Giustizia: carceri, eterna emergenza di Marco Incagnola Terra, 17 giugno 2011 Nel Paese che ha appena respinto la privatizzazione dell’acqua, il ritorno al nucleare e il legittimo impedimento, cosa accadrebbe se si proponesse un referendum consultivo sull’amnistia? È ovviamente un gioco ma sarebbe utile capire come una opinione pubblica informata si pronuncerebbe su un tema così delicato e importante. Il sovraffollamento rende la vita dei detenuti tragica. Il 31 maggio scorso i reclusi erano 67.174 a fronte di una capienza regolamentare di 45.551 posti letto. Le carceri scoppiano; nelle carceri si vive molto male. È quanto cercano di dire anche le migliaia di detenuti che da alcuni giorni, da Imperia a Trani passando per Viterbo, stanno praticando lo sciopero della fame contro le dure condizioni di vita, contro il sovraffollamento e per richiedere un provvedimento di amnistia. Una questione, quella carceraria, che non riesce a sfondare il muro dei media nazionali. Un tema che è stato sollevato con determinazione dalla compagine radicale. Lo storico leader Marco Pannella ha appena iniziato lo sciopero della sete, dopo quello della fame, proprio per attirare l’attenzione sulla drammatica situazione delle carceri italiane e per richiedere un provvedimento di amnistia. “Oggi lo Stato è fuorilegge, è un delinquente professionale: mandare in prescrizione duecentomila processi all’anno, negare il principio - esistente dai tempi del diritto romano - per cui la sentenza si ottiene in tempi reali, significa infatti negare la giustizia e riempire le carceri di detenuti che per il 40 per cento, lo dicono le statistiche, sono ancora in attesa di giudizio, una situazione che è sicuramente più infame di quella che ci ha lasciato il ventennio fascista - sostiene Pannella”. Il punto è che una eventuale approvazione del provvedimento di amnistia, contemplato dall’art. 79 della Costituzione italiana, richiederebbe la più ampia convergenza delle forze politiche. Dal 1992, a seguito di una legge di riforma costituzionale, l’amnistia deve essere votata a maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera. Tangentopoli produsse questo esito. Da allora nessuna amnistia è mai stata varata. Il 29 luglio del 2006 il Parlamento approvò, con il voto contrario di Lega e Idv e An e l’astensione del Pdci, la legge 241, l’indulto. Un voto su cui pesò l’intervento di papa Giovanni Paolo II. Un voto che, nei mesi successivi, generò critiche pesanti anche da parte di coloro che quel provvedimento lo avevano votato in Parlamento. L’indulto cancella la pena, ma lascia vivi i reati. L’amnistia nel nostro Paese era concessa periodicamente per sfollare tribunali e prigioni. L’ultima è del 1990. La prima è del 1946; fu voluta da Palmiro Togliatti. Oggi la destra al Governo non parla di amnistia ma di progetti di edilizia penitenziaria, costosi e mai realizzati. A Sassari a costruire è Anemone. L’amnistia è una sconfitta per lo Stato. Ma a volte le sconfitte sono necessarie per rinascere e riscoprire il gusto della vittoria. Giustizia: l’amnistia mascherata, il disastro delle carceri di Valter Vecellio Il Riformista, 17 giugno 2011 Da1 20 aprile Marco Pannella è in sciopero della fame. Che palle!, dirà qualcuno. E per cosa, questa volta? Nientemeno che per l’amnistia, per riimporre in questo paese “un minimo di legalità e di democrazia”; contro quelli che definisce i “nuclei consistenti di Shoah in formazione”. Nientemeno, sempre il solito esagerato! Sì, è esagerato Pannella. Però... Però il bollettino telematico “Ristretti Orizzonti”, che meritoriamente monitorizza quotidianamente la situazione nelle carceri, ci informa che dall’inizio dell’anno a fine maggio si sono tolti la vita almeno ventiquattro detenuti e tre poliziotti; altri quaranta detenuti sono morti per cause cosiddette “naturali”, che non si sa bene cosa possano essere, se è vero che in diciassette casi sono state aperte inchieste volte all’accertamento dei fatti. Dal 2000 ad oggi nelle carceri italiane sono morti 1.800 detenuti di cui ben 650 per suicidio. Nello stesso periodo di tempo si sono uccisi anche 87 agenti di polizia penitenziaria. Nel solo 2010 ben 1.137 detenuti hanno tentato di togliersi la vita. Gli atti di autolesionismo sono stati 5.703; 3.039 i ferimenti. Oltre 36mila “i detenuti coinvolti in manifestazioni su sovraffollamento e condizioni di vita intramurarie”. Le morti per cause “naturali” in carcere 108, 55 i suicidi. Ancora: le manifestazioni di protesta individuali hanno visto 6626 detenuti fare nel corso dell’anno lo sciopero della fame; 1.553 detenuti rifiutare il vitto; 1.289 detenuti coinvolti in proteste violente con danneggiamenti e incendi. Le manifestazioni di protesta collettive contro il sovraffollamento e le condizioni di detenzione una trentina. C’è un articolo della nostra Costituzione che non viene mai richiamato: è il comma 4 dell’articolo 13: punisce la violenza commessa sulle persone che sono private della libertà. Ebbene, detenuti ammassati in meno di un metro e mezzo a testa - la Corte europea dei diritti dell’uomo ne prevede tre, l’ordinamento penitenziario sette - chiusi in cella a far nulla per 20 o 22 ore al giorno, non sono forse di atti violenza? Il settimanale L’Espresso ancora in edicola pubblica una lunga, dettagliata inchiesta: “Tutti prescritti”. Si racconta che sono circa 150mila i processi che ogni anno vengono chiusi per scadenza dei termini. Una sorta di impunità, si legge, anche per reati gravi, come l’omicidio colposo. La giustizia, insomma, sta soffocando sommersa dai fascicoli, uno scandalo senza fine, al punto che molti procuratori rinunciano ai giudizi. E le cose, per quanto possa sembrare incredibile, sono destinate a peggiorare. Per reati come la corruzione o la truffa, c’è ormai la certezza dell’impunità. Le cifre: nel 2008, 154.665 procedimenti archiviati per prescrizione; nel 2009 altri 143.825. Nel2010 circa 170mila. Quest’anno si calcola che si possa arrivare a circa 200mila prescrizioni. Ogni giorno almeno 410 processi vanno in fumo, ogni mese 12.500 casi finiscono in nulla. I tempi del processo sono surreali: in Cassazione si è passati dai 239 giorni del 2006 ai 266 del 2008; in tribunale da 261 giorni a 288; in procura da 458 a 475 giorni. Spesso ci vogliono nove mesi perché un fascicolo passi dal tribunale alla corte d’appello. Intanto i reati scadono e c’è la quasi certezza di scamparla per corruzione, ricettazione, truffa, omicidio colposo. A Roma e nel Lazio, per esempio, quasi tutti i casi di abusivismo edilizio si spegneranno senza condanna, gli autori sono destinati a farla franca. A Milano, nel 2010 l’accumulo è cresciuto del 45 per cento, significa più di 800 processi l’anno che vanno a farsi benedire. Nel solo Veneto si contano 83mila pratiche abbandonate in una discarica dove marciscono tremila processi l’anno. Conclusione? Un’amnistia mascherata. Di fronte a un disastro simile, che fare? C’è chi ha una proposta: è Marco Pannella: “Per affrontare in modo serio il problema del funzionamento della giustizia in Italia, e 1’emergenza del sovraffollamento delle carceri, non si può che cominciare dall’amnistia. Un’altra strada non c’è. Oggi lo Stato è fuorilegge, è un delinquente professionale: mandare in prescrizione 200mila processi all’anno, negare il principio - esistente dai tempi del diritto romano - per cui la sentenza si ottiene in tempi reali, significa infatti negare la giustizia e riempire le carceri di detenuti che per il 30 per cento, lo dicono le statistiche, sono ancora in attesa di giudizio, una situazione che è sicuramente più infame di quella che ci ha lasciato il ventennio fascista”. Può piacere o non piacere, ma è una proposta. Se ce ne sono altre, si facciano, ma quello che non è tollerabile è il silenzio, l’inerzia, l’indifferenza. Giustizia: le carceri così non sono sostenibili di Emilia Rossi (avvocato penalista, Torino) Italia Oggi, 17 giugno 2011 Sta accadendo qualcosa in Italia che partiti e organi di informazione si ostinano a non voler vedere e a non far sapere. Il mondo delle carceri italiane e quello che gli sta intorno, è in fermento: più di 7.000 detenuti e oltre 2.000 loro familiari, direttori di penitenziari, agenti di custodia, volontari e psicologi carcerari si sono uniti all’iniziativa non violenta dello sciopero della fame che Marco Pannella conduce dal 20 aprile, cui, come ha preannunciato in queste ore, si aggiungerà quello più duro dello sciopero della sete. Pannella denuncia la disumanità delle condizioni carcerarie e chiede un provvedimento di amnistia che consenta di superare il collasso del sistema penitenziario. Nell’indifferenza assoluta del “mondo di fuori”, la situazione degli istituti di pena ha raggiunto soglie drammatiche di insostenibilità: l’aumento progressivo degli ingressi che ha già superato di oltre il 50% le capacità strutturali si unisce al degrado degli ambienti contro il quale possono ormai poco anche l’impegno e l’abilità dei migliori direttori di carcere e che costituisce la concreta e più visibile violazione del principio costituzionale della finalità rieducativa della pena. Il segnale dell’estrema gravità delle cose è dato, poi, in modo eloquente, dalla crescita esponenziale del numero dei suicidi tra i detenuti. Mettere all’ordine del giorno dell’agenda politica un’urgenza che la politica non intende, è prerogativa storica del leader radicale, costantemente giocata contro il muro del silenzio dei media e dell’indifferenza del Palazzo, abituato a intervenire solo quando le cose hanno le forme ultime dell’emergenza e con misure altrettanto emergenziali. Ed allora, l’appello volterriano a non parlare degli “archi” ma a dire delle “galere”, è rimasto finora inascoltato da parte degli attori della politica istituzionale affannati in ben altre imprese e questioni di giustizia, dalle elezioni amministrative ai referendum, dalle spallate al premier in carica alle operazioni di tenuta e di rimpasto del governo, dalla qualificazione del diritto-dovere di voto alla integrazione del reato di induzione all’astensione. Tutte imprese e questioni che superano, s’intende, la dimensione ristretta dell’altro mondo, quello del carcere. E dire che la partita in gioco, invece, è davvero grossa perché investe non soltanto l’attualità dello stato delle carceri che, già da sola, meriterebbe l’attivazione immediata del legislatore, ma anche l’intero sistema sanzionatorio del nostro codice penale, l’uso della custodia cautelare e, in definitiva, il funzionamento della giustizia. Talmente grossa che, per la prima volta nella loro storia, anche gli avvocati dell’Unione delle camere penali italiane hanno deciso di dare corpo con il proprio corpo alla protesta non violenta di Pannella, “che si inserisce a pieno titolo nel solco delle battaglie storiche dell’Unione delle camere penali e ne costituisce una nobile realizzazione” (delibera giunta Ucpi 29 maggio 2011) e hanno proclamato l’adesione allo sciopero della fame con le modalità della staffetta. Dal primo giugno, giorno in cui ha dato il via all’iniziativa il presidente Valerio Spigarelli, fino alla metà del mese di agosto (per il momento), osservano una giornata di digiuno tutti i componenti della giunta, quelli dell’Osservatorio carcere e della Commissione carcerazione speciale e diritti Umani, i componenti dell’ufficio di presidenza del Consiglio delle camere penali, presidenti e componenti del direttivo di diverse camere penali. E la staffetta si sta caricando di partecipazioni al punto da programmare digiuni congiunti di più persone in un’unica giornata. Ora, che un tale numero di avvocati, esponenti del soggetto politico dei penalisti, faccia uno sciopero della fame predisponendone la durata per almeno tre mesi, è cosa che dovrebbe attirare l’attenzione del destinatario della protesta persino in un Paese come il nostro, abituato a tutto e in cui la politica istituzionale stenta a riconoscere qualcosa che non venga da sé stessa. Certo, l’amnistia è considerata generalmente una resa dello Stato rispetto all’esercizio della sua potestà punitiva, come la maturazione della prescrizione. Mentre questa, però, è un elemento patologico endogeno del meccanismo di amministrazione della giustizia, l’amnistia proviene da una determinazione esterna, squisitamente politica, normalmente finalizzata a restituire vitalità al lavoro giudiziario collassato dai carichi pendenti. È una determinazione di cui nessun partito vuole prendere la paternità di fronte a un elettorato nutrito, con il pane della penalizzazione di tutti i comportamenti umani e della carcerizzazione come strumento primo e unico di soluzione di tutti i fenomeni cui non si danno le risposte adeguate nelle sedi competenti. Una classe politica che fa del numero degli arresti, dell’applicazione rigida del 41 bis, dell’invenzione di fattispecie di reato per ogni emergenza sociale, vera o percepita, di nuove regole restrittive nell’applicazione delle misure cautelari, il fiore all’occhiello e il terreno di gara della propria azione nel campo della giustizia, fa fatica, poi, a intraprendere e far comprendere una inversione di tendenza. Ma l’amnistia è lo strumento di riorganizzazione del lavoro giudiziario che ha sempre accompagnato le riforme organiche, più o meno epocali, del nostro sistema giudiziario. È giusto a quelle e, in particolare, alla riforma del codice penale, che pensano i penalisti che digiunano e che ne discuteranno i prossimi 24 e 25 giugno a Pisa, nel convegno intitolato “Per un nuovo codice penale”, cui parteciperanno i presidenti delle tre commissioni ministeriali che hanno (vanamente) elaborato la riscrittura del codice, Carlo Federico Grosso, Carlo Nordio e Giuliano Pisapia. Il primo di tre appuntamenti destinati a disegnare le linee del nuovo ordinamento sostanziale che l’Ucpi si predispone a proporre. Confidando che l’interlocutore distratto si accorga dell’urgenza. Giustizia: l’allarme sulle carceri arriva anche dall’Ue; Italia