Giustizia: Consulta; illegittima norma di ex-Cirielli che impedisce le attenuanti generiche Il Sole 24 Ore, 13 giugno 2011 La Corte costituzionale scardina uno dei punti della ex Cirielli. Con la sentenza n. 183, scritta da Giorgio Lattanzi, la Consulta ha infatti dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 62 bis del codice penale, nella versione introdotta nel 2005 dalla legge n. 251, ritenendo quindi fondate le perplessità sollevate dal Gip di Perugia. A venire censurati sono i limiti che la nuova norma del Codice mette al giudice nella concessione delle attenuanti generiche in caso di recidiva reiterata per i delitti sanzionati con una pena superiore a cinque anni. In particolare a essere esclusa è la considerazione della condotta del colpevole successiva alla commissione del reato. La Consulta ammette in via preventiva che non dà luogo a una disparità di trattamento, né è di per sé irragionevole, prevedere un regime di maggior rigore nei confronti di una persona che ha commesso un grave reato trovandosi in una situazione di recidiva reiterata. E non si ti atta neppure di una misura che compromette in maniera irreparabile il potere discrezionale, di rilevanza costituzionale, del giudice di determinare la pena. Fondati invece i motivi centrati sulla irragionevolezza dell’esclusione della possibilità di valutare il comportamento dopo il reato. Si tratta, infatti, di un divieto fondato “su una valutazione preventiva, predeterminata e astratta, che non risponde a un dato di esperienza generalizzabile, in quanto la rigida presunzione di capacità a delinquere, presupposta dalla norma censurata, è inadeguata ad assorbire e neutralizzare gli indici contrari, che possono desumersi, a favore del reo, dalla condotta susseguente, con la quale la recidiva reiterata non ha alcun necessario collegamento”. La Corte poi osserva che la recidiva può essere fondata anche su eventi remoti e privi di forte gravità, mentre l’imputato potrebbe avere in seguito tenuto comportamenti anche indice di una risocializzazione in corso o interamente realizzata “e potrebbe essere divenuta una persona completamente diversa da quella che a suo tempo aveva commesso il reato”. Inoltre va tenuto presente che l’eventuale applicazione delle circostanze attenuanti generiche non avrebbe certo un impatto devastante, visto che continuerebbero a trovare un limite nella recidiva (non reiterata) con effetto al massimo di equivalenza ma mai di prevalenza: avrebbero, cioè, il solo effetto di neutralizzare il rilevante aumento di pena previsto per la recidiva, ma non potrebbero anche determinare una diminuzione della pena base. La disposizione è poi in conflitto con l’articolo 27 della Costituzione nella parte in cui viene prevista la funzione rieducativa della pena. Una finalità che la stessa Corte costituzionale ha più volte detto essere non limitata alla sola fase dell’esecuzione. Viene in questo modo privilegiato un obiettivo generale di prevenzione dei reati che elude la funzione di riabilitazione del condannato. Il giudice, infatti, non può dare l’adeguata rilevanza a quelle condotte che esprimono una riconsiderazione critica dell’operato criminale e l’accettazione di valori di convivenza. Il disposto della Corte costituzionale, sentenza n. 183 del 2011 La disposizione impugnata, infatti, precludendo al giudice di fondare il riconoscimento delle attenuanti generiche sulla condotta successiva al reato, privilegia uno dei parametri indicati dal secondo comma dell’art. 133 cod. pen. - la precedente attività delittuosa del reo - come sintomatico della capacità a delinquere rispetto agli altri e in particolare rispetto alla condotta successiva alla commissione del reato, benché questa possa essere in concreto ugualmente, o addirittura prevalentemente, indicativa dell’attuale capacità criminale del reo e della sua complessiva personalità. La preclusione è fondata su una valutazione preventiva, predeterminata e astratta, che non risponde a un dato di esperienza generalizzabile, in quanto la rigida presunzione di capacità a delinquere, presupposta dalla norma censurata, è inadeguata ad assorbire e neutralizzare gli indici contrari, che possono desumersi, a favore del reo, dalla condotta susseguente, con la quale la recidiva reiterata non ha alcun necessario collegamento. Mentre la recidiva rinviene nel fatto di reato il suo termine di riferimento, la condotta susseguente si proietta nel futuro e può segnare una radicale discontinuità negli atteggiamenti della persona e nei suoi rapporti sociali, che (...) sono indiscriminatamente neutralizzati ai fini dell’applicazione delle circostanze attenuanti generiche. A ben vedere il secondo comma dell’art. 62-bis cod. pen. dà luogo a un duplice automatismo, basato su presunzioni: il primo deriva dal quinto comma dell’art. 99 cod.. pen., che nel caso di commissione da parte di un recidivo di uno dei reati previsti dall’art. 407, comma 2, lettera a), cod. proc. pen. rende obbligatoria l’applicazione della recidiva; il secondo concerne la presunta prevalenza della recidiva rispetto alla condotta dell’imputato susseguente al reato. Giustizia: sul carcere, molte parole e pochi fatti di Desi Bruno Ristretti Orizzonti, 13 giugno 2011 La questione carcere, sovraffollamento, difesa dei diritti umani, la discussione sulla finalità della pena, ammesso che oggi una costituzionalmente orientata possa essere riconosciuta esistente, sull’uso ed abuso della custodia cautelare, sulla effettività delle misure alternative sembrano non trovare alcuna progettualità realisticamente sostenibile. Mille iniziative, seminari, forum e dibattiti che non riescono però a imporre la questione carcere ad una classe politica che, nel suo complesso, deve trovare le ragioni per una discussione “sul che fare”. Non bastano le mozioni parlamentari, spesso uguali, come ha detto di recente, e giustamente, Rita Bernardini. Non sembra bastare neppure lo sciopero della fame di Marco Pannella, del cui digiuno, pur accompagnato da migliaia di sostenitori, persone detenute, familiari, avvocati dell’Unione Camere Penali, non parlano i telegiornali e i dibattiti nei luoghi televisivi della politica. Non se ne parla perché parlare di amnistia non si può, perché significa confrontarsi con le verità che sottostanno a questa richiesta: per esempio che esiste già un’amnistia “strisciante”, fatta di migliaia di processi che vanno in prescrizione, spesso per ragioni non certo omogenee, e che hanno di fatto reso un simulacro il principio di obbligatorietà dell’azione penale, a prescindere dal fatto che quel principio sia o meno condiviso. E allora bisogna chiedersi una volta per tutte perché in questo paese dal 1978 in avanti si sono spese tempo e risorse per “confezionare” plurimi progetti del codice penale, sino agli ultimi due, di Nordio e Pisapia, apprezzati e condivisi da gran parte delle forze politiche. Bisogna chiedersi perché non si possa ripartire da lì, abbandonando la strada del carcere “sempre”, strumento spesso inutile, doloroso, controproducente in termini di recidiva, costoso perché richiede dispendio di uomini e mezzi e risorse in mancanza dei quali il carcere diventa un inferno per tutti coloro che ci vivono e lavorano. Bisogna chiedersi perché in questo paese il tema di rapporto tra carcere e tossicodipendenza non sia avvertito come problema cruciale, prima di tutto per la lesione al diritto alla salute, e poi della sicurezza. Allora riformiamo il codice penale, introduciamo altre e più efficaci sanzioni, come nell’elenco dei progetti citati e diventerà più semplice risolvere l’emergenza carcere. Così come bisognerà affrontare il problema della legislazione in materia di immigrazione, anche alla luce della nuova giurisprudenza europea ed italiana. Di mozioni, come si diceva, non se ne sente più il bisogno, i ricorsi alla Corte Europea di Strasburgo e alle commissioni internazionali sono tutti giusti e comprensibili, ma non risolvono il problema. Lo sottolineano. E ora di fare, e questo spetta alla classe