsabili della situazione? Il resoconto del “Gruppo Abele” di fine 2010 li indica senza incertezze: sono le leggi. Questo nostro Paese non ha ancora una legge che punisca la tortura: e da ciò l’imbarazzo su come punire le alte e basse cariche responsabili del massacro del G8 di Genova. Ma ha fior di leggi per mettere la gente in galera: per esempio la Bossi-Fini sull’immigrazione, la Fini-Giovanardi sulle droghe e la ex-Cirielli sulle recidive. E non parliamo dei Cie, dove Maroni vuol tenere i profughi e i clandestini per diciotto mesi. In galera si vive e soprattutto si muore: centosettanta i morti del 2010 di cui sessantacinque per suicidio. E il 2011 si avvia a battere il record. Ci sono quelli che vengono, per così dire, lasciati morire: la cronaca della mia città ha registrato il caso di Mario Santini, sessanta anni, un uomo definito “a bassa pericolosità”, morto in cella nel pomeriggio del 18 maggio scorso. Era malato, aveva bisogno di cure, è stato trovato morto. E ci sono quelli che in carcere entrano vivi e ne escono morti perché qualcuno li ammazza - qualcuno che dovrebbe essere responsabile della loro esistenza e dei loro diritti: si veda alla voce “Stefano Cucchi”, si leggano le altre storie come la sua che ci interpellano dai capitoli del libro di Luigi Manconi e Valentina Calderone, Quando hanno aperto la cella. Sono tutte storie dello stesso genere: appartengono a una umanità minore, residuale e per questo ritenuta non degna di essere difesa. Al contrario è la società che bisogna difendere da loro: o almeno così pensa chi relega queste notizie nella categoria degli incidenti inevitabili. Bisogna che qualcuno muoia perché sulle condizioni delle carceri si accenda per un momento la luce della cronaca. Così come bisogna che le strade di Napoli trabocchino di immondizia perché qualcuno si preoccupi. Ebbene, è evidente che così non si può continuare: come per le discariche dei rifiuti anche per gli esseri umani rifiutati e lasciati marcire in galera c’è chiaramente qualcosa di sbagliato nelle leggi. Occorre promuovere una presa di coscienza nella classe dirigente del Paese che imponga una revisione legislativa delle norme criminogene accumulatesi negli anni. Non bastano le pur meritorie iniziative di gruppi isolati e l’impegno di associazioni come quella che ha promosso il pellegrinaggio a piedi di un gruppo di carcerati raccontato in un bell’articolo di Avvenire di qualche giorno fa. Il problema del carcere è iscritto nella contraddizione tra la funzione di strumento “reintegrativo” dell’individuo nella società che la nostra Costituzione gli ha affidato e la realtà che ne ha fatto una macchina criminogena. Il carcere deve essere concepito come un luogo di passaggio e non come uno stato senza alternative. Una pena certa e un diritto penale minimo, secondo la proposta di Luigi Ferrajoli, debbono sostituire il calvario imposto da norme dettate dalla paura del “nemico della società”. Così l’Italia non farebbe che tornare alle sue tradizioni storiche remote, quando intorno alle carceri si mobilitavano le migliori energie di una popolazione ben consapevole del fatto che lì si trovavano i più poveri e i meno tutelati della società. Quando, alla metà del Seicento, il vescovo modenese Gian Battista Scanaroli pubblicò il suo monumentale trattato su come doveva funzionare l’istituzione dei visitatori delle prigioni lo definì un libro nato “tra le catene dei carcerati”, “in mezzo alle tenebre dei poveri”. Nell’Italia dei consumi affluenti su quelle tenebre diventate impenetrabili deve accendersi finalmente la luce della ragione. Giustizia: Pannella sospende lo sciopero della sete… un futuro di Senatore a vita? Ansa, 24 giugno 2011 Marco Pannella ha sospeso lo sciopero della sete iniziato domenica scorsa, in aggiunta a quello della fame che dura ormai da 65 giorni, in segno di lotta e protesta contro il sovraffollamento delle carceri italiane e per un atto di amnistia che “riporti l’Italia nella legalità umanitaria e del diritto”. Lo ha annunciato lo stesso Pannella, in un intervento nella notte a Radio Radicale. “Ho deciso di sospendere, e sottolineo sospendere - ha affermato fra l’altro l’ottantunenne leader dei Radicali - lo sciopero della sete per rispondere e corrispondere all’atto istituzionale assai importante compiuto ieri dal Presidente della Repubblica che ha voluto riconoscere ufficialmente senso e valore della mia e della nostra lotta. Ora va rafforzato lo spiraglio di speranza che questa presidenza della Repubblica ci offre: amnistia, amnistia, amnistia”. Pannella sarebbe intenzionato a lasciare oggi la clinica romana di santa Maria della Mercede dove i suoi medici lo hanno obbligato al ricovero, una volta iniziato lo sciopero della sete. L’anziano leader Radicale vorrebbe infatti partire in giornata per Tunisi con una delegazione del suo partito per incontrare i membri del Consiglio nazionale transitorio tunisino e organizzare il congresso dei Radicali transnazionali che è stato deciso svolgersi quest’anno, appunto, in Tunisia. Napolitano, con una lunga lettera in due cartelle, ieri aveva chiesto pubblicamente a Pannella di sospendere lo sciopero della sete e della fame, condividendo e facendo propria la richiesta di un “intervento urgente e non più rinviabile” per porre fine alla “drammatica e inaccettabile” situazione del sovraffollamento delle carceri italiani. A Pannella e a sostegno della sua iniziativa, si sono rivolti dalla Camera tutti i gruppi parlamentari di opposizione chiedendo al Governo l’immediata attuazione delle mozioni sulle carceri approvate dal Parlamentio ma rimaste finora lettera morta. Il Presidente del Senato Renato Schifani ha telefonato a Pannella assicurando un ampio dibattito prossimamente in aula a palazzo Madama sulle carceri e sulla stessa possibilità di amnistia. Il Sottosegretario alla Presidenza Gianni Letta ha fatto visita ieri a Pannella, portandogli gli auguri del Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi a Bruxelles. E, prima di Letta, a far visita era stato il ministro della Giustizia Angelino Alfano, segretario in pectore del Pdl. Come lui, in clinica, sono arrivati nei giorni scorsi anche - fra gli altri - la Presidente del Pd Rosy Bindi, il segretario della Cisl Raffaele Bonanni, il Presidente dei Verdi Angelo Bonelli. La solidarietà e la mobilitazione istituzionale e bipartisan per Pannella e la sua nuova lotta, insieme alle parole della lettera di Napolitano che ha voluto sottolineare gratitudine e riconoscimento di tutto il Paese per la sua storia di passione e impegno civile, hanno fatto prendere ancora maggiore quota alla possibilità, da tempo paventata, di una possibile imminente nomina di Pannella a senatore a vita da parte del Capo dello Stato. Giustizia: trenta chili in meno e un sorso d’acqua nella notte, l’ultimo sciopero di Pannella di Filippo Ceccarelli La Repubblica, 24 giugno 2011 Diavolo d’un Pannella! Ha bevuto, nella notte. Forse. O forse no. Il Guardasigilli Alfano si trattiene un’ora, il presidente della Repubblica scrive una lettera di due pagine, il sottosegretario Letta si precipita pieno di buone intenzioni, il presidente del Senato Schifani fa sapere che al più presto si terrà un dibattito al Senato, intanto