al collasso, peggio solo la Bulgaria Vita, 17 giugno 2011 “Il rapporto presentato dalla Commissione europea sulla condizione carceraria nei Paesi membri porta alla luce alcuni dati allarmanti”. Lo afferma l’europarlamentare del Pd, Roberto Gualtieri, in una nota congiunta con il Garante per i Diritti dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni. “In Europa - prosegue la nota - un detenuto su quattro è in attesa di giudizio, mentre sono oltre 600.000 le persone detenute in condizioni inaccettabili”. “Il sovraffollamento carcerario - spiegano Gualtieri e Marroni - è un fenomeno che riguarda ormai più della metà dei Paesi membri dell’Ue. Come ha sottolineato il portavoce di S&D sui diritti civili, giustizia e affari interni, Claude Moraes, la Commissione ha ancora una volta tenuto un atteggiamento troppo cauto e generico su una situazione che in alcuni paesi membri richiederebbe risposte rapide a problemi sempre più drammatici”. “In Italia la situazione delle carceri è diventata una vera e propria emergenza di carattere sociale”, aggiunge Angiolo Marroni, che spiega: “A livello europeo, il nostro Paese è secondo solo alla Bulgaria come tasso di sovraffollamento delle carceri, con il 153%”. “L’esperienza di questi mesi - sottolinea il Garante per i Diritti dei detenuti del Lazio - ha dimostrato che la politica degli annunci spot è stata fallimentare e misure reclamizzate, come il decreto svuota carceri, non hanno saputo neanche alleggerire la situazione. Sovraffollamento, inadeguatezza delle strutture, carenza di risorse umane e finanziarie stanno portando il sistema al collasso”. “Occorrerebbe - conclude Marroni - un intervento strutturale che parta dalla politica, come una riforma del codice penale che punti a ridurre la carcerazione e ad aumentare le misure alternative, ma non per questo meno punitive, alla detenzione”. Giustizia: il governo si muove solo sotto tortura di Valentina Ascione Gli Altri, 17 giugno 2011 Solo una decina di giorni fa, mentre i riflettori della stampa nazionale erano per lo più puntati sulla campagna referendaria e sulle divisioni di una maggioranza in affanno, accadeva qualcosa di molto importante. Di epocale, quasi. Nell’ambito della discussione alla Camera del disegno di legge di adeguamento dell’ordinamento italiano allo Statuto della Corte Penale Internazionale, il governo accoglieva l’ordine del giorno dei deputati radicali, che lo impegna a predisporre con la massima urgenza un ddl per l’introduzione del reato di tortura nel nostro codice penale. Un provvedimento, questo, più e più volte sollecitato dagli organismi internazionali e richiesto dalla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, disumani e degradanti, rispetto alla quale l’Italia risulta da oltre vent’anni inadempiente; un atto dunque irrinunciabile per porre fine alla latitanza del nostro Paese di fronte a obblighi giuridici internazionali e metterlo così al passo delle altre grandi democrazie occidentali, tra le quali si colloca sempre più spesso come fanalino di coda. L’impegno del governo a introdurre finalmente il reato di tortura nell’ordinamento italiano rappresenta - sotto il profilo simbolico ma non solo - un segnale importante, di speranza, anche per tantissimi reclusi nelle nostre carceri. Decine di migliaia di detenuti che ogni giorno vedono violati i propri diritti, anche i più elementari. Uomini e donne sottoposti da un sistema penitenziario fuori legge, e ormai al collasso, a condizioni di vita umilianti a causa del sovraffollamento. O a regimi detentivi durissimi, come il 41bis o l’ergastolo ostativo, guardati con diffidenza e a volte additati come forme di tortura anche all’estero e dalla giurisdizione internazionale. Per queste ragioni le associazioni a tutela dei diritti dei detenuti hanno annunciato tre giorni di mobilitazione dentro e fuori le carceri il 24, 25 e 26 giugno, in occasione della Giornata internazionale Onu contro la tortura. Mentre prosegue in tutta Italia l’iniziativa nonviolenta in atto da settimane, che vede oltre diecimila persone - tra detenuti e loro familiari, direttori delle carceri, agenti di polizia penitenziaria, avvocati, psicologi, volontari e semplici cittadini - in sciopero della fame insieme al leader radicale Marco Pannella per chiedere un provvedimento di amnistia. Una mobilitazione massiccia e spontanea che non può restare muta, inascoltata, se è vero che questo Paese, come inducono a sperare i recenti esiti elettorali e referendari, ha deciso di cambiare rotta. Giustizia: anche i reclusi hanno una loro dignità di Enrico Severati Rinascita, 17 giugno 2011 La situazione delle carceri, tra sovraffollamento e suicidi, appare senza soluzione. Sono oltre 70 mila i detenuti a fronte di una capienza delle strutture per circa 45 mila. Magari si dirà che i reati sono in calo ma le persone che varcano il portone del carcere sono sempre di più. Certo un buon 40% della popolazione è straniera e questo incide enormemente sulle problematiche del numero eccessivo di reclusi. Il nostro ordinamento prevede il loro recupero, per quanto possibile delle persone che sbagliano, però questo diventa praticamente molto limitato quando manca quella catena di solidarietà e di assistenza necessaria per un reinserimento nella società. Parliamo soprattutto di offerte lavoro che stante la situazione di crisi economica sono ancor più rare. E così le forme di autolesionismo, fino ad arrivare alla decisione di farla finita, sono quasi quotidiane. L’ultimo suicidio è avvenuto nel penitenziario di Teramo, nella sezione per tossicodipendenti. “La notizia della morte di un detenuto italiano di Teramo intristisce tutti - chiosa un esponente del sindacato di Polizia penitenziaria - e testimonia ancora una volta la drammaticità della vita nelle carceri italiane”. È chiaro che non si tratta di un soggiorno al mare però si dovrebbe evitare di negare quel minimo di condizioni umanitarie a chi sbaglia. Anche se va detto che ci sono situazioni e situazioni. Pagare il proprio debito con la giustizia ma in condizioni di civiltà. È chiaro che non stiamo parlando di Guantanamo dove la tortura è una prassi però non possiamo nemmeno comprimere i reclusi in uno spazio inadeguato. “Quella di Teramo - spiega Capece - è una realtà difficile, come dimostrano gli eventi critici avvenuti nel corso del 2010: 85 episodi di autolesionismo, 18 tentati suicidi, 1 suicidio, 53 feriti, 73 scioperi della fame e 22 episodi violenti che hanno determinato danneggiamenti di beni dell’Amministrazione Penitenziaria”. A migliorare la situazione non è servita neppure l’approvazione di una legge che consente ai detenuti con condanne non superiori all’anno di scontare la pena ai domiciliari. La realtà delle carceri italiane è dura però non è paragonabile ad altre realtà dove davvero il carcere è volto non al recupero ma alla sofferenza, come forma punitiva. Comunque quando si ammassa un numero maggiore di reclusi rispetto a quanto consentito dalle strutture è chiaro che siamo di fronte ad una situazione pesante. Da oltre un mese il guru dei radicali Pannella sta scioperando contro il sovraffollamento e contro questo degrado delle condizioni dei detenuti. Però nessuno lo ascolta. Sicuramente è antipatico e ripetitivo però la battaglia per i diritti è meritevole di attenzione. Giustizia: Favi (Pd); la cortina di fumo di Alfano nasconde il dramma vero dei suoi fallimenti Ristretti Orizzonti, 17 giugno 2011 Dichiarazione di Sandro Favi, Responsabile nazionale carceri del Pd: “Gli Onorevoli Luigi Vitali e Alessandro Pagano corrono in soccorso del Ministro della giustizia e Segretario in pectore del PD$$L Angelino Alfano, accusando l’opposizione di sciacallaggio politico e di falsità sulla politica per le carceri. Per l’On. Vitali, il Ministro avrebbe contribuito, in tre anni, a costruire più posti in carcere di quanti ne siano stati realizzati negli ultimi quindici anni? Vediamo. Ha inaugurato un istituto a Trento, costruito a totale carico della Provincia autonoma; un progetto ed un finanziamento di più anni addietro, ma il carcere è ancora mezzo vuoto per carenza di personale. Ha inaugurato il carcere di Rieti, progettato e finanziato ai tempi del primo centro sinistra; ed è mezzo vuoto. Ha aperto il carcere di Sant’Angelo dei Lombardi, in provincia di Avellino, un’opera ultra-ventennale del post-terremoto del 1980. Ha realizzato nuovi padiglioni a Frosinone, Velletri ed Avelino e rimangono vuoti per carenza di personale. Intanto il suo Commissario straordinario per il piano carceri, dopo un anno e mezzo di stato di emergenza, ha fatto solo diplomazia istituzionale, ma non ha messo mano ai 175 milioni prelevati dal bilancio dell’Amministrazione penitenziari e dalla Cassa Ammende, destando la curiosità ed i rilievi del Ministero dell’economia su quella giacenza di fondi senza progetti concreti di investimento e di impegni effettivi. Anche i 500 milioni della finanziaria 2010 per la costruzione di nuove carceri sono rimasti sono una posta di bilancio, esposta alla scure di Tremonti che, in mancanza di progetti esecutivi approvati è tentato di fagocitarli con le prossime manovre finanziarie. Anche sulle assunzioni di poliziotti penitenziari tardano ad arrivare gli annunziati finanziamenti, perché il Ministero Tremonti vuole certezza che i fondi trovati da Alfano fra le tasse introdotte sui procedimenti giudiziari, siano davvero entrati nelle casse statali I cantieri per le nuove carceri di Cagliari, Oristano, Sassari, Forlì, Reggio Calabria, Gela, finanziati da decenni? Sono fermi; e dove sono finiti i lavori (a Tempio Pausania) non si decide che farne. Intanto, migliaia di detenuti, i loro familiari, le associazioni che lavorano in carcere promuovono scioperi della fame per le condizioni di invivibilità dovute al sovraffollamento. Gli agenti di Polizia penitenziaria di mezza Italia sono in stato di agitazione perché non vengono rispettati i diritti sul lavoro e le loro condizioni operative sono a rischio. I Direttori degli istituti penitenziari protestano col Governo che non li ascolta. Sono tutti faziosi? Eppure anche un autorevole esponente del Pdl, il Sen. Filippo Berselli, solo un mese fa dichiarava “Se non si affronta seriamente il problema delle carceri, a questo sovraffollamento potrebbero subentrare altri fenomeni come le sommosse. Non è un fuoco che cova sotto le ceneri, è una bomba che può scoppiare da un momento all’altro sotto il sedere” (Agenzia Dire del 23 maggio 2011). Falsità, sciacallaggio, disfattismo o uno sguardo responsabile sul dramma di migliaia di persone detenute e sugli operatori del penitenziario?” Giustizia: Sappe; le criticità degli Opg sono il risultato di un disinteresse politico ed istituzionale Ristretti Orizzonti, 17 giugno 2011 “Recenti episodi di cronaca e la Commissione d’inchiesta sugli ospedali psichiatrici giudiziari, guidata dal senatore Ignazio Marino, hanno riproposto con forza il problema della gestione di strutture di reclusione che hanno bisogno di una progettualità tale da garantire l’assistenza ai malati e la sicurezza degli operatori, quali appunto gli Ospedali psichiatrici giudiziari. Certo è che i buoni propositi delle Direzioni si scontrano sempre più spesso con una cronica carenza di fondi, dopo i tagli disposti dal Ministro della Giustizia e i ritardi nella gestione dell’assistenza medica al Servizio Sanitario Nazionale. E colpevole è anche una diffusa e radicata indifferenza della politica verso questa grave specificità penitenziaria”. Lo dichiara Donato Capece, Segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, il primo e più rappresentativo della Categoria. “A subire le conseguenze di questo diffuso disinteresse verso gli Opg” aggiunge “sono gli agenti di Polizia Penitenziaria e gli stessi internati, che dovrebbero essere curati e non custoditi, tanto che la presenza della Polizia Penitenziaria mal si concilia con lo status di internato quale soggetto per lo più non imputabile e quindi incapace di intendere e di volere, poiché la pericolosità sociale non può precedere lo status mentale, come accade nell’articolo 203 del Codice penale, il quale disvela tutta la sua impostazione autoritaria, ben lontana dalle concezioni psichiatriche che si andavano sempre più affermando. L’attuale crisi degli Opg è il punto di arrivo di una escalation negativa che ha portato all’aumento inversamente proporzionale del numero degli internati, rispetto a quello degli agenti di Polizia Penitenziaria. Dando attuazione alle direttive del Ministero della Giustizia, che ha disposto il blocco degli organici negli Opg, la dotazione organica degli agenti è scesa in cinque anni di circa 40 unità fino agli attuali 119, a fronte di un aumento esponenziale di internati, dai 178 nel 2008 agli attuali 357. In ogni reparto, infatti, a fronte di oltre 100 ricoverati, è presente un solo agente rispetto ai tre previsti fino a qualche anno fa per garantire la sorveglianza su due piani dell’immobile e all’interno del cortile. In queste condizioni è evidente come diventi impossibile la gestione dei reparti, con il rischio quotidiano di risse, aggressioni e gesti di autolesionismo, alimentati anche dagli spazi ristretti in cui sono costretti a vivere gli internati, incompatibili con il disagio psichiatrico. Occorre che i politici, a tutti i livelli, invece delle solite passerelle a cui si accompagnano puntualmente anatemi e demagogie quanto estemporanee soluzioni, si facciano carico del loro ruolo istituzionale, mettendo le strutture psichiatriche nelle condizioni di poter svolgere al meglio il loro lavoro, poiché le condizioni disumane in cui versano gli Opg sono il frutto di una voluta indifferenza della società civile, dei politici, ma soprattutto dei vertici dell’Amministrazione che certamente aveva cognizione di quanto è emerso dalla Commissione parlamentare d’inchiesta. È giunto insomma il momento di rifuggire dalla logica del capro espiatorio.” Giustizia: dalle carceri