Giustizia: “Tutti mi odiano”… si impicca in carcere a 18 anni, ora è in coma all’ospedale La Stampa, 12 giugno 2011 Il fatto di cronaca nudo e crudo racconta di un diciottenne marocchino che tenta di uccidersi in carcere, impiccandosi con i lacci delle scarpe alla finestra del bagno. Il quarto caso in un mese. Gli altri tre detenuti sono morti. Aziz è in fin di vita all’ospedale Maria Vittoria. Poi c’è tutto il resto. A partire dalla disperata richiesta di aiuto, in una lettera allo zio spedita dalle Vallette il giorno prima di impiccarsi. Fino all’ultimo colloquio con lo psicologo del carcere “proprio 5 minuti prima del gesto estremo” come spiegano dalla casa circondariale “Lorusso e Cutugno”. “Non ce la faccio più a stare qua dentro perché tutti mi odiano e mi vogliono fare del male” scrive il maghrebino, da 12 anni a Torino. Per ironia della sorte, l’altro ieri il Tribunale della libertà ha autorizzato la scarcerazione, negata lo scorso 25 maggio. E ora la madre del ragazzo, Fnine Aicha - 44 anni, ex badante disoccupata - si chiede “com’è possibile che nessuno si sia accorto della sofferenza di mio figlio. Nella lettera dice che lo trattavano male e che lo odiavano. Perché nessuno lo ha aiutato? Aziz è un bravo ragazzo, non deve morire così senza un senso”. Il diciottenne, assistito dall’avvocato Alessandro Gasparini, è stato arrestato il 5 maggio per 20 grammi di hashish e resistenza a pubblico ufficiale. Ma su di lui c’è anche una denuncia a piede libero per violenza sessuale a causa dei rapporti con due minorenni romene di 13 e 17 anni. La più grande era la sua ragazza e, a quanto pare entrambe erano consenzienti. Ma per la legge sotto i 14 anni, nonostante l’assenza di denunce, si procede per violenza. È forse per questa accusa - che viola il codice d’onore interno alle prigioni - che Aziz era “odiato” dietro le sbarre? O forse il suo disagio interiore nasce da altri fattori? “Sono in una situazione di m... - si legge nella lettera -, mi sono rovinato la mano e non voglio farmi del male. Zio ti prego aiutami, nel nome di tuo nonno e di tuo padre. So che prima ho fatto cose brutte: mi hanno trovato ubriaco, con l’hashish e 500 euro. Mi hanno preso i soldi e pure il telefono e dicono che mi sono picchiato con loro. Pure la madre della mia ragazza mi ha denunciato. Aiutami ad uscire”. Il direttore Pietro Buffa ha attuato da tempo un progetto di monitoraggio dei detenuti più fragili e Aziz era sottoposto ad un regime di “grande sorveglianza”. Compresi gli incontri periodici con lo psicologo. Ma non è bastato. Fnine Aicha, già in lutto per la morte del padre, non smette di piangere: “Mio figlio aveva bisogno di aiuto e non l’ha avuto”. Leo Beneduci, segretario del sindacato della polizia penitenziaria parla di “una strage continua: occorre incrementare l’organico”. Aziz, intanto, è ancora in coma. E chissà se si sveglierà. Detenuto tenta il suicidio con i lacci, è in fin di vita (La Repubblica, 11 giugno 2011) Il bollettino medico delle otto di ieri sera, dal Maria Vittoria, dice che il paziente Aziz Abdel Kaja resta in condizioni gravissime, prognosi più che riservata, tenuto in ipodermia e in coma farmacologico. È solo un ragazzo, 18 anni compiuti a dicembre. È un detenuto delle Vallette, il carcere già segnato da tre suicidi in 22 giorni, che ha cercato di togliersi la vita. Mercoledì mattina è andato nel bagno della cella, ha annodato le stringhe delle scarpe e si è impiccato ad una finestra. Era ancora vivo, ma messo male, quando è stato liberato dal rudimentale cappio e portato in ospedale. Stava nel reparto degli “incolumi”, quelli per cui la vigilanza dovrebbe più attenta. Era dentro dal 5 maggio, arrestato per resistenza, lesioni, violazione di domicilio e detenzione di 20 grammi di hashish. Era anche accusato, nell’ambito di un’altra indagine, di atti sessuali su due sorelle, minori. “A breve - dice il difensore, Alessandro Gasparini - avrebbe dovuto affrontare un incidente probatorio. E forse questo un po’potrebbe averlo scoraggiato”. Non ha lasciato messaggi. Il rischio, sempre che sopravviva, è che abbia pesanti danni neurologi e cerebrali, per l’interruzione dell’afflusso di ossigeno al cervello. Lettere: in Italia si sta proprio bene, in carcere di Rino Tripodi www.lucidamente.com, 12 giugno 2011 Nel nostro Paese, si sa, secondo un logoro luogo comune, “in carcere non ci finisce nessuno”! Se, poi, proprio perché uno vuole, si ha la fortuna di essere detenuti, secondo un altro celebre adagio, si sa ancora, “è una pacchia”: oltre alla proverbiale tv in cella, pasti sopraffini, donnine allegre, giornate passate al cellulare e a giocare a carte, elevate conversazioni con compagni di cella quali Gennariello “‘o sfreggiazoccole”, Cecio “er mostro de Torvaianica” e Ciccio “l’ammazzafroci”, al minimo segno di malessere - non diciamo neanche di malattia o lesioni fisiche (queste ultime del resto impossibili, data la consueta gentilezza di polizia, carabinieri, agenti di custodia - vedi fiction televisive) - si è prontamente assistiti e, se necessario, trasportati tempestivamente in ospedale, anche per cautela. Così, alfine, si raggiunge uno stato di tale benessere psicofisico che, come nei paesi più civili (Svezia, Norvegia, Finlandia), dove la tipicamente nordica malinconia impazza, il detenuto, preso da una intellettualistica e decadente noia esistenziale - e in mancanza del conforto cattolico, di cui viene privato dai cattivi “laicisti” -, non trova di meglio che suicidarsi. Padova: nessun segno di violenza, Alessandro è morto in cella per avere inalato gas La Città di Salerno, 12 giugno 2011 Non ci sono segni di violenza sul corpo di Alessandro Giordano e la causa della morte è asfissia per aver inalato il gas della bomboletta da campeggio. I risultati dell’autopsia effettuata dal professor Massimo Montisci fanno luce sulla vicenda del 36enne detenuto di Salerno trovato senza vita domenica pomeriggio nella sua cella della casa di reclusione Due Palazzi di Padova. Sul caso il pubblico ministero Paolo Luca ha aperto un’inchiesta, dopo l’inquietante coincidenza della morte lo scorso 24 maggio di un altro detenuto Walter Bonifacio con le stesse modalità e nella stessa cella. I due detenuti deceduti dividevano la cella con P.C., un 33enne di Gorizia che domenica si era preoccupato di gettare in cortile la bomboletta di gas di un fornellino custodito in cella, mentre gli agenti stavano entrando per soccorrere il salernitano. Una serie di comportamenti quanto meno anomali sui quali dovrà far luce la squadra mobile di Padova, guidata dal vicequestore aggiunto Marco Calì. Il corpo del 36enne salernitano tornerà ora in città dove la famiglia ha già programmato i funerali. Pisa: ergastolano malato di tumore chiede di tornare in cella, ma muore in ospedale La Nazione, 12 giugno 2011 Un detenuto del carcere Don Bosco di 65 anni bosniaco, affetto da un tumore alla laringe è deceduto venerdì al pronto soccorso pisano. Il bosniaco che doveva scontare un duplice ergastolo legato ad una serie di omicidi scaturiti per vendette famigliari, era affetto da tempo di tumore alla faringe e le cure radioterapiche erano ormai totalmente inutili per la regressione della malattia. L’uomo aveva chiesto di tornare in carcere ma la sua domanda non era stata accolta. Le condizioni dell’uomo si sono aggravate in settimana durante il ricovero nella struttura dell’hospice di Cisanello. L’unico modo per mantenerlo in vita era praticagli una tracheotomia. “Il detenuto - ha detto il garante dei diritti dei detenuti, l’avvocato Andrea Callaioli - ha rifiutato l’ intervento ed ha chiesto di poter fare ritorno al carcere Don Bosco perché quella era diventata la sua casa visto che non aveva più famigliari”. La sua richiesta non