Giustizia: Pannella; meglio l’amnistia della truffa Alfano di Susanna Turco L’Espresso, 10 giugno 2011 Altro che prescrizione breve, altro che riforma Alfano: “Per affrontare in modo serio il problema del funzionamento della giustizia in Italia, e l’emergenza del sovraffollamento delle carceri, non si può che cominciare dall’amnistia. Un’altra strada non c’è”. Marco Pannella, che proprio per questo è in sciopero della fame da quasi un mese e mezzo, ricorre al paradosso per spiegare come un provvedimento parlamentare che estingua i reati sia una soluzione molto più equa di quella che la realtà presenta: “Oggi lo Stato è fuorilegge, è un delinquente professionale: mandare in prescrizione 200 mila processi all’anno, negare il principio - esistente dai tempi del diritto romano per cui la sentenza si ottiene in tempi reali, significa infatti negare la giustizia e riempire le carceri di detenuti che per il 30 per cento, lo dicono le statistiche, sono ancora in attesa di giudizio”, spiega il leader radicale tratteggiando una situazione che, dice, “è sicuramente più infame di quella che ci ha lasciato il ventennio fascista”. “L’amnistia è l’unico modo per impedire che migliaia dì persone, magari colpevoli dei peggiori reati, se ne vadano liberi grazie alla prescrizione, servirebbe per superare il collasso del sistema carcerario e per consentire ai magistrati di fare il loro lavoro man mano che i processi vengono a maturazione”, spiega Pannella. Quando gli si fa osservare che per vararla servirebbero i due terzi del Parlamento, e che però i favorevoli si contano sulla punta delle dita, allarga le braccia. “Una volta si diceva che l’amnistia si concede ogni morte di Papa, e quando Giovanni Paolo II in Parlamento chiese una misura di clemenza per i detenuti, l’Aula esplose in un’ovazione. Ma, in realtà, da oltre vent’anni la politica preferisce l’amnistia di classe delle prescrizioni: i partiti sono contrari al provvedimento che invochiamo, oppure lo ritengono impossibile da realizzare. Risultato: nessuno studia sul serio questa possibilità, e ci pigliano per il culo. Lo chiamano provvedimento di clemenza: ma questa volta sarebbe una misura di riforma, una norma pratica e di buon senso”. Giustizia: nel caso Battisti umiliato il diritto e la verità di Antonio Cassese La Repubblica, 10 giugno 2011 La decisione del Tribunale Supremo Brasiliano costituisce una grave offesa all’Italia e uno smacco per il diritto e la giustizia internazionali. Il Tribunale ha statuito che il Trattato di estradizione tra Italia e Brasile del 1989 giustifica la decisione presa il 31 dicembre scorso dall’allora Presidente Lula. Lula decise di non estradare Battisti perché il Brasile “ha serie ragioni per ritenere che la persona richiesta (Battisti) verrà sottoposta ad atti persecutori o discriminatori per motivi di razza, di religione, di sesso, di nazionalità, di lingua, dì opinioni politiche o di condizioni personali o sociali, o che la situazione di detta persona rischia di essere aggravata da uno degli elementi suddetti” (articolo 3, lettera f, di quel Trattato). Questa decisione, certamente motivata da ragioni politiche (il potere giudiziario non voleva opporsi al potere esecutivo impersonato dall’ex capo dello Stato) è tuttavia giuridicamente aberrante. L’Italia aveva infatti le carte in regola. Primo, Battisti era stato condannato in contumacia da sette tribunali italiani per omicidio, rapina, costituzione di banda armata e detenzione di armi, tutti reati gravissimi. Non è vero quel che Battisti ha sbandierato ai quattro poli, e che cioè egli non avrebbe subito in Italia un equo processo: come ha esattamente rilevato la Corte europea dei diritti dell’uomo nella sua decisione del 12 dicembre 2006, riprendendo e confermando una decisione del Consiglio di Stato francese del 18 marzo 2005, Battisti “era manifestamente informato delle accuse rivoltegli, era assistito da vari avvocati