italiane la moda etica e sostenibile di Marina Piconese www.yeslife.it, 17 giugno 2011 Sostenibilità, etica, impiego sociale, moda. Associate queste parole a un’altra più forte, più dura: carcere. Questi sostantivi potrebbero concordare? Sembrerebbe impossibile, eppure è così. Perché nelle carceri d’Italia si fa moda, e non solo: si fa moda etica, creativa, e soprattutto ecosostenibile. Prendete i “Gatti Galeotti” di Ecolab a Milano con la Sartoria di San Vittore, la linea “Made in carcere” di Lecce, Lacasadipinocchio a Torino, o il marchio Cangiari, che lotta contro la malavita a colpi di ago e filo: sono i maggiori esempi di una produzione di moda etica, alternativa ed ecocompatibile che si sta facendo strada in Italia; e non potrebbe essere altrove, che nel Paese di Valentino, Armani, Versace, Cavalli, Dolce&Gabbana. Ma lontano dai riflettori e dalle vetrine, dallo shopping convulso di Via Condotti o Montenapoleone, lontano dal consumismo di massa e dalle luci delle passerelle, alcune piccole stiliste d’Italia, nel chiuso dei loro laboratori, oltre le sbarre che le detengono, confezionano abiti al naturale, seguendo istinto, fantasia, passione. Poi li spediscono nel mondo là fuori, perché tutti noi, al di qua delle sbarre, sappiamo che la creatività non si spegne, nemmeno con un processo, una condanna, una tragedia interiore; che costruire un mondo pulito si può, già dentro le celle, figuriamoci fuori. Moda etica dal carcere di Torino Detenuti, malati psichiatrici, rifugiati di mafia: da Nord a Sud, hanno tutti in comune la passione per la moda etica, e hanno trovato, in alcune organizzazioni illuminate, la possibilità di darle vita. Come gli operai de “Lacasadipinocchio”, costola della Casa Circondariale di Torino, che lavorano con tutti quei materiali che normalmente vengono buttati o dimenticati, esaminandoli, rimaneggiandoli e lavorandoli come fossero i più rari e preziosi al mondo. E così, nel riuso, un pezzo di stoffa d’arredamento, un vecchio cuscino ricamato o quella cerniera trovata in un fondo di magazzino acquistano una dignità che non sapevano di avere, e diventano borse, scialli, bracciali. Moda etica dalle carceri calabresi E c’è chi s’intestardisce, e arriva fino alla soglia del pret à porter, come Cangiari, il brand etico e sociale che ha debuttato nel Settembre 2009 e ha presentato la sua collezione Primavera/Estate 2011 lo scorso settembre, durante la Settimana della Moda Donna di Milano. Nato dal Consorzio Sociale Goel (che lavora con i beni confiscati alla mafia) e tutorato dall’imprenditore Santo Versace, Cangiari esprime la propria mission già nel nome, che in calabrese e siciliano vuol dire “cambiare”: termine semplice, eppure così forte. “Cambiare” in senso transitivo (il mondo) e riflessivo (se stessi), ma anche portare cambiamento all’interno del sistema-moda. Ogni capo di questa linea è un messaggio, che ci parla di diritti umani, equità, partecipazione, bene comune, legalità, ecologia e nonviolenza. Le collezioni sono interamente realizzate in Calabria con materiali pregiati e lavorazioni artigianali di alta qualità, ricchi di dettagli d’eccellenza, come ricami a mano o al telaio. I capi sono tutti biologici e naturali, secondo lo standard Gots (Global Organic Textile Standard). Moda etica dal carcere di Lecce Restiamo giù e voliamo in Puglia, nel Salento, precisamente a Lecce, dove l’Officina Creativa, nata nel 2007, ha dato vita alla linea “Made in Carcere”, che produce borse, accessori e shopper bag colorate e originali, ma soprattutto “manufatti di valori”: una concreta testimonianza della possibilità di “stare” sul Mercato e nella Società in maniera economicamente efficiente ma al contempo responsabile, che porti valore non solo ai soggetti direttamente coinvolti, ma a tutta la comunità. Una realtà tutta al femminile, fatta di entusiasmo, creatività e di quell’ironia che le stesse detenute usano nell’inventare e confezionare accessori “utili e futili” che diffondano un messaggio di speranza attraverso chi li indossa: un messaggio di rispetto, di solidarietà, di libertà. La shopper bag, in particolare, è ricercatissima ed è diventata il simbolo dello sviluppo sostenibile, quello che favorisce il riuso rispetto al consumo di plastica, riciclando i tessuti avanzati o scartati dalle aziende italiane più “in alto”. Moda etica dal carcere di Milano Ritorniamo al nord, a Milano, per chiudere questa carrellata con la Sartoria di San Vittore, il famoso carcere milanese, della Cooperativa Sociale Alice, che produce costumi teatrali, abbigliamento, tessitura e gadget, fino ai famosi Gatti Galeotti, gattini imprigionati nelle loro divise a righe, che con i loro musetti tristi ma tenerissimi, stampati su borse, borsoni e tracolle, ci ricordano che tutti, proprio tutti, abbiamo bisogno di calore e di carezze, anche chi, suo malgrado, è detenuto in carcere. Guardando questi prodotti e l’amore con cui sono pensati e confezionati, inevitabilmente si pensa che forse non è poi tanto impossibile trovare un accordo tra etica ed estetica, tra creatività e inclusione sociale, tra libertà e qualità della vita. Ma soprattutto si pensa che anche le persone, come i materiali e come i tessuti, hanno il sacrosanto diritto a una seconda chance. Lettere: caro ministro Alfano, ce l’ha un momento? di Riccardo Arena www.radiocarcere.com, 17 giugno 2011 Forse c’è stato uno zelo eccessivo nel vietare al padre detenuto di vedere le figliolette poi morte in un incidente stradale. Certo, non è stato per colpa dell’agente o del dirigente di polizia penitenziaria troppo severo che una famiglia di sventurati palermitani è stata maciullata sull’autostrada Salerno-Reggio Calabria. Però, suvvia: il detenuto da visitare non era Totò Riina, la famiglia veniva da Palermo, fino a Paola aveva fatto un lungo viaggio e un lungo viaggio l’attendeva al ritorno. C’erano soprattutto due bambine di otto e due anni. Davvero il detenuto Cardella Francesco, condannato ad anni uno mesi quattro di reclusione (e che tra poco sarà libero), non poteva incontrarsi con i familiari? Nell’era delle supertecnologie, il documento mancante non si poteva recuperare in extremis? Veramente l’unica soluzione era rimandare indietro con le pive nel sacco sei persone, comprese due bambine di otto e due anni? Ha mai viaggiato, ministro, con mezzi normali, in un’auto piena, con bambini? Summum jus, summa iniuria, insegnavano i romani: se il diritto si applica in maniera troppo rigida, diventa iniuria, offesa antigiuridica, l’esatto contrario del diritto. Attenzione, qui non si ragiona col senno del poi e non si vuole gettare la croce addosso a chi in fondo ha fatto - magari con un po’ troppo zelo - solo il proprio dovere. Né si vuol dire che se magari i cinque disgraziati poi morti sotto un Tir fossero riusciti a entrare nel carcere calabrese, tre poveracci e due bambine di otto e due anni sarebbero ancora vive. Di sicuro il papà le avrebbe viste l’ultima volta vive. Ma non è questo il punto. Il punto, caro ministro, è che c’è un’umanità dolente, disgraziata, fatta non solo di mafiosi e di criminali organizzati ma di piccoli delinquenti e minuscoli banditi o di occasionali mascalzoni che finiscono in galera e nel tritacarne del sistema carcerario e del processo penale. Attorno a loro ruota un’altra umanità dolente, fatta di bambini trascinati dal colloquio in carcere all’udienza in tribunale, alla quale per regolamento non possono assistere e che dunque quotidianamente vediamo giocare negli atri del palazzo di giustizia. In molti, prima di entrare al palazzaccio, mai avevano visto tanto spazio in vita loro: e sapesse, ministro, come sono inconsapevolmente felici di giocare in piena libertà, aspettando di poter vedere, in una pausa del processo, il papà, lo zio, il fratello, il cugino, il nonno nella cella dell’aula di udienza. È un’umanità verso la quale l’atteggiamento comune di noi che abbiamo studiato, che lavoriamo, che abbiamo un reddito più o meno certo, è quello della puzza al naso, che il naso ce lo fa storcere. È però un’umanità che si sottopone anche a sfibranti attese davanti agli ingressi delle carceri, sotto il sole e con la pioggia, per ore e ore, o che approfitta degli spazi lasciati colpevolmente liberi per liberamente conversare con i familiari e gli amici detenuti, sotto le mura dell’Ucciardone. Ed essendo un’umanità, che di certo a noi non piace, va tuttavia trattata in modo umano. Senza spaccare, più o meno motivatamente, il capello in quattro con lo sconosciuto Cardella Francesco. Magari ricordando che ai tempi del Grand Hotel Ucciardone quelli che facevano i loro comodi erano i mafiosi, i pericolosissimi capi detenuti di Cosa nostra, e allora sì che ci voleva coraggio, a fare il proprio dovere. Ne sono prova quegli agenti e sottufficiali di polizia penitenziaria, eroi loro malgrado, che a quel sistema “allegro” si opposero, rimettendoci la vita. La severità, lo zelo, i regolamenti, illustre ministro (in realtà quasi ex ministro), vanno applicati sempre cum grano salis. Per non ritrovarsi domani, l’agente personalmente e lo Stato che lui rappresenta, col dubbio: e se quel giorno li avessi fatti entrare, due bambine di otto e due anni avrebbero avuto un futuro, anziché morire in autostrada senza nemmeno avere visto il papà in galera? Lettere: l’assistenza sanitaria ai detenuti non è “uguale per tutti” dall’Associazione Yairaiha Onlus Ristretti Orizzonti, 17 giugno 2011 La storia di Michele Bruni, oggi in fin di vita all’ospedale di Livorno - città nella quale era detenuto in attesa di giudizio - richiama l’attenzione sull’assistenza sanitaria penitenziaria che non garantisce assolutamente le cure adeguate nonostante l’articolo 1 del Decreto Legislativo 230/99, sul riordino della medicina penitenziaria stabilisce che: “I detenuti e gli internati hanno diritto, al pari dei cittadini in stato di libertà, alla erogazione delle prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione, efficaci ed appropriate, sulla base degli obiettivi generali e speciali di salute e dei livelli essenziali e uniformi di assistenza individuati nel Piano sanitario nazionale, nei piani sanitari regionali ed in quelli locali”. Quanti Michele si sarebbero potuti curare in tempo prima che le malattie degenerassero? Solamente dall’inizio dell’anno ad oggi registriamo ben 81 morti nelle carceri italiane, di cui 27 per suicidio, e ben 54 per malattie il più delle volte curabili se prese per tempo e non sottoposte alla burocrazia carceraria che uccide prima della malattia in se. L’età dei morti di carcere va dai 19 ai 55-60 anni, in ogni caso l’età media è di 30-35 anni. La prevalenza dei quali per malattie curabili o che comunque avrebbero potuto beneficiare del differimento della pena in casi particolarmente gravi anche in caso di cosiddetta “pericolosità sociale”(artt. 146 e 147 del C.P.). Ma in Italia la legge non è uguale per tutti. Per i detenuti “altisonanti” c’è sempre una patologia più o meno grave per cui risultano incompatibili con il carcere mentre i detenuti “comuni” ogni giorno rischiano la vita perché lamentare un malessere il più delle volte viene liquidato con un antidolorifico o con un antinfiammatorio invece che con le dovute analisi. È il caso di Michele Bruni, oggi in fin di vita all’ospedale di Livorno - città nella quale era detenuto in attesa di giudizio, è il caso di Enzo Potente - morto due giorni fa nel carcere di Teramo per infarto a soli 32 anni, è il caso dei ben 60 uomini morti dall’inizio dell’anno per patologie assolutamente curabili con la dovuta prevenzione. Purtroppo in Italia quasi nessuno si indigna quando muore un detenuto a parte i familiari e i tanti compagni di cella che, ogni giorno, devono pregare di stare in salute per non morire come bestie. Lettera: sessualità prigioniera… di Stefania Rossini L’Espresso, 17 giugno 2011 Cara Rossini, non è possibile tenere i carcerati in condizioni inumane, come nelle nostre carceri che accolgono un numero di reclusi tre volte superiore a quello per il quale sono state costruite. Anche se hanno sbagliato, è giusto che scontino la loro pena nel rispetto della loro dignità di uomini. Per lo stesso motivo credo che non sia giusto privarli della loro normale sessualità, negandogli regolari, costanti rapporti sessuali con le loro mogli e compagne, e bisognerebbe introdurre per legge appositi spazi. Il carcere non è un hotel, non è un luogo di villeggiatura, osserverà qualcuno. Ed io rispondo che privare i condannati della loro libertà è giusto, ma non lo è se devono vivere ammassati in una stessa cella, come le api in un alveare. E giungo ad augurare di fare tale esperienza a chi se la ride delle condizioni dei reclusi, così capirà. Meglio un’amnistia, con tutti i rischi conosciuti, che continuare a ignorare ipocritamente il problema. Per legge la pena deve essere retributiva, cioè proporzionata al reato commesso, ma deve tendere al recupero sociale dei condannati, altrimenti usciranno inaspriti e rancorosi verso la società civile che li ha trattati così incivilmente. E invece a destra e sinistra si strappano i capelli per problemi meno urgenti ed essenziali. Avv. Aurelio La Rosa, Taranto Da alcune settimane Marco Pannella è di nuovo in sciopero della fame per la legalità con una mira particolare sulla realtà delle carceri Italiane, che il leader radicale colloca fuori dal diritto Internazionale. Luigi Manconi ha appena scritto un libro di grande impatto, “Quando hanno aperto la cella. Stefano Cucchi e gli altri”, dove descrive soprusi o sevizie che uccidono alcuni reclusi inermi e inducono altri a farla finita da sé (in media un suicidio a settimana). Eppure niente si muove per quei disperati costretti ad aspettare, in carceri sovraffollate fino all’asfissia, l’arrivo dei caldo torrido che farà precipitare la situazione ambientale ed emotiva. Il governo ha smesso persino di fare i periodici annunci in cui promette riforme, nuovi Istituti modello e altre chiacchiere, con la speranza di tacitare per qualche giorno gli animi. Lei, come avvocato, vive da vicino lo strazio di tanti e chiede la civilissima introduzione di spazi per la sessualità. Purtroppo una riforma a cui nessuno pensa e che, allo stato delle cose, somiglia tristemente alle brioches per gli affamati. Veneto: interrogazioni del Pd; adeguare servizi medici a necessità delle carceri Asca, 17 giugno 2011 “Verificare il numero di medici e psicologi che prestano servizio nei penitenziari del Veneto e adeguare gli organici alle necessità della popolazione carceraria; garantire che il servizio di supporto psicologico ai detenuti non si limiti ai soli colloqui di entrata ed uscita ma sia continuativo”. Sono le richieste avanzate dal gruppo consiliare del Pd alla giunta regionale veneta, alla luce della situazione in cui versano i penitenziari regionali, “sovraffollati all’inverosimile e dove si continuano a registrare casi di suicidio” come sottolineano i consiglieri dell’opposizione Piero Ruzzante, Franco Bonfante e Roberto Fasoli. I tre esponenti democratici hanno presentato due interrogazioni. La prima punta i riflettori soprattutto sul “carcere di Padova, dove risultano presenti solamente due psicologi per circa 600 detenuti”. Nell’altra interrogazione il Pd denuncia la situazione del “carcere veronese di Montorio, che rispetto agli istituti di pena del triveneto presenta il maggior divario tra numero di detenuti e personale”. La struttura, come riferiscono i tre consiglieri, dovrebbe ospitare un massimo di 500 detenuti, ma ha ormai raggiunto la quota di 900 presenze, a fronte di un organico di polizia penitenziaria inferiore di circa 150 unità rispetto al reale fabbisogno. Torino: egiziano s’impicca in cella; “i 350 kg di hashish non sono roba mia”, salvato dagli agenti Asca, 17 giugno 2011 Torino, si impicca in cella: “I 350 kg di hashish non sono roba mia”. Impiccato con un lenzuolo alla grata del bagno. Ha scelto di morire così, l’altra sera, Aisan Saadami, 31 anni, egiziano. Ma gli agenti della polizia penitenziaria sono riusciti ad evitare che il tragico bilancio di morte nel carcere torinese salisse ancora. Dimesso dall’ospedale dopo qualche ora, ieri pomeriggio ha incontrato il suo avvocato e ha spiegato di averlo fatto perché non sopportava di stare dietro le sbarre per una colpa che ritiene non sua. E che i 350 chili di hashish trovati dai finanzieri nel suo garage “erano stati portati lì da un altro”. Saadami è il quinto detenuto del Lorusso e Cutugno che ha cercato di togliersi la vita nell’ultimo mese. E per i primi tre non c’è stato niente da fare. Abdel Aziz K., il 18enne marocchino che ha tentato di uccidersi sette giorni fa, continua invece a lottare tra la vita e la morte. Il giovane, accusato di aver fatto sesso con due sorelle minorenni, era arrivato al pronto soccorso il 9 giugno. Reggio Emilia: la Provincia di chiede un intervento risolutivo per la situazione delle carceri Il Resto del Carlino, 17 giugno 2011 Lettera dell’assessore Fantini agli organi di competenza: “Nuovi agenti e nuove strutture”. Un sit-in di protesta svoltosi qualche mese fa davanti al carcere reggiano. La situazione delle carceri reggiane è al centro di una lettera, firmata dall’assessore provinciale alla Sicurezza sociale Marco Fantini, inviata ai parlamentari reggiani, al prefetto, al presidente della regione, ai consiglieri regionali, ai direttori delle carceri, al provveditore regionale, dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, al presidente del tribunale e al procuratore della Repubblica. Il documento raccoglie l’istanza del Consiglio provinciale che nella seduta dello scorso 31 maggio aveva approvato un ordine del giorno presentato dalla consigliera del Pd Angela Zini. Il testo del documento, dopo aver tracciato un quadro nazionale di grande difficoltà, prendeva infatti in considerazione la situazione reggiana. “A Reggio presso la Casa Circondariale - si leggeva nell’ordine del giorno - la carenza di personale penitenziario organico è di 44 unità così suddivise: 8 ispettori; 8 sovrintendenti e 28 agenti. Inoltre presso l’Ospedale Psichiatrico Giudiziario la carenza di personale penitenziario organico è di 46 unità”. “Il Consiglio - afferma l’assessore nella sua lettera - ha invitato la presidente e la giunta ad attivarsi per quanto di competenza e attraverso i parlamentari reggiani, gli appositi uffici ministeriali centrali e periferici e i consiglieri regionali affinché si proceda con sollecitudine ai lavori di manutenzione e ristrutturazione dei fabbricati detentivi; si applichino le necessarie misure per ridurre la grave situazione di sovraffollamento anche nei nostri istituti penitenziari; venga assegnato alla sede di Reggio un congruo numero di neo-agenti che stanno frequentando il corso di formazione nella scuola di polizia di Parma; si attui una razionalizzazione delle risorse umane e materiali, eventualmente unificando le due direzioni amministrative che attualmente operano in modo separato per i due istituti di Reggio ubicati in una stessa sede e si doti il corpo di polizia penitenziaria dei necessari automezzi per l’esecuzione della traduzione dei detenuti”. Gorizia: la promessa di Alfano; no alla chiusura, il carcere sarà risistemato Messaggero Veneto, 17 giugno 2011 Non è ancora detta l’ultima parola per il carcere di Gorizia, sul quale incombe lo spettro di un decreto di chiusura che giace da mesi sulla scrivania del ministro della Giustizia, Angelino Alfano. La questione è stata al centro di un incontro tra lo stesso Guardasigilli e il sindaco, Ettore Romoli, che martedì sera si è recato in missione a Roma per capire quali margini di manovra sussistono per tentare di evitare che la casa circondariale di via Barzellini chiuda i battenti. La struttura penitenziaria, classificata come carcere di media sicurezza (può ospitare i detenuti che devono scontare una pena inferiore ai cinque anni), è da anni in preda a condizioni di marcato degrado, che hanno causato levate di scudi da parte di politici e rappresentanti sindacali degli operatori. “Alfano - spiega Romoli - mi ha assicurato che darà disposizioni affinché venga effettuata una nuova ispezione, volta a valutare la possibilità di effettuare alcuni interventi di ristrutturazione, indispensabili per rendere perlomeno vivibile il carcere, in attesa di individuare i finanziamenti per un intervento definitivamente risolutivo”. L’ispezione dei funzionari del ministero dovrebbe essere programmata entro la fine dell’estate, ovvero prima che Alfano, fresco di nomina alla segreteria del Pdl, lasci il dicastero per dedicarsi in via esclusiva all’incarico politico. Considerate le condizioni della struttura, che ha una capienza di appena 40 posti letto, è difficile ipotizzare che il ministero avvalli la decisione di ristrutturare il carcere goriziano: qualora decidesse di farlo, tuttavia, non andrebbe scartata l’ipotesi della creazione di un nuovo padiglione negli attigui spazi dell’ex scuola elementare Pitteri, destinati magari ad ospitare i detenuti che devono scontare pene alternative. La fase di stallo che sta vivendo il percorso d’attuazione del piano carceri varato da Alfano potrebbe far slittare ogni decisione al 2012. Intanto, nella capitale Romoli ha incontrato anche il ministro per gli Affari regionali, Raffaele Fitto, con il quale ha discusso dell’iter di attuazione del Gect (Gruppo europeo di cooperazione territoriale): “Cercheremo di velocizzare al massimo la registrazione dell’organismo, magari già entro luglio. Nel frattempo, metteremo a disposizione funzionari del ministero per verificare la possibilità di attribuire direttamente finanziamenti al Gect per l’area goriziana senza il passaggio da altri enti”, ha assicurato Fitto, che ha espresso la volontà di presenziare a Gorizia alla cerimonia di insediamento ufficiale del Gect. Oristano: la denuncia del Pd; il carcere di piazza Manno è invaso dai topi La Nuova Sardegna, 17 giugno 2011 Invasione di topi nel carcere di Piazza Mannu. L’allarme lo lancia il consigliere provinciale Pd Battista Ghisu. “Da una settimana detenuti, agenti di Polizia penitenziaria, personale amministrativo sono esposti ai pericoli di malattie infettive dovute alla presenza di topi provenienti dalle fogne cittadine. La Direzione del carcere già dalla scorsa settimana ha inviato una comunicazione alla Provincia, alla Asl e per conoscenza anche al Prefetto per risolvere questa emergenza. Emergenza nata con la chiusura del servizio di derattizzazione da parte della Provincia di Oristano, che ha dovuto prendere atto, in accordo con le altre Province sarde, delle nuove normative del ministero del Lavoro, e della Salute che assegnano la competenza per gli interventi di derattizzazione in capo all’assessorato regionale alla Sanità attraverso le Asl competenti per territorio”. Ghiuso ha già parlato dell’emergenza con l’assessore provinciale all’Ambiente, il quale lo ha informato che la Provincia ha chiuso il servizio dal 1 maggio 2011 a seguito anche della comunicazione della Regione, che il 18 gennaio 2011, ha scritto che la Provincia “in assenza di una modifica delle competenze e delle relative risorse, non potranno essere effettuati interventi di derattizzazione”, e che “gli interventi di derattizzazione, configurandosi esso quale argomento attinente operazioni di natura espressamente igienico-sanitaria e di contrasto alla diffusione di gravi patologie di tipo infettivo, la competenza ricade tra quelle in capo all’assessorato regionale alla Sanità”. Di contro la Asl ha risposto alla Provincia alla Asl compete la vigilanza igienica e che la derattizzazione “non risulta pertanto tra le attività istituzionali delle Aziende sanitarie. “Il rimpallo delle responsabilità e delle competenze in quadro normativo abbastanza ingarbugliato sta causando un notevole disservizio - dice Ghisu - che va risolto nel più breve tempo possibile perché il carcere di Oristano non può esser evacuato come una scuola o un qualunque Ufficio Pubblico. All’interno del carcere ci sono 97 detenuti, 109 addetti tra ufficiali e agenti della Polizia Penitenziaria e 20 impiegati del servizio amministrativo che vanno tutelati. Qui si deve intervenire e questa emergenza deve essere risolta per evitare il diffondersi di malattie infettive. Nella mattinata nella guardiola è stato catturato un topo di 18 centimetri e ce ne sono tantissimi liberi di circolare nelle celle, negli uffici e nei diversi reparti. È inammissibile che il carcere debba essere lasciato in queste condizioni e non possono restare inascoltate le giuste proteste della Direzione del carcere che chiede aiuto alle autorità preposte a difesa dei diritti alla salute dei detenuti e del personale che ci lavora. Come consigliere del Partito democratico mi sono fatto carico subito del problema gravissimo e insieme ai miei colleghi del Gruppo Roberto Scema, Mario Tendas, Francesco Federico e Giangavino Buttu abbiamo deciso di denunciare questa gravissima situazione di inciviltà. Stamattina ne ho interessato l’assessore provinciale all’Ambiente Emanuele Cera. Il Pd presenterà un’interpellanza urgente in consiglio provinciale affinché l’Ente si faccia carico del problema, considerato che a seguito della rimozione di tutte le esche da parte della Provincia nelle diverse zone a rischio degli 88 Comuni, sono ormai numerose le segnalazioni di invasione di topi, in scuole, uffici, luoghi pubblici. Ancona: maxi-rissa a Montacuto fra albanesi e nordafricani; 2 detenuti feriti, 4 agenti contusi Ansa, 17 giugno 2011 Una maxirissa tra detenuti albanesi e nordafricani si è sviluppata stamattina alle 10 nel carcere di Montacuto, ad Ancona. Sei-sette persone hanno dovuto far ricorso alle cure mediche, due sono in condizioni piuttosto gravi. Contusi anche quattro agenti di polizia penitenziaria. La rissa sarebbe scaturita da vecchi rancori fra i due gruppi, dopo che ieri era scoppiata una lite fra due albanesi e un tunisino. Preoccupato per la situazione il segretario regionale del Sappe Aldo Di Giacomo, “non solo per il sovraffollamento di questo carcere, che ormai è un fatto normale, ma perché oltre il 60% di detenuti stranieri rende Montacuto una bomba a orologeria. L’amministrazione - incalza Di Giacomo - non si rende conto della gravità della situazione. Ci preoccupa tanto, tantissimo, che non vi sia una presa di coscienza del pericolo”. Pordenone: carcere inadeguato, il Radicale Stefano Santarossa avvia lo sciopero della fame Il Gazzettino, 17 giugno 2011 Da oggi Stefano Santarossa, esponente dei Radicali friulani, ha avviato lo sciopero della fame seguendo l’iniziativa avviata dal 20 aprile a livello nazionale da Marco Pannella per denunciare la situazione delle carceri italiani. A Pordenone sono 85 le persone recluse a fronte di una capienza regolamentare di 43 e una tollerabile di 68. La casa circondariale è insediata all’interno del castello di piazza della Motta, di cui da decenni si attende il trasferimento in Comina, nell’area di via Castelfranco Veneto individuata con variante al piano regolatore dal Comune. “Nonostante la classe politica in questi anni abbia più volte rassicurato sulla soluzione del problema con la costruzione del nuovo carcere - afferma Santarossa - dopo vent’anni di promesse, di tentativi andati a vuoto, di finanziamenti già pronti ma mai impegnati, oggi serve una scelta che riporti la situazione delle carceri nella legalità”. Una protesta che si inserisce nell’iniziativa dei radicali “per dare una risposta alla richiesta di giustizia, dei dieci milioni di processi pendenti, dell’amnistia per coloro che riescono con i buoni avvocati ad arrivare alla prescrizione, mentre i poveracci, ancora in attesa di giudizio, vivono in situazioni disumane nelle carceri”. La proposta dei radicali è quella di un’amnistia al fine “di far rientrare nella legalità lo Stato che si trova in una situazione di criminalità professionale. Da decenni si stanno realizzando in Italia forme di