è stata accolta ed è deceduto al pronto soccorso. “Questa volta però - ha detto Callaioli - tutte le procedure assistenziali della Asl hanno funzionato a dovere”. Callaioli fa riferimento al decesso di un altro detenuto Mario Santini che morì circa tre settimane fa dentro al carcere Don Bosco dopo che era stato dimesso da poche ore dal Santa Chiara dove era ricoverato per un cancro polmonare. Su quella morte, l’autorità giudiziaria aprì un’inchiesta. Firenze: Uil-Pa; crisi nel carcere di Sollicciano, ogni agente deve controllare 105 detenuti di Diego Giorgi www.firenzetoday.it, 12 giugno 2011 Carceri toscane piegate sulle ginocchia, il dramma del sovraffollamento, le condizioni sanitarie a rischio, le strutture decadenti, ed il personale esasperato da turni massacranti, e non retribuiti. Si può immaginare di vivere in tre, quattro persone, perfino cinque, in una stanzetta di circa diciotto metri quadri complessivi, compreso bagno, letti, un tavolino e qualche sedia? Impossibile o quasi; una sensazione a metà via tra il claustrofobico e l’immobilità permanente fa sì che il pensiero si allontani. Eppure succede quotidianamente in molte delle carceri italiane, anche se per legge dovrebbero essere garantiti almeno sette metri quadri vivibili a detenuto. La Toscana non fa eccezione, se ne parla poco, pochissimo, e presto l’intera struttura potrebbe trasformarsi in una polveriera. A lanciare questo grido di allarme è stata la Uil penitenziari Toscana che ieri ha riunito il proprio direttivo regionale all’interno del Carcere di Sollicciano. “La Toscana - ha affermato il segretario generale della Uil PA Penitenziari Eugenio Sarno - rappresenta una delle realtà territoriali più complesse e complicate dell’intero sistema penitenziario italiano, dove si sintetizzano tutte le criticità nazionali”. I numeri diffusi dal sindacato sono emblematici e misurano chiaramente la portata del problema. Il carcere di Sollicciano, per regolamento, può ospitare quattrocento novantasette detenuti. Il sette giugno, alle cinque di pomeriggio, ne conteneva novecento settantuno, qualcosa come il novantacinque per cento in più della capienza prevista. Gli esempi su questa linea si sprecano: a Pisa il sovraffollamento si attesta in pratica al settanta per cento, a san Gimignano al settantacinque per cento. Stesse situazioni a Prato, Lucca, Pistoia, Massa, Livorno e così via. “Tra le vari problematiche - continua il segretario Sarno - è bene ricordare la decadenza ed il degrado delle strutture carcerarie, che amplificano gli effetti del sovraffollamento, rendendo incivile la detenzione ed affermando condizioni di lavoro assolutamente insostenibili per tutto il personale”. Gravi difficoltà in cui versano, quindi, non solo i detenuti, ma anche il personale di polizia penitenziaria. A Sollicciano, per esempio, i turni di vigilanza sono pressoché raddoppiati. È facile capire il perché: duplicano i detenuti, il personale non è integrato, aumentano a dismisura i turni di lavoro e gli straordinari; “dieci, a volte dodici ore al giorno, mediamente cinquanta ore di straordinario al mese, e stiamo sempre parlando di un lavoro davvero provante - afferma il segretario regionale Uil-Pa Penitenziari, Mauro Lai - ancora più difficile se poi non vengono retribuiti straordinari e missioni, come sta succedendo nelle carceri toscane dall’agosto 2010”. Il caso del penitenziario di Firenze, in questo senso, è la cartina di tornasole della regione. Sovraffollamento e carenza di personale si fondono insieme in una miscela drammatica. A quanto riferito dai vertici della Uil, nei penitenziari, a seconda delle sezioni, un agente dovrebbe vigilare su venticinque, massimo trentacinque detenuti (anche se una norma vera e propria non c’è). Mentre nel penitenziario fiorentino ogni agente è costretto a controllarne dai settantacinque a i centocinque per turno, e spesso i turni raddoppiano. “Le condizioni dei detenuti sono di difficoltà estrema - sottolinea Mauro Lai - sia dal punto di vista sanitario che umano. In questa situazione diventa molto complicato operare anche per il reinserimento nella vita sociale, che dovrebbe essere una delle priorità dei centri di detenzione. Di riflesso le criticità ricadono sul personale, che deve subire dei carichi di lavoro non più sostenibili; per far capire, un agente o un assistente mediamente controlla duecento detenuti”. Il problema principale sta nelle risorse, ad oggi veramente all’osso. “I tagli orizzontali al sistema carcerario di questo Governo - continua Lai - hanno dimezzato le risorse, clamorosamente impoverito le amministrazioni, rendendole impotenti, non solo sul piano della progettualità futura, ma perfino sulle piccolissime ma necessarie opere di ristrutturazione. Non dimentichiamoci che stiamo parlando di esseri umani”. Appunto, proprio per questo il carcere dovrebbe garantire anche quell’assistenza psicologica necessaria ai detenuti sia per il reintegro nella società, sia come arma di supporto per affrontare la presenza costante della gabbia. Il suicidio nelle celle italiane è di casa. Tuttavia i tagli hanno colpito anche questo settore: il monte ore degli psicologi di Sollicciano è stato ridotto e portato a circa trenta ore mensili. Facendo un rapido calcolo, mediamente ogni detenuto ha poco più di cinque minuti al mese per parlare con il proprio psicologo. “È un dato tremendo - afferma il segretario Sarno - tanto più se pensiamo che lo psicologo è parte integrante dell’equipe di osservazione, che le relazioni psicologiche sono parte primaria per le scelte sulla libertà vigilata, e che ad essi è affidata la redazione del profilo di ingresso che orienterà il personale del carcere sulle problematicità e sulla presenza di eventuali istinti autolesionisti del detenuto”. Insomma la cosa è estremamente difficile, tanto più se analizziamo ulteriori dati: nel 2009 la spesa per il vitto di un detenuto, colazione, pranzo e cena, era di quattro euro e venti centesimi. Oggi, con i tagli, è stata ridotta a poco più di tre euro. La situazione sta precipitando, tanto da far lanciare un vero appello umanitario al sindacato: “questo è il Governo dei grandi annunci - sottolinea amaro Sarno - che per due anni di seguito ha dichiarato lo stato di emergenza del sistema carcerario e, incoerentemente con gli slogan, ha sottratto il sessanta per cento delle risorse da destinarvi. Sia ben chiaro, noi stiamo parlando di cose serie. A settembre le risorse per il vitto finiranno. Sono già finiti i soldi per gli straordinari e le missioni, sono già stati prosciugati i denari per la benzina delle vetture della penitenziaria, e se entro settembre lo Stato non interverrà, finiranno anche le risorse per il cibo. Ed è chiaro che, a fronte di questa prospettiva, noi saremo costretti a fronteggiare non le proteste ma qualcosa di più”. Siracusa: i detenuti chiedono più dignità, in 150 rifiutano il cibo per protesta La Sicilia, 12 giugno 2011 Sono 150 nel carcere di contrada Cavadonna, i detenuti che stanno attuando lo sciopero della fame. In tutta Italia sono dieci mila. Tutti con Marco Pannella, che non mangia dal 20 aprile scorso, per chiedere l’amnistia. Una lotta non violenta per ridare dignità ai carcerati che vivono in condizioni disumane. Ieri mattina Gianmarco Ciccarelli e Luigi Pappalardo, responsabili dell’associazione “Radicali Catania”, hanno dato vita ad un sit in pacifico davanti i cancelli della casa di reclusione siracusana. Bandiera e striscione in mano hanno distribuito volantini ai familiari dei detenuti, in attesa del colloquio, che hanno aderito all’iniziativa. “Il carcere è gravemente sovraffollato” denuncia Ciccarelli. “Sono presenti 575 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 309 posti. Ed infatti possiamo