politica, tutta, chiamata a risolvere un problema nazionale, come è nella dichiarazione dello stato di emergenza della Presidenza del Consiglio dei ministri e a dare prova che il tema delle condizioni di vita in carcere è davvero una priorità per il paese. Desi Bruno Già Garante delle Persone Provate della Libertà Personale per il Comune di Bologna-Comitato Scientifico del Coordinamento dei Garanti Giustizia: Pannella; le carceri sono lager, amnistia subito di Susanna Turco L’Espresso, 13 giugno 2011 “Altro che prescrizione breve: per impedire il collasso dei tribunali, quindi per evitare che migliaia di persone languiscano in galera in attesa di processo, serve un provvedimento d’urgenza”. Parla il leader radicale. Altro che prescrizione breve, altro che riforma Alfano: “Per affrontare in modo serio il problema del funzionamento della giustizia in Italia, e l’emergenza del sovraffollamento delle carceri, non si può che cominciare dall’amnistia. Un’altra strada non c’è”. Marco Pannella, che proprio per questo è in sciopero della fame da quasi un mese e mezzo, ricorre al paradosso per spiegare come un provvedimento parlamentare che estingua i reati sia una soluzione molto più equa di quella che la realtà presenta: “Oggi lo Stato è fuorilegge, è un delinquente professionale: mandare in prescrizione 200 mila processi all’anno, negare il principio - esistente dai tempi del diritto romano - per cui la sentenza si ottiene in tempi reali, significa infatti negare la giustizia e riempire le carceri di detenuti che per il 30 per cento, lo dicono le statistiche, sono ancora in attesa di giudizio”, spiega il leader radicale tratteggiando una situazione che, dice, “è sicuramente più infame di quella che ci ha lasciato il ventennio fascista”. “L’amnistia è l’unico modo per impedire che migliaia di persone, magari colpevoli dei peggiori reati, se ne vadano liberi grazie alla prescrizione, servirebbe per superare il collasso del sistema carcerario e per consentire ai magistrati di fare il loro lavoro man mano che i processi vengono a maturazione”, spiega Pannella. Quando gli si fa osservare che per vararla servirebbero i due terzi del Parlamento, e che però i favorevoli si contano sulla punta delle dita, allarga le braccia. “Una volta si diceva che l’amnistia si concede ogni morte di papa, e quando Giovanni Paolo II in Parlamento chiese una misura di clemenza per i detenuti, l’Aula esplose in un’ovazione. Ma, in realtà, da oltre vent’anni la politica preferisce l’amnistia di classe delle prescrizioni: i partiti sono contrari al provvedimento che invochiamo, oppure lo ritengono impossibile da realizzare. Risultato: nessuno studia sul serio questa possibilità, e ci pigliano per il culo. Lo chiamano provvedimento di clemenza: ma questa volta sarebbe una misura di riforma, una norma pratica e di buon senso”. Giustizia: 18 marocchino ucciso da un carabiniere a Bergamo; è un altro caso Aldrovandi La Repubblica, 13 giugno 2011 Un “omicidio controverso”. Firmato, Hillary Clinton. “Controverso” come i casi di Sandri, di Cucchi, di Aldrovandi. Un ragazzo che muore; uomini delle forze dell’ordine che finiscono sotto inchiesta. Per non perdere il filo che da una tragica notte a Mornico al Serio - tremila abitanti nella pianura bergamasca - porta a Washington negli uffici del Dipartimento di Stato americano, bisogna raccontare come ha smesso di vivere - da innocente - un ragazzo marocchino di 18 anni. Aziz Amiri. In un parcheggio di via Verdi sono le nove di sera del 6 febbraio 2010. L’unica colpa di Amiri è di essere seduto sul lato passeggero di un’utilitaria, una Peugeut 206, guidata da un connazionale che ha cinque anni più di lui e che per tentare di sfuggire ai carabinieri - in macchina ci sono 30 grammi di cocaina, inserisce la retromarcia e sperona l’auto dei militari (in borghese). Uno scende, cade a terra, si rialza, infila il braccio all’interno della Peugeut attraverso il finestrino abbassato; il guidatore marocchino (non è armato, riuscirà incredibilmente a scappare a piedi) prova a disarmare il carabiniere. A quel punto parte il colpo che uccide Amiri. Fin qui la cronaca. La procura di Bergamo apre un’inchiesta. Il carabiniere, appartenente al nucleo operativo radiomobile di Bergamo, è indagato per omicidio colposo. Stando alla sua versione e a quella del collega impegnato con lui in un servizio antidroga - le uniche su cui si basano le indagini, le uniche disponibili, del marocchino fuggito non si è più avuta traccia - il colpo sarebbe partito accidentalmente. Ma a più di un anno restano molti punti oscuri nella ricostruzione della vicenda messa a verbale dai militari. A partire dallo sparo. Uno solo, secondo i carabinieri. Due, addirittura tre secondo almeno un testimone - un abitante della zona - che però non è mai stato sentito dal gip. Che cosa è successo davvero quella notte? Quanti e quali sono i dubbi da chiarire se persino il Dipartimento di Stato americano (diretto dal segretario di Stato Hillary Clinton) nell’annuale rapporto dedicato al rispetto dei diritti umani ha classificato la vicenda di Amiri tra gli “omicidi controversi” (il delitto di Mornico figura nel capitolo titolato “privazione arbitraria o illegale della vita”)? C’è stato abuso di potere da parte del carabiniere che ha sparato? A breve il gip Bianca Maria Bianchi dovrà decidere, sulla base degli elementi acquisiti finora, se accettare o respingere la richiesta di archiviazione presentata a marzo dal pm Maria Cristina Rota. Due le alternative alla chiusura del caso: restituire gli atti alla procura per un approfondimento delle indagini oppure aprire un processo. “È doveroso fare luce sulla morte di Amiri - dicono l’avvocato Tatiana Burattin e il procuratore Paolo Bulleri, che difendono e rappresentano la famiglia della vittima. Chiediamo di sapere la verità su quello che è successo. Oltretutto Amiri era il passeggero e cioè una persona innocente”. Per fare nuova luce sull’omicidio il difensore del ragazzo marocchino ha presentato una relazione tecnica firmata da Alberto Riccadonna (caso Sandri-Spaccarotella e prima ancora Unabomber). La perizia balistica solleva diversi interrogativi. Primo fra tutti: perché viste le circostanze (auto della vittima bloccata e guidatore non più al posto di guida) il carabiniere ha introdotto il braccio armato nell’auto perdendo il controllo dell’arma? La mossa appare quantomeno imprudente: i due marocchini non erano armati, ma in caso contrario cosa sarebbe successo? E se, viceversa, si fosse sospettato che la vittima potesse essere armata, introdursi all’interno della vettura non sarebbe stato un suicidio? “Si poteva intimare ad Amiri di uscire dalla vettura - in un momento in cui la situazione fosse completamente sotto controllo - senza doversi avvicinare a una distanza “rischiosa”, scrive Riccadonna. Altro dubbio: come è possibile che l’altro marocchino - appunto disarmato - sia riuscito a scappare a piedi sotto il naso dei due carabinieri uscendo dall’auto e allontanandosi? Era così difficile trattenerlo all’interno dell’auto? Nel rapporto del Dipartimento di Stato americano non si entra nei dettagli. L’omicidio di Amiri viene semplicemente definito “controverso”. E si ipotizza un “uso sproporzionato della forza”. Forse è già abbastanza. Lettere: adesione allo sciopero della fame di Pannella Ristretti Orizzonti, 13 giugno 2011 “Contro l’indifferenza emozionale del Governo per lo stato di estrema emergenza delle carceri di tutt’Italia, contro la cecità verso le innumerevoli problematiche penitenziarie del personale civile; contro la sordità delle problematiche del personale di polizia penitenziaria veramente costretto a farsi carico fisicamente e moralmente di un lavoro massacrante; contro lo stato di disagio psichico della popolazione detenuta soprattutto di quella che ha perduto la speranza; contro l’alto numero di suicidi riguardanti i detenuti ma anche della Polizia penitenziaria; contro ogni violazione del principio di uguaglianza di vivere una vita dignitosa ed umana; contro il