arriva anche la Rosy Bindi, che è tutto dire, intervengono D’Alema e Franceschini, l’Italia dei Valori e il neo-sindaco Pisapia, rispunta l’idea di un Pannella senatore a vita, ma insomma: è davvero il caso di fare un salto alla clinica Nostra Signora della Mercede, magari per raccogliere il testamento spirituale del più indomito leader della storia politica repubblicana che va spegnendosi al 65° giorno di sciopero della fame, e da domenica anche della sete. Qui, nella clinica preferita dai monsignori della Santa Sede, s’incontrano silenziose suorine e il sindacalista Bonanni in uscita. C’è anche il verde Bonelli che si preoccupa per l’aria condizionata e si congeda abbracciandolo quasi commosso. In effetti Pannella fa impressione: in t-shirt bianca, pantaloni da tuta neri, piedi nudi, coda di cavallo color della paglia. La sua scarna magrezza fa risaltare gli occhi di un azzurro intenso, quasi infantile. La stanza è in penombra, arredamento spoglio d’ecclesiale essenzialità, due poltrone, una sedia d’acciaio, libri, fogli, giornali, posaceneri, sulle pareti un crocifisso che lo guarda mentre è a letto, una madonnina che sembra proteggerlo quando si mette seduto, sul televisore muto un film del tenente Colombo. Fuori bolle il pomeriggio romano. Pannella ha 30 chili in meno ed è stanco, un po’ ansimante, la bocca impastata, per questo spiega che deve continuamente fumare: senza la nicotina, se parla, gli si aprono le labbra già screpolate. Quando si mette a letto, fa impressione l’enorme gabbia toracica vuota; se la tocca, pare voglia giocarci, è un ricordo, “da bambino - sorride - avevo il petto da uccellino”. La voce va e viene. Dice: “Voglio che s’incardini un processo che arrivi con certezza e in tempi brevi a conseguire l’obiettivo di una grande riforma della giustizia attraverso l’individuazione di un unico strumento, l’amnistia”. Che per tutti, meno che per i radicali, è un tabù. L’attenzione che ha suscitato il suo digiuno gli fa piacere e forse lo lusinga anche, ma non lo accontenta. La solita corda tesa. Pannella distingue tra consenso privato, affettivo, che quasi mai gli è venuto meno, e consenso pubblico. In questa “schizofrenia che appartiene alla gente di potere”, s’incunea da sempre la sua lotta per “dare corpo alla speranza” - e un po’ anche risalta la sua formidabile e spregiudicata risorsa d’imprevedibilità. Chi ha studiato i digiuni pannelliani - dei quali non esiste una contabilità ufficiale: a occhio oltre una quarantina, il primo nel 1960, per l’Algeria - anche stavolta si trova davanti bollettini medici terrificanti: dolori muscolari, insonnia, abbassamento della vista, decalcificazione dei denti, sfaldamento delle unghie, diuresi contratta, pulsazioni cardiache dimezzate, pressione arteriosi ridotta, elettrocardiogramma miniaturizzato. Il rischio vero è che si blocchi qualcosa dentro, e allora addio. Eppure, lui assicura, “su base scientifica”, di avere oggi “maggiori capacità di resistenza” di quante ne avesse 30 anni fa. E quindi parla, parla, parla, Pannella; e uno, anche preoccupato, resta ad ascoltarlo volentieri nella stanza semi buia sulla teoria nonviolenta, Berlusconi e Raiset, Tom Ponzi e le vane intercettazioni ai suoi danni, la pasta De Cecco e il profeta Isaia, il ricordo della marcia di Natale con Cossiga malato e perfino di quando gli capita di dialogare con “sorella morte”. E alla fine lo saluta quasi commosso, come il verde Bonelli. Ma poi un’oretta dopo scopre che, zitto zitto, quatto quatto, contro l’ovvio parere dei suoi medici non solo Pannella è ritornato a casa, ma domani cioè oggi, se ne va in Tunisia per incontrare membri del governo transitorio e associazioni dei diritti civili. Missione che rientra nell’ultima sua sfida titanica e dannatissima, così difficile da comprendere nell’Italia del bunga bunga e della P4: spostare da solo l’asse dell’attenzione dell’intero sistema mediatico a favore degli ultimi, dei dimenticati, degli oppressi, cioè dei carcerati. E comunque vada, quel bicchier d’acqua notturno è una lezione a suo modo preziosa, una passione rara, la solita angelica diavoleria d’un Pannella che beva e la fa bere a tutti, ormai da quarant’anni o giù di lì. Giustizia: Osapp; affetto e gratitudine per Pannella, ma battaglie inutili senza fondi Ansa, 24 giugno 2011 “Il debito penitenziario si avvicina ai 200mln di euro e entro settembre sarà la paralisi del sistema” è quanto si legge in un documento che Leo Beneduci segretario generale dell’Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria) ha inoltrato ai Presidenti dei Gruppi Parlamentari di Camera e Senato. “L’ennesima battaglia di Marco Pannella, a cui vanno il nostro eterno affetto e la nostra sincera gratitudine per continuare ad essere l’unica voce autorevole che si erge assieme ai Radicali, da oltre 40 anni, in difesa del personale e dell’utenza penitenziaria - prosegue il leader dell’Osapp - rischia di cadere nel vuoto, se oltre al problemi del sovraffollamento e della giusta detenzione non si sanano i debiti dell’amministrazione penitenziaria che riguardano affitti, canoni e utenze, missioni e straordinari del personale, carburanti e manutenzioni di mezzi e immobili e persino il vitto dei detenuti che, sempre da settembre in poi, rischiano il digiuno forzato a meno di non essere già affiliati a quelle organizzazioni criminali che provvedono anche al sostentamento in cella.” “Sono la politica economica del Governo dei tagli orizzontali nonché la scarsa attenzione del Ministro Alfano nei confronti del carcere, negli ultimi tre anni, ad avere accelerato il degrado penitenziario che rende il sistema oltre che inefficiente del tutto estraneo alle regole di civiltà”. “Non sappiamo quale sia il peso del carcere nel sistema economico italiano - conclude Beneduci - ma sicuramente, per un sistema penitenziario, quale quello in Italia, che non risocializza né recupera i detenuti ma induce a maggiori attitudini a delinquere, a fronte di qualche milione di euro di risparmio, ammontano a svariati miliardi di euro ogni anno le perdite dello Stato per le attività criminali e per il contrasto delle stesse sul territorio”. Giustizia: Cicchitto (Pdl); amnistia impossibile… possibile riflessione su situazione carceri Ansa, 24 giugno 2011 “L’amnistia è impossibile. Mentre è invece possibile una riflessione sulla situazione delle carceri”. Lo afferma il capogruppo del Pdl alla Camera Fabrizio Cicchitto, commentando la protesta del leader radicale Marco Pannella. Giustizia: Zingaretti (Pd); sì ad appello Pannella, Governo e Parlamento aprano dibattito Dire, 24 giugno 2011 “La tenacia e il coraggio di Marco Pannella, che ancora una volta si è impegnato in prima persona per una battaglia di civiltà, meritano il sostegno di tutte le istituzioni e soprattutto di chi crede che la democrazia e la giustizia siano le colonne portanti del nostro vivere insieme. Nel nostro Paese, che ha visto nascere e crescere le libertà su cui oggi l’Occidente si fonda, nessuno può tollerare che le nostre carceri versino nell’attuale stato di abbandono e che l’intero sistema penitenziario sia al collasso, con evidenti ripercussioni e disagi fortissimi sulla vita dei detenuti e delle loro famiglie”. Lo dichiara, in