trovare anche undici detenuti in una cella. L’acqua calda è assicurata un’ora al giorno. La carenza di personale di polizia penitenziaria è una delle maggiori criticità: la pianta organica ne prevede 315, e quelli in servizio sono 160”. Ciccarelli non parla leggendo un foglio. Il 22 maggio scorso è stato in visita all’interno della struttura penitenziaria insieme all’on. Rita Bernardini. La situazione di cui parla, le condizioni in cui vivono i detenuti, le ha viste in prima persona. Il rappresentante del Partito democratico, in seguito all’ispezione, ha presentato il 6 giugno scorso un’interrogazione al ministro della giustizia per chiedere il rispetto del detenuto, per invocare provvedimenti urgenti, in considerazione della condizione di “illegalità in cui i detenuti sono costretti a vivere”. Misure urgenti da adottare anche nelle altre strutture penitenziarie della provincia: “Il carcere di Brucoli ad Augusta o anche il carcere di Noto. Mancano spesso figure per la rieducazione ed il reinserimento in società - spiega Luigi Pappalardo -. Se mancano i percorsi adeguati è inevitabile ritrovare sempre le carceri affollate”. La struttura di Cavadonna è divisa in quattro reparti: nel blocco 50 ci sono 385 detenuti. “Stipati nelle celle come bestie” sottolinea Ciccarelli. I detenuti stranieri sono circa 120. Gli agenti in servizio sono meno della metà rispetto all’organico previsto. Il giorno dell’ispezione erano anche meno. “Su 315, in servizio sono 160. Però 27 sono distaccati e 3 in missione. Inoltre 18 agenti sono in aspettativa elettorale ed altri 6 prossimi alla pensione”. Drammatiche le testimonianze raccolte dall’on. Bernardini e dai Radicali. Chi sta male ha difficoltà: “Dovrei operarmi con urgenza, ho un ferro in un piede e l’altro è fratturato. Dovevo andare in ospedale, ma la visita è stata annullata per tre volte perché mancano gli agenti per accompagnarmi”. Reggio Calabria: Ugl; difficoltà della Polizia penitenziaria per grave carenza di organico Comunicato stampa, 12 giugno 2011 Con la presente è intenzione della scrivente O.S. rappresentare per l’ennesima volta l’assoluta carenza di Personale di Polizia Penitenziaria della Casa Circondariale di Reggio Calabria che, ormai, non permette più di far fronte alle ordinarie esigenze di servizio. Ma non è tutto. Il numero di utenti presenti nella struttura reggina oscilla, oramai, tra le 320 ed i 380 unità a fronte di una capienza tollerabile di n° 264, assottigliatasi ulteriormente a n° 209 a seguito della perdita di 55 posti presso la sezione “M”, oggetto, di recente, di lavori di ristrutturazione. Il personale amministrato ammonta a n° 196 unità, mentre quello effettivamente in forza è di 141 unità tra cui n° 30 unità sono in forza presso il Nucleo Traduzioni e Piantonamenti. Per espletare il servizio su 4 quadranti orari (ossia 6 ore lavorative giornaliere come previsto, tra l’altro, dalla normativa pattizia e di settore) occorrerebbero n° 156 unità; cosicché, essendo impossibile reperire un tale numero di uomini, il servizio viene organizzato su 3 quadranti orari di 8 ore cadauno (eccetto pochi posti di servizio) con altrettante difficoltà operative in quanto, conti alla mano, occorrerebbero pur sempre n° 83 uomini. Il colmo è che, anche questo numero di Personale di Polizia Penitenziaria è una vera chimera, cosicché sono stati ridotti ai minimi termini le attività trattamentali con conseguenze facilmente intuibili. Alla luce di quanto sopra esposto si può tranquillamente dire che a gestire il penitenziario nell’arco delle 24 ore siano non più di 50 unità, salvo complicazioni, praticamente 1/3 di quello realmente necessario. Pur riducendo al massimo, comunque, i posti di servizio, non si riesce a far fronte alle esigenze strettamente necessarie dell’istituto se non con enormi sacrifici da parte di tutto il personale, la cui pazienza sembra aver raggiunto, ormai, qualsiasi limite di guardia essendo aumentati in modo abnorme ed esponenziale i relativi carichi di lavoro, situazione accompagnata da una vera e propria alienazione dei diritti soggettivi dello stesso Personale di Polizia legati alla mancata fruizione di riposo settimanale o congedo ordinario (ma anche di Permessi Sindacali su Convocazione, come successo in data 09 c.m.). È bene sottolineare che il pregiudizio legato alla preservazione dell’ordine e della sicurezza dell’istituto risulta essere enorme ed inaccettabile. Quotidianamente, poi, i detenuti da tradurre per le aule di giustizia oscillano tra le 15 e le 40 unità, mentre il numero dei componenti il N.O.T.P. ammonta a circa 30 unità, consistenza numerica oggettivamente insufficiente per l’espletamento di un cosi importante e delicato servizio che, in un contesto operativo normale, richiederebbe l’impiego di 50/100 uomini, infatti con questa grave carenza di organico, gli addetti al servizio mettono a repentaglio quotidianamente e costantemente la propria incolumità con enorme spirito di sacrificio e abnegazione, operando al di sotto degli standard minimi di sicurezza. Con riferimento alla Sezione Femminile esistono, poi, molteplici criticità sempre dovute alla carenza di personale, infatti, in svariate occasioni la sorveglianza notturna della sezione femminile è stata demandata a personale maschile, per mancanza di personale femminile. La presente e drammatica rappresentazione dei fatti non evidenzia che la punta dell’iceberg delle molteplici criticità che affliggono l’istituto reggino. Per quanto sopra, questa O.S. ha chiesto agli organi competenti una rivisitazione della pianta organica della sede reggina, attualmente fissata a n° 199 unità, poiché, a modesto parere di chi scrive, è illogico (anche solo pensare) calcolare la pianta organica di un istituto, sulla base alla propria capienza, ma bisognerebbe tener conto delle peculiarità e degli effettivi posti di servizio da coprire per garantirne l’espletamento su 4 quadranti orari (ossia 6 ore lavorative giornaliere), come previsto dalla normativa pattizia e di settore. Infine, è stato chiesto il rientro immediato delle 37 unità, attualmente distaccate presso altre sedi, ormai da troppi anni, che mascherano, l’effettiva carenza organica della CC Reggio Calabria. Auspicando che quanto sopra esposto, possa rendere chiara la situazione esplosiva che caratterizza la sede di Reggio Calabria e che si possa aprire una stagione nuova per l’Amministrazione Penitenziaria tutta. Il Vice Segretario Regionale Ugl Bruno Fabrizio Loddo Trento: polemiche sulla capienza raddoppiata per il nuovo carcere di Spini di Gardolo Il Trentino, 12 giugno 2011 Raddoppia la capienza del carcere di Trento: il limite massimo di detenuti - che è di 240 - sarà portato a 480 unità. In questo modo la struttura di Spini di Gardolo potrebbe diventare un punto di riferimento per tutto il Triveneto e non solo per la nostra provincia. Una decisione che preoccupa alla luce della già cronica carenza di agenti. Furibondo Dellai: “È una dichiarazione di guerra”. La novità è stata comunicata ieri mattina in occasione della festa per il 194º anniversario della Polizia penitenziaria alla quale ha partecipato anche il sottosegretario alla giustizia Maria Elisabetta Alberti Casellati. Il Dipartimento di amministrazione penitenziaria del Ministero della giustizia ha disposto l’aumento della capienza alla luce del sovraffollamento delle carceri del Triveneto, nelle quali ci sono troppi detenuti e poco personale. Nel complesso mancano 602 agenti in tutte le case circondariali di Trentino, Veneto e Friuli. Ecco quindi che la struttura di Spini di Gardolo, inaugurata a gennaio dal ministro Alfano e ritenuta una delle migliori d’Europa, potrebbe alleggerire altre realtà. Ma se a Spini non mancano gli spazi, a mancare è il