mancato trattamento rieducativo del potenziale criminologico dei detenuti; contro ogni forma di condanna che non abbia cura per la prevenzione della recidiva; contro l’impossibilità di attuare protocolli terapeutici dei criminali; contro lo svilimento morale e materiale dello psicologo penitenziario che con l’attuazione del Dpcm 1 aprile 2008 è stato anche escluso di fatto e di diritto dal passaggio alla Sanità; contro la funzione della pena che continuando solamente a punire il responsabile del delitto ed a evitare il trattamento rieducativo del reo lo condanna a vita anche quando come accade nel nostro sistema penitenziario gli concede misure alternative o liberazioni anticipate. Contro l’evitamento del trattamento rieducativo che non evita la commissione del crimine in chi lo ha già commesso quando la costituzione delinquenziale del soggetto non viene trattata; contro l’indifferenza per il dolore, la solitudine, l’impotenza, il fallimento, la paura, il vuoto, l’abbandono, la disperazione di chiunque in carcere non è ascoltata; contro ogni forma di violenza morale e fisica celata dalla cultura dell’omertà e del ricatto; tutto ciò per ricordare la missione che la collettività civile deve compiere perché il dolore non diventi violenza contro se stesso o contro la società. La cupa consapevolezza di quanto potrebbe accadere se si continua a non far nulla a livello di Governo mi impone di aderire alla coraggiosa e nobile iniziativa dell’Onorevole Marco Pannella a favore delle problematiche delle carceri italiane ed è per questo che esprimo apertamente la mia stima, il mio apprezzamento e tutta la mia gratitudine con il suo sciopero della fame. Per questo come psicologa penitenziaria aderiscono allo sciopero della fame che sta attuando Marco Pannella. D’altronde la drastica ed inspiegabile riduzione delle ore di lavoro di sostegno psicologico a noi operatori esperti nel settore, (considerata l’enorme cifra per costruire nuove e vuote carceri) sta continuando ha portare depressione e morte, ma sta portando persino dei cambiamenti nella gestione dei soldi pubblici e non meno ricadute gravose a livello sociale e culturale. Siamo sicuri che questa sia la politica più conveniente per trattare i problemi della criminalità e devianza criminale? Infine con il passaggio delle funzioni sanitarie alle Asl per effetto del Dpcm 1 aprile 2008 e l’esclusione dello psicologo penitenziario per effetto di tale passaggio non ci si è accorti che si sta tornando indietro, squalificandolo ed escludendo il prezioso impegno dello psicologo ex art. 80 ed aprendo le porte a nuovi professionisti provenienti da altri settori della sanità o di chi magari ha fatto un master di criminologia ormai di moda, mentre chi opera magari da oltre 30 anni come un vuoto a perdere viene buttato via. Aderire alla iniziativa di Marco Pannella e fare il passa parola mi sembra una occasione di estrema importanza perché ancora una volta è l’Onorevole che “accetta di sporcarsi le mani” per i soggetti meno nobili e per gli invisibili, mostrando di essere l’unico che veramente sappia rispettare colui che esiste. Dr.ssa Daniela Teresi, psicologa penitenziaria si asterrà dal cibo il giorno 26 giugno 2011, giorno dei diritti umani dell’Onu contro la tortura Lombardia: mercoledì direttore del carcere di San Vittore in commissione sanità Asca, 13 giugno 2011 Mercoledì 15 giugno, alle 14, la Commissione Sanità, presieduta da Margherita Peroni (Pdl), riceverà in audizione la direttrice della Casa Circondariale di Milano San Vittore, Gloria Manzelli, per affrontare i problemi legati all’attività dell’Ospedale psichiatrico del carcere. A seguire, la Commissione terrà anche una serie di audizioni con i rappresentanti di associazioni e organizzazioni di assistenza a soggetti autistici. Rovigo: detenuti in sciopero della fame, il Garante chiede l’interessamento dei Sindaci Redattore Sociale, 13 giugno 2011 La protesta trova l’adesione del garante dei detenuti di Rovigo, che invita i sindaci a mettere in atto un “confronto serrato” con l’amministrazione centrale. Si espande e arriva anche a Rovigo la protesta che già da tempo è in atto negli istituti penitenziari italiani. Da oggi fino a venerdì 17 giugno nella casa circondariale rodigina sarà infatti messo in atto uno sciopero totale della fame da parte della popolazione detenuta. Le motivazioni della protesta sono ribadite in una lettera aperta inviata agli organi di informazione. “Scioperiamo - scrivono i detenuti - per lo stato in cui siamo ristretti, per il sovraffollamento che rende gli spazi a noi adibiti assolutamente insufficienti”. E aggiungono: “In alcune carceri la popolazione detenuta è più del doppio della capacità, la polizia penitenziaria è sotto organico e sottoposta a turni estenuanti, cosa che si ripercuote anche su di noi, e perché venga rispettata la nostra dignità umana”. La protesta raccoglie anche l’adesione del garante dei diritti dei detenuti del comune di Rovigo, Livio Ferrari, che in una nota sottolinea: “Da troppi anni vengono calpestati i diritti e la dignità di queste persone, relegate a vivere in luoghi e situazioni disumane”. Il garante comunale rimarca anche la propria solidarietà “agli operatori e agenti penitenziari che ne condividono, in qualche misura, il disastro”. Ferrari, nel denunciare il numero crescente di vittime del carcere, rilancia: “È ora che sia riconquistata questa terra di nessuno che sembra essere diventato da tanto tempo il carcere”. L’invito è rivolto ai sindaci: “Gli istituti di reclusione devono essere monitorati, ispezionati e ripresi sotto un controllo che sembra altro, rispetto alle leggi che lo sovrintendono. Solo un confronto serrato tra l’amministrazione centrale e quelle dei comuni può ridare speranza a una popolazione pesantemente segnata da ulteriori condanne non scritte in sentenza, come quella della salute e della vita stessa”. Venezia: carceri invivibili, oggi sciopero della fame degli avvocati La Nuova Venezia, 13 giugno 2011 Oggi è toccato all’avvocato veneziano Simone Zancani, in qualità di membro della giunta dell’Unione camere penali, fare lo sciopero della fame “per protestare contro la drammatica situazione in cui versano le carceri italiane”. La staffetta è cominciata l’1 giugno con lo sciopero del presidente Valerio Spigarelli e prosegue: l’iniziativa fa seguito a quella del leader radicale Marco Pannella, i n sciopero della fame da oltre un mese per denunciare le incivili condizioni delle carceri. In un documento le Camere penali ricordano che “le condizioni dei detenuti in Italia si aggravano di giorno in giorno nella più assoluta indifferenza della politica che, in nome di un costante demagogico richiamo alla tutela del valore della sicurezza collettiva, persiste nell’adozione di una politica legislativa “carcerocentrica” e che il numero dei detenuti è in costante aumento”. Inoltre, sottolineano “che il numero dei suicidi in carcere continua ad aumentare a testimonianza di una condizione di estrema sofferenza della popolazione carceraria”. E il carcere veneziano di Santa Maria Maggiore non fa eccezione, anzi è uno dei peggiori anche a causa del sovraffollamento. Spoleto (Pg): denuncia della Fp-Cgil; nel carcere situazione è ingestibile Agi, 13 giugno 2011 Denuncia della Fp-Cgil Umbria: la situazione di tutti gli istituti penitenziari mostra gravi difficoltà “In Umbria la situazione di tutti gli istituti penitenziari mostra gravi difficoltà, non solo per l’aumento considerevole della popolazione detenuta, ma per la strutturale carenza organica, questione questa che interessa sia i lavoratori appartenenti al corpo della polizia penitenziaria, che trasversalmente tutti gli operatori penitenziari sia amministrativi-contabili che dell’aria del trattamento”. È quanto afferma, in una nota, Vanda Scarpelli, della Fp Cgil dell’Umbria. “L’emergenza carcere - prosegue la nota - si e ulteriormente palesata in questi giorni nella casa circondariale di Spoleto dove si sono registrati vari episodi che hanno messo in discussione anche