una nota, il presidente della Provincia di Roma, Nicola Zingaretti. “Aderisco all’appello lanciato a sostegno dell’iniziativa non violenta di Marco Pannella, perché credo sia giunta l’ora che anche su questo tema il Governo e il Parlamento - conclude Zingaretti - aprano un dibattito serio e propositivo per una mobilitazione bipartisan che renda la giustizia più efficiente e il sistema carcerario più umano per far sì che la pena abbia davvero una funzione rieducativa e riabilitativa”. Giustizia: viaggio nelle carceri sarde, fra i “dannati” del 41-bis di Lirio Abbate L’Espresso, 24 giugno 2011 Per la prima volta l’Espresso è entrato nelle prigioni sarde. Dove sono rinchiusi boss e terroristi. E arriveranno tutti i reclusi più pericolosi. Totò Riina lo aveva capito subito: è in fondo a corridoi come questo che Cosa nostra rischia la sconfitta. E non per l’aspetto da galera ottocentesca, con i muri scrostati intrisi dell’odore inconfondibile e insopportabile di umidità e clausura. E nemmeno per quel soprannome fin troppo esplicito, “la porcilaia”, ispirato dalle dimensioni delle celle, troppo anguste per apparire destinate a ospitare esseri umani per lunghissimi anni. Solo entrando nella “porcilaia” del penitenziario di Badu ‘e Carros si riesce a comprendere l’abisso psicologico del “carcere duro”: il 41 bis, un provvedimento eccezionale, ai limiti della legalità e della democrazia, ma allo stesso tempo il solo in grado di spezzare i vincoli delle organizzazioni mafiose e di quelle terroristiche. “L’Espresso” è riuscito per la prima volta a visitare e fotografare i reparti dell’alta sicurezza dei principali istituti di pena sardi - Nuoro e Macomer - dove sono reclusi alcuni dei condannati per i reati più gravi di criminalità organizzata e terrorismo islamico. L’isola è stata in qualche modo la terra natale del “carcere duro”, scattato all’improvviso in una notte del luglio 1992 con il trasferimento a sorpresa dei boss verso Nuoro e verso l’Asinara. La mossa più pesante e tormentata decisa dalle istituzioni per rispondere alla ferocia delle bombe di Palermo. Prima di allora le manette non avevano mai fatto paura ai mafiosi, che avevano una certezza consolidata da generazioni: la galera era una villeggiatura. Ricordate? Il Grand hotel Ucciardone, con aragoste e champagne per i padrini in cella. Ma quella notte, dopo le stragi di Falcone e Borsellino, si ritrovarono trasportati tutti in un mondo che non conoscevano più, dove tutte le loro certezze si erano sgretolate. Dagli istituti della Sicilia e delle metropoli furono deportati in Sardegna e sull’isola del Diavolo, l’Asinara, rinchiusi in celle buie, isolati l’uno dall’altro, inibiti a comunicare con l’esterno, resi ciechi da piccole finestre che lasciavano entrare pochissima luce. Questo era il 41 bis di 19 anni fa. La condanna delle condanne per i mafiosi. Un problema per i clan, visto che proprio da questo regime sono poi derivati pentimenti e collaborazioni (vedi box a pag. 71 ). Poi, nel tempo, le maghe s’erano un po’ allargate, finché adesso un articolo del testo di legge approvato due anni fa riporta i mafiosi nell’incubo: “I detenuti sottoposti al regime speciale di detenzione devono essere ristretti all’interno di istituti a loro esclusivamente dedicati, collocati preferibilmente in aree insulari”. I mafiosi quindi torneranno - come impone la nuova legge - sull’isola. Ed escludendo la Sicilia per ragioni di sicurezza e incompatibilità ambientale, sarà ancora la Sardegna ad ospitare un alto numero di boss. Il piano potrebbe diventare esecutivo a breve: i reclusi al 41 bis che si trovano sparsi per l’Italia saranno trasferiti lì. La Cayenna dell’Asinara rimarrà chiusa, ma il programma edilizio varato dal direttore dell’amministrazione penitenziaria, Franco Ionta, ha già dato il via alla creazione di due padiglioni di massima sicurezza a Cagliari e Sassari, i cui lavori saranno completati il prossimo anno. La Sardegna, con la difficoltà di visite per i familiari e le vie di fuga limitate dal mare, è sempre stata la destinazione dei criminali di rango: mafiosi, camorristi, terroristi neri e rossi del passato e, oggi, ai terroristi islamici. Mentre Cagliari e Sassari si preparano ad accogliere i pezzi da novanta, a Nuoro ci sono già. In un raggio di circa cinquanta chilometri, nel cuore di questa provincia senza treni né aeroporti, ci sono tre istituti di pena (Badu ‘e Carros, Macomer e Mamone), differenti l’uno dall’altro per caratteristiche e tipologia di detenuti. Là dentro ci si trovano tutte le categorie di pericoli pubblici, inclusi i miliziani di Al Qaeda provenienti da Guantanamo. Il viaggio de “l’Espresso” comincia da Badu ‘e Carros. La puzza di vecchiume e di muffa si infila nelle narici prima ancora che lo sguardo sveli le pareti scrostate del corridoio su cui si aprono le celle dei boss. In questo vecchio istituto ci sono mafiosi e criminali tra i più pericolosi del nostro Paese. Molti stanno scontando qui il loro “fine pena mai”. A Badu ‘e Carros sono sfilati in passato i peggiori galeotti. Ed è sempre qui che negli ultimi trent’anni si sono verificati episodi fra i più gravi. Adesso la lista degli ospiti elenca 32 appartenenti alla camorra, 27 a Cosa nostra, le alla ‘ndrangheta e 6 alla Sacra corona unita. La sezione che li ospita è la prima, ed è divisa su tre piani. Per raggiungerla occorre superare tre varchi controllati da uomini della polizia penitenziaria e da telecamere che monitorano ogni angolo. Le grandi porte d’acciaio dei corridoi si aprono elettronicamente, manovrate a distanza dalla sala controllo. Il rumore secco provocato dallo scatto della serratura si propaga velocemente in questo braccio che è avvolto dal silenzio e protetto dall’acciaio. Sembra di rivedere le immagini interne di Sing Sing o Alcatraz. Dalle celle, poi, non arriva nessun rumore. È come se fossero vuote. Invece ci vivono 98 detenuti. E quelli che stanno al pian terreno ogni tanto devono fare i conti con le acque putride delle fogne che esplodono, perché vecchie di cinquanta anni. Nell’alta sicurezza vive il palermitano Stefano Ganci, uno degli assassini di Giovanni Falcone, ci sono detenuti calabresi e napoletani. E c’è anche l’ex autista del padrino veneto Felice Maniero. È l’unico che si vede, perché è giorno di visita: per incontrare i familiari si è vestito a festa con un abito color argento, camicia bianca aperta e capelli lunghi legati a coda di cavallo. Ma l’inferno deve ancora arrivare. Bisogna attraversare un altro padiglione, con uno sgarrupato corridoio, con altre porte d’acciaio e telecamere, per arrivare alla “porcilaia”. Non è l’allevamento di maiali del carcere, ma il nome con cui è chiamata la zona riservata ai “41 bis”. Qui le celle sono piccolissime, e per il momento c’è un solo ospite: Antonio Iovine. Stretto in dieci metri quadrati, il boss dei casalesi arrestato lo scorso novembre dopo una lunga latitanza, si sente come un leone in gabbia. Dai monitor delle telecamere a circuito chiuso che lo inquadrano 24 ore su 24 si vede che va avanti e indietro. Consuma una sigaretta dopo l’altra. Le uniche pause che si concede, seduto sulla piccola branda, le dedica a scrivere lettere alla moglie - anche lei detenuta - e ai