specialmente designati da lui nel corso della procedura di contumacia, ed aveva deliberatamente scelto di restare latitante dopo la sua evasione del 1981”. Dunque, l’Italia ha rispettato tutte le norme dell’equo processo e della contumacia. In secondo luogo, la tesi che Battisti, se estradato, sarebbe stato sottoposto a trattamenti persecutori o discriminatori in violazione dei suoi diritti fondamentali è del tutto campata in afra. Basterebbe sfogliare i 9 rapporti sulle condizioni di detenzione nelle carceri italiane, pubblicati tra il 1992 e il 2009 dall’autorevolissimo Comitato del Consiglio di Europa contro la tortura e i trattamenti disumani e degradanti, per rendersi conto che, malgrado le non poche manchevolezze delle nostre carceri riscontrate da quell’organo internazionale (sovraffollamento, scarsezza di cure mediche, limitatezza delle attività lavorative o ricreative, problemi sollevati dall’articolo 41 bis, inadeguatezza dei luoghi di “ritenzione” di immigranti) esso non ha mai affermato che nelle carceri italiane i diritti dei detenuti vengono sistematicamente violati o che i detenuti vengono perseguitati o discriminati. Di fronte a questo grave smacco al nostro Paese, dobbiamo incassare e tacere? Osservo anzitutto che il Governo italiano, forse per una mancata o scarsa concertazione tra Ministeri di Giustizia e degli Esteri, ha omesso di adottare tra il 2010 e il 2011 misure che avrebbero potuto sbloccare la situazione. Anzitutto, avrebbe potuto proporre una “estradizione condizionata” in virtù della quale Battisti non avrebbe subito in Italia l’ergastolo (sconosciuto in Brasile) ma una pena detentiva minore. Soprattutto, l’Italia avrebbe potuto assicurare il Brasile che le condizioni di detenzione di Battisti sarebbero state controllate periodicamente, anche con visite improvvise, dal Comitato di Strasburgo contro la tortura (esistono precedenti: ad esempio, quel Comitato accerta come sono trattati, nel paese in cui scontano la pena, gli individui condannati dal Tribunale Penale dell’Aja per l’ex Jugoslavia: così il Comitato accerta regolarmente come il generale serbo-bosniaco Krstic, condannato per genocidio, è trattato nelle carceri inglesi). Il Comitato avrebbe dovuto poi fare rapporto sulle sue constatazioni sia al Brasile che all’Italia. Queste proposte avrebbero privato di ogni ragionevole giustificazione le assurde obiezioni di Lula e del Tribunale Supremo. Il Governo italiano avrebbe anche potuto compiere un altro passo: proporre al Brasile di far scontare in carceri brasiliane la pena inflitta a Battisti dai tribunali italiani, pur se ridotta di un certo numero di anni. Insomma: non ce lo volete consegnare? Ma allora che sconti almeno il grosso della pena nelle vostre carceri, che voi credete essere migliori delle nostre. Purtroppo il Governo italiano non si e mosso con la necessaria sagacia, ed ora ci troviamo davanti a questa sconcertante situazione, in cui uno Stato amico, il Brasile, non solo viola un trattato bilaterale, ma accusa l’Italia di calpestare i diritti dei detenuti. Possiamo accettare una simile offesa, anche se abbiamo importanti rapporti commerciali e militari con il Brasile? Penso di no. Cosa fare, allora? Rimane una strada. Andare davanti alla Corte internazionale di Giustizia dell’Aja, perché dichiari che il Brasile ha palesemente violato un diritto fondamentale dell’Italia. Si obietterà: l’articolo 18 del Trattato del 1954, che dà alla Corte dell’Aja competenza a pronunciarsi su controversie tra noi e il Brasile, prevede espressamente che una Parte che perde possa affermare davanti alla Corte di non essere in grado, in base al suo diritto costituzionale, di “cancellare” le decisioni del suoi tribunali contrarie al Trattato; in questo caso, continua la norma, “si provvederà ad accordare alla Parte lesa un’equa soddisfazione di altro ordine”. In altre parole: noi certamente vinceremmo davanti alla Corte