la sicurezza del lavoro”. L’organizzazione sindacale, oltre a denunciare “la situazione ormai di criticità diffusa e di emergenza venutasi a creare per la mancanza di risorse, che costringe addirittura gli stessi operatori ad acquistare prodotti di pulizia per garantire una sufficiente igiene nell’istituto e per la carenza di organico (mancano circa 70 agenti)”, chiede “un intervento urgentissimo da parte dell’amministrazione penitenziaria regionale e l’attivazione di misure urgenti da parte della direzione della casa circondariale di Spoleto per arrivare ad una diminuzione significativa della popolazione detenuta che ora si aggira intorno alle 700 unità e che certo non può essere gestita come nel passato quando la popolazione detenuta era circa la metà”. “Siamo pronti a collaborare per trovare anche nuove soluzioni organizzative - si legge ancora nella nota - che non possono tuttavia penalizzare i lavoratori, né mortificare la riforma penitenziaria e quindi i diritti dei detenuti, siamo pronti a collaborare senza far finta e quindi attendiamo risposte e azioni chiare. Ci dica l’amministrazione penitenziaria locale e nazionale se è ancora possibile garantire il rispetto della riforma e delle norme che hanno garantito in precedenza sia la custodia che il trattamento rieducativo o se, nella totale assenza di discussione, l’Italia ha deciso di assumere il carcere solo nel suo ruolo custodialistico, contravvenendo alle norme e alla Costituzione. E ci dica, in questo caso, quali sono le misure messe in atto per garantire l’incolumità degli operatori. I lavoratori che operano all’interno del carcere e in particolare nell’istituto di Spoleto, sono stanchi di rinunciare ai propri diritti, al proprio tempo di vita, alla propria sicurezza, in nome e per conto di una amministrazione che sembra ormai impietosamente organizzata per non funzionare”. Trento: il vecchio carcere era più “umano” di Carlo Ancona (Magistrato) Il Trentino, 13 giugno 2011 Per il carcere non servono le scelte scandite e condizionate solo dalle prossime scadenze elettorali, ma che siano il risultato di una strategia di lungo periodo, ed insieme lo strumento con cui un vecchio imperatore formava la immagine della direzione della cosa pubblica agli occhi dei suoi sudditi: esse erano luoghi di esercizio delle pubbliche funzioni, ma anche strumenti di comunicazione di massa. Ho lentamente maturato questa conclusione in oltre trenta anni di frequentazione, per ragioni di lavoro, del vecchio carcere di Trento; luogo di espiazione e quindi di dolore, ma anche immagine tangibile agli occhi di tutti i cittadini della condizione del detenuto, e perciò luogo di ammonizione e insieme di condivisione. Per i suoi spazi ristretti, la vita in esso era difficile, per detenuti e agenti, ma era pur sempre connotata da una dimensione distesa dei rapporti umani tra loro e con le persone che si recavano per lavoro in quel luogo. Ora, il nuovo carcere, frutto di scelte organizzative ed architettoniche moderne, è lontano, ed insieme efficiente e spietato, segno di rimozione e indifferenza; ci si reca in esso come si farebbe in un centro commerciale, o se si preferisce in una base militare; la sofferenza di chi si trova in quel luogo sparisce, ed il visitatore aspetta solo di terminare il compito al quale sta assolvendo con burocratica puntualità, per tornare nel proprio ufficio (almeno, fino a quando questo gli verrà conservato: per quanto ancora?). Si prova gratificazione nel sentirsi partecipe di una comunità ricca di mezzi e di sensibilità per le necessità di spazio dei detenuti; si prova soddisfazione ed orgoglio nel vedere al proprio arrivo schiudersi cancelli comandati elettronicamente, sentirsi chiamare da una “cabina di regia”, succedersi tra loro cortili, strutture in cemento armato, porte blindate. Ma per trenta anni ho frequentato un luogo diverso, dedicato e speciale; alla ricerca delle ragioni di una sofferenza e di colpe che in quel luogo trovavano lo specchio, una sorta di ragione di compensazione; non potrò dimenticarlo. Savona: crolla un soffitto nel carcere, gli agenti penitenziari sconcertati www.savonanews.it, 13 giugno 2011 Crollo all’interno di un locale del carcere Sant’Agostino di Savona. A cedere è stata parte del soffitto di una stanza utilizzata dal corpo di guardia e, per fortuna, al momento del fatto non era presente nessun agente. È accaduto intorno alle 13,30 nell’ala di ingresso dell’edificio. “Siamo sconcertati da quello che è successo - commenta Costanzo Protto, segretario territoriale della Federazione Nazionale Sicurezza Cisl Savona, facendosi portavoce della reazione degli agenti - L’episodio evidenzia tristemente le precarie condizioni di vibibilità e sicurezza della struttura penitenziaria. In attesa che gli attori politici facciano qualcosa per avviare la realizzazione del nuovo carcere, esprimiamo ancora una volta alta preoccupazione per la scarsa attenzione riservata alla struttura savonese e notiamo l’assenza di verifica delle condizioni strutturali dell’edificio”. “Questo episodio - sottolineato Donato Capece, segretario generale del Sappe - conferma l’inadeguatezza del penitenziario savonese. Sono periodici e continui i nostri appelli sui problemi di questo carcere. Non è più accettabile avere in Italia un carcere vergognoso come il Sant’Agostino di Savona, indegno per chi ci lavora e per chi sconta una pena, come sono altrettanto vergognosi i ritardi burocratici del Comune savonese che fino ad oggi nulla ha fatto per sanare tali indecenze”. È un penitenziario umido, fatiscente e privo di luce naturale, tanto da avere l’illuminazione artificiale sempre attiva con detenuti e guardie che vivono di fatto sotto le luci dei neon. Cronico il sovraffollamento: 80 detenuti a fronte di una capienza regolare di 38 posti. I detenuti stranieri sono circa il 50%, mentre i tossicodipendenti raggiungono il 41%. Nell’istituto si registra un pesante turn-over: in un anno, infatti, entrano tra i 500 e i 600 detenuti e gli “sfollamenti” che in passato l’amministrazione autorizzava quando si raggiungeva quota 70 detenuti, oggi sono autorizzati a quota 90. Con la legge 199 del 2010, ironicamente denominata “svuota carceri”, sono usciti non più di 4 detenuti”. La casa circondariale di Savona nasce come convento e risale al XIV secolo: di qui la necessità di continui interventi di ristrutturazione ed il pericolo derivante dalle condizioni strutturali. Oggi il crollo di una parte di soffitto. Cagliari: sciopero della fame per leader movimento indipendentista detenuto da due anni Agi, 13 giugno 2011 È cominciato ieri, come annunciato sabato in una conferenza stampa a Cagliari, lo sciopero della fame promosso dal Comitato lavoratori pro Bellomonte per chiedere l’immediata liberazione di Bruno Bellomonte, ferroviere sardo e dirigente del movimento indipendentista “A Manca pro s’Indipendentzia”, in custodia cautelare in carcere da due anni. L’attivista, detenuto a Viterbo e sotto processo per eversione, è accusato di aver concorso alla preparazione di un attentato in vista del G8 inizialmente previsto a La Maddalena e poi spostato a L’Aquila. Alla prima giornata di sciopero della fame a staffetta hanno partecipato Antonello Tiddia, Matteo Curridori e Patrizio Carrus. Oggi alla protesta di Tiddia e Curridori si unirà Sayli Vuturu. Rimini: Fp-Cgil; nel carcere è sempre emergenza, carenza organici irreversibile Dire, 13 giugno 2011 Il sindacato lamenta la mancanza di un vero ricambio generazionale e la continua riduzione del personale dell’istituto riminese: “Siamo stanchi”. “L’ennesima stagione estiva sta per avere inizio, ma anche quest’anno, come nei precedenti, l’amministrazione penitenziaria si è dimenticata della Casa circondariale di Rimini”. Ancora critiche dalla Cgil per la gestione del carcere. La Funzione pubblica del sindacato riminese ha inoltrato “una nota di denuncia” al capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), al provveditore regionale della stessa amministrazione (Prap), al prefetto, al