detenzione che non sono previste e tollerate dalla legge italiana e internazionale. Rappresentano una forma di sequestro a opera della forza pubblica”. Santarossa, avviando lo sciopero della fame, chiede al nuovo sindaco di Pordenone, Claudio Pedrotti, di interessarsi della situazione in cui versa il carcere di piazza della Motta. Torino: detenuto aggredisce tre agenti penitenziari durante processo e li manda in ospedale Adnkronos, 17 giugno 2011 Subito dopo la sentenza che lo condannava a un anno di reclusione per rapina ha aggredito con calci e pugni i tre agenti di polizia penitenziaria che lo avevano scortato in tribunale. È successo questa mattina poco prima di mezzogiorno al Tribunale di Torino. Protagonista un marocchino di 18 anni che, appena ascoltata la sentenza di condanna, ha dato in escandescenze. I tre agenti sono stati portati all’ospedale Maria Vittoria di Torino per essere medicati. “Nel carcere di Torino va sempre peggio” è la denuncia di Leo Beneduci, segretario generale dell’Osapp, Organizzazione sindacale autonoma di polizia penitenziaria. “Tra aggressioni, suicidi, turni massacranti, mensa di servizio che non funziona, carenza di fondi e di organico - sottolinea Beneduci - la polizia penitenziaria è sempre più abbandonata a se stessa e si trova ad affrontare da sola la crescente emergenze di un sistema penitenziario che è arrivato alla frutta”. “Chiediamo - conclude il segretario generale dell’Osapp - l’impiego dell’esercito per fronteggiare un’emergenza ormai inarrestabile”. Allasia (Lega): solidarietà ai tre agenti aggrediti “Ai tre agenti di polizia penitenziaria, aggrediti questa mattina in Tribunale e finiti in ospedale, va tutta la mia solidarietà”. Così Stefano Allasia, deputato e segretario provinciale della Lega Nord torinese, in merito all’aggressione compiuta stamane da un giovane marocchino, appena condannato per rapina, ai danni dei tre agenti che lo avevano scortato. “Presenterò un’interrogazione urgente al ministro della Giustizia - conclude Allasia - per sapere quali siano le azioni che il governo sta mettendo in pratica per fronteggiare l’ormai grave emergenza delle carceri, soprattutto riguardo al loro sovrappopolamento ed alla mancanza di organico”. Napoli: una coop di ex scippatori per proteggere i turisti; proposta al neo sindaco De Magistris Ansa, 17 giugno 2011 Da scippatori navigati ad angeli custodi dei turisti in arrivo al porto di Napoli. Un gruppo di ex detenuti partenopei ha lanciato questa iniziativa ribattezzata “Pizza & mandolino” dopo la tragica morte del turista americano derubato del suo rolex nel capoluogo partenopeo. A illustrarla è Pietro Ioia, 51 anni, uscito da poco dal carcere e tra i fondatori del progetto. Gli ex detenuti hanno precisato che non intendono sostituirsi alle forze dell’ordine “ma dare prova che il cambiamento è possibile per chi viene dal mondo del crimine”. I volontari del Don (l’associazione di ex detenuti napoletani organizzati) hanno chiesto al neo sindaco Luigi De Magistris e al prefetto l’autorizzazione per far decollare l’iniziativa. Chieti: caramelle e fiabe per 40 bimbi in visita ai genitori-detenuti Il Centro, 17 giugno 2011 Sono andati a trovare i loro genitori in carcere. Ai 40 bambini, figli dei detenuti della casa circondariale di Madonna del Freddo la direzione del carcere e gli operatori hanno offerto libri di favole, una gerbera colorata e caramelle. L’iniziativa è della direzione dell’istituto, nel contesto della campagna di sensibilizzazione sulla genitorialità in carcere dal titolo “Un Bambino in fiore”, dall’omonimo racconto dello scrittore Zaccaria Sakkis nato a Volos (Grecia) nel 1915. Contattato dall’area educativa dell’istituto, Sakkis si è reso disponibile a sostenere il progetto facendo recapitare in carcere copie gratuite delle sue opere illustrate: Favole e Le belle storielle. Il progetto si è chiuso con la distribuzione dei doni nella sezione femminile. Siracusa: foto dei figli sequestrate a un detenuto, che si appella al Magistrato di Sorveglianza La Sicilia, 17 giugno 2011 Sebastiano Guzzardi, rinchiuso a Cavadonna, che ritiene che siano stati violati i diritti suoi e degli altri detenuti, ha rivolto al Magistrato di Sorveglianza, Carla Frau, due appelli. Col primo, il detenuto, “chiede al Magistrato di non chiamarsi fuori ma di far ristabilire un principio fondamentale, punto cardine in un ordinamento democratico: di cancellare la disposizione della direzione del carcere con la quale sono state sequestrate le fotografie dei figli spedite ai detenuti con corrispondenza ordinaria”. Guzzardi, richiamando l’articolo 15 della Costituzione, che tutela la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione. ricorda che “la loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell’Autorità Giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge”. A suo dire, gli atti dell’Amministrazione penitenziaria “sono lesivi dei diritti di coloro che sono sottoposti a restrizione della libertà personale” e sono destituite da fondamento le spiegazioni addotte dall’Amministrazione, che parla di “esigenze di tutela della sicurezza all’interno dell’istituto”. L’invito al Magistrato Frau è quindi quello di vigilare sulla corretta applicazione delle norme previste dall’articolo 69 Ordinamento penitenziario. Il secondo invito verte sull’applicazione dell’articolo 74 Ordinamento penitenziario, in cui si fa riferimento al Consiglio di aiuto sociale. “Il Magistrato di Sorveglianza, in simbiosi con i responsabili dell’Uepe, dapprima liquida la questione come qualcosa di superfluo, spingendosi con una punta di fastidio, a definirla pura utopia, e comunque rientrante nella sfera del volontariato. Ma l’articolo 74 O.P. recita che il Consiglio di aiuto sociale ha personalità giuridica e all’art. 75 O.P. comma 1) dice che siano fatte frequenti visite ai liberanti al fine di favorire, con opportuni consigli e aiuti, il loro reinserimento nella vita sociale”. Messina: il direttore dell’Opg; per maggioranza internati servirebbe istituto a custodia attenuata Gazzetta del Sud, 17 giugno 2011 Il 2011 dovrà essere l’anno del superamento definitivo degli Ospedali psichiatrici giudiziari. È un auspicio ma al contempo l’impegno assunto dalle istituzioni che operano a vario titolo nell’ambito della psichiatria giudiziaria, nel corso della giornata di lavoro sugli Opg convocata dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sull’efficienza e l’efficacia del Servizio sanitario nazionale, che si è svolta al Senato nella sala Zuccari di Palazzo Giustiniani. Un tavolo di confronto significativamente intitolato “Se questo è un ospedale”, cui ha preso parte una significativa rappresentanza dell’istituzione penitenziaria barcellonese. Oltre al direttore del “Madia” Nunziante Rosania, sono intervenuti il responsabile dell’area sanitaria Antonino Levita, l’educatore coordinatore Giancarlo Cavallaro, e, per conto delle associazioni del territorio, il responsabile della Casa di solidarietà e accoglienza, padre Pippo Insana. “È comune l’intento di chiudere al più presto l’esperienza degli Opg - afferma Nunziante Rosania - partendo dalla considerazione di fondo che è necessario individuare idonee soluzioni alternative che tengano conto della peculiarità delle situazioni giuridiche, psicopatologiche, familiari e sociali degli internati. Studiare quindi percorsi individuali e condivisi per evitare che ci sia ancora la tentazione di tenere in vita contenitori di soggetti rifiutati dalla società. C’è un’ampia maggioranza di detenuti - chiarisce Rosania - per i quali la soluzione sarebbe un istituto penitenziario in custodia attenuata con ampia disponibilità d’ingresso per gli operatori del Servizio sanitario nazionale. Ci sono soggetti in proroga della misura di sicurezza che per i quali bisogna predisporre percorsi di reinserimento. Lo stesso vale per i prosciolti definitivi. Per coloro che si trovano dentro in misura di sicurezza provvisoria occorre accelerare la celebrazione dei processi. Infine, laddove prevalgono esigenze di difesa sociale, servono strutture ospedaliere protette, ben attrezzate e fornite di personale specializzato”. Una riforma radicale che per Barcellona non può non tenere conto della questione occupazionale. “Si tratta di riconvertire la struttura in istituto penitenziario a custodia attenuata - propone il direttore - In tal modo si accrediterebbe la necessità di un organico di polizia penitenziaria più ampio irrealizzabile fintantoché permane l’Opg”. Restano sul campo altri interventi da attivare con urgenza: il rispetto dei bacini d’utenza, la responsabilizzazione dei dipartimenti di Salute mentale e delle Asp, e, per quanto concerne la Sicilia, la soluzione dei problemi di risorse che, come affermato di recente dall’assessore alla Sanità Massimo Russo, impedirebbero di fatto il recepimento del Dpcm che sancisce il passaggio dell’assistenza sanitaria negli istituti penitenziari dal Ministero della Giustizia alla Sanità regionale. La Commissione presieduta dal senatore Marino si è impegnata a seguire fino in fondo il percorso, come ha sottolineato la senatrice Donatella Poretti, moderatrice del convegno, cui non ha voluto mancare per un indirizzo di saluto il presidente del Senato Renato Schifani. Dopo la proiezione del documentario integrale realizzato dalla Commissione all’interno degli Ospedali psichiatrici giudiziari, si sono susseguiti gli interventi dei rappresentanti delle strutture penitenziarie, dei Dipartimenti di Salute Mentale, della Magistratura di sorveglianza, del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, dell’amministrazione sanitaria centrale, delle autorità garanti dei diritti della persona, delle associazioni “StopOgp”, della società civile. La conclusione dei lavori è stata affidata ai senatori Daniele Bosone e Michele Saccomanno, relatori del filone d’inchiesta sulla salute mentale. Piacenza: il rocker Massimo Priviero in concerto per i detenuti delle Novate Piacenza Sera, 17 giugno 2011 I percorsi socioriabilitativi dei detenuti passano anche attraverso la musica. Mercoledì 22 giugno, nel primo pomeriggio, è in programma presso la Casa Circondariale di Piacenza il concerto acustico di Massimo Priviero, organizzato dall’Asp Città di Piacenza. “L’iniziativa - sottolinea l’assessore alla Solidarietà Giovanna Palladini - si inserisce negli interventi territoriali a favore delle persone in condizione di detenzione. L’obiettivo non è soltanto quello di fornire un paio d’ore di buona musica ma quello di emozionare e coinvolgere i detenuti che saranno ammessi ad assistere alla spettacolo”. Priviero, classe 1962, veneto trapiantato a Milano, è cantautore e compositore di genere rock con all’attivo più di dodici album. Per il suo stile energico ma allo stesso tempo intimista molti lo hanno definito come la risposta italiana a Bruce Springsteen. Sempre attento alle tematiche del sociale, il quotidiano “La Repubblica” nel 2010 lo ha segnalato come uno dei 100 nomi dell’anno per l’attenzione ai testi e alla libertà espressa in essi. Contattato in occasione dello spettacolo “Storie dell’Altra Italia” con il giornalista Daniele Bianchissi e la band dei Gang, rappresentato alcuni mesi fa alla sala dei Teatini, ha accettato di esibirsi gratuitamente insieme ai musicisti Onofrio Laviola e Alex Cambise. Catania: oggi l’arcivescovo Salvatore Gristina a Piazza Lanza per la “Giornata del carcere” La Sicilia, 17 giugno 2011 Oggi, alle 10.30, l’arcivescovo mons. Salvatore Gristina ha visitato il penitenziario di piazza Lanza e presieduto la concelebrazione della messa nella cappella della Casa circondariale con il cappellano p. Francesco Furnari nella ricorrenza della “giornata del carcere” e nel contesto dell’anno del volontariato, finalizzata a porre in luce i problemi dei detenuti e di coloro che vi lavorano ad ogni livello. L’iniziativa è promossa, in sinergia con la sicurezza, dalla direzione della Casa che ha voluto la ristrutturazione della cappellania al fine di dare una forma più funzionale al volontariato cattolico che collabora all’interno del carcere. La presenza del volontariato è molto efficace nell’istituzione carceraria costituente un microcosmo che ha bisogno della comprensione dei cittadini e di quanti vi operano. La direzione e l’area educativa sono aperte verso progetti di formazione per il reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti. “Scopo della cappellania - precisa p. Francesco - è quello di stare accanto e di sviluppare le relazioni umane tra i vari componenti dei sottosistemi dell’istituto per collaborare a unificare gli sforzi verso il rispetto della persona reclusa”. La cappellania si avvale di 21 volontari, tra cui la presenza pastorale del frate minore p. Salvatore, provenienti da varie aggregazioni laicali come Comunione e Liberazione, gruppi di Madre Teresa di Calcutta e della parrocchia francescana di S. Maria di Gesù. Obiettivo della cappellania è promuovere, incoraggiare, animare e coordinare le istituzioni, i servizi e le persone che lavorano nella pastorale penitenziaria, con il mandato di evangelizzare e promuovere l’instaurazione del Regno di Dio, per umanizzare il penitenziario mediante la difesa dei diritti inalienabili della persona e servire da ponte con la società esterna. Altre finalità sono: informare la comunità ecclesiale dei problemi del mondo penitenziario affinché prenda coscienza delle sue esigenze, promuovere e formare operatori pastorali per la missione specifica raccomandata dal vescovo”. Bologna: “Liberarsi con le parole”; il titolo del libro che raccoglie i testi prodotti dai detenuti Ristretti Orizzonti, 17 giugno 2011 Al direttore responsabile di Ristretti Orizzonti. Gentile Direttore, chi le scrive è il responsabile dell’Associazione volontari del carcere di Bologna, che ha promosso all’interno della “Dozza” una giornata dedicata alla scrittura creativa e a quella autobiografica, di cui è stata data gentilmente notizia nel