personale. Attualmente sono accolti 170 detenuti e gli agenti in servizio sono 110. Per la direzione e i sindacati ne servirebbero almeno altri 100. Un ulteriore aumento di detenuti e poliziotti ci sarà nelle prossime settimane. Martedì prossimo, a Roma, sarà infatti definita la chiusura del carcere di Rovereto dal quale entro la metà di luglio saranno trasferiti a Trento i circa 60 detenuti (40 maschi e 20 femmine) e 50 agenti. Conclusa questa operazione, quindi, a Spini ci saranno 230 detenuti e 160 agenti. In base ai numeri forniti inizialmente, il carcere sarebbe stato al completo, ma in virtù della nuova direttiva ministeriale c’è ancora spazio. I posti, infatti, sono diventati 480: 440 maschi, 20 femmine e 20 in semilibertà. Per i funzionari potranno essere sufficienti 170 agenti, ma i sindacati (che sono contrari all’ampliamento) ne vorrebbero almeno il triplo. Insomma, una vera e propria battaglia di cifre. La direttrice Antonella Forgione non nasconde la preoccupazione. “Una cosa è gestire una struttura con un numero ragionevole di detenuti, un’altra trovarsi all’improvviso una quantità raddoppiata. Questo comunque è il mio lavoro e non bisogna drammatizzare”. Ma per Felice Bocchino, provveditore dell’amministrazione penitenziaria per il Triveneto “la struttura di Trento era stata sottodimensionata all’inizio e potrà accogliere senza problemi 480 detenuti”. È stato comunque garantito che il carcere di Spini resterà di media sicurezza anche se il raddoppio della capienza non rassicura. La decisione del Ministero ha fatto arrabbiare il presidente Lorenzo Dellai: “Questa è una dichiarazione di guerra nei confronti del Trentino”. Il governatore richiama le intese sottoscritte a fine gennaio con il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, “intese che ricordano espressamente quanto fin dall’inizio convenuto fra Governo nazionale e amministrazione provinciale. Il dimensionamento della nuova struttura era e deve rimanere su un livello di circa 250 ospiti. Se la questione non viene immediatamente chiarita nelle sedi istituzionali mi metterò personalmente a capo di una catena umana, con gli assessori provinciali e tutti i cittadini disponibili, attorno al carcere per impedire una simile follia”. Direttrice sotto accusa: agenti costretti a lavorare 45 ore a settimana Festa con protesta al carcere di Spini di Gardolo. I sindacati hanno sfidato la pioggia con un sit in davanti al cancello distribuendo volantini nei quali hanno denunciato le condizioni di lavoro all’interno della nuova struttura. Hanno fermato tutti i parlamentari presenti (da Laura Froner e Cristano de Eccher, passando per Sergio Divina) e avuto anche un breve colloquio con il sottosegretario Casellati. Il problema principale che è stato sollevato è il seguente: la mancanza di una organizzazione del lavoro trasparente e rispettosa dei contratti. Per questo Uilpa Penitenziari e Sinappe (sindacato autonomo di polizia penitenziaria) chiedono che venga rimossa l’attuale direttrice, Antonella Forgione, ritenuta “non capace di gestire una struttura come quella di Trento”. “Ci sono agenti che sono costretti a lavorare fino a quarantacinque ore settimanali anziché trentasei, con picchi di cinquanta ore di straordinari al mese che spesso vengono pagati solo in parte”, ha spiegato Leonardo Angiulli, segretario triveneto della Uilpa. “Inoltre, quando si è verificato un caso di scabbia e Tbc in un detenuto, la dirigente non ha predisposto alcuna profilassi per gli agenti in servizio, che anzi sono stati costretti a turni di otto ore durante i piantonamenti in ospedale, quando la norma prevede tassativamente turni di sei ore per questioni di sicurezza”, ha concluso. La direttrice Forgione, però, si giustifica. “Non possiamo negare che ci siano delle criticità in tutti i distretti nazionali a causa della scarsità di risorse economiche e professionale. Anche a Trento devo fare i conti con la metà degli agenti che dovrei avere e per questo sono soggetta a critiche di ogni sorta. Trovo però prematuro scendere in piazza e recriminare: la struttura è aperta da appena sei mesi e non si può pretendere che sia tutto perfetto. Ci vuole tempo”, ha concluso. Chissà ora che succederà col raddoppio dei detenuti. La scheda Il nuovo carcere è stato inaugurato dal Ministro della giustizia, Angelino Alfano, il 31 gennaio. La struttura è costata 112 milioni di euro ed è considerata una delle migliori in Europa: celle ampie, sale lettura, laboratori, aule scolastiche, teatro-cinema. Ci sono 283 telecamere che controllano ogni angolo delle celle. Inizialmente il limite massimo di detenuti doveva essere di 240 unità, ma ora è stato raddoppiato. Potranno quindi essere ospitate all’interno 480 persone. Attualmente ce ne sono 170, ma da luglio diventeranno 230 col trasferimento dei detenuti da Rovereto. Gli agenti in servizio sono 110 e diventeranno circa 170, ma secondo i sindacati ne servirebbero 250. Nel Triveneto c’è una carenza cronica di agenti di polizia penitenziaria. Secondo una stima del provveditorato mancherebbero complessivamente più di 600 poliziotti. Allo stesso tempo le case circondariali sono sovraffollate ed è quindi necessaria l’apertura di nuove strutture. Gorizia: carcere verso la chiusura, è in condizioni strutturali inaccettabili Messaggero Veneto, 12 giugno 2011 “Nelle attuali condizioni, il carcere di Gorizia non può continuare a operare”. In attesa di novità dal Ministero della Giustizia, tocca al direttore in pectore Enrico Sbriglia suonare il de profundis per la struttura penitenziaria di via Barzellini, sulla quale penderebbe imminente il decreto di chiusura. Il dirigente, attuale responsabile del carcere di Trieste, ha effettuato nei giorni scorsi un primo sopralluogo nella casa circondariale goriziana che, a meno di dietro front da Roma (il diretto interessato ha presentato un’istanza di ripensamento al ministero), guiderà a partire dal prossimo luglio. Infiltrazioni d’acqua, una sezione completamente inagibile e standard sanitari sui quali si è espressa in maniera critica l’Ass isontina, dipingono un quadro a tinte fosche: “Le condizioni non rispettano la dignità dei detenuti e di chi opera all’interno del carcere - riprende Sbriglia -: un’eventuale decisione del ministero, pur non direttamente legata a questioni strutturali, sarebbe coerente con l’attuale situazione”. Per il dirigente, tuttavia, è opportuna una reazione delle istituzioni, “per far sì che la paventata chiusura possa risultare soltanto temporanea. Gorizia non può essere privata della casa circondariale: chi ha “potere contrattuale” deve attivarsi per evitare un ennesimo segnale di depauperamento di una città da sempre sensibile agli aspetti sociali”. L’attuale direttore del Coroneo lancia una proposta: “L’ex scuola elementare, che sorge a pochi metri dal carcere, potrebbe costituire una valida soluzione temporanea in caso di ristrutturazione dell’attuale casa circondariale, oppure essere utilizzata per ospitare i detenuti sottoposti a misure alternative”. In attesa del passaggio di consegne tra Francesco Macrì e il dirigente triestino, nessuna novità giunge da Roma sul destino del penitenziario goriziano: a rendere se possibile ancor più impervio il percorso di salvataggio dell’istituto anche l’imminente cambio della guardia al vertice del ministero della Giustizia, con Angelino Alfano destinato a lasciare entro l’estate per assumere il ruolo di segretario del Pdl. Venezia: i residenti di Cà Solaro alzano la voce; il carcere? No grazie Il Gazzettino, 12 giugno 2011 “Speravamo che quell’area che si trova di fronte alle nostre case diventasse una propaggine del Bosco di Mestre, invece diventerà uno scatolone di cemento per ospitare i detenuti”. Neanche i residenti di Cà