sindaco e a tutti i parlamentari riminesi. La carenza di organico e la mancanza di un vero ricambio generazionale, le questioni che il sindacato rivendica di aver “sistematicamente” denunciato, stanno per diventare “problemi irreversibili”. La Fp Cgil prosegue: “La continua riduzione del personale per vari motivi è sicuramente una delle cause di un notevole aumento del carico di lavoro per il personale della polizia penitenziaria di Rimini, ridotto oramai all’osso”, lamenta l’organizzazione, evidenziando “che da oltre 15 anni codesta Amministrazione non assegna personale nuovo proveniente dai corsi”. Posto che il personale penitenziario è “stanco” di essere “pagato poco e male”, la Fp Cgil ritiene dunque “indispensabile che Dap e Prap si facciano carico del problema ed intervengano con urgenza potenziando il contingente di Polizia penitenziaria con misure permanenti, in modo tale da fronteggiare il pesante aumento dei carichi di lavoro individuali che puntualmente si determinano”. Bologna: finto suicidio per evitare il carcere, ma qualcosa va storto e rimane ucciso Dire, 13 giugno 2011 Quello del mafioso Silvio Balsamo fu un finto suicidio: il 42enne, il 14 gennaio 2010, voleva solo inscenare il tentativo di togliersi la vita, con l’obiettivo di sfuggire al carcere, invece qualcosa è andato storto e alla fine è morto davvero. È l’ultima “novita” che arriva dall’inchiesta della Procura di Bologna sulla struttura riabilitativa di Montecatone, il cui ex primario Mauro Menarini è sotto accusa per aver certificato falsamente una gravissima patologia invalidante a Balsamo, condannato a Catania per associazione a delinquere di stampo mafioso, così da evitargli il carcere. Che quel suicidio avesse qualcosa di strano gli inquirenti se ne erano accorti fin dall’inizio. Il sospetto che fosse una sceneggiata finita male c’era già: ora, però, è diventata certezza. La conferma arriva dalla testimonianza di una persona, l’ultima che quella sera lo vide vivo, a cui Balsamo avrebbe confidato l’intenzione di inscenare un finto suicidio. Novità a parte, l’inchiesta della Procura di Bologna, di cui si occupano il procuratore aggiunto Valter Giovannini e il pm Lorenzo Gestri, è ormai vicina alla chiusura. Dopo l’ex primario Menarini, che venne arrestato ai primi di dicembre con l’accusa di false attestazioni in certificati medici e truffa aggravata ai danni dello Stato, nei mesi successivi finirono sotto inchiesta anche altri due medici “eccellenti”: Ilja Gardi, vicepresidente della struttura imolese, e il primario Augusto Costa. Per Gardi l’accusa è intralcio alla giustizia, perché secondo gli inquirenti avrebbe tentato di “controllare” preventivamente le audizioni di alcuni testimoni (medici e operatori sanitari) convocati in Procura. Costa invece è accusato di false dichiarazioni ai pm (fu particolarmente reticente), reato destinato a cadere se il medico ritrattasse. La testimonianza che dà la certezza agli inquirenti che dietro la morte di Balsamo ci fu in realtà un finto suicidio finito male è una persona che assisteva il mafioso. A questa persona, Balsamo confidò l’intenzione di mettere in scena un tentativo di suicidio allo scopo di sembrare pazzo, affetto da disturbi psichici e depressivi tali da fargli maturare la decisione di uccidersi. Questa, disse il mafioso, era ormai l’unica strada possibile per evitare il carcere: si sentiva braccato e sapeva che gli inquirenti ormai avevano scoperto che l’invalidità fisica era fasulla. Proprio quel pomeriggio, infatti, a casa sua c’era stata una perquisizione “fatale”, in cui gli investigatori avevano trovato prove inconfutabili per smascherarlo: centinaia di cateteri nuovi di zecca, innanzitutto, che l’Ausl gli passava grazie ai certificati di Menarini (insieme ad una pensione di invalidità di 1.000 euro al mese), ma anche due filmati, realizzati in casa, in cui l’uomo era stato ripreso mentre si alzava dalla sedia a rotelle, camminando normalmente, e addirittura un altro in cui ballava la “macarena” durante una festa tra amici nella sua casa di Imola. Quella sera il 42enne si legò una corda intorno al collo, fissando l’altra estremità al corrimano della scala; poi si buttò nel vano della scale con anche la carrozzina. Lo stesso consulente medico legale Roberto Nannini parlò di suicidio “atipico e incompleto”. Un’altra conferma arriva dal fatto che il cappio era stato cosparso di sale: un “sistema” per accentuare l’effetto dello strangolamento sul collo e rendere più credibile il tentativo di suicidio agli occhi di chi lo avesse trovato. Qualcosa, poi, evidentemente è andato storto, forse è scivolato malamente, forse qualcuno sarebbe dovuto intervenire per sventare la morte all’ultimo minuto, ma non fece in tempo ad arrivare. Non si sa. Quello di cui gli inquirenti sono certi è che fosse una sceneggiata studiata a tavolino per far credere di essere affetto da gravi problemi psichici ed evitare, ancora una volta, il carcere. Quello del 14 gennaio, tra l’altro, era il terzo tentativo, ricostruirono gli inquirenti: in due precedenti occasioni Balsamo aveva ingerito farmaci. Il testimone “chiave” del finto suicidio ha confidato agli inquirenti anche un altro particolare di grande importanza: ha detto che quella sera, l’ultima in cui lo vide vivo, aveva visto per la prima volta Balsamo stare in piedi e camminare, in uno stato di forte agitazione in conseguenza della perquisizione. Si tratta di un’ulteriore testimonianza (che si aggiunge al video in cui Balsamo balla la “macarena”) sulla finta invalidità dell’uomo. L’indagine, che prese il via nel novembre 2008 quando la Polizia municipale di Imola fermò il mafioso alla guida di un’auto sprovvista degli appositi comandi per disabili, è ormai vicina alla conclusione: presto gli indagati riceveranno l’avviso di fine indagine. Matera: laboratorio per la lavorazione della cartapesta, impegnati dieci detenuti Ansa, 13 giugno 2011 Dieci detenuti del carcere di Matera (otto italiani, un marocchino e un russo, di età compresa tra i 30 e i 35 anni) partecipano da oggi ad un progetto pilota di formazione e inclusione sociale che prevede lo svolgimento di 60 ore di formazione in laboratorio nella lavorazione della cartapesta. L’iniziativa, che si concluderà entro il mese di giugno, è stata presentata oggi ai giornalisti dal presidente della Camera di commercio di Matera, Angelo Tortorelli, dal direttore della casa circondariale, Maria Teresa Percoco, dagli amministratori della società Euroconsultinng e della cooperativa “La Città essenziale” che hanno promosso e organizzato l’attività formativa. L’iniziativa porterà alla produzione di alcuni manufatti e alla loro esposizione probabilmente nel centro di informazione turistica ‘Matera Tourism’ che ha sede nei Sassi. L’attività formativa sarà seguita, insieme ai responsabili di settore della casa circondariale, dagli operatori della società ‘La Città Essenzialè già impegnati con il progetto “U Mest” in attività che hanno portato alla costituzione della Cooperativa Euroconsulting, che ha ideato il progetto insieme alla Camera di commercio, si preoccuperà, al termine del corso, di individuare percorsi e risorse per giungere all’avvio di attività produttive e di commercializzazione. “È un’iniziativa - ha detto Tortorelli - svolta gratuitamente dai diversi soggetti che hanno portato al progetto. Siamo impegnati per seguirne l’evoluzione, finalizzata al recupero e all’autoimpiego delle persone ristrette, e a intensificare la collaborazione con la casa circondariale che potrebbe riguardare altri settori dell’artigianato”. Ancona: essere genitori fra le sbarre, i detenuti di Montacuto si raccontano Corriere Adriatico, 13 giugno 2011 “Stabat Pater”, giovedì 16 giugno alle ore 11 al Carcere di Montacuto si terrà lo spettacolo dei reclusi della sezione “Alta Sicurezza” per affrontare il problema della genitorialità in condizioni di reclusione. Teatro, musica ed il racconto di esperienze personali concluderanno il progetto laboratoriale realizzato dalla Fondazione Pergolesi Spontini