figli, con i quali ha intensificato, rispetto al periodo della sua latitanza, il rapporto epistolare. Scrive tre o quattro lettere al giorno. In un angolo della cella sono accatastate le carte giudiziarie dei processi in cui è imputato. Lui legge e rilegge gli atti che la procura di Napoli gli ha notificato, prende appunti, cerca una strategia difensiva. L’unico svago è quando sfoglia la “Gazzetta dello Sport”, il solo quotidiano che riceve ogni giorno. L’arrivo di Iovine a Nuoro ha provocato la reazione della politica e di una parte della società civile sarda, che non voleva il casalese nel carcere cittadino. Anche se tra quelle mura, dove sono molte le situazioni critiche e dove i lavori di manutenzione sono in corso, sono rinchiusi altri criminali della stessa caratura. La struttura, nonostante i problemi di sovraffollamento nella terza sezione, quella dei detenuti comuni, la carenza di organico e i tagli ai fondi (alla criminologa che assiste i detenuti e serve da supporto ai giudici dei tribunali di sorveglianza, il ministero ha ridotto le ore da 64 a 8 al mese), è guidata con grande professionalità dalla direttrice, Patrizia Incollu, sarda di 45 anni, che da 17 vive in carcere. I terroristi islamici detenuti in Italia sono rinchiusi invece a Macomer, in provincia di Nuoro, capitale della produzione di birra. Dall’esterno non appare come un carcere, sembra piuttosto una caserma con un giardino curatissimo, aiuole sagomate e pareti imbiancate di fresco. Da qui sono passati un paio di prigionieri provenienti da Guantanamo, e pure un altro accusato dell’attentato di Madrid. Gran parte di loro è sotto processo a Milano. Si trovano nel reparto di alta sicurezza, dove la sala tv è stata trasformata dal direttore del carcere in un luogo di preghiera. Il carrello con la cena inizia a passare alle 17. E durante il Ramadam ai detenuti di religione islamica viene consegnato il cibo crudo, che consumano dopo il tramonto. Ed è in questa occasione che il direttore concede il permesso di riunirsi per la preghiera. A differenza degli altri detenuti, quelli accusati di terrorismo sono difesi da importanti avvocati, che spesso arrivano fin qui a bordo di auto di grossa cilindrata, a volte guidate da un autista. Sono avvocati che costano ma i 34 islamici (otto accusati di essere terroristi) sembrano poterseli permettere. Ad Al Qaeda sarebbero legati quattro tunisini, un egiziano, un afghano, un marocchino e un iracheno. Eppure tutti si dichiarano innocenti: “Vittime di errori giudiziari”. Non è permesso avvicinarli né parlargli. Due anni fa i reclusi dell’alta sicurezza di Macomer avevano iniziato lo sciopero della fame contro il trasferimento in questo istituto, sinonimo di punizione perché è qui che vengono mandati i detenuti violenti colpiti da provvedimenti disciplinari. Ed è qui che ha trovato posto, fra i carcerati ordinari, anche il nipote di Graziano Mesina, il bandito sardo di Orgosolo. Il giovane, arrestato per piccoli reati, poco prima del nostro arrivo ha aggredito un altro detenuto, ed è stato rinchiuso in isolamento su ordine del direttore: “E un bravo ragazzo”, spiegano alcuni compagni di cella, “ma è stato preso dalla Balentia”, un concetto di valore dei banditi della Barbagia, un’azione di cui vantarsi per farsi apprezzare ad Orgosolo una volta uscito dal carcere: “Perché lui è il nipote di Mesina e deve far valere il suo nome, anche quando non ce n’è bisogno”. Se ci si sposta a 50 chilometri a nord di Nuoro, immersa nel verde, e fra le montagne di Onanì, si scopre una realtà carceraria completamente diversa dalle altre. È la casa di reclusione di Mamone che si estende su 2700 ettari, una struttura aperta, dove i detenuti si dedicano ad attività agricole e di allevamento. In questa colonia ci sono solo persone che devono scontare una pena inferiore a quattro anni. Su 250 solo uno su cinque è italiano. I detenuti che lavorano vengono retribuiti dal ministero. Rispetto ad alcuni anni fa, oggi con la riduzione dei fondi per le retribuzioni delle mansioni ha portato a un ridimensionamento delle ore di lavoro, per permettere a tutti di lavorare almeno tre ore al giorno e guadagnare circa 400 euro al mese: “Fino a poco tempo fa ci sono stati extracomunitari che si facevano arrestare e condannare appositamente per venire in questo carcere a lavorare. Poi con i soldi guadagnati acquistavano casa nel loro Paese”. In questo posto isolato dal mondo c’è tutto quello di cui un’azienda agricola si può occupare: dall’allevamento di cavalli, ai maiali selvatici, ai bovini e ovini. Tutto basato su prodotti biologici, coltivati qui. Ci sono vasti campi di ortaggi e frutta, un caseificio e una piccola macelleria. Ma nulla di tutto questo è in vendita al pubblico. Come pure i cavalli, i maiali, le pecore e le mucche che qui nascono e muoiono. Il ministero della Giustizia non vuole commercializzarli. Eppure con quello che potrebbe essere ricavato della vendite si potrebbe sostenere la manutenzione della colonia, che invece ha molti problemi strutturali e pochi fondi. Durante il giorno i detenuti, lasciati liberi, sono impegnati nei lavori agricoli, al pascolo o nell’allevamento, nelle mansioni domestiche e nella manutenzione. Fino a un decennio fa c’era anche un piccolo villaggio, ormai abbandonato, in cui vivevano le famiglie delle guardie. Un agente di polizia penitenziaria, che oggi è in servizio a Mamone qui c’è nato, ed ha scelto di continuare a lavorarci, come già aveva fatto suo padre. E sempre qui, ha confidato ai colleghi, quando morirà, vorrà essere sepolto. Perché Mamone è l’unico carcere che ha un camposanto. Su una collinetta quasi un secolo fa è stata costruita una piccola cappella, attorno alla quale è sorto il cimitero. Si contano circa cento croci di ferro arrugginite piantate nel terreno, allineate in file da otto, sulle quali però non è scritto alcun nome. C’è pure qualche lapide di marmo, rovinata dal tempo. Su tutte sovrasta quella in cui è sepolto dal 1942 il medico del carcere. Lì a fianco c’è una più piccola: vi è sepolta una neonata, morta durante il parto alla vigilia di Natale di 50 anni fa. Storie di buoni e di cattivi. Che il carcere sardo incrocia. Lettere: una richiesta dall’Opg di Reggio Emilia… poter conoscere il Regolamento interno di Valentina Ascione Gli Altri, 24 giugno 2011 Era davvero ben scritta la lettera nella quale poche settimane fa un internato dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia - uno dei tanti condannati ai cosiddetti ergastoli bianchi - descriveva la propria quotidianità all’interno dell’istituto. Una quotidianità scandita da privazioni grandi e piccole. Alcune inspiegabili, altre irritanti, passate in rassegna con la cura e la precisione di chi ha fatto di necessità virtù, familiarizzando in cattività con la penna e perfino con una terminologia e uno stile burocratico propri di un legale. Privazioni non solo delle attività trattamentali, formative e rieducative, previste dalla Costituzione italiana, ma anche di quei diversivi minimi, e tutto sommato innocui, che renderebbero meno aride e lunghe le giornate di chi, come lui, vive ostaggio della propria “pericolosità sociale”. Etichetta, questa, che ci vuol poco a guadagnarsi, ma che spesso non