Suo quotidiano telematico in data 9 giugno 2011. Desidero con la presente completare e correggere l’informazione da voi data. Il titolo del libro, che raccoglie i testi prodotti dai detenuti, è “Liberarsi con le parole”, mentre quello da voi riportato è il meno significativo “Giocare con le parole”, che è in realtà soltanto il sottotitolo della prima parte del volumetto, coordinata dal volontario Francesco Piazzi. Esiste poi una seconda parte del volume (di cui non si fa menzione nel vostro articolo), ugualmente significativa, relativa alla scrittura autobiografica, curata dalla volontaria Maria Luisa Pozzi. Specificatamente per questa seconda parte, il docente universitario, punto di riferimento teorico di tutto il progetto, è il Prof. Duccio Demetrio, noto studioso delle problematiche attinenti alla scrittura autobiografica, che ha voluto presenziare alla lettura dei testi nell’incontro alla Dozza dell’8 giugno u.s. per inquadrare teoricamente l’iniziativa e per esprimere il suo plauso ai detenuti. Ringrazio per l’attenzione e resto in attesa di una cortese rettifica. Prof. Giuseppe Tibaldi Presidente AVoC Livorno: la “ragazza sull’albero” sbarca in Gorgona, per raccontarsi a detenuti e residenti Ristretti Orizzonti, 17 giugno 2011 Dalle sequoie californiane agli olivi di Gorgona: la storia della “ragazza sull’albero” raccontata direttamente ai detenuti e alla popolazione residente della più piccola isola dell’Arcipelago Toscano Come spesso accade le storie più incredibili si legano a doppio filo con i luoghi più insospettabili. Nella giornata di ieri, l’isola di Gorgona, ha accolto una visitatrice molto speciale, Julia “Butterfly” Hill, la giovane ambientalista americana passata agli onori della cronaca mondiale per aver difeso dall’abbattimento una sequoia millenaria in California, battezzata Luna, rimanendo abbarbicata su una piattaforma costruita tra i suoi rami a 60 metri da terra per oltre due anni. La sua affascinante vicenda è stata raccontata nel libro “La ragazza sull’albero” (Corbaccio) dove si descrive la dura esperienza alla quale si è sottoposta nel 1997 all’età di 23 anni. In previsione di un suo tour in Italia siamo riusciti a farle dedicare una giornata in Gorgona per testimoniare in modo diretto e in un luogo così speciale, che, azioni concrete, non violente volte a favore della salvaguardia della vita, nel tempo, portano a risultati inattesi. La scelta di sacrificare e mettere in pericolo la sua vita per un bene superiore è stata raccontata a tutti i rappresentanti della varia comunità di Gorgona e della sua Casa di Reclusione: gorgonesi, agenti e loro familiari, detenuti, operatori, giovani e bambini. Il suo racconto denso di contenuti ha emozionato tutti e ha permesso di riflettere su un nuovo approccio al mondo e al significato di responsabilità individuale e di salute globale. “Insieme cambiamo il mondo” è stato lo slogan che ha accompagnato l’incontro tra mondi apparentemente lontani ma in realtà uniti dallo stesso filo rosso nella ricerca della libertà personale e nella missione che ognuno di noi può e deve compiere. Questo straordinario evento si inserisce a pieno titolo all’interno di un percorso più ampio e condiviso, avviato da tutti coloro che interagiscono con il microcosmo dell’isola. L’obiettivo è il consolidamento del “modello Gorgona” come vero e proprio laboratorio open air in materia di salute diffusa, vivibilità e sostenibilità, nel quale uomini, animali e ambiente dialogano fra loro per contribuire in modo ecosistemico all’armonia di tutte le parti. Questa intensa giornata, che rimarrà sicuramente incisa nella memoria storica dell’isola, è stata anche inaspettatamente propedeutica al prossimo importante appuntamento che si svolgerà sempre sull’isola il 18 e 19 giugno con il convegno “Gorgona: fra utopia e realtà”, due giornate di studio coordinate dagli operatori della Casa di Reclusione, alle quali parteciperanno attivamente rappresentanti dell’Amministrazione Penitenziaria, amministratori locali, volontari ed esperti in materia di salute, lavoro e detenzione. Per contatti: simonaghinassi@alice.it Simona Ghinassi Volontaria ex Art. 17 c/o Casa di Reclusione di Gorgona Foggia: il 20 giugno conferenza stampa per la conclusione del progetto “Terra in vista” Ristretti Orizzonti, 17 giugno 2011 La cooperativa Salute, Cultura e Società alla conclusione del progetto “Terra in vista”, indirizzato ad un gruppo di detenuti della Casa Circondariale di Foggia terrà il 20 giugno presso la struttura detentiva una conferenza stampa di presentazione dei risultati del progetto e del sito web dedicato allo stesso. Il progetto “Terra in vista” si è svolto dallo scorso gennaio a giugno 2011. Destinato a detenuti con problemi di dipendenza patologica da sostanze stupefacenti si è articolato in due incontri settimanali. Un incontro di scrittura creativa gestito da un giornalista con la realizzazione di un foglio informativo interno denominato “Terra in vista”, in cui i partecipanti al corso hanno affrontato le tematiche inerenti alla dipendenza e alla carcerazione partendo dalle proprie esperienze personali. L’altro momento del corso ha previsto incontri psico motivazionali condotti da un educatore e da uno psicologo, nel corso dei quali si è data la possibilità ai detenuti di affrontare le problematiche legate alla dipendenza, alla carcerazione, all’affettività, al ruolo di figlio, padre a ai progetti futuri. All’incontro di presentazione del progetto parteciperanno la Direttrice della Casa Circondariale di Foggia Dott.ssa Simona Vernagliona; il Giudice di sorveglianza Dott. Domenico Mascolo; il Presidente della Cooperativa “Salute, Cultura e Società” Dott. Francesco Delli Santi; il coordinatore del progetto Dott. Antonio Vannella; lo psicologo del gruppo psico-motivazionale Dott. Giovanni Papa: Hanno dato la loro adesione di partecipazione il Sindaco di Foggia dott. Gianni Mongello; l’Arcivescovo di Foggia e Bovino S. E. Mon. Francesco Pio Tamburino; l’Assessore alla legalità (vice Sindaco) di Foggia dott.ssa Lucia Lambresa; gli Assessori ai Servizi Sociali dell’Amministrazione Comunale e Provinciale di Foggia Pasquale Pellegrino e Antonio Montanino. L’appuntamento di presentazione del progetto “Terra in vista” vuole essere momento e segno di incontro vicinanza e attenzione verso quei cittadini che pur avendo commesso reati, oggi elaborano propositi di recupero e reinserimento. Bologna: detenuti per uxoricidio nello stesso carcere, presto si sposeranno Ansa, 17 giugno 2011 Sono in carcere, nello stesso carcere, dove entrambi devono scontare una condanna per l’omicidio del consorte. Presto si sposeranno. Francesca Brandoli, modenese di 38 anni, condannata all’ergastolo per aver ucciso il marito; e Luca Zambelli, 42 anni di Sassuolo condannato a 18 anni per l’assassinio della moglie, vogliono unirsi in matrimonio. Che avverrà nel carcere della Dozza, a Bologna, dove vivono. I due delitti furono commessi nel 2006. Il 16 maggio Zambelli, elettricista, accoltellò Stefania Casolari, barista di 36 anni, nella loro casa di Sassuolo, nel Modenese. Si stavano separando, lui non sopportava che la donna avesse un nuovo compagno, e soprattutto le complicazioni della separazione con relative le ripercussioni sui figli (all’epoca dei fatti di 14 e 10 anni). La colpì con 21 coltellate, fu condannato a 20 anni in primo grado con rito abbreviato, ridotto a 18 in appello. Sempre nel 2006, ma il 30 novembre Francesca Brandoli, e l’amante Davide Ravarelli, uccisero a coltellate e colpi di martello l’ex marito della donna, Christian Cavaletti, a Reggiolo (Reggio Emilia). Proprio quel giorno il giudice aveva appena affidato alla vittima i due figli della coppia. Per l’accusa quello fu il movente dell’omicidio. Nell’ottobre 2010 la Cassazione ha confermato il carcere a vita per i due assassini, cui fu contestata anche la premeditazione del delitto: prima di commetterlo avevano comperato dei guanti. L’unione tra Francesca Brandoli, che in carcere tentò anche il suicidio, e il complice si è interrotto. Ora la donna ha un nuovo legame, quello appunto con Zambelli. Galeotto, tra loro, sarebbe stato un incontro nella sala dei colloqui del carcere di Bologna. I due infatti si conoscevano da prima che la loro vita si incrociasse dietro le sbarre, ma il legame è sbocciato solo negli ultimi mesi. Saputo di essere detenuti nello stesso luogo hanno iniziato a scriversi, poi hanno chiesto un incontro in sala colloqui. Ora si scrivono e si vedono una volta al mese. Se i loro legali (Lucrezia Pasolini per Brandoli e Paola Benfenati per Zambelli), riusciranno a superare gli scogli burocratici, dopo l’affissione delle pubblicazioni di matrimonio i due potrebbero sposarsi entro fine estate. Quando saranno marito e moglie gli incontri mensili potranno essere fino a sei. “Non ho mai assistito Zambelli in udienza, ma solo nella fase esecutiva da qualche mese - ha spiegato Benfenati. Quando l’ho conosciuto mi ha manifestato l’intenzione di sposarsi. Lui e Francesca Brandoli si conoscevano da prima di entrare in carcere, perché sono entrambi originari di Modena”, ha confermato il legale, sottolineando che non solo la sentenza ha riconosciuto l’atteggiamento collaborativo del suo assistito, ma che questi anche in carcere ha sempre tenuto un buon comportamento. Testimoni delle nozze, nella casa circondariale e con rito civile, dovrebbero essere i volontari che assistono i due condannati nelle loro attività alla Dozza. Brandoli nella sezione femminile (dove si trova anche Anna Maria Franzoni) fa volontariato in biblioteca; potrà sperare nella semilibertà tra una ventina di anni, mentre Zambelli ne deve scontare ancora 12, ma potrà chiedere di accedere ai benefici quando avrà scontato metà della pena. L’unione riapre le ferite dei parenti delle loro vittime. “Io non li sento da tempo - ha spiegato l’avvocato Enrico Della Capanna che tutelò come parte civile il padre di Christian Cavalletti, Claudio, la madre, Ezilda Menegatti, e i bambini - ma so che il padre, quando ha saputo la notizia delle nuove nozze, ha detto che di quella donna non gliene importa più nulla”. Parma: Calisto Tanzi sviene in carcere, ricoverato in ospedale Ansa, 17 giugno 2011 Calisto Tanzi si trova da ieri mattina in Ospedale. Vi è stato trasportato dal carcere di via Burla, nel quale si trova recluso da diverse settimane. Nessuna indiscrezione sulla natura del malore che lo ha colpito (un flash dell’agenzia Ansa parla di sospetta ischemia): di certo, si sa solo che Tanzi è ricoverato nella sezione dei detenuti, che fa parte del complesso dell’Ortopedia ma che fa reparto a sé. Tanzi, che ha 72 anni, è detenuto nel carcere parmigiano dai primi di maggio, quando a seguito del passaggio in giudicato della sentenza di condanna a 10 anni di reclusione pronunciata a Milano è stato arrestato dalla Guardia di Finanza. I suoi legali hanno chiesto al tribunale di sorveglianza di Bologna la concessione dei domiciliari facendo presente le precarie condizioni dell’ex patron e il raggiungimento, da parte di quest’ultimo, dell’età prevista dalla legge per l’applicazione di una misura più tenue rispetto alla detenzione in carcere. Entrambe le istanze sono state respinte. Da quando era stato trasferito in carcere Tanzi godeva di un regime detentivo attenuato. Il Tribunale di Sorveglianza di Bologna, da cui dipende l’istituto di pena di Parma, aveva deciso per l’ex patron di Parmalat la reclusione in una cella singola della sezione cosiddetta dei “minorati fisici” sotto monitoraggio costante delle condizioni di salute. Ogni giorno, a causa dell’età e dei problemi cardiaci e psicologici lamentati da Tanzi, il centro clinico del carcere emetteva un referto stilato da un medico e da uno psichiatra. Oggi il malore e la caduta dalla branda che hanno portato Tanzi in ospedale. Roma: a Rebibbia un monaco zen medita con detenuti e agenti di Alessandra Di Pietro Gli Altri, 17 giugno 2011 Una volta alla settimana il monaco zen Dario Doshin Girolami entra nella casa di detenzione di Rebibbia a Roma per meditare con un gruppo di 24 detenuti di cui la metà ergastolani. Finito con loro, comincia a farlo con trenta guardie carcerarie. Il monaco ha importato l’esperienza di trovare il silenzio interiore dietro le sbarre dal San Francisco Zen Center - il monastero dove è stato ordinato - e che, da 40 anni, collabora con il carcere di San Quintino (California). I risultati americani sono straordinari: diminuzione di stress e rabbia, calo dei suicidi, meno 20% di recidivi. In Italia sarà il dipartimento di Psicologia della Sapienza a monitorare gli effetti della pratica misurando con dei questionari il livello di ansia, aggressività, umore, consapevolezza dei detenuti prima e dopo il training. Questo è il secondo anno che la meditazione apre spazi virtuali a Rebibbia, dunque lo studio è già a buon punto, se ne può parlare. Incontro Doshin all’Arco Zen, il suo Centro di meditazione in piazza Dante, a Roma: ha 44 anni, è piccolo di statura, possiede un’aria solida, è di aspetto tosto e gentile insieme, gli occhi neri sono profondissimi. Sul retro della sala dove si medita c’è un piccolo giardino zen che sta sotto le finestre di un palazzo: alcuni distrattamente ci buttano le cicche, altri incuriositi vengono giù a vedere, fermandosi magari a praticare. Scegliamo di sederci nella stanza d’ingresso, io su una sedia, lui su un’altra, separati da un piccolo tavolino. Cominciamo dalla carta d’identità: “Sono italiano, nato a Roma, ho cominciato a meditare per gioco a 6 anni. Il mio pediatra praticava yoga ed era agopuntore, mi regalava i libri di Thich Nhat Hanh (monaco buddista vietnamita), erano per me una lettura interessante”. Sono gli anni 70. Cresce in una famiglia libertaria? Mio padre era un regista della commedia italiana (il famoso e prolifico Marino Girolami ndr), mia madre una costumista (Silvana Scandariato), giocavo sui set con Tognazzi, Mastroianni, Manfredi. È stato santo