in collaborazione con la Casa Circondariale-Casa di Reclusione di Ancona e con il sostegno del Lions Club Castelfidardo Riviera del Conero. Il progetto Stabat Pater, a cura di Silvano Sbarbati della Fondazione Pergolesi Spontini, ha avuto inizio lo scorso autunno tra le mura del carcere, coinvolgendo una decina di ristretti nella sezione “Alta Sicurezza” prima in laboratorio di scrittura creativa condotto dallo stesso dott. Sbarbati, e quindi, nelle ultime settimane, in un laboratorio teatrale e musicale finalizzato alla drammatizzazione dei racconti dei detenuti e tenuto dal regista Simone Guerro e dal maestro Francesco Gatti. Al centro del lavoro sviluppato nei laboratori e di seguito nello spettacolo, è il tema della paternità quando questa si presenta nella drammatica condizione di contenzione. Parlare del sentimento di genitorialità è sicuramente un tema molto doloroso per i padri in stato detentivo, ma l’autenticità di questo valore può offrire occasioni preziose di consapevolezza e di ricostruzione della personalità. Spiega la dott.ssa Santa Lebboroni, Direttrice del Carcere: “Il carcere deve essere una pausa per il deviante in cui si mettono in campo tutte le risorse per il recupero. Gli strumenti sono quelli a disposizione all’interno della struttura come il lavoro, la scuola, la formazione, ma soprattutto quanto è a disposizione del ristretto all’esterno come la famiglia. L’esperienza insegna che i rapporti familiari motivano la persona a cambiare stile di vita ed il pensiero dei figli e del loro futuro è ciò che stimola in maniera più incisiva a scegliere di vivere ispirandosi a principi positivi e soprattutto a scegliere di ricominciare. Quasi sempre, però, il distacco dalla prole genera sofferenza e senso di colpa: da qui la necessità di imparare a gestire un rapporto importante a distanza e l’esigenza, a scopo liberatorio, di rendere partecipi gli altri di una sofferenza interiore”. L’iniziativa prosegue la felice collaborazione instaurata nel luglio 2010 tra la Fondazione Pergolesi Spontini e la Casa Circondariale di Ancona, quando - per la prima volta nella storia di Montacuto - furono rappresentate di fronte a 70 detenuti due rappresentazioni teatrali, entrambe dedicate a Pergolesi; nel dicembre dello stesso anno, poi, sempre la Fondazione promosse un concerto lirico sinfonico sempre in carcere, con l’obiettivo di portare ai detenuti l’arte, il teatro, la musica, per favorire l’integrazione sociale attraverso la forza delle emozioni. Arborea (Or): indagine sui finanziamenti pubblici a comunità di accoglienza dei detenuti La Nuova Sardegna, 13 giugno 2011 Adesso si indaga sui finanziamenti pubblici. Per gli inquirenti è solo un’ipotesi di lavoro che però ha già preso avvio da diversi mesi e che coinvolge la comunità per accoglienza di condannati in regime alternativo di detenzione Il Samaritano. L’inchiesta che la procura sta portando avanti è uno stralcio di quella che coinvolge il sacerdote don Giovanni Usai, punto di riferimento della struttura, e due nigeriani. Sono accusati di aver favorito o addirittura messo in piedi - è il caso dei due ex detenuti - un giro di prostituzione che aveva il centro di accoglienza di Arborea come punto di riferimento. Secondo le accuse, ancora tutte da verificare e da sottoporre al vaglio dell’aula, le ragazze straniere che vi erano ospiti sarebbero state protagoniste di incontri sessuali a pagamento. Le due inchieste però non si incrociano e il sostituto procuratore Diana Lecca batte piste completamente diverse. Il secondo filone è nato in seguito al sequestro dei libri contabili, avvenuto all’indomani di alcune perquisizioni legate alla prima inchiesta. Chiuso il filone processuale principale, la procura ha deciso di approfondire l’aspetto contabile. La comunità Il Samaritano si è sempre retta su finanziamenti pubblici e ora si cerca di capire se questi siano stati utilizzati in maniera sempre corretta. Sono verifiche complesse che richiederanno anche molto tempo e soprattutto in cui c’è bisogno di inquirenti specializzati. Per questo motivo, alla polizia giudiziaria e ai carabinieri che si erano occupati del resto dell’inchiesta, la procura ha scelto di affiancare anche agenti della Guardia di finanza. Al momento comunque, al di là di ipotesi di reato, non ci sono ulteriori riscontri. Torino: Cappellano aiutò boss a cambiare carcere, in cambio di vernice per la chiesa di Lorenza Pleuteri La Repubblica, 13 giugno 2011 Dicono alla Vallette, il carcere dove sono finiti molti degli uomini d’onore arrestati con la maxi retata di mercoledì, che la sola colpa di don Piero è quella di “essere troppo buono, con un cuore grande, al limite dell’ingenuità”. Non è indagato, il cappellano dell’istituto alla periferia della città. Quello che ha fatto, a fine 2008, non viene ritenuto un reato. Ma è grazie all’interessamento del sacerdote che un detenuto calabrese con un cognome pesante - ora ritenuto affiliato alla ‘ndrangheta, “recidivo specifico e infra quinquennale” - viene trasferito dalla prigione di Bologna a quella di Saluzzo, più gradita a lui, ai familiari e ai sodali. Un favore, l’interessamento del prete, ripagato con una fornitura di vernice “che sarebbe stata utilizzata dal cappellano verosimilmente per lavori di restauro della Cappella o di altre parti di pertinenza”. Adolfo Crea, l’uomo per cui c’è bisogno delle buone parole del cappellano, sta in cella a Bologna. “La moglie - si racconta al sacerdote - poverina, deve andare due, tre quattro volte al mese” fin lì, “con la nebbia” E gli appartenenti al “gruppo del crimine” di Torino, particolare taciuto al cappellano, sono costretti a darsi il turno per accompagnarla. A chiamare il prete, agganciato attraverso un detenuto imbeccato da una “ambasciata” del padre, ci pensa Giuseppe Zucco, uno dei 191 tra arrestati e denunciati dell’operazione Minotauro. Il 9 dicembre 2008 il cellulare del sacerdote squilla, alle 11. “Don Piero, buongiorno. Sono Zucco, quello della vernice... Mi ha detto il mio amico che avete caricato tutto, se vi serve ancora qualche altra cosa me lo dite”. Il cappellano, cui l’interlocutore da rispettosamente del voi, all’inizio si confonde. Pensa che si tratti di una raccomandazione per l’arruolamento nella polizia penitenziaria. L’equivoco viene presto chiarito. E lo scopo degli uomini di ‘ndrangheta è raggiunto, pochi giorni dopo. “I contatti con il cappellano saranno determinanti per il trasferimento di Crea, concesso effettivamente il giorno 28 dicembre”. Le indagini raccontano anche il ritiro di quanto promesso, i bidoni di colore. “Il giorno 24.11.2008, alle ore 16, Giuseppe Zucco consegna personalmente a don Piero il materiale richiesto”. La vernice passa di mano davanti alla chiesa di piazza Rebaudengo, si intuisce dalle telefonate captate, prima e dopo. Il solito Zucco conferma ai sodali coinvolti nell’operazione “di aver mandato tutta la vernice al sacerdote” ed è prodigo di ringraziamenti, ai fornitori, “per il favore fatto” al prete. Pesaro: il viaggio oltre il carcere, al via “Arte sprigionata” Redattore Sociale, 13 giugno 2011 Si svolge martedì 14 giugno l’edizione 2011 della manifestazione, organizzata dalla Casa Circondariale di Pesaro in collaborazione con la Biblioteca San Giovanni di Pesaro. In programma tavole rotonde, laboratori, spettacoli e incontri con gli studenti. La cultura entra nel carcere e il carcere entra nella cultura. Nasce da questo incontro “Arte sprigionata”, manifestazione organizzata dalla Casa Circondariale di Pesaro in collaborazione con la Biblioteca San Giovanni di Pesaro e la sezione Marche dell’Associazione Italiana Biblioteche. L’edizione 2011, dedicata al tema “Il Viaggio”, si terrà martedì 14 giugno nella città marchigiana. La giornata si aprirà con una tavola rotonda su “La biblioteca in carcere, il carcere in biblioteca”, in programma dalle 9 alle 13:30 presso la sala Teatro della Casa Circondariale (in strada Fontesecco n.88). Tema dell’incontro, il “viaggio” che le biblioteche del carcere e della città