basta una vita a scrollarsi di dosso. Eppure l’autore della lettera non chiedeva, come fanno tante volte i detenuti, che qualcuno di “influente” si facesse carico della sua situazione giudiziaria, magari per ottenere un trasferimento o qualche beneficio. La richiesta oggetto della lettera, tanto insolita quanto candida, era quella di poter finalmente ricevere un regolamento interno di un normale carcere o, se fosse possibile, di un ospedale psichiatrico giudiziario. O qualcosa di simile che ci possa aiutare a capire quali siano effettivamente i nostri diritti, o almeno le minime cose che ci sono concesse per legge. Una rivendicazione dalla banalità disarmante, ma solo in apparenza. L’accesso al regolamento interno è infatti uno dei primi diritti fondamentali del detenuto ad essere violato una volta varcata la soglia di una cella, soprattutto perché sono in molti, specialmente stranieri, a ignorarne perfino l’esistenza. “Conoscere per deliberare” recita il principio di einaudiana memoria. L’informazione è forse il più prezioso strumento di tutela dei propri diritti, dentro il carcere e fuori, risulta infatti difficile difendere qualcosa che non si conosce. Un’informazione corretta e completa può fare la differenza nella vita ciascuno fino alle estreme conseguenze. Ne sa qualcosa il giovane Stefano Gugliotta, il giovane che un anno fa venne pestato a sangue dalla polizia che lo aveva scambiato per un tifoso (come se fosse legittimo pestare un tifoso) solo perché si trovava casualmente nei pressi dello stadio Olimpico al termine della finale di Coppa Italia tra Roma e Inter. Volevano fargli firmare il rifiuto delle cure ma il ragazzo - come ha raccontato recentemente Valentina Calderone, autrice con Luigi Manconi del libro “Quando hanno aperto la cella” - ha avuto la prontezza di opporsi perché si è improvvisamente ricordato di quanto accaduto a Stefano Cucchi. E ne sanno qualcosa anche i familiari di quest’ultimo, a quali solo dopo tre giorni di inutile attesa fu spiegato che per vedere il figlio o parlare con i medici avrebbero dovuto chiedere il permesso del giudice. Un permesso che, come noto, arriverà troppo tardi. Se dunque la legge non ammette ignoranza è anche vero che si fa ben poco per promuovere conoscenza. Soprattutto laddove la conoscenza fa rima con i diritti. E neanche questo dovrebbe essere ammesso in un vero Stato di diritto. Lettere: ci importa un po’ di Napolitano, pochissimo di Pannella, meno che niente dei detenuti di Adriano Sofri Il Foglio, 24 giugno 2011 Poscritto: bene i giornali che escono oggi dando spazio alla lettera di Napolitano sul lungo sciopero della fame e della sete di Pannella, senza aver mai scritto prima che Pannella faceva un lungo sciopero della fame e della sete. Morale eventuale: ci importa un po’ di Napolitano, pochissimo di Pannella, meno che niente dei detenuti. Toscana: sempre più critiche le condizioni di detenzione nelle carceri di Matteo Pazzaglia Il Toscana, 24 giugno 2011 Le condizioni di detenzione nelle carceri italiane sono spesso al limite della tolleranza umana: le strutture sono vecchie, spesso inadeguate, i detenuti sono troppi, il cibo è di bassa qualità ed il personale interno è insufficiente. Questo, in breve, è quanto emerge dal rapporto stilato dall’associazione Antigone sullo stato delle “patrie galere”; dove troppo spesso scontare una pena equivale ad una ulteriore condanna. E le carceri toscane non fanno eccezione. Vi sono molte situazioni difficili in quasi tutte le strutture detentive della regione, con gravi problematiche che si rifanno a quelle nazionali, senza troppe eccezioni. Nel carcere di Arezzo, con una capienza regolamentare di 65 posti, risiedono, in media, circa 100 detenuti al giorno, con un’età media compresa tra i 25 ed i 28 anni. Dopo il carcere fiorentino di Sollicciano, la casa circondariale aretina vanta il maggior indice di ingresso di detenuti stranieri o provenienti dal Sud del Paese. La sua struttura necessita di sostanziali riparazioni, risultando, in ogni caso, inadeguata (così come la maggior parte delle strutture italiane) per la mancanza di spazi, in special modo di quelli comuni. Nel 2005, nel carcere di Arezzo, si sono verificati 14 casi di autolesionismo e 4 tentati suicidi. Ed è proprio Sollicciano a rappresentare il nodo più critico del sistema degli istituti di pena in Toscana; dove sono spesso necessari interventi per eliminare le abbondanti infiltrazioni e sono evidenti i segni dell’usura e del deterioramento della struttura. Durante l’inverno si verificano perdite di acqua dal soffitto, che causano allagamenti lungo i corridoi e muffa alle pareti. Ma i problemi gravi sono ben altri. In primis il sovraffollamento. A Sollicciano, infatti, la capienza regolare è di 447 detenuti, sebbene nel corso del 2009 la presenza media nella struttura sia stata di 957 carcerati e prima del provvedimento d’indulto, addirittura di 1.200. Ogni detenuto passa, di media, 20 ore al giorno in cella; ciò ha contribuito nel tempo ad incentivare numerosi eventi critici. Nel 2008 si sono verificati ben 333 casi di autolesionismo, 26 tentati suicidi dei quali uno portato a termine, 86 atti di autoaggressione e 134 scioperi della fame. La situazione non è certo migliorata durante l’anno successivo, quando si sono verificati 5 suicidi. Nella più grande struttura carceraria fiorentina, la sanità rappresenta uno dei nodi maggiormente discussi; molti detenuti lamentano l’evidente inadeguatezza dell’assistenza medica, che avviene con un massiccio uso di psicofarmaci ed una cronica difficoltà di accesso alle documentazioni sanitarie personali. Non va meglio all’Ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo Fiorentino, locato in un’antica villa medicea e più volte al centro della cronaca per problemi legati alle condizioni di detenzione. I numeri sono impressionanti anche al “Madonnone”: 27 atti di lesionismo nel 2003, 46 nel 2004 e 18 nel 2005. Ma non solo. Nel 2003 si sono verificati 5 tentativi di suicidio (di cui uno riuscito), 5 nel 2004 e 3 nel 2005. In precedenza si erano registrati 2 suicidi, nel 2000 e nel 2002. I ferimenti sono stati 18 nel 2003, 50 nel 2004 e 32 nel corso dell’anno 2005. Infine il datato carcere La Dogaia di Prato, una delle strutture più difficili della Toscana, dove nel 2006 erano detenute 567 persone (contro una capienza regolamentare di 365 posti), dei quali 152 tossicodipendenti, 6 affetti dal virus Hiv e 258 di nazionalità straniera. Anche in questo caso, i dati rilevati dal rapporto dell’associazione Antigone, dovrebbero indurre ad una profonda riflessione. Sempre nell’anno di riferimento (il 2005), alla Dogaia si sono presentati numerosi eventi critici, tra i quali 19 atti di lesionismo, 10 ferimenti, 32 atti di autolesionismo, 15 tentati suicidi, 20 scioperi della fame ed una tentata evasione. Marche: Favia (Pd); le carceri esplodono e il personale è troppo poco Dire, 24 giugno 2011 Le carceri marchigiane esplodono e il personale è troppo poco. Per segnalare questa urgenza e imporre al governo regionale e nazionale immediati investimenti infrastrutturali e di personale, sono intervenuto ieri alla Camera dei Deputati. È ormai noto che le due principali case di reclusione, quella di