Solaro, come del resto era immaginabile, sono contenti di diventare dirimpettai della nuova casa circondariale che sostituirà Santa Maria Maggiore. Perché da un esame attento delle cartografie non è affatto vero che il nuovo istituto di detenzione verrebbe costruito in un’area isolata, in mezzo alla campagna, lontano dal contesto urbano. Tutt’altro, la superficie di proprietà in piccola parte di Autovie Venete e per la quota maggiore della Fondazione Querini Stampalia, è davvero attaccata al perimetro urbano di Cà Solaro. I 284mila metri quadrati dell’area in predicato di ospitare l’edificio penitenziario confinano, infatti, con il limite esterno della piccola chiesa della frazione, dove don Michele Somma, parroco di Sant’Andrea a Favaro, va di tanto in tanto a dire la Messa per i trecento abitanti di Cà Solaro. “Tutto potevamo pensare, tranne che potessero piazzare il carcere proprio qui da noi - ha commentato con amarezza la portavoce del Comitato residenti di Favaro Elettra Vivian. “Il sindaco nella sua relazione al consiglio comunale ha parlato di luogo accessibile, ben servito dai mezzi pubblici e lontano dai luoghi abitati. Ebbene - ha proseguito Vivian - in questo modo ha dimostrato che né lui e tanto meno i tecnici che lo supportano, conoscono la nostra zona. Innanzitutto perché l’area che hanno scelto è proprio a ridosso delle abitazioni, poi perché il paese di Cà Solaro è del tutto inaccessibile a causa dell’inadeguatezza del sistema viario che lo circonda e, da ultimo, perché non esiste alcun mezzo pubblico che transiti per la nostra frazione, tant’è che da almeno trent’anni ci battiamo e protestiamo con assidua cadenza per poter avere uno “straccio” di autobus che ci faccia sentire un po’ meno isolati di quanto in realtà siamo. Mi domando perché non è stato scelto il complesso delle caserme Matter in Via Terraglio - ha aggiunto la portavoce - dal momento che là gli edifici già ci sono e sono pure funzionanti, che la struttura è facilmente raggiungibile e che è in una zona servita dai mezzi pubblici”. Sulla stessa lunghezza d’onda troviamo anche gli abitanti di Dese, dal momento che la loro frazione, che si trova a solo un chilometro in linea d’aria da Cà Solaro, verrà inevitabilmente coinvolta dalla nuova struttura. “Gira e rigira, sono sempre le comunità del territorio favarese a dover pagare il prezzo più alto quando si parla di “calare” il cemento in terraferma - ha affermato Deborah Onisto del Comitato residenti di Dese e Marcon. Dopo l’aeroporto, l’Aev, la bretella, il casinò, lo stadio e il canile - ha ironizzato - ci mancava solo il carcere per completare il quadro”. Belluno: Cisl; polizia penitenziaria in stato di completo abbandono da parte delle istituzioni Il Gazzettino, 12 giugno 2011 “In uno stato di completo abbandono da parte delle istituzioni” il personale della polizia penitenziaria aderente alla Cisl-Fns di Belluno invia un’accorata lettera al Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria, al prefetto, alla direzione del carcere e alle organizzazioni sindacali, annunciando che non parteciperà alla festa per la fondazione del Corpo, “perché non c’è nulla da festeggiare”. Sembrano non avere altri modi, i poliziotti del carcere bellunese, definito come un “contenitore di carne da macello”, per far parlare la loro disperazione di fronte ad una situazione ormai drammatica ritenuta squalificante anche per il penitenziario di Belluno da sempre tra i pochi di massima sicurezza. “Nonostante una carenza del 40% del personale - spiega il segretario generale Cisl-Fns, Roberto Agus -, le continue proteste e denunce, in questi mesi sono state distaccate altre 3 unità, mentre l’unica centralinista è stata trasferita, pare in comodato, al tribunale di Belluno e, ciliegina sulla torta, altre 4 unità dovrebbero essere impiegate nei seggi elettorali. Quanto segnalato non necessità di alcun commento - conclude Agus. Viviamo in uno stato di completo abbandono delle istituzioni, rivelando la drammaticità di un disastro gestionale”. Milano: Lucia Castellano lascia la direzione del carcere di Bollate e diventa Assessore Adnkronos, 12 giugno 2011 Dal carcere a Palazzo Marino. Lucia Castellano lascia il carcere di Bollate, dove è direttrice dal 2002, con “uno strappo al cuore”, ma arriva “con entusiasmo e una grande emozione” all’Assessorato alla Casa, Demanio e Lavori pubblici del Comune di Milano. Napoletana, avvocato, 47 anni, la Castellano, dal 1991 direttrice di carceri, dal Marassi di Genova, a Eboli, da Napoli ad Alghero, è stata voluta assessore alla Casa dal nuovo sindaco di Milano, Giuliano Pisapia. “Lasciare il carcere - spiega il neo assessore, contattata dall’Adnkronos - è uno strappo al cuore. Il carcere è una comunità chiusa dove sei il punto di riferimento per tante persone. È una grande responsabilità”. In più rinunciare al progetto di Bollate, che si basa su nuove forme di carcerazione con l’obiettivo del reinserimento sociale, “sarà penoso, mi dispiace. A Bollate si è formata una grande squadra e in questa settimana lavorerò alla transizione, perché si continui senza di me”. Questa mattina la Castellano ha incontrato i detenuti e i poliziotti del carcere. “I poliziotti -racconta - erano dispiaciuti, ma anche orgogliosi che il carcere di Bollate abbia espresso un assessore. I detenuti erano un po’ provati, perché viene meno un rapporto forte”. Ma a Palazzo Marino il neo assessore porta “entusiasmo e una grande emozione” e l’orgoglio per i risultati di nove anni alla direzione del carcere di Bollate. “Sono assolutamente una figlia di nessuno -dice di sè- ma l’Assessorato è il riconoscimento di nove anni di lavoro”. Per il neo assessore la priorità nel nuovo incarico sarà “individuare le cose che ci sono da fare. Per prima cosa conoscerò lo staff dell’Assessorato, verificherò lo stato dell’arte, leggerò il bilancio e le risorse disponibili. Se poi ci saranno situazioni di emergenza, come casi di sfratto, interverrò”. Ma non si muoverà senza prima conoscere bene il terreno. “La pianificazione del mio lavoro e delle mie priorità sarà consequenziale alla conoscenza dello stato dell’arte”, spiega. In ogni caso, sottolinea, “la casa è una delle colonne portanti di questa giunta”. In una città dove la questione abitativa vive grandi contraddizioni. Da una parte i più grandi progetti di riqualificazione urbana d’Europa. Dall’altra 35 mila alloggi vuoti, secondo il censimento del 2001, e una grande richiesta di affitti calmierati. “Mi impegnerò a livellare la sperequazione e agirò perché il diritto alla casa sia veramente per tutti”. Inoltre, spiega la Castellano, “lavorerò affinché le case popolari siano veramente vivibili e non si trasformino in ghetti”. Castellano si dice “molto grata al sindaco Giuliano Pisapia che ha ritenuto che fossi la persona giusta per questo incarico. Ora è mio dovere ricambiare questa stima. E lavorerò anche per Milano. Una città che amo molto, attenta alla sperimentazione, vicina ai progetti e all’innovazione e capace di rispondere alle sollecitazioni”. Ascoli: visita del Garante dei detenuti Tanoni al carcere di Marino del Tronto Corriere Adriatico, 12 giugno 2011 Il garante dei diritti dei detenuti, Italo Tanoni, si è recato in visita al supercarcere di Marina del Tronto per incontrare la direttrice dell’istituto penale, Lucia Difeliceantonio, il comandante della polizia penitenziaria, Pio Mancini e una delegazione di detenuti che nei giorni scorsi hanno manifestato, con lo sciopero della fame, contro le condizioni assurde in cui vengono a trovarsi all’interno del carcere di Marino. Una recente circolare del ministero di Grazia e Giustizia, ha, infatti, quasi del tutto ridotto i materiali per l’igiene personale dei detenuti, quelli usa e getta per il consumo dei pasti e quelli per la pulizia. Bari: l’Osapp denuncia; servizio di scorta che è durato 19 ore continuative Ansa, 12 giugno 2011 Il sindacato di polizia penitenziaria Osapp protesta per l’impiego di tre agenti in un servizio di scorta che è durato 19 ore continuative per il trasferimento prima di un detenuto comune dal carcere di Turi a quello di Palermo e subito dopo dal carcere siciliano a quello di Bari di un detenuto ad alta pericolosità condannato all’ergastolo per mafia, omicidi e rapine. Il tutto sarebbe avvenuto senza dotazioni di sicurezza (giubbotti antiproiettile, adeguata scorta, armi di reparto e furgone blindato). Il vicesegretario generale dell’Osapp, Domenico Mastrulli, annuncia quindi una protesta formale ai vertici nazionali del coordinamento sicurezza di Polizia Penitenziaria, e chiede l’apertura di una inchiesta. Il fatto si sarebbe verificato l’8 giugno scorso. Secondo quanto riferito dall’Osapp, i tre uomini in servizio al carcere di Turi, dopo essere arrivati a Palermo con il primo detenuto, ‘sarebbero stati obbligati dalle autorità penitenziarie del luogo ad un reimpiego di scorta dalla Sicilia alla volta della Puglia, di un altro detenuto “ad alta pericolosità appartenente alla malavita foggiana, condannato all’ergastolo per associazione per delinquere, omicidi, rapine”. Il tutto malgrado le proteste del capo scorta. L’intero viaggio, secondo l’Osapp, è cominciato alle 6.30 e si è concluso alle 23 della stessa giornata. “Ringraziando il Signore tutto è andato bene, anche questa volta - commenta Mastrulli - i tre uomini sono ritornati sani e salvi a casa, ma non si può continuare a piangere eventi luttuosi o curare le ferite di chi cade sotto i colpi della criminalità, sempre dopo che avvengono gli incidenti e senza che a questi si pongano preventivi seri rimedi o soluzioni”. Cagliari: all’Ipm di Quartucciu, lo sport per la rieducazione La Nuova Sardegna, 12 giugno 2011 Lo sport come elemento di rieducazione dei giovani detenuti. “Un’altra volta nel mondo” è il progetto sportivo rivolto ai 16 detenuti nell’istituto minorile di Quartucciu. Da aprile, i ragazzi frequentano la palestra e il campo da calcio presenti all’interno della struttura. Divisi a gruppi di 8, giocano a calcio, pallavolo, praticano ginnastica, pesistica e arti marziali, sport che hanno potuto scegliere tra le 45 federazioni sportive nazionali. I giovani sono affiancati da uno degli istruttori qualificati delle cinque società che hanno aderito al progetto che prevede tre incontri settimanali alternati da due discipline sportive diverse. Il Coni Sardegna ha progettato un percorso di recupero dei giovani detenuti per intervenire sugli adolescenti sia dal punto di vista fisico che psichico. Infatti il programma prevede tre aree di intervento: il processo pedagogico, psicologico e quello motorio e sportivo. “Per i nostri ragazzi predisponiamo un progetto educativo che tende al reinserimento nella società”, ha detto Giuseppe Zoccheddu, direttore del carcere minorile, “l’attività sportiva può essere una parte importante del programma per reintegrare i ragazzi”. Il rispetto degli altri, del proprio corpo e delle regole sono alcuni elementi base del progetto. “Siamo molto soddisfatti perché la Sardegna, insieme al Piemonte, sono le uniche regioni che hanno portato lo sport di qualità all’interno dei loro istituti penitenziari minorili”, ha detto Gianfranco Fara, presidente del Coni Sardegna. Realizzato grazie a un finanziamento regionale di 20 mila euro, il programma è stato presentato ieri mattina durante una conferenza stampa. “Fra i nostri ospiti, molti sono stranieri, ma lo sport ha un linguaggio universale, tutti parlano la stessa lingua”, ha sottolineato Zoccheddu. Per avere un contatto maggiore di integrazione con la società, successivamente sono previsti tornei, incontri e spettacoli all’interno dell’istituto di pena. I detenuti possono in questo modo pensare meno alla loro condizione di vita attuale e passare qualche ora, in spensieratezza. Roma: studenti dell’Isis di Tarquinia in visita al penitenziario di Civitavecchia Il Tempo, 12 giugno 2011 Gli studenti dell’Isis di Tarquinia incontrano i detenuti della Casa Circondariale Nuovo Complesso di Civitavecchia. Alla visita, che si è svolta il 9 giugno, hanno partecipato il sindaco Mauro Mazzola, l’assessore alla Pubblica Istruzione Sandro Celli, alcuni professori e i ragazzi delle classi V. L’iniziativa rientra nell’ambito del progetto Prevenzione del D.D.D. disagio, devianza, delinquenza, promosso dalla cooperativa sociale Fuori c’Entro, l’Istituto Penitenziario e l’Amministrazione Comunale. In un clima di cordialità, i giovani hanno potuto riflettere sui temi della legalità, ascoltando direttamente dai detenuti le motivazioni o le cause per cui in passato si sono trovati in particolari situazioni, quali sono le attività che svolgono all’interno del penitenziario e cosa sperano per il loro futuro da cittadini liberi. “Gli studenti hanno avuto modo di confrontarsi con queste persone e conoscere da vicino la realtà del carcere, luogo di recupero e non solo di pena - afferma il primo cittadino. Aprire gli occhi di fronte al mondo è fondamentale per gli adolescenti, sollecitati da una società fatta di luci abbaglianti e di grandi zone d’ombra”. “La scuola deve offrire una preparazione culturale e umana - dichiara l’assessore Celli. Ascoltare le storie di persone che hanno sbagliato e ora riconoscono l’errore commesso è stato importante per i ragazzi, esortati dagli stessi detenuti a studiare e a impegnarsi in qualcosa che posa dare senso alla loro vita”. Volterra (Si): il teatro è la loro unica ora d’aria, i detenuti portano in scena Pupi Avati Il Tirreno, 12 giugno 2011 Vivono nella sezione più rigida. Non possono uscire, nessun contatto con l’esterno, nessun permesso speciale per loro. Solo il teatro, con la sua forza espressiva ed emozionale, mette in comunicazione col mondo i 25 attori della compagnia Alta Sicurezza del carcere di Volterra (foto). Guidato dal regista e professore Alessandro Togoli, il gruppo sta portando in scena in questi giorni il suo ultimo spettacolo, ispirato a “Gli amici del bar Margherita” di Pupi Avati. Il primo incontro col pubblico - anche se a distanza - è avvenuto martedì, con una prova aperta al resto dei detenuti volterrani. L’altro ieri, invece, è stata la volta degli studenti maggiorenni del Niccolini. “Grazie all’arte le distanze si assottigliano - dichiara Togoli - i risultati ottenuti sono importanti sul piano formativo e su quello umano”. Lo spettacolo, che si ispira anche ai testi di Stefano Benni e di Samuel Beckett, riprendendone l’umorismo, è stato scritto con la partecipazione dei detenuti, all’opera non solo come attori, dunque, ma anche come registi e scenografi. “La novità di quest’anno è proprio questa - afferma Togoli - abbiamo ricreato il bar Margherita nello spazio del carcere: due detenuti facevano i camerieri, interagivano col pubblico e prendevano le ordinazioni”. La prossima esibizione sarà oggi, di fronte a un pubblico di invitati selezionati: fra essi, rappresentati delle istituzioni locali e degli uffici scolastici provinciale e regionale. L’ultima tappa sarà quella di domani, una performance dedicata esclusivamente ai familiari degli attori. Immigrazione: la storia dei Cie… dall’accoglienza alla detenzione Il Fatto Quotidiano, 12 giugno 2011 “Così come in ogni città c’è un carcere, una prefettura, una questura, la gente dovrà abituarsi all’idea che ci sia un centro di permanenza temporanea”, dichiarava il prefetto Anna Maria D’Ascenzo, capo del dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Ministero dell’Interno durante la sua audizione dinanzi al “Comitato parlamentare di