stanno compiendo insieme, con testimonianze dei soggetti protagonisti ed interventi di esperti del settore e di personalità degli enti. Si parlerà anche delle prospettive future delle biblioteche carcerarie nella Regione Marche. Interverrà per l’occasione Giorgio Montecchi, presidente dell’Abc (Associazione Biblioteche Carcerarie). A seguire presso la Biblioteca San Giovanni si potranno percorrere i “viaggi onirici”, ossia gli spettacoli teatrali: alle 19 “I sogni del clown (associazione Vip Claun Ciofega); alle 20:45 “Oh bellissimo sole”, video di Maria Celeste Talianisullo spettacolo della Compagnia Lo Spacco “Lettere dal carcere”; alle 21 “I sogni che varcano i muri” (i sogni degli allievi dell’istituto comprensivo Galilei di Pesaro e i sogni dei reclusi). I “Viaggi identitari” comprendono le seguenti sezioni: visioni, fiaba, adotta l’autore e il sasso e il suo cammino. Completano la manifestazione i “Viaggi artigianali”, con piante e miele della Fattoria Pitinum (Casa Mandamentale di Macerata Feltria), artigianato della falegnameria della Casa Circondariale di Pesaro (il Gatto e la Volpe), gli oggetti del riuso del laboratorio “Libere di Fare” presso la Casa Circondariale di Pesaro (cooperativa Labirinto di Pesaro). Per informazioni: Aib Sezione Marche, tel. 349.0515594; Casa circondariale Pesaro, tel.0721/281986; Biblioteca San Giovanni, tel. 0721.387770. Nuoro: “Liberi nello sport”; sul campo di calcio i detenuti stracciano gli avvocati La Nuova Sardegna, 13 giugno 2011 Stavolta l’agognata rivincita sugli avvocati è arrivata per davvero. Ad aggiudicarsi il torneo di calcio “Liberi nello sport”, portato avanti dall’Unione sportiva Acli di Nuoro, col patrocinio della presidenza nazionale della stessa sigla che raggruppa le Associazioni cristiane dei lavoratori italiani, sono stati, ieri mattina, i detenuti del carcere di Badu ‘e Carros. Una giornata memorabile, che ha dimostrato come il calcio possa essere ancora qualcosa che va al di là degli scandali e delle partite truccate. E così, nel campo sportivo all’interno del penitenziario nuorese, ha fatto capolino lo spirito vero dello sport: quello fatto d’integrazione sociale, amicizia e condivisione. L’andamento del mini-torneo, che ha visto i detenuti giocare contro i rappresentanti degli Ordini forensi di Nuoro e Sassari, è stato praticamente segnato dalla prima partita. Quella che ha visto la squadra di Badu ‘e Carros stracciare per 6 a 0 gli avvocati nuoresi guidati dal presidente Priamo Siotto. Alla fine, dopo i pareggi per 1 a 1 negli altri due match, il verdetto non poteva che essere quello: vittoria meritatissima dei detenuti nuoresi. Ma l’aspetto più bello è stato sicuramente il tifo da stadio che si respirava dalle grate delle finestre ogni volta che lo speaker annunciava i gol dei padroni di casa. Grande commozione anche durante la cerimonia di premiazione: dapprima con la consegna della targa ricordo nominativa a tutti i 15 calciatori e alle 11 detenute che, in apertura, hanno portato in scena due saggi di danza. Poi con le proclamazioni e l’attribuzione delle tre coppe da parte dell’assessore alla cultura, turismo e sport Leonardo Moro, del presidente del comitato provinciale del Coni Sandro Floris e del coordinatore del Comitato provinciale dello sport Fabrizio Satta. Per i detenuti un risultato che premia l’impegno dopo i duri allenamenti degli ultimi tre mesi, sotto la guida dei tecnici Massimo Becconi per il calcio e Maria Antonietta Sanna per la danza. A loro i detenuti hanno voluto fare una sorpresa, regalando un completo di calcio della Juventus e una parure collana e orecchini creata dalle ragazze in carcere. Il progetto “Liberi nello sport” rappresenta il tentativo di abbattere i muri del carcere nuorese o, quantomeno, di abbassarli un po’ e renderli meno invalicabili. E sembra che la risposta dell’intero territorio sia stata quasi inaspettata. “Il progetto - ha confermato Salvatore Rosa, presidente del comitato nuorese Us Acli - è stato proclamato dall’Acli nazionale come l’unico evento di “cittadinanza attiva”. Questo perché ha coinvolto, a più livelli, diversi soggetti: dal garante dei detenuti Carlo Murgia, alla direttrice del carcere Patrizia Incollu. Per non parlare degli Ordini forensi di Nuoro e Sassari (presieduti da Priamo Siotto e Francesco Milia) e delle donazioni da parte dei commercianti cittadini. Un rappresentante dei detenuti e una delle detenute hanno consegnato una targa alla direttrice. Immigrazione: Basilicata contro il Governo per condizioni del Cie di Palazzo San Gervasio La Repubblica, 13 giugno 2011 I Cie, centri di identificazione e accoglienza, come Guantanamo: “gabbie” prive di diritti civili chiuse ai giornalisti e vietate ai controlli dei parlamentari. La Regione Basilicata insorge contro il ministero dell’Interno dopo l’inchiesta pubblicata sul nuovo sito inchieste Repubblica-Espresso che ha svelato le condizioni disumane nelle quali vivono gli “ospiti” - così sono chiamati dal Viminale i migranti “reclusi” in quelle strutture - del Cie di Palazzo San Gervasio. Il governatore lucano Vito De Filippo denuncia che quel centro di identificazione ed espulsione fu costruito in gran segreto, senza che neppure la Regione ne venisse informata dal prefetto che ammise di aver ricevuto dal Viminale l’ordine alla “riservatezza”. Ora De Filippo chiede un’inchiesta sulle condizioni degli immigrati là “detenuti”. Il sito Repubblica.it mette in rete un video girato da uno sessanta migranti tunisini ingabbiati dietro la rete di acciaio a maglie strette alta cinque metri nell’attesa di un rimpatrio forzato. Dovrebbero essere ospiti, invece sono come animali in gabbia. In quelle immagini compare l’altra faccia degli sbarchi a Lampedusa che il governo vuole tenere nascosta. Il video certifica i tentativi di fuga e gli scontri con la polizia. Ma soprattutto la mancanza dei diritti più elementari visto che, stando alle denunce degli “ospiti”, è vietato l’ingresso anche ai legali. Sono circa 60 immigrati in attesa di essere rimandati in Tunisia, ma nessuno spiega loro quando avverrà: “Non ci fanno nemmeno parlare con i nostri avvocati”, denunciano. “Le informazioni mancano o sono carenti – aggiungono. Il decreto di espulsione è scritto in italiano e arabo, ma la parte nella nostra lingua è del tutto incomprensibile”. La video-inchiesta s’è ora trasformata in un caso politico, con il governatore che chiede “subito un’indagine sul Cie”. E il capogruppo dei senatori Idv Felice Belisario che chiede a Maroni “di fare piena luce” su quanto accaduto e rivela di aver tentato di visitare quel Cie ai sensi delle sue prerogative ispettive parlamentari, ma “di non aver avuto l’autorizzazione”. “La nostra - ha sottolineato il presidente De Filippo - è da sempre terra di accoglienza e di grande ospitalità, soprattutto nei riguardi di chi fugge dai Paesi africani sconvolti dalla guerra”. “Per questo - ha aggiunto - è inaccettabile che un campo di identificazione ed accoglienza (Cie) realizzato e gestito dal ministero dell’Interno, a nostra insaputa e senza il nostro avallo, getti un’ombra infamante su di noi”. I “detenuti” tunisini ieri hanno denunciato di aver subito intimidazioni e vessazioni dai poliziotti come ritorsione per aver consegnato ai giornalisti i filmini dei disordini nel Cie. Ma il portavoce di Maroni ha smentito la circostanza: “Non ci risulta che le cose stiano in questi termini”. Critiche al ministero dell’Interno arrivano anche dagli stessi sindacati di polizia. “La situazione di alcuni Cie è scandalosa - dichiara Franco Maccari, del Coisp - sono delle vere bombe ad orologeria pronte ad esplodere. Strutture malsane e fatiscenti, in cui clandestini e profughi vengono reclusi in maniera incivile e disumana, e che sono continuamente teatro di violenze e disordini di cui a fare le spese sono sempre gli operatori delle forze di polizia”. Mondo: i “paradisi penali” dei terroristi.. da Battisti a Casimirri di Marco Berti Il Messaggero, 13 giugno 2011 La nuova vita di Cesare Battisti è ricominciata a 