Montacuto e quella di Pesaro, delle quali ho avuto l’occasione di occuparmi più volte in passato, sono senz’altro sovraffollate. Sono troppi i detenuti stipati in poco posto senza alcun riguardo alla dignità umana che noi dell’Italia dei Valori intendiamo salvaguardare con fermezza. Oltre a questo non è ammissibile che il numero di addetti di polizia penitenziaria sia al di sotto degli standard previsti: soprattutto a causa dei distaccamenti operati dal carcere principale, che è quello di Montacuto, al servizio degli altri carceri della regione e soprattutto al servizio del piccolo carcere satellitare di Barcaglione di Ancona. Credo che il Governo, tra le tante urgenze, debba cessare di sprecare danari su operazioni inutili e investire nel sociale. Ovviamente anche all’interno del sociale vi sono delle priorità, ma sicuramente quello carcerario è un settore importante, in quanto non dobbiamo dimenticare che la nostra Costituzione dice che la detenzione carceraria post-pena passata in giudicato protende alla rieducazione del detenuto e alla restituzione di una persona diversa alla società. Non dimentico, nel dire questo, i tanti detenuti in attesa di giudizio, che non sono potenzialmente, appunto ai sensi dell’articolo 27 della Costituzione, ancora da rieducare, ma che pure vivono la sofferenza di infrastrutture e di personale insufficiente. Oltre a pensare ai tanti detenuti che vivono in queste misere condizioni sento di dovermi associare alle lamentazioni che i sindacati degli agenti di custodia fanno quasi quotidianamente sulla vita rischiosa che queste persone si trovano ad affrontare quotidianamente, esponendosi al pericolo di risse con detenuti violenti e al contagio di malattie infettive come sieropositività o di epatite C di cui il tasso in carcere è notoriamente alto. Ebbene, associandomi a quello che è stato detto da molti colleghi nel riconoscere la bontà della battaglia dell’onorevole Pannella, che è però una battaglia quotidiana di moltissimi di noi e anche di tantissimi consiglieri regionali (nella mia regione c’è addirittura un ombudsman per i diritti dei detenuti), credo fermamente che il Governo dovrebbe intervenire, anche in questa che è una delle tante piaghe che questo Esecutivo continua a tenere aperte, investendo in infrastrutture e in personale. Opera (Mi): detenuto di 24 anni morto. Il direttore: “È caduto a terra e ha perso i sensi” Il Giorno, 24 giugno 2011 L’uomo, un marocchino di 24 anni, è deceduto in ospedale dopo il malore. Una lettera anonima alla direzione di Opera fa il nome di un presunto aggressore. Milano, 24 giugno 2011 - Un detenuto marocchino di 24 anni è morto misteriosamente un carcere. “Il fatto che registriamo è che il detenuto stava lavorando ed è caduto a terra perdendo i sensi davanti a tutti”. Oggi il direttore del carcere di Opera, Giacinto Siciliano, ha commentato così la morte avvenuta ieri in ospedale dopo il malore del 15 giugno. L’avvocato del marocchino ha però avanzato l’ipotesi che si possa trattare di una morte seguita a un’aggressione, come confermato anche dagli accertamenti di un medico di fiducia. Alla direzione è arrivata anche una lettera anonima in cui sarebbe indicato il nome dell’aggressore. “Abbiamo comunicato tutto all’autorità giudiziaria, sono in corso le indagini”, si è limitato a dire Siciliano, che preferisce non pronunciarsi in merito alla lettera. Bologna: manca l’acqua alla Dozza, i detenuti hanno battuto a lungo contro le inferriate Dire, 24 giugno 2011 Niente acqua per i detenuti e in due carceri dell’Emilia-Romagna scoppia la protesta. Lo riferisce in una nota Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sindacato autonomo di Polizia penitenziaria (Sappe): “Iniziano le prime proteste da parte dei detenuti nelle carceri italiane - scrive Durante - ieri hanno iniziato quelli di Bologna e Reggio Emilia”. Nel carcere bolognese della Dozza “i detenuti hanno battuto a lungo contro le inferriate e le porte - spiega il segretario del Sappe - provocando un rumore assordante che si sentiva anche dall’esterno del carcere”. In seguito, la protesta è cominciata a Reggio Emilia dove i detenuti “dalle 20 alle 00.30, in tre reparti detentivi, hanno battuto contro le inferriate ed incendiato qualche coperta - continua la nota - provocando tanto fumo all’interno delle sezioni, dove la polizia penitenziaria è riuscita a mantenere il controllo”. Motivo della protesta, “da quanto è emerso finora - spiega Durante - sarebbe stata la mancanza di acqua”. I detenuti, inoltre, intendono solidarizzare “con la protesta dei radicali ed in particolare di Marco Pannella”, scrive Durante. “È evidente che questo clima teso desta non poche preoccupazioni tra la Polizia penitenziaria che potrebbe trovarsi a dover fronteggiare situazioni molto difficili - sottolinea il segretario del Sappe - in un momento di gravi difficoltà dovute alla carenza di uomini, mezzi e risorse”. In Italia mancano 6.500 agenti, ricorda Durante, mentre negli ultimi giorni “oltre alle risorse per pagare straordinari e missioni alla Polizia penitenziaria, per riparare i mezzi di trasporto e per mettere la benzina- si legge nella nota- stanno anche finendo i soldi per l’acquisto dei generi di prima necessità per i detenuti”, come carta igienica e sapone. Venezia: ieri un sit-in dei Radicali davanti al carcere, per solidarietà a Pannella Comunicato stampa, 24 giugno 2011 Sit-in dei Radicali che con Marco Pannella e più di 15 mila cittadini sono in digiuno nonviolento per chiedere l’amnistia, contro una giustizia lenta, di classe, che tiene in ostaggio un terzo, ormai, della popolazione italiana. Venezia 23 giugno 2011. Volantinaggio, dialogo e adesione dei familiari dei detenuti questa mattina davanti al carcere di Venezia. Anche gli avvocati che si sono recati al carcere hanno manifestato grande interesse all’iniziativa e tre di loro si sono uniti alla lotta nonviolenta di Marco Pannella, in digiuno della fame dal 20 aprile e della sete dal 19 giugno. Una battaglia che coinvolge quasi tutti gli istituti di pena del Paese insieme ai loro familiari, e poi agenti di polizia penitenziaria, psicologi, avvocati dell’Unione Camere Penali, volontari, personale amministrativo e garanti dei diritti dei detenuti. Sono più di 67 mila i detenuti attualmente presenti nelle carceri italiane rispetto a una capienza massima di 43 mila; negli ultimi dieci anni ne sono morti 1.800, di cui 650 per suicidio, e nello stesso periodo si sono tolti la vita anche 87 agenti di polizia penitenziaria. Il problema del sovraffollamento, che coinvolge anche il carcere di Venezia, a cui si aggiunge la carenza di personale, determina una condizione di gravissima sofferenza. Il sovraffollamento resta perché non ne sono state corrette le cause ponendo mano a quella normativa che lo genera, mentre i provvedimenti del governo continuano ad affollare gli istituti di immigrati e di accusati che restano in cella soltanto pochi giorni. Molto realisticamente anche se i cantieri partiranno davvero e rispetteranno i tempi, da soli serviranno a ben poco. Basta un viaggio dentro l’inferno quotidiano delle galere stracolme per capire che il problema non è di strutture, quasi metà di quei detenuti, infatti, è ancora in attesa del processo. Sono oltre 30 mila gli imputati che restano dentro solo poche ore e la statistica dimostra che il 30 per cento di loro sarà assolto. Lo scandalo delle nostre carceri, fa dello Stato italiano un delinquente professionale rispetto alla nostra Costituzione, al diritto europeo, internazionale, a tutte le dichiarazioni, convenzioni, trattati a tutela dei diritti fondamentali dell’Uomo. Maria Grazia Lucchiari Comitato Nazionale Radicali Italiani Spoleto (Pg): presidente Consiglio comunale; nel carcere di Maiano la situazione è grave Agi, 24 giugno 2011 “La situazione che si è venuta a creare negli ultimi mesi all’interno del carcere di massima sicurezza di Maiano, desta una forte preoccupazione per il clima che può ingenerare anche fuori dal carcere stesso”. A parlare è il presidente del Consiglio comunale di Spoleto, Patrizia Cristofori che, proprio sulla questione del carcere spoletino e sullo stato di agitazione indetto nelle ultime ore dalle rappresentanze sindacali per denunciare il sovraffollamento dei detenuti e la mancanza di un numero adeguato di agenti, ha convocato per martedì prossimo, alle ore 15,30, la conferenza dei capigruppo, a cui parteciperanno il sindaco Daniele Benedetti e le organizzazioni sindacali. “Il Comune di Spoleto - ha aggiunto la Cristofori - in più occasioni si è fatto interprete della necessità di agevolare l’integrazione tra l’istituzione carceraria e il territorio, promuovendo tutta una serie di iniziative con l’obiettivo di creare canali di comunicazione e occasioni di incontro con la città. Pertanto, per avviare un confronto sulla situazione reale in cui si trova a vivere tanto gli agenti della polizia penitenziaria, quanto la popolazione carceraria e avviare le iniziative che si riterranno opportune, abbiano deciso di convocare un incontro per affrontare in maniera compiuta tutte le questioni attualmente sul tavolo”. Caserta: Uil-Pa; due internati tentano l’evasione dall’Opg di Aversa Adnkronos, 24 giugno 2011 “Due internati reclusi nel carcere penitenziario di Aversa hanno tentato l’evasione nella serata di ieri”. Lo riferisce in una nota Eugenio Sarno, segretario generale della Uilpa Penitenziari, precisando che “i due internati, simulando un malore, hanno chiesto all’agente di sorveglianza la somministrazione di antidolorifici. Quando il poliziotto ha aperto la cella è stato aggredito dai due con i piedi del tavolino della cella. Il nostro tempestivo intervento e il sopraggiungere dei rinforzi hanno, però, consentito di rintracciare i due internati accovacciati fra le sterpaglie nell’area dell’Opg”. La sventata evasione dei due detenuti ha, però, alimentato le polemiche sullo stato di tenuta della struttura. Per il segretario Uil-Pa “è evidente che il sindacato, quando rivendica l’adeguamento degli organici, lo fa anche in ragione di condizioni oggettivamente pericolose nell’espletamento del servizio. Inoltre, la mancata manutenzione dei fabbricati - prosegue in una nota - contribuisce a determinare ulteriori difficoltà ai servizi: le sterpaglie e l’erba alta hanno, infatti, costituito un facile nascondiglio per i due fuggiaschi. È necessario riflettere sulle prospettive future degli ospedali psichiatrici giudiziari e sulla necessità di garantire adeguati servizi sanitari”. Ieri pomeriggio, tra l’altro - riferisce ancora la nota - il Segretario Generale della Uil Pa Penitenziari ha incontrato informalmente il Capo del Dap, Franco Ionta. Durante l’incontro si è parlato anche delle prospettive è il futuro dell’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto. “Da tempo -spiega Sarno - abbiamo cercato di richiamare l’attenzione sulla struttura. Con il presidente Ionta, abbiamo discusso l’ipotesi di una parziale sanitarizzazione di questo Opg”. Secondo Sarno, si prevede di destinare alcuni padiglioni “esclusivamente all’azione terapeutico-sanitaria con conseguente ospedalizzazione dei degenti. Gli altri padiglioni, invece, continuerebbero ad ospitare internati cui è necessario garantire sorveglianza e custodia. Ciò consentirebbe, tra l’altro, di creare una nuova organizzazione del lavoro per i poliziotti penitenziari che - conclude - vedrebbero garantita la loro permanenza in sede e la possibilità di fruire di ferie e riposi settimanali”. Venezia: detenuti trasformano tendone utilizzato per la messa del Papa in borse e cartelle Adnkronos, 24 giugno 2011 Borse e cartelle ricavate dal tendone utilizzato per l’altare nella messa all’aperto di papa Benedetto XVI dello scorso 8 maggio al parco di San Giuliano di Mestre a Venezia. È l’idea realizzata dai detenuti della cooperativa Rio Terà dei Pensieri di Venezia, che hanno riciclato e riadattato le tele della struttura e prodotto diversi oggetti di uso quotidiano: borse, cartelle, copri-quaderno, copri-libro, già disponibili e messi in vendita. “In un’ottica di intelligente ‘riciclò dei materiali utilizzati, che sin dall’inizio ha guidato gli organizzatori della visita - spiega il patriarcato di Venezia - le tele raffiguranti mosaici che hanno ricoperto l’abside e l’altare allestiti per la messa con Benedetto XVI sono state affidate alla cooperativa Rio Terà dei Pensieri. E da parecchi giorni i detenuti che lavorano nel laboratorio di pelletteria sono impegnati a farne borse, cartelle ed altri oggetti utili”. La coop veneziana opera da tempo nelle carceri, “attuando percorsi formativi e di inserimento lavorativo in attività produttive che cercano di restituire a uomini e donne una concreta possibilità di ripresa”. I prezzi variano dai 15 ai 20 euro. Roma: Radicali domenica in piazza contro tortura; 800 morti nelle carceri dal 2002 a oggi Dire, 24 giugno 2011 Domenica, in occasione della Giornata internazionale Onu contro la tortura, i Radicali insceneranno la tragedia degli ottocento morti in carcere dal 2002 a oggi, per denunciare le condizioni di tortura a cui sono quotidianamente sottoposte le migliaia di reclusi negli istituti di pena italiani. La manifestazione, promossa dal Gruppo Carceri di Radicali Italiani, si svolgerà sotto una forca, dalle ore 10 alle 12 in piazza Navona a Roma, e vedrà la partecipazione tra gli altri della deputata Radicale Rita Bernardini, del segretario di Radicali Italiani Mario Staderini, di Irene Testa, segretaria de “Il Detenuto Ignoto”, di Sergio D’Elia, segretario di “Nessuno Tocchi Caino”, di Marco Cappato, segretario dell’associazione “Luca Coscioni”, insieme ad altri militanti e dirigenti Radicali. È quanto si legge in una nota dei Radicali. Radio: domani a “Reset” l’emergenza carceri; dalle 11 alle 12,30, su Radio Laser Ansa, 24 giugno 2011 “Le nostre prigioni. Viaggio intorno al pianeta carcerario italiano”: Bernardini, Bolognetti e Grippo, ospiti del programma di approfondimento “Reset”, in onda sabato su Radio Laser. “Le nostre prigioni. Viaggio intorno al pianeta carcerario italiano”. Sabato 24 giugno a “Reset - La politica al punto di partenza”, il rotocalco settimanale di approfondimento politico del Gr di Radio Laser, in onda dalle ore 11 alle 12,30. Sotto la lente d’ingrandimento l’ormai insostenibile situazione di sovraffollamento dei 206 istituti di pena che trapuntano lo stivale. E che rende la vita quotidiana intollerabile. In segno