dell’Aja, ma il Brasile obietterà che non può annullare le decisioni del Tribunale Supremo. Sarebbe dunque una vittoria di Pirro? Credo di no. Primo, avremmo la soddisfazione di far dire alla Corte dell’Aja che il Brasile ha violato un nostro diritto fondamentale. Secondo, potremmo chiedere come “equa soddisfazione” che il Brasile indennizzi in modo adeguato, le vittime o i parenti delle vittime dei gravi reati perpetrati da Battisti in Italia. Se il Brasile non vuole estradare Battisti per sue discutibili ragioni di politica interna, che almeno paghi congruamente le vittime italiane e i loro familiari. Non è molto, ma almeno ci permette di non subire passivamente un grave torto. Giustizia: Sabino Cassese e la “aberrante” non estradizione di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 10 giugno 2011 La discussione politica intorno alla mancata estradizione di Cesare Battisti ha assunto toni da crociata che hanno impedito un pacato e utile ragionamento intorno ai nodi giuridici che sottostanno alla decisione brasiliana. Su uno di questi nodi vorrei soffermarmi. Nell’articolo di Antonio Cassese pubblicato su Repubblica era definito aberrante il provvedimento giuridico di mancata estradizione. Tra gli argomenti usati è comparso quello per cui in Italia non vi sarebbe una sistematica violazione dei diritti dei detenuti. Sia per cognizione diretta che alla luce di autorevoli sentenze di organismi giurisdizionali europei, mi sentirei di dire che in Italia i diritti e la dignità dei detenuti siano sufficientemente calpestati. I diritti umani nelle carceri italiane non sono rispettati né sulla carta né nella vita quotidiana. Il sistema normativo di protezione è lacunoso ed ineffettivo. L’Italia non ha mai ratificato il protocollo opzionale della convenzione dell’Onu contro la tortura. Ciò significa che non ha mai istituito - così come avrebbe voluto l’Onu - un organismo indipendente di controllo dei luoghi di detenzione. Inoltre non ha mai introdotto il crimine di tortura nel codice penale. Erano queste due delle tante osservazioni critiche fatte dallo Human Rights Council (organismo Onu) all’Italia nel giugno 2010. Una terza osservazione in ambito penale riguardava il sovraffollamento carcerario che metteva - e mette - a rischio i diritti umani delle persone recluse. Il sovraffollamento non è una calamità naturale. È frutto di scelte legislative e di prassi di polizia. In questo anno l’Italia non ha fatto praticamente nulla per ovviare alle critiche degli organismi sopranazionali. Abbiamo - dopo Cipro e Bulgaria - le carceri più affollate di Europa: circa 145 detenuti ogni 100 posti-letto. La Corte europea dei diritti umani - rifacendosi agli standard del Comitato europeo per la prevenzione della tortura - ha condannato l’Italia nel 2009 nel caso Sulejmanovic per violazione dell’articolo 3 della Convenzione del 1950 che proibisce la tortura. Il detenuto bosniaco fu costretto a vivere per periodi di tempo congrui in una cella di meno di tre metri quadri. Il suo non era un caso singolo. Nei giorni scorsi la Corte ci ha comunicato l’ammissibilità dei primi 2 ricorsi esaminati, rispetto agli oltre 100 finora presentati dal nostro difensore civico. In ognuno di questi 100 ricorsi raccontiamo di detenuti che hanno vissuto in celle con meno di 3 metri quadri a disposizione. Ben oltre la metà delle carceri italiane è quindi fuorilegge rispetto alle norme internazionali. In questi giorni migliaia di detenuti stanno protestando in modo pacifico e non violento in adesione allo sciopero della fame di Marco Pannella. Una protesta al limite rumorosa ma mai violenta. Eppure dalle carceri arrivano segnali di trasferimenti punitivi di coloro che vi aderiscono. La libertà di espressione è quindi negata. Anche il diritto alla vita è messo in discussione. 