56 anni e, grazie alla decisione della Corte suprema federale del Brasile, sarà vissuta in piena libertà. Dopo anni trascorsi tra latitanze, processi, fughe e prigioni, l’uomo che ha messo in crisi le relazioni diplomatiche fra Italia e Brasile potrà vivere una vita normale o meglio, a detta del suo avvocato Luiz Eduardo Greenhalgh, una vita da scrittore. Ha già scelto la città in cui si stabilirà, San Paolo, la metropoli più italiana del mondo, con i suoi sei milioni di oriundi, dove ha sede la sua casa editrice, Martin Fontes, che in questi giorni, sull’onda del clamore internazionale sollevato dalla vicenda dell’ex terrorista dei Pac, sta lanciando il suo ultimo libro, “Ao pè do muro” (Ai piedi del muro), mentre lui, Battisti, ha annunciato l’intenzione di scrivere una “autobiografia romanzata” i cui protagonisti saranno i detenuti brasiliani incontrati negli anni della prigionia. Là, in Brasile, Battisti è in buona compagnia. Sono numerosi i latitanti politici che hanno trovato ospitalità in quella terra dopo che in Francia si è stemperata la cosiddetta “dottrina Mitterrand”, la legge sul diritto d’asilo, che ha offerto rifugio e protezione al di là delle Alpi alla gran parte dei ricercati per fatti di terrorismo o partecipazione a banda armata fino al 2002, anno in cui è stata abrogata. Tra questi, in Brasile, c’è Achille Lollo (oggi ha 60 anni), condannato in appello a 18 anni (pena prescritta), dopo l’assoluzione in primo grado per insufficienza di prove, per il rogo di Primavalle nel quale persero la vita fra le fiamme i due figli del segretario di sezione del Msi Mario Mattei. Dopo la condanna, Lollo si dette alla fuga: dalla Svezia all’Angola, dove sposò la sua attuale moglie, fino al Brasile che lo accolse negando l’estradizione in Italia in quanto, secondo i giudici della Corte suprema, il lungo intervallo, 11 anni, frale due sentenza ha invalidato la seconda. Lollo oggi è padre di quattro figli e lavora, come giornalista ed editore, in tre riviste politiche. L’accoglienza brasiliana ha favorito anche Luciano Pessina, ex Prima Linea, condannato a dodici anni per rapina, furto, banda armata, resistenza a pubblico ufficiale, detenzione e porto illegale di armi. Anche per lui nessuna estradizione. È proprietario di un ristorante molto famoso, frequentato, si dice, anche dall’ex presidente brasiliano Ignacio Lula da Silva, a Leblon, la spiaggia che confina con Ipanema. Sempre in Brasile vive da uomo libero anche Pietro Mancini, ex esponente di Autonomia operaia, condannato in Italia a vent’anni, pena poi ridotta a cinque, per diversi reati, tra cui il coinvolgimento nell’omicidio di un vicebrigadiere della polizia, Antonino Custra, a Milano nel 1977. Mancini vive a Rio de Janeiro, ha una figlia e gestisce una società di produzione video. Deve scontare una condanna a 12 anni e undici mesi Pierluigi Bragaglia, ex esponente della formazione extraparlamentare di estrema destra dei Nar. Riconosciuto colpevole di rapina aggravata, sequestro di persona, ricettazione, detenzione e porto abusivo di armi, banda armata e associazione sovversiva, è stato arrestato in Brasile nel 2008 dopo 26 anni di latitanza. Fino a oggi, anche per lui, non si parla di estradizione. Ha trovato rifugio, sempre al dì là dell’Atlantico, ma in Nicaragua, Alessio Casimirri, 60 anni, ex brigatista rosso. Condannato all’ergastolo per il sanguinoso agguato di via Fani, dove furono uccisi i -cinque uomini della scorta di Aldo Moro, nel 1982 fuggì in Nicaragua. Sposato e padre di due figli ha partecipato alla lotta dei sandinisti contro i contras. Deposte le armi, aprì un primo ristorante, Magica Roma, con altri italiani poi, a Managua, “La cueva del buzo” (Il covo del sub), di cui oggi è proprietario. Inutili i tentativi italiani di ottenerne l’estradizione: Casimirri è cittadino nicaraguense, grazie al matrimonio con Raquel Garcia Jarquin, e gode di ottimi rapporti con politici e militari. È invece in Francia Marina Petrella per la quale il presidente Nicolas Sarkozy ha negato l’estradizione per “motivi umanitari”, per le sue non buone condizioni di salute. Ex brigatista, membro della direzione della colonna romana, la Petrella fu condannata nel 1982 all’ergastolo per una serie impressionante di reati che vanno dall’omicidio di un agente di polizia al tentato sequestro e tentato omicidio, dal sequestro di un magistrato alla rapina a mano armata e a vari attentati. Riparata in Francia nel 1993, grazie alla “dottrina Mitterrand”, fu arrestata nel 2007 e detenuta nel carcere di Fresnes. Ma la Corte d’Appello ha disposto la sua scarcerazione per il suo “stato depressivo gravissimo” incompatibile con la detenzione. Nell’ottobre del 2008 Sarkozy, considerato il suo stato di salute, ha respinto la richiesta d’estradizione da parte dell’Italia. Delfo Zorzi, 63 anni, ha scelto il Giappone e un nuovo nome, Roi Hagen. Ex esponente dei neofascisti di ordine Nuovo, è stato condannato in primo grado all’ergastolo per la strage di piazza Fontana, poi assolto, quindi rinviato a giudizio per un’altra strage, quella di piazza della Loggia, e assolto per quella che una volta si chiamava insufficienza di prove. Zorzi vive nel paese del Sol Levante dal 1974 da dove non ha potuto essere estradato in quanto cittadino giapponese. Oggi, volendo, potrebbe tranquillamente rientrare in Italia, dopo l’assoluzione dei cinque imputati di piazza della Loggia. Ma resterà certamente a Tokyo dove svolge con successo l’attività di commerciante e coordina diverse aziende di import export in Asia e in Europa, Italia compresa. Turchia: dal carcere al parlamento… libertà ritrovata per 9 neo-deputati dell’opposizione Agi, 13 giugno 2011 Per nove neo-deputati del Parlamento turco, l’elezione farà aprire le porte del carcere dove si trovano con l’accusa di cospirazione e legami con i ribelli curdi. I nuovi rappresentanti, tutti eletti fra le file dell’opposizione, verranno rilasciati ma dovranno comunque affrontare il processo. Fra di loro si contato esponenti di spicco della società civile, come il giornalista Mustafa Balbay e l’accademico Mehmet Haberal, candidati dal Partito Repubblicano del Popolo (Chp), mentre il Partito dell’Azione Nazionalista potrà contare in Parlamento del generale in pensione Engin Alan. Fra le fila del Chp sono stati eletti anche il giurista Ilhan Cihaner e l’imprenditore Sinan Aygun, rilasciati da qualche tempo dopo essere stati rinchiusi in carcere con la stessa accusa. Le indagini su presunti complotti contro il governo del premier Recep Tayyip Erdogan si sono trasformate, secondo gli oppositori del leader del partito islamista Giustizia e Sviluppo, in una caccia alle streghe per intimidire i critici. Oltre a questi, verranno rilasciati anche 6 attivisti curdi, come Hatip Dicle, in carcere per legami con la battaglia della minoranza curda nel sud-est del Paese. Bahrain: un anno di carcere alla poetessa 20enne simbolo della rivoluzione Aki, 13 giugno 2011 È stata condannata a un anno di carcere Ayat al-Gormezi, 20 anni, poetessa divenuta simbolo della rivoluzione contro la dinastia sunnita che governa il Bahrain. Era stata arrestata a fine marzo per aver partecipato a una manifestazione anti-governativa durante la quale aveva letto una sua poesia in cui si difendevano i diritti democratici e si criticava la monarchia. Durante la sua detenzione, come scrive oggi il quotidiano The Independent, la Gormezi è stata torturata con un cavo elettrico in volto, tenuta per nove giorni in una cella minuscola con temperature vicine al congelamento e obbligata a pulire le latrine a mani nude. La condanna è stata emessa nei suoi confronti da un Tribunale della sicurezza senza che fosse consentito al suo avvocato di pronunciarsi in sua difesa, come ha spiegato un familiare della poetessa presente al processo. Suo fratello, Yousif Mohammed, ha comunque sostenuto che le condizioni di detenzione della sorella sono migliorate negli ultimi giorni, forse per le pressioni internazionali. La famiglia ha presentato ricorso contro la sentenza.