controllo sull’attuazione dell’Accordo di Schengen, di vigilanza sull’attività di Europol, di controllo e vigilanza in materia di immigrazione”, in data 23 ottobre 2003. E per realizzare ciò, il prefetto prevedeva l’utilizzo di strutture già esistenti sul territorio: “Per accelerare la costruzione di nuovi centri abbiamo tentato anche di ricorrere ad edifici già esistenti, ristrutturandoli e trasformandoli in centri di permanenza temporanea. Non possiamo però far ricorso ad edifici carcerari che altrimenti ci verrebbero chiusi”. Per evitare la chiusura, dunque, il prefetto spiegava ai deputati e ai senatori membri del Comitato parlamentare come occorreva procedere, usando un linguaggio diretto e senza infingimenti: “Dobbiamo, quindi, individuare dei centri simili a carceri ma che non siano propriamente tali”. Illustrava inoltre il prefetto le difficoltà concrete che il Ministero incontrava nella costruzione dei Centri di permanenza temporanea (oggi definiti: Centri di identificazione ed espulsione, ovvero Cie) nel territorio nazionale: “Voi sapete però che le difficoltà sul territorio sono molte: in linea di massima, né le regioni né gli enti locali e né, tantomeno, la popolazione desiderano la presenza di tali centri. Se mi è permesso un pessimo paragone potrei dire che l’immondizia la si vuole sempre a casa degli altri, mai nella propria. Ed effettivamente viviamo le stesse problematiche di chi deve realizzare una discarica”. Ricapitolando: 1. I centri di detenzione per immigrati devono essere, secondo il Ministero, sostanzialmente delle carceri, senza che li si possa definirli tali; 2. Per poter costruire tali centri bisogna far ricorso a edifici esistenti, simili alle carceri. E quali? Facile: i centri di accoglienza. È dal 1998, da quando cioè la legge “Turco-Napolitano” istituì per la prima volta in Italia i Centri di permanenza temporanea, che diversi centri di accoglienza si sono trasformati, gradualmente, in centri di detenzione per immigrati (contribuendo così a rafforzare anche quegli imbrogli semantici che portano spesso gli italiani ad utilizzare, in modo interscambiabile, le espressioni “centro di accoglienza”, “Cpt” o “Cie”, come se fossero la medesima cosa). Anche le organizzazioni che gestivano inizialmente questi centri di accoglienza si sono rapidamente “convertite” in gestori di luoghi di detenzione amministrativa, senza aver dovuto, tra l’altro, apportare grandi modifiche architettoniche ai centri di accoglienza oppure alla composizione dei propri staff di operatori sociali. Apprendiamo oggi dall’inchiesta di Repubblica-Espresso che il campo profughi di Palazzo San Gervaso a Potenza, costruito in fretta e furia per accogliere i profughi provenienti da Lampedusa, è divenuto segretamente, cioè senza che le istituzioni locali ne fossero a conoscenza, un Centro di identificazione ed espulsione, cioè un centro di detenzione per immigrati. È accaduto lo stesso con il Cie di S. Maria Capua Vetere (da pochi giorni chiuso e sequestrato dalla Procura di S. Maria Capua Vetere dopo le violenze e i disordini che si sono verificati). Anche lì la caserma “Andolfato” fu destinata inizialmente all’”accoglienza” dei profughi tunisini che venivano allontanati da Lampedusa. Cosa siano i Cie (un tempo chiamati ipocritamente Centri di permanenza temporanea) ormai lo sappiamo. Ce lo dicono le inchieste giornalistiche, le inchieste della magistratura e soprattutto le testimonianze degli immigrati reclusi, che denunciano gli orrori e le violenze quotidiane. Il punto, però, che spesso sfugge all’analisi di questi luoghi è un altro: come mai i centri di accoglienza per immigrati costituiscono quelle strutture adeguate a trasformarsi in centri di detenzione, ovvero, come affermava il prefetto, “centri simili a carceri”? Questa rapida ed indolore trasformazione dei centri di accoglienza in strutture di detenzione amministrativa pone interrogativi di straordinaria attualità e deve, perciò, far riflettere tutti circa la degenerazione del “sociale”, dell’”accoglienza” e della “solidarietà” in concetti e pratiche funzionali alla repressione e alla formazione di circuiti di valore (cioè il business). Immigrazione: fermato dai Carabinieri e annegato, forse buttato nel fiume perché ubriaco Il Manifesto, 12 giugno 2011 Un’immersione nel fiume per far passare la sbronza, per togliere di mezzo quei fastidiosi stranieri ubriaconi che disturbano. Solo che questa volta c’è stato il morto e a Montagnana, piccolo comune della bassa padovana racchiuso in una stupenda cinta muraria medievale, la situazione si è fatta tremendamente seria. Un ragazzo marocchino di 24 anni è stato trovato senza vita e quattro carabinieri sono finiti sotto indagine. L’avrebbero costretto a buttarsi nel fiume, quasi una sorta di punizione, per poi abbandonarlo ed andarsene via. Il ragazzo si chiamava Abderrahman Sahli, i militari l’hanno prelevato la sera del 15 maggio mentre si stava eleggendo il nuovo sindaco, la giunta è un monocolore della Lega Nord, perché durante la festa del prosciutto (il crudo dolce è la specialità della zona) avrebbe alzato il gomito e infastidito le persone. Il ragazzo è stato visto l’ultima volta mentre saliva sulla gazzella ma poi è sparito. L’ha ritrovato un contadino quasi otto giorni dopo vicino al fiume Frassine. E dall’acqua non è emerso solo il suo volto gonfio ma una storia molto più inquietante che le indagini della magistratura dovranno accertare. Quella di buttare i marocchini ubriachi nel fiume sarebbe stata una prassi. Qualcosa le vittime avevano sussurrato in giro, questi abusi erano conosciuti. Ma c’era paura. Dopo la morte di Abderrahman la diga sembra essersi rotta. Rahali El Hassane, è conosciuto in paese come “Fragolino”. Ha dei problemi con il vino come succede ad altri suoi connazionali; i motivi sono tanti, anche quello di una vita che non è andata proprio come lui avrebbe sperato. Riferisce di essere stato buttato quattro volte nel fiume da questa specie di servizio di contenimento in divisa effettuato dai Carabinieri. Ogni volta ce l’ha fatta da solo, si è arrampicato sull’argine ed è tornato in paese ma per il suo amico non è andata così. È stata aperta un’inchiesta in procura a Padova, ancora da definire le ipotesi di reato ma ci potrebbe essere il sequestro di persona oltre all’omicidio colposo, nel mirino delle indagini sono finiti quattro militari, tra di loro c’è un sottoufficiale. “Fragolino” li ha riconosciuti tutti e quattro di fronte agli investigatori. L’Arma come d’abitudine quando suoi appartenenti finiscono sotto inchiesta li ha già trasferiti. I marocchini di Montagnana e del territorio hanno deciso che è arrivato il momento di farsi vedere e hanno organizzato una manifestazione che sabato 4 giugno ha radunato circa 300 persone. La prima in questo paese da chissà quanti anni. Ora si aspetta l’arrivo della famiglia di Abderrahman. L’associazione Razzismo stop di Padova ha mediato con la Prefettura per facilitare l’arrivo dei genitori che una volta in Italia potranno nominare un avvocato. Ma sullo sfondo di questa storia c’è la popolazione di questo paese e un’indifferenza quasi totale mostrata verso questa vicenda. Mentre si sta facendo strada il seme buono di un impegno dei giovani della comunità marocchina che vogliono aprire un dialogo con gli italiani. In un sabato mattina un pò piovoso incontriamo Mohammed Chahid, gli amici lo chiamano “Simo”, Faycal Lafnoune e Khalid Chahid. Hanno 23 e 26 anni e tanta voglia di cambiare la situazione: “Vogliamo provare a cambiare le cose e vogliamo verità e giustizia. Non possiamo stare zitti”, dicono. Questi ragazzi sono arrivati in Italia da piccoli, si sentono italiani e stanno progettando qui il loro futuro. “Io voglio sposarmi e avere i