fin da subito? Ma no, giocavano a pallone, andavo al liceo, però la meditazione era sempre con me. Finito il liceo, mi iscrissi a Filosofie orientali. li ho conosciuto il professore Corrado Pensa, (psicoanalista, maestro della meditazione Vipassana, tra le più note ndr). Ho iniziato a meditare e viaggiare in Oriente e negli Stati Uniti. Quando sono arrivato al San Francisco Zen Center ho trovato una maestra, l’ho seguita, ho preso i voti. E lì incontra anche la meditazione per i carcerati. Il centro ha una lunga tradizione di collaborazione con San Quentin. Io ho il passaporto italiano e non potevo entrare. Però seguivo il corso di formazione per diventare operatore nelle galere e insegnavo agli ex detenuti. E sente che questa è una sua strada. Meditare con i detenuti è educativo per me. Perché? Basta la deviazione dello spessore di un capello per separare cielo e terra. Incontrare di persona pluriomicidi, responsabili di efferati delitti, meditare con loro, mi permette di comprendere che non si tratta di mostri ma di esseri umani, non diversi da noi. In fondo tutti, prima o poi, abbiamo concepito pensieri violenti. Certo, poi non gli abbiamo dato corso, grazie all’auto controllo, all’educazione, alla fede, alla fortuna. C’è chi non ha avuto le nostre possibilità. E il velo che ci separa è davvero sottile. Nella meditazione insieme ritroviamo una superiorità morale e una dimensione di umanità. È stato difficile cominciare? Sì. Dal 2000 ho iniziato a girare per le carceri ma incontravo la resistenza delle direzioni e dei cappellani. Anche se io presento la meditazione come tecnica di riduzione dello stress sono pur sempre un monaco. Avevano una sola motivazione concreta. La popolazione carceraria è soprattutto povera e straniera. I nordafricani hanno una pratica religiosa intensa e non sono interessati. Lei non ha desistito. Mai. Un giorno parlo del progetto con Antonino Raffone, un mio studente di meditazione e professore di neuroscienza alla Sapienza. Lui è entusiasta e coinvolge subito la sua collega Serena Mastroberardino che lavora già con i detenuti. Ed è fatta. Il direttore del carcere è subito disponibile. Viene formato un gruppo tra gli ergastolani con problemi di aggressività, gente che deve fare pace con la condanna a vita. A loro, per primi, propongo il corso. L’impatto è stato duro? Appena entrato uno di loro mi ha riconosciuto monaco zen e si è inchinato. Un altro mi ha rimproverato perché avevo i capelli non perfettamente rasati. La prima domanda è stata: è vero che posso levitare? Abbiamo riso ed è stato più semplice del previsto. Erano 24, la metà si è iscritta. Alla fine della prima lezione uno di loro ha detto: ahó, è meglio della droga. In che cosa consiste la sua meditazione? Essere consapevole nel presente, seguendo il respiro, senza modificarlo. Ci dà un’immagine per figurarci che cosa accade. Meditiamo nella sezione adibita a scuola dentro la più grande delle aule che è pur sempre la metà di una stanza normale. Stiamo seduti su seggiole che - non so perché - sono piccole come per i bambini delle elementari. In media siamo 14, ci sistemiamo in cerchio, stretti l’uno accanto all’altro: uomini giovani, anziani, grossi, tatuati, italiani, qualche straniero. Per cominciare serve chiudere gli occhi ed è già un passo enorme: un carcerato non lo fa mai. Qualcuno ha rinunciato perché non ce la faceva... Poi pian piano arriva il silenzio interiore. Quello esteriore? Non c’è mai. Sbattono le porte, i detenuti gridano, i tossicodipendenti urlano per le crisi di astinenza. Però superiamo il rumore. E gli altri detenuti come reagiscono? Sberleffi, pernacchie, ma chi medita difende la sua pratica. Gli studenti dello scorso anno sono tornati? Qualcuno. Poi abbiamo allargato a tutti i detenuti e gli iscritti ora sono 24. Due trentenni condannati a dieci anni di carcere hanno deciso di trasformare questo loro tempo in una sorta di vita monastica: meditano insieme tre volte al giorno per un’ora e fanno tai chi. Un altro si è avvicinato al buddismo. Altri si limitano ad usarlo come strumento di riduzione dello stress. Però quasi tutti hanno eliminato gli psicofarmaci per dormire. Lei conosce la storia giudiziaria dei suoi studenti? Potrei ma non voglio sapere. Non sono giudice, avvocato o poliziotto. Preferisco incontrarli per quello che sono ora senza pregiudizio. Quanto è impegnativo per lei chiudersi in una stanza con pluriomicidi, stupratori rapinatori e meditare. Appena si apre la porta considero di entrare nella terra del Buddha dove tutto è luce e ogni passo è un respiro di pace: funziona. Lei medita anche con le guardie? Sì, le guardie sanno quali detenuti partecipano ai corsi, non viceversa. Con loro come succede? Meditiamo nella caserma. Però sono poche e molto stressate dai turni, spesso non ci sono, oppure non possono assentarsi in orario di lavoro per meditare. Hanno decisamente meno tempo a disposizione dei detenuti. Allora ho fatto dei cd con la mia voce e praticano a casa. Funziona anche per loro. Lei è pagato No. Vuole continuare? Assolutamente. Vorrei portarlo in ogni carcere. Anche nella sezione femminile. Una mia allieva di origine rumena è pronta se non vogliono che a farlo sia un maschio, sarebbe bellissimo, non crede? Immigrazione: Garante detenuti Lazio; con nuove decreto il Governo trasforma i Cie in carceri Agenparl, 17 giugno 2011 “Con l’aumento dei tempi di permanenza nei Cie da sei a 18 mesi si compie il passo definitivo per trasformare strutture, inizialmente pensate per una permanenza massima di 60 giorni, in luoghi in cui cittadini stranieri, pur non avendo commesso alcun reato, nemmeno quello di clandestinità, così come sancito dall’Unione Europea, sono costretti per un anno e mezzo a vivere in carceri lager”. È quanto dichiara il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni commentando il decreto legge approvato ieri dal Consiglio dei Ministri. “Sono indignato e addolorato - ha aggiunto il Garante - per come si stia affrontando il problema delle politiche migratorie del nostro paese. In questa decisione del Governo, fortemente criticata anche dal mondo cattolico e dal volontariato, non si tiene in considerazione in primo luogo la sofferenza e la dignità di migliaia di persone disperate, a cui nonostante la sensibilità e l’attenzione delle forze dell’ordine e degli operatori che gestiscono i Centri, oggettivamente non è possibile garantire i diritti fondamentali. Le condizioni di vita all’interno dei Centri di Identificazione ed Espulsione sono più pesanti e i sempre più lunghi tempi di permanenza trasformano queste strutture in luoghi di tortura dove proteste e atti di disperazione sono all’ordine del giorno. Non è questa un’operazione degna di un Paese civile come il nostro. Trasformare dei disperati in detenuti senza diritti, senza assistenza e senza garanzie! Auspico che il Governo riveda questa decisione e ripensi ad una politica dell’immigrazione in coerenza con le direttive europee e affronti le problematicità, legate alla sicurezza ed al rispetto delle leggi, derivanti dai flussi migratori, in un’ottica ispirata a principi di umanità, accoglienza ed integrazione”. Immigrazione: visita al Cie di Palazzo San Gervasio… e un video girato dagli immigrati detenuti www.passpartu.net, 17 giugno 2011 All’inizio di giugno la giornalista Raffaella Cosentino ha fatto domanda per visitare il nuovo centro di identificazione ed espulsione temporaneo della Basilicata, la sua richiesta è stata accettata ed è entrata nella struttura. La vicenda, di per sé, non avrebbe nulla di straordinario, se non fosse per il fatto che dal primo aprile fino a quel giorno nessun giornalista che aveva provato a entrare nei centri per migranti disseminati nel nostro paese era riuscito nel suo intento. Un secco no era stata la risposta che avevamo ricevuto noi di Passpartù, quando provammo a entrare in un centro di accoglienza nelle Marche, l’accesso al Mineo era stato vietato al blogger Gabriele Del Grande e ancora altri episodi nel Lazio, in Puglia, in Calabria. Il divieto è stato stabilito da una circolare firmata il primo aprile dal nostro ministero dell’interno, che stabilisce che nessun giornalista può entrare nei centri di identificazione ed espulsione e nei centri di accoglienza per richiedenti asilo. “Una censura inspiegabile”, avevano denunciato numerosi blogger e redattori. Nonostante la circolare, Raffaella è riuscita a entrare nel centro lucano. Non sa perché finalmente l’accesso le sia stato consentito, ma racconta con sgomento quello che le è successo. Gli oltre sessanta ragazzi di origine tunisina che si trovano nel nuovo Cie di Palazzo San Gervasio, in provincia di Potenza, hanno rischiato il tutto per tutto, consegnandole di nascosto un video contenente le immagini dei loro rocamboleschi tentativi di fuga. Il centro di San Gervasio è solo uno dei tanti centri costruiti a seguito delle rivolte in Maghreb, in nome dell’emergenza immigrazione. La struttura, sperduta nelle campagne, è un’ex-fabbrica confiscata a un boss, oggi di proprietà comunale; fino all’anno passato è stata utilizzata per accogliere i braccianti stagionali che accorrono nel territorio per raccogliere i pomodori, poi la scorsa stagione l’amministrazione comunale ha rifiutato il consueto finanziamento da parte della regione Basilicata, sostenendo che non venivano rispettate le norme di sicurezza e di igiene e costringendo i lavoratori ad accamparsi in casolari abbandonati. Il primo aprile però la struttura è stata riaperta, prima come Cai, centro di accoglienza e di identificazione, poi come Ciet, centro di identificazione ed espulsione temporaneo. Secondo le dichiarazioni ufficiali il centro di San Gervasio funzionerà solo fino al 31 dicembre prossimo, ma i lavori che si stanno facendo al suo interno fanno pensare che il centro vivrà più a lungo. Il Ciet di Palazzo San Gervasio è il primo a essere aperto nella regione Basilicata. Il campo è gestito dalla Connecting People, così come quelli di Trapani e Brindisi. La scelta è avvenuta rigorosamente senza bando. Medio Oriente: storie di donne palestinesi rinchiuse nelle prigioni israeliane di Ralph Schoenman* www.pane-rose.it, 17 giugno 2011 Le carceri israeliane sono essenzialmente carceri politiche. I reclusi sono soprattutto palestinesi sospetti, accusati e, a volte - sulla base di confessioni sotto coercizione - “condannati” per aver realizzato, incitato o progettato atti di resistenza, pacifici o armati. Nonostante non ci siano statistiche sulla popolazione penale, il numero dei prigionieri che scontano lunghe condanne in carceri di massima sicurezza sfiora con ogni probabilità i 3.000; ci sono 30 donne palestinesi incarcerate a Neve Tertza, senza contare quelle portate dal Libano. Gli avvocati stimano che ogni anno vengano imprigionati nelle carceri israeliane 20.000 palestinesi, tra i quali più di 640 bambini. All’interno delle frontiere del 1967 ci sono dieci carceri: Kfar Yonah, Prigione centrale di Ramle, Shattah, Damun, Mahaneh Màsiyahu, Beersheba, Tel Mond (per giovani), Nafha, Ashquelon e Neve Tertza. Nei territori occupati dal 1967 ci sono 9 carceri: Gaza, Nablus, Ramallah, Belen, Faràa, Jerico, Tulkarem, Hebron e Gerusalemme. Ci sono centri regionali di detenzione a Yagur (Jalameh) e Atlit, vicino ad Haifa, Abu Kabir a Tel Aviv e il Moscobiya (Complesso Russo) a Gerusalemme. A questi vanno aggiunti le caserme generali della polizia ad Haifa, Accra, Gerusalemme e Tel Aviv, i 18 distretti di polizia in tutto lo stato e i 40 posti di polizia nei territori occupati, tutti utilizzati per interrogare e torturare i detenuti. Anche le installazioni militari di tutto il paese servono da centri di interrogatorio e tortura. I prigionieri concordano sul fatto che il più selvaggio di questi è quello di Armon ha-Avadon, conosciuto come il “Palazzo dell’Inferno” e “Palazzo della Fine”. Si trova a Mahaneh Tzerffin, vicino a Sarafand. Infine, per custodire la grande quantità di prigionieri portati dal Libano durante l’invasione del 1982 e i giovani catturati nelle retate contro la mobilitazione di questi mesi, sono stati attrezzati accampamenti di detenzione che non hanno altro riparo che tende. Sono diventati famosi per l’inumanità delle condizioni e per la tortura sistematica i centri di detenzione di Meggido, Ansar II (a Gaza) e Dhahriyeh. Trattamento discriminatorio Le differenze tra le carceri per palestinesi nei territori occupati dal ‘67 e nell’Israele di prima del ‘67, cioè da entrambi i lati della “zona verde” non sono molto grandi. La prigione di Ashquelon, quella di Nafhta, la grande ala della prigione di Beersheba e l’ala speciale della prigione di Ramle, anche se si trovano nell’Israele di prima del ‘67, sono grandi centri di detenzione per i palestinesi dei territori occupati dal 1967: la Margine Occidentale, Gaza Damun e tel Mond si utilizzano per la gioventù palestinese. L’ubicazione fisica delle carceri influisce poco sulle condizioni. Le autorità carcerarie israeliane mantengono una rigorosa segregazione tra gli accusati di crimini e i giudicati di delitti “contro la sicurezza”, o prigionieri politici. Dato che solo pochi ebrei sono prigionieri politici e solo pochi palestinesi - soprattutto dei territori occupati - sono prigionieri comuni, la separazione è di fatto una segregazione tra prigionieri ebrei e detenuti palestinesi. Non è permesso alcun contatto o comunicazione. Stanno in prigioni separate o in ali diverse della stessa istituzione. Si fanno distinzioni anche tra i prigionieri palestinesi dei territori occupati dal ‘67 e reclusi arabi israeliani, che sono palestinesi e drusi residenti in Israele da prima del 1967 ed hanno cittadinanza israeliana. Le condizioni di prigionia dei prigionieri del Margine Occidentale e di Gaza a volte sono peggiori di quelle degli “israeliani” di prima del ‘67. Ad alcuni - anche se non a tutti - dei prigionieri israeliani di prima del 1967 viene concesso un letto o un materasso. Godono di