70 sono i detenuti morti dall’inizio dell’anno. Non sono un’inezia. Negli ospedali psichiatrici giudiziari le condizioni di vita sono terribili. L’Italia non può usare l’argomento carcerario per sostenere in ambiti internazionali la legalità del proprio sistema giuridico. Giustizia: il sottosegretario Casellati; suicidi in carcere non dovuti al sovraffollamento Ansa, 10 giugno 2011 “Nelle carceri italiane il sovraffollamento non è la causa decisiva dei suicidi, ma questi episodi avvengono quasi sempre nel regime di isolamento”. L’ha detto il sottosegretario alla Giustizia, Maria Elisabetta Alberti Casellati, alla Festa interregionale del Triveneto della Polizia penitenziaria, nel carcere di Trento. “Le statistiche dicono che in Italia la media dei suicidi in carcere è minore di quella europea e in Francia il numero è doppio rispetto all’Italia”. “La misura dell’indulto - ha aggiunto - non è oggi socialmente accettabile o proponibile”. Giustizia: sciopero fame penalisti; domani legale milanese per stop a sovraffollamento Ansa, 10 giugno 2011 Prosegue lo sciopero della fame “a staffetta” dei penalisti italiani che dal primo giugno a turno digiunano per un giorno per “protestare contro la drammatica situazione in cui versano le carceri italiane”. Domani sarà la volta dell’avvocato Vinicio Nardo, componente della giunta dell’Unione delle Camere penali, ed ex presidente della Camera penale di Milano. L’iniziativa, organizzata dai penalisti italiani, è cominciata il primo giugno con lo sciopero del presidente Valerio Spigarelli e sta andando avanti a staffetta e cioè con il digiuno ogni giorno di tutti i componenti della giunta delle Camere penali. L’iniziativa è stata presa sull’onda dello sciopero della fame del leader dei radicali Marco Pannella, cominciato oltre un mese fa, anche per denunciare le incivili condizioni delle carceri nel nostro paese. Giustizia: dai biscotti alla moda, le storie straordinarie dei prodotti “made in carcere” di Roberta Pizzolante Galileo, 10 giugno 2011 Santo è uno straordinario maestro vetraio. Ha imparato il mestiere in carcere, nel penitenziario di Voghera, e da quando per la prima volta ha preso in mano un tagliavetro non ha più smesso. Si è diplomato, ha frequentato corsi professionali e imparato diverse tecniche di lavorazione fino a costituire un laboratorio, prima a San Vittore e poi a Bollate. Da qualche anno, grazie all’articolo 21 che permette di uscire dal carcere la mattina per tornarci la sera, ha potuto aprire un piccolo negozio a Milano dove sono esposti orecchini, collane, piattini ma anche lampade in vetro e vere e proprie sculture. Il suo talento e la sua passione sono tali che nel 2011 il sindaco di Milano lo ha premiato con il Panettone d’oro per l’impegno nell’insegnamento della professione ai giovani detenuti. Quella di Santo è solo una delle tante storie di carcerati che grazie al lavoro riescono a riabilitarsi e a trovare una possibilità di reinserimento una volta fuori le sbarre. A raccontarle è il volume “Il mestiere della libertà”, edito da Altreconomia, una guida agli oltre 100 progetti di cooperative e imprese che lavorano con i detenuti dentro e fuori dal carcere. Dalla moda ai biscotti, dal pane ai vini, dall’oggettistica alle piante fino al pesce biologico, sono tanti i settori che vedono impegnati uomini e donne reclusi in tutta Italia. All’inizio di marzo 2011 il sito del Ministero della giustizia elencava 366 prodotti “made in carcere” e 703 punti vendita. Ma il numero dei detenuti coinvolti è ancora basso. Su una popolazione carceraria di 68 mila persone, solo poco più di 14 mila lavorano. Un dato negativo, soprattutto se si considera che la legge 354 del 1975 reputa il lavoro uno degli elementi del trattamento rieducativo. Inoltre, la maggior parte di questi, oltre 12 mila, lavorano all’interno del carcere come cuochi, addetti alle pulizie, porta-vitto. Poco più di un migliaio sono impiegati in altre lavorazioni e nelle colonie agricole. “È indubbio che attività del genere siano di per sé importanti, perché