miei figli qui - spiega Simo - se i nostri genitori sono venuti con l’idea di tornare a casa noi invece vogliamo rimanere”. Accanto loro ci sono i rappresentanti della Sinistra Unita che alle ultime elezioni ha schierato un candidato sindaco, Roberta Di Salvatore, eletta in consiglio e un’esponente della Cgil di Montagnana. Ma tutti sono convinti che solo allargando si riuscirà a far capire il senso di questa richiesta. Per questo una delle iniziative su cui stanno ragionando è l’organizzazione di una cena aperta a tutta la cittadinanza che andrà preparata con cura e cercando di coinvolgere al massimo la popolazione. È necessario però che ci sia voglia di ascoltare, che si superi quel modello di convivenza basato sulla separazione che è la prassi da queste parti. Dove i punti di contatto sono rari. E che qualcosa non abbia funzionato neanche nella stessa comunità marocchina lo riconosce anche Mohammed “Simo”: “Neanche noi abbiamo aiutato questi ragazzi che non stanno bene”. Come Abderrahman che non aveva i documenti, faceva lavori saltuari e non tornava in Marocco da sei anni. “Era alto e grosso - lo ricordano sorridendo i ragazzi - quella sera era arrivato anche secondo nella gara con il maiale sulle spalle”. Prima di salire nella macchina dei carabinieri, e di sparire per sempre. Iran: impiccati due fratelli, salgono così a 154 le esecuzioni dall’inizio del 2011 Ansa, 12 giugno 2011 Due fratelli sono stati impiccati oggi in Iran per il sequestro e l’uccisione del figlio di un gioielliere. Le esecuzioni, avvenute nel carcere di Dezful, nel sud-ovest del Paese, e di cui dà notizia l’agenzia Mehr, portano ad almeno 154 il numero delle persone messe a morte nella Repubblica islamica dall’inizio dell’anno, secondo la stampa locale. Per quanto riguarda il 2010, sempre secondo notizie di stampa iraniane, erano state 179 le esecuzioni capitali. Ma Amnesty International ha parlato di almeno 252 esecuzioni e Human Rights Watch di 388. I due impiccati oggi si chiamavano Karim e Rahim Pur-Mahmud. I due fratelli sono stati riconosciuti colpevoli di avere rapito a scopo di estorsione un ragazzo di 16 anni, Amir Hendi-Ghomashi, e di averlo ucciso dopo che questi li aveva riconosciuti. Iran: giornalista detenuto muore in carcere, stava facendo sciopero della fame Ansa, 12 giugno 2011 Stava praticando lo sciopero della fame nel carcere dove era detenuto, Reza Hoda-Saber, noto giornalista iraniano, attivista dell’opposizione al regime di Mahmud Ahmadinejad. Il giornalista e attivista politico è morto in seguito ad un attacco cardiaco. La notizia è stata diffusa dal sito web dell’opposizione Kaleme.com. Reza Hoda-Saber era stato colpito da complicazioni cardiache dovute allo sciopero della fame, per questo era stato trasferito dal carcere di Evin all’ospedale di Modarres. Il ricovero, tuttavia, non ha migliorato le sue condizioni, che si sono aggravate portandolo alla morte. Il giornalista, cinquantenne, aveva iniziato lo sciopero della fame per protestare contro la morte, lo scorso primo giugno, di Haleh Sahabi, figlia di Ezatollah Sahabi, veterano dell’opposizione iraniana. La Sahabi è morta anche lei per attacco cardiaco, quando durante il funerale del padre è stata affrontata dalla polizia. Reza Hoda-Saber è stato più volte mandato in carcere dal 2000. Hoda-Saber, che era rinchiuso nel carcere di Evin a Teheran, era in sciopero della fame dal 2 giugno scorso in segno di protesta per la morte, avvenuta il giorno prima in scontri con la polizia, di Haleh Sahabi, figlia di Ezatollah Sahabi, un dissidente leader di un piccolo movimento nazionalista religioso al quale apparteneva anche il giornalista. Gli incidenti erano avvenuti nel corso dei funerali dello stesso Ezatollah Sahabi. Secondo Kaleme, il giornalista è stato ricoverato nell'ospedale Modarres venerdì dopo essersi lamentato a lungo di dolori al petto, ma gli sforzi dei medici per salvarlo sono stati inutili. Hoda-Saber era in carcere da due anni, essendo stato arrestato durante manifestazioni di protesta seguite alla rielezione alla presidenza di Mahmud Ahmadinejad nel giugno del 2009 in una consultazione che secondo l'opposizione fu viziata da pesanti brogli. Siria: l’Unione europea chiede al presidente Assad di rilasciare i detenuti politici Apcom, 12 giugno 2011 La responsabile della diplomazia europea, Catherine Ashton, si è detta ieri “molto preoccupa per il deterioramento della situazione umanitaria” in Siria ed ha ribadito i suoi appelli alle autorità di Damasco per una fine immediata della repressione violenta delle contestazioni al regime. “Deploro l’escalation nell’impiego della forza brutale contro i manifestanti in Siria negli ultimi giorni”, ha dichiarato l’Alto rappresentante Ue per la Politica estera in un comunicato. “Sono profondamente preoccupata per il deterioramento della situazione umanitaria causata dalle azioni delle autorità siriane e chiedo loro di autorizzare immediatamente l’accesso degli osservatori internazionali dei diritti umani e delle agenzie umanitarie come il Comitato internazionale della Croce Rossa”, ha dichiarato Ashton. La diplomatica europea ha chiesto “il rilascio di tutti coloro che sono stati arrestati a seguito delle manifestazioni” di protesta “così come di tutti gli altri prigionieri politici che restano in carcere malgrado le recenti amnistie annunciate dal presidente” Bashar al Assad. “Coloro che sono responsabili di violenze e morti dovranno renderne conto”, ha aggiunto. Colombia: carceri sovraffollate, appello della Chiesa per maggiore assistenza ai detenuti Agenzia Fides, 12 giugno 2011 Secondo le ultime statistiche dell’Istituto Nazionale Penitenziario e delle Carceri (Inpec), le infrastrutture penitenziarie colombiane hanno una capacità di 72.785 prigionieri ma attualmente ce sono circa 91 mila. Il problema del sovraffollamento nelle carceri è stato uno dei temi affrontati nel recente Incontro Regionale del Centro di Pastorale delle Carceri. In una nota inviata all’Agenzia Fides dall’ufficio stampa dei Vescovi colombiani, padre Andrés Fernández Pinzón, Cappellano generale dell’Inpec e Coordinatore nazionale della pastorale delle carceri, ha detto che per fornire risposte al mondo delle carceri bisogna avere “discepoli e missionari che possano aiutare le persone in prigione”. Proprio per questo motivo come tema dell’incontro, che si è svolto dal 7 al 9 giugno presso la sede della Conferenza Episcopale della Colombia (Cec), è stato scelto “Discepoli e missionari per il mondo delle carceri”. Hanno partecipato i delegati delle regioni di Bogotá, Meta, Cundinamarca, Florencia, Tolima e Boyaca. Come ha spiegato padre Andrés Fernández, questo è stato il primo di 6 incontri regionali, da svolgersi entro la fine dell’anno. Alla fine ci sarà un incontro nazionale. L’obiettivo è creare una Guida nazionale per la Pastorale Penitenziaria che fornisca linee guida per il lavoro nelle carceri. Padre Andrés Fernández ha ricordato che la situazione dei prigionieri nel paese è grave e, pertanto, vanno prese in considerazione non solo le soluzioni che prevedono la perdita della libertà personale ma anche la ricerca di opportunità per la riabilitazione e il successivo reinserimento nella società. “Tutti abbiamo a che fare con il tema delle carceri... tutti abbiamo una responsabilità” ha detto padre Fernández, che ha affrontato anche la situazione dei bambini nelle carceri. La legge prevede che questi bambini debbano stare con le loro madri, confinati, fino a 3 anni. Su questo aspetto il sacerdote ha espresso le sue preoccupazioni per la pastorale e per le conseguenze che genera nei ragazzi e nelle ragazze, i quali da una parte sono allontanati dalle loro famiglie e da un altra hanno solo un unico riferimento che è in carcere.