questo “privilegio” circa il 70% degli israeliani di prima del ‘67. Possono anche ricevere una visita ogni due settimane e scrivere due lettere al mese. Gli si concedono 3 coperte in estate e 5 in inverno. I prigionieri dei territori occupati dal ‘67 dormono per terra in inverno e in estate. Gli si concede un materasso di gomma di mezzo centimetro di spessore, una visita e una lettera al mese. Mentre lo spazio vitale medio per prigioniero nelle carceri europee è di 10,5 mq., nelle prigioni per palestinesi del Margine Occidentale e di Gaza essi godono di un decimo di questo spazio: 1,5 mq. per recluso. Regime amministrativo per decreti La burocrazia carceraria è legge essa stessa. All’entrare in questo dominio il cittadino perde tutti i suoi diritti. Viene sottomesso all’autorità completamente arbitraria di persone selezionate per la loro durezza. Il Decreto delle Prigioni (rivisto nel 1971) consta di 114 articoli. Non contiene nessuna clausola o paragrafo che definisca i diritti del prigioniero. Questo decreto detta una serie di norme legalmente vincolanti al Ministero dell’Interno ma è lo stesso Ministro che formula queste norme mediante decreto amministrativo. Nessuna disposizione stabilisce gli obblighi dell’autorità e non c’è clausola che garantisca ai prigionieri un livello di vita minimo. In Israele è permesso per legge internare venti reclusi in una cella di non più di 5 metri per 4 e 3 di altezza. Spazio che comprende un gabinetto aperto. I prigionieri possono restare confinati in tali celle per 23 ore al giorno. Il rapporto Kutler Il giornalista israeliano Yair Kutler pubblicò nel 1978 su Hàaretz una vasta inchiesta sulle condizioni fisiche nelle carceri ubicate nell’Israele di prima del 1967. Yair Kutler chiama la vita carceraria in Israele “l’inferno in terra” e descrive ogni carcere in dettaglio. Il suo racconto è sconvolgente. Kfar Yonah: alti funzionari chiamano questo carcere “Kevar Yonah” (la tomba di Yonah). È il centro di detenzione che terrorizza chiunque varchi la sua porta. I detenuti lo hanno chiamato “Meurat Petanim” o “il covo dei cobra”. “Il ricevimento che aspetta i reclusi lì fino ad essere giudicati è orripilante”. Le celle sono terribilmente fredde e umide. I materassi squallidi, gibbosi e sudici, sono superaffollati. La maggior parte dei reclusi non hanno altro posto dove mettersi se non sul pavimento. L’odore dominante di escrementi umani, di sudore e di spazzatura non si allontana mai dalle celle chiuse con sette catenacci. Nell’ala D ci sono tre stanze in cui sono ammucchiati dodici, diciotto e venti detenuti. Carcere Centrale di Ramle: Ramle è una delle prigioni più dure di Israele. È una vecchia caserma di polizia che era stata utilizzata come stalla per la cavalleria. Superaffollata e maleodorante, alberga settecento reclusi. Molti prigionieri non dispongono di un letto, di un angolo o di pochi metri quadrati. Spesso cento uomini devono dormire per terra. Ci sono 21 celle di isolamento. La luce solare non vi entra mai. Sono chiuse ermeticamente. Appesa al soffitto c’è una lampadina accesa giorno e notte. Oltre alle celle di isolamento Ramle dispone di una serie di celle sotterranee. Sono di 2 metri per 80 per 2 metri di altezza. Sono buie, sporche e puzzano terribilmente. Non ci sono finestre né lampadine. Una piccola apertura nella porta lascia penetrare un debole riflesso della luce del corridoio. Prima di mettere un prigioniero nella cella lo denudano e gli danno un camicione sporco. Una volta al giorno lo lasciano andare al gabinetto; per il resto del giorno e per la notte deve trattenersi. Può orinare in un tubo incastrato nella porta. Non ha diritto né ad una uscita all’aria né alla doccia. Spesso ci sono bastonate. Il più utilizzato è “il metodo della coperta”. Alcune guardie coprono la testa del prigioniero e lo colpiscono finché sviene. Per evitare il confinamento, un prigioniero deve sapere come vivere una vita di totale sottomissione e auto degradazione. Damun: la vita a Damun è “l’inferno in terra”. “Le condizioni di vita sono tremende e provocano raccapriccio a qualsiasi visitatore che arriva in questo luogo dimenticato da Dio”. Gli edifici assorbono il freddo e l’umidità. Cinque coperte non basterebbero per riscaldarsi. “Molti sono malati e la maggioranza disperata”. L’ala dei giovani ha condizioni ancora peggiori. L’affollamento è così terribile che i giovani possono sgranchirsi per due ore ogni quindici giorni e questo intervallo a volte si allunga. Shuttah: Il sovraffollamento è terribile. L’odore si sente a grande distanza. Le celle sono buie, umide e gelate. L’ambiente è soffocante. In estate, durante il periodo di calore della valle di Bet Shean, la prigione è un inferno ardente. Sarafand: Il “Palazzo della Fine” si trova dietro un alto reticolato che tutti i turisti che passano per l’ultimo tratto della strada da Gerusalemme a Tel Aviv possono vedere, a soli 8 chilometri dall’aeroporto Ben Gurion. È il perimetro di Sarafand, che ha una superficie di 16 km. quadrati e contiene i più grandi magazzino e polveriera dell’esercito. È anche il deposito del Fondo Nazionale Ebreo, che utilizza Sarafand per immagazzinare macchinari per la costruzione di nuovi insediamenti nell’Israele di prima del ‘67 e nei territori occupati da quella data. La relazione inesorabile tra occupazione, insediamenti, colonizzazione e il sistema di tortura inflitto ai palestinesi salta all’occhio. Sarafand - il centro della tortura - ha un significato storico. Fu costruita prima della 2° Guerra Mondiale e servì come deposito principale regolamentare della Gran Bretagna. Fu uno dei più noti campi di concentramento per detenuti durante la rivolta palestinese contro il dominio britannico e la colonizzazione sionista della terra del 1936. Gli antichi edifici del Mandato Britannico furono semplicemente occupati dalle autorità israeliane, senza cambiare le loro funzioni, utilizzandoli per rinchiudere una nuova generazione di detenuti palestinesi. Il centro, conosciuto da ebrei e palestinesi durante l’era britannica come il “campo di concentramento” ha mantenuto il suo carattere e il suo uso. Nafha: Un carcere politico: i prigionieri politici palestinesi non godono dello lo status di Prigionieri di Guerra ma si costruiscono accampamenti di prigionieri per loro. I suoi abitanti chiamano Nafha “il carcere politico”. Si trova nel deserto, a 8 chilometri da Mitzoe Raon e a metà della strada tra Beersheba e Eilat. È ubicata in una zona deserta, con terribili tempeste di sabbia. La sabbia invade tutto. Le notti sono estremamente fredde e il calore del giorno è insopportabile. Serpenti e scorpioni passeggiano per le celle. La cella tipica è di sei metri per tre. Ci sono dieci materassi per terra e non c’è spazio per altro. In un angolo un water primitivo con sopra una doccia. Mentre un prigioniero usa i servizi gli altri devono lavarsi o pulire i piatti. In una stanza come questa dieci prigionieri passano 23 ore al giorno. Per mezz’ora al giorno possono stare in un piccolo cortile di cemento di 5 metri per 15. Molti prigionieri sono malati, soffrono le conseguenze di ripetute torture e delle brutali condizioni di vita carceraria. Pratiche di tutti i giorni nelle carceri israeliane I prigionieri politici hanno dichiarato molte volte che le condizioni nei centri di detenzione e nelle carceri, sia dell’Israele ante 1967 come nei Territori Occupati a partire dal 1967, sono studiate per distruggerli fisicamente e psicologicamente. Bastonature: I prigionieri sono bastonati in tutte le carceri dell’Israele ante 1967 e dei Territori Occupati. A Ramle , questo si fa nelle celle sotterranee o “celle di isolamento”. Un certo numero di guardiani appendono il prigioniero e lo colpiscono con pugni, scarponi o manici di zappa che vengono conservati in un armadio vicino alle celle sotterranee. Nel carcere di Damun lo si fa in modo più primitivo. Gli internati vengono bastonati pubblicamente nel cortile. Le guardie più brutali sono incaricate della “Posta”. Si tratta del veicolo di trasporto di detenuti che fa tre viaggi alla settimana dal centro di detenzione di Abu Kabir alla prigione di Shattah. Si ferma in tutte le prigioni dell’interno di Israele salvo che in quelle di Ashqelon e Beersheba. Ogni viaggio della “Posta” riporta un saldo di bastonature brutali. Al minimo pretesto le guardie fanno scendere la vittima dal veicolo ala prima fermata e “lo colpiscono sino a renderlo irriconoscibile”. Isolamento: Legalmente, l’isolamento non è considerato una punizione. In realtà, pochi possono sopravvivere molti mesi in elle di un metro per due e mezzo per 23 ore al giorno. Ma nessun prigioniero che abbia cercato, verbalmente, di mantenere il rispetto di se stesso ha evitato periodi nelle celle di isolamento. Lavoro: Il lavoro carcerario è lavoro forzato. È organizzato come “mezzo per rendere difficile la vita dei prigionieri”. Ai prigionieri politici viene assegnata deliberatamente la produzione di scarponi per l’esercito israeliano, reti di camuffamento, ecc.. A coloro che rifiutano vengono tolti “privilegi” come il denaro per la mensa, il tempo fuori dalla cella, libri e giornali, materiale per scrivere. Alcuni vengono puniti con l’isolamento. Il salario medio per questo lavoro è di 60 pesetas all’ora. Il lavoro forzato vuole massimizzare la tensione fisica e emozionale. Èanche sfruttamento. Cibo: È poco. I bilanci sono esigui. La carne, le verdure e la frutta assegnate ai reclusi sono spesso confiscate dai funzionari. Uova, latte e pomodori freschi sono considerati lusso per i prigionieri. Cure mediche: Nel 1975 un prigioniero del carcere di Damun si tagliò i polsi e le gambe. Gli altri reclusi chiamarono la guardia. Arrivò una delegazione di guardiani. L’infermiere aprì la cella, afferrò il prigioniero e senza dire una parola cominciò a colpirlo al viso. Il prigioniero cadde al suolo, l’infermiere continuò a dargli calci. I prigionieri sono rinchiusi in edifici inadeguati. D’estate soffrono un calore bruciante. D’inverno l’umidità li intride fino alle ossa. Nella prigione di Ramle, durante l’inverno, un terzo della popolazione reclusa soffre di geloni a mani e piedi per il freddo tremendo. L’unico medicamento disponibile è la vaselina, ma anche questa è disponibile raramente. I prigionieri che scontano condanne di pochi mesi lasciano le carceri con inabilità permanenti. Le condizioni di illuminazione sono così cattive che i prigionieri soffrono di un deterioramento della vista. Le affezioni alle ginocchia e le ulcere hanno un’incidenza cinque volte maggiore tra i prigionieri rispetto alla popolazione in generale. Asafir: A partire dal 1977 i prigionieri hanno fatto sapere che vengono torturati in ogni carcere anche da un piccolo gruppo di collaborazionisti, alcuni dei quali non sono veri prigionieri ma confidenti che si fanno passare per tali. Che siano prigionieri che collaborano o confidenti infiltrati nelle carceri, si tratta di un procedimento istituzionalizzato. In ogni carcere e centro di detenzione ci sono stanze speciali riservate per i collaborazionisti, conosciuti come “asafir” o “uccelli cantori”. Tra loro abbondano i criminali pericolosi, selezionati per la loro brutalità. Altri sono reclutati tra coloro che sono incarcerati come prigionieri politici nonostante non abbiano trascorsi politici. A questi vengono concessi privilegi a seconda dei servizi che prestano. Non sono casi isolati Per quanto siano famose le pretese democratiche e umanitarie di Israele, le prove presentate qui, così come quelle accumulate in tutti gli studi sulla colonizzazione e la dominazione sionista in Palestina, smascherano questa facciata. I casi individuali esaminati qui non sono casi isolati o prodotto di circostanze eccezionali. Fondamentalmente non differiscono da altri casi. I torturatori non sono poliziotti aberranti fuori di testa. Sono membri di tutte le sezioni della polizia israeliana e delle divisioni di sicurezza e operano nel compimento della loro missione. La violenza è la norma del trattamento dei palestinesi, che siano contadini che portano i loro prodotti al mercato o giovani che lanciano pietre, cittadini palestinesi dell’Israele ante ‘67 o palestinesi residenti nei Territori Occupati nel 1967 e successivamente. La tortura è parte fondamentale del sistema legale, la coercizione è la strada della confessione e la confessione è fondamentale per condannare. Il trattamento fatto ai prigionieri non cambia secondo il partito che è al potere. Se il Primo Ministro Menachem Begin classificava i palestinesi “bestie a due gambe”, la brutalità sistematica imposta al detenuto palestinese non è meno severa sotto i governi di Linea Laburista. Come disse il vecchio Primo Ministro David Ben Gurion, “Il regime militare esiste per difendere il diritto a stabilire insediamenti ebrei dovunque”. (*) Ralph Schoenman, studioso, giornalista e attivista del movimento per i diritti civili negli Usa, è stato segretario generale della Bertrand Russel Peace Foundation. Tra il suoi libri “La storia nascosta del Sionismo”. Russia: Khodorkovski trasferito in un carcere in Carelia, regione al confine con la Finlandia Ansa, 17 giugno 2011 L’ex magnate del petrolio e oppositore del regime russo, Mikhail Khodorkovski, è giunto oggi in un penitenziario in Carelia (nord ovest della Russia) ove dovrà scontare la pena fino al 2016. Lo scrivono le agenzie russe ma il suo avvocato ha spiegato di non esserne stato informato. “Il signor Khodorkovski è stato trasferito nel carcere n. 7 a Segueja” in Carelia, regione al confine con la Finlandia, ha detto una fonte del penitenziario secondo la quale “all’inizio lavorerà nel settore dei prigionieri che si occupano dei rifornimenti”. Khodorkovski e il suo socio Platon Lebed, incarcerati dal 2003, sono stati condannati due anni dopo per furto di petrolio e riciclaggio a otto anni di carcere. Nel dicembre scorso tale pena è stata portata a 14 anni dopo un secondo processo, e poi ridotta a 13.