di protesta, lo storico leader radicale, Marco Pannella, è dal 20 aprile scorso in sciopero della fame. E con lui, in tutta Italia, oltre 15 mila persone - tra detenuti e loro familiari, agenti di Polizia penitenziaria, psicologi, volontari, avvocati, personale amministrativo, oltre a numerosi liberi cittadini e cittadine - per chiedere che venga varato un provvedimento di amnistia “che consenta di riportare una ventata di legalità nelle carceri italiane, affinché l’Italia possa in qualche misura tornare a essere considerata una democrazia”. Il punto della situazione degli istituti lucani (e non solo) nella rubrica condotta dal giornalista Antonio Grasso. Contributi e testimonianze dagli ospiti in studio e/o in collegamento telefonico. Tra gli ospiti della puntata l’on. Rita Bernardini (contributo registrato), Maurizio Bolognetti della Direzione Nazionale di Radicali Italiani e Giovanni Grippo segretario regionale della Uil Pa. Gran Bretagna: una giustizia a tolleranza zero; via libera all’autodifesa… e tanto ergastolo Il Giornale, 24 giugno 2011 Il premier conservatore Cameron promette di ridare fiducia ai proprietari di casa e ai commercianti terrorizzati dai furti Il piano ammette l’uso della forza anche quando non si è in pericolo di vita. E poi più ergastoli e stop alle occupazioni. Basta cittadini in carcere per essersi difesi dagli assalti in villa o dai topi d’appartamento. Basta commercianti in cella per aver difeso il proprio negozio dai furti armati. David Cameron lancia il piano del governo per la riforma della giustizia e promette di ridare ai proprietari di casa e ai negozianti il diritto di tutelare il proprio. “La mia missione è fare in modo che le famiglie si sentano sicure nelle loro abitazioni e possano camminare per le strade liberamente e senza paura”. Una dichiarazione di intenti che tradotta tecnicamente consentirà a chi subisce un furto di usare “una forza ragionevole” quando è stata violata la proprietà privata, anche se questo può voler dire prendere in pugno un’arma e sparare. La legislazione vigente lo ammette solo in caso di pericolo di vita. Ma Cameron vuole spingersi oltre. D’altra parte anche la Gran Bretagna ha avuto i suoi casi simbolo, storie di cittadini imbelli finiti dietro le sbarre per aver reagito a irruzioni violente. Come è successo a Tony Martin, contadino, che dopo il decimo tentato furto in casa, sparò a due ladri uccidendone uno. Era il 1999 ma Martin divenne un simbolo. Come lui Munir Hussain, condannato a due anni e mezzo per aver attaccato un ladro che minacciava la moglie con un coltello nella loro abitazione nel Buckinghamshire. Era il 2009. Ma la rabbia esplose quando gli inglesi seppero che il ladro era in libertà e Hussain condannato di nuovo per averlo ingiuriato. La sensazione di insicurezza di molti cittadini in questi anni non si è modificata ed è a loro che Cameron vuole rivolgersi. Anche per questo ha deciso di abbandonare il piano annunciato dal ministro della Giustizia Ken Clarice, che prevedeva uno sconto di pena del 50% per chi, in caso di reato, si dichiarasse subito colpevole. L’annuncio era stato criticato da molti giudici e dai media e Cameron non ha esitato a fare marcia indietro sul provvedimento: “Sarebbe troppo clemente, invierebbe un messaggio sbagliato al criminale e ridurrebbe la fiducia che i cittadini hanno nel sistema”. Fiducia che il premier vuole rafforzare introducendo norme più severe, anche in caso di occupazione. Gli “squatter”, oltre ad essere multati, potranno anche finire dietro le sbarre. La sicurezza al primo posto. Il capo del governo torna ai temi cari allo zoccolo duro della destra britannica ma anche a molti moderati che Tony Blair aveva saputo sedurre e annuncia una serie di provvedimenti duri contro il crimine. “Law and order” è il motto riesumato dal leader conservatore per rispondere alla pancia del Paese, quella che chiede di non morire per le botte di qualche gang stordita da fiumi di alcol, magari solo per una parola sbagliata, come sempre più spesso accade nelle strade delle principali città inglesi. Perciò possedere un coltello e usarlo anche solo in maniera minacciosa porterà i maggiorenni dritti a una condanna di sei mesi. “I cittadini devono sapere che i criminali più pericolosi resteranno dietro le sbarre per molto tempo”. Così chi si è macchiato di crimini a sfondo sessuale e reitera il reato non avrà altro scampo che una sentenza di carcere a vita. Sbagliare due volte non sarà possibile quando si è già criminali di un certo livello. È la politica del “two strikes and you’re out” (due falli e sei fuori), che si tradurrà in ergastolo per i criminali più pericolosi. E ai detenuti non basterà scontare la pena in carcere. Se otterranno un compenso guadagni per i lavori che svolgono durante la detenzione, parte di quei guadagni dovranno servire a ricompensare le vittime. Infine gli stranieri. Per affrontare l’emergenza delle carceri sovraffollate (oggi a quota 85.345 detenuti, più del doppio del 1980) il piano prevede che gli stranieri accusati di aggressione possano evitare un procedimento giudiziario se promettono di tornare al loro Paese d’origine. Parola di premier, che ora dovrà affrontare la fronda interna al governo di coalizione: i liberal democratici contrari ad alcuni dei provvedimenti più severi. Ma Cameron non teme eventuali correzioni o marce indietro, come già successo sullo sconto di pena. Tutt’altro: “È un sintomo di “forza e sicurezza” di un esecutivo pronto ad ascoltare i cittadini. Iran: attivisti denunciano stupri di massa nelle prigioni Ansa, 24 giugno 2011 Guardie carcerarie in Iran muniscono criminali di preservativi incoraggiandoli a stuprare sistematicamente giovani oppositori con cui dividono le celle. Lo rivelano testimonianze provenienti dall’interno del sistema carcerario iraniano, scrive il Guardian. Una serie di lettere dal tono molto drammatico scritte da detenuti e famiglie di attivisti in carcere accusano le autorità di facilitare intenzionalmente lo stupro di massa come forma di punizione: Mehdi Mahmoudian, un riformista, è tra i detenuti che sono riusciti a far circolare le lettere. È stato arrestato nel 2009 nella contestazione seguita alla rielezione del presidente Ahmadinejad con l’accusa di aver parlato alla stampa della repressione del regime ed è al momento detenuto nella prigione di Rajaeeshahr, nella città di Karaj a 20 chilometri da Teheran. ‘Lo stupro è diventato comunemente praticato in varie celle della prigionè, ha scritto in una lettera pubblicata dal sito riformista Kaleme. Libia: ex detenuti regime rientrano a Bengasi su una barca del Cicr Asca, 24 giugno 2011 Circa 300 persone, di cui 66 detenuti liberati dal regime libico, sono giunti oggi a Bengasi su di un battello del Comitato internazionale della Croce Rossa partito dalla capitale Tripoli. Lo riferisce un corrispondente dell’Afp. Ad accoglierli nella roccaforte ribelle una folla di dimostranti antigovernativi che hanno scandito slogan anti-Gheddafi. “Questi civili sono stati strappati dai loro parenti per quattro mesi e non erano in grado di attraversare le linee di fronte a causa dei combattimenti”, ha dichiarato il responsabile della delegazione del Cicr a Tripoli Paul Castella.