distolgono il detenuto dalla frustrazione dell’ozio e danno anche un piccolo reddito”, spiega Luigi Pagano, provveditore agli Istituti di pena lombardi intervistato da Pietro Raitano, curatore del libro, “ma siamo ancora lontani dagli obiettivi che l’ordinamento penitenziario intendeva quando parlava del lavoro come uno degli elementi su cui basare il processo di reinserimento sociale, varando tutta una serie di norme per agevolarne l’esercizio”. Far lavorare i detenuti, infatti, conviene anche alle cooperative e alle imprese pubbliche o private, che in base alla cosiddetta legge Smuraglia (2000) ricevono sgravi fiscali per attività all’interno dell’istituto o all’esterno, in regime di semi-libertà o di articolo 21. Oggi sono ancora una nicchia, poco più di duemila, le persone impiegate in questo modo, la maggior parte in Lombardia. Sostenere questo tipo di lavoro, si legge ancora nel libro, conviene anche al resto della società: quando un individuo lavora, la recidiva passa dal 70 a meno del 10 per cento. I lavori presentati nel volume riguardano per la maggior parte prodotti e servizi che possono essere acquistati da chiunque. Ogni progetto è suddiviso in base alla città e all’istituto di pena cui fa riferimento, con indicazione delle cooperative coinvolte. Ce n’è per tutti i gusti: il servizio di catering della coop Abc-La sapienza in tavola, che dà lavoro a 10 detenuti della casa circondariale di Milano-Bollate, il servizio di giardinaggio e produzione di piante rare e antiche della coop Cascina Bollate onlus, che conta tra i dipendenti cinque detenuti, il progetto “Il filo della dignità” della cooperativa Alice, nata a San Vittore, che realizza abiti, costumi teatrali, servizi di sartoria su commissione e “La fattoria di Al Cappone”, progetto attivo dal 2008 nel carcere di Opera, a Milano, per l’allevamento di quaglie da uova, caso unico nel panorama carcerario italiano. Spostandoci dal capoluogo lombardo, troviamo la produzione di cioccolato e pasticcini della Dolci Libertà srl che avviene nel carcere di Busto Arsizio con il lavoro di 40 detenuti; la produzione di gioielli da materiale di recupero delle detenute di Mantova e quella di borse in pvc del carcere femminile di Rebibbia a Roma; il progetto “Dove nascono i fior. Le magliette di Faber a Marassi” che vede i detenuti di Genova impegnati nella realizzazione di t-shirt in cotone equo serigrafate con le strofe delle canzoni di Fabrizio De Andrè; l’esperimento di allevamento delle orate avviato nel 2001 dalla casa di reclusione dell’isola di Gorgona (Livorno). Per ogni progetto sono evidenziate il tipo di produzione, i punti vendita dove trovare i prodotti e tutti i riferimenti, come indirizzo, telefono, mail e sito internet. L’elenco dei prodotti è interrotto dalle interviste ad alcuni direttori di istituti di pena, magistrati ed esponenti di associazioni. Il volume si chiude con un utile glossario sulla terminologia del carcere. Lettere: storie dal carcere; morte reale, vita apparente di Valentina Ascione Gli Altri, 10 giugno 2011 Dalla vita apparente alla morte reale il passo è breve. Una questione di minuti, o forse di secondi. È una piccola quantità di gas che si sceglie di mandar su per il naso, oppure no. No, perché la mente è già sufficientemente annebbiata, i pensieri sfuocati, l’ansia sedata, il dolore zittito, momentaneamente, come un cane rabbioso dalla museruola. Quella di inalare butano è una pratica molto diffusa in carcere, come tra i bambini delle favelas sniffare colla o benzina nel tentativo di scacciare la fame. I detenuti lo fanno per allontanare il male di vivere, si stordiscono con il gas - quello delle bombolette usate per cucinare - per evadere dalla realtà e perdere il contatto, per qualche istante o per sempre, con un’esistenza priva di obiettivi. Simile a una corsa senza ostacoli, né traguardi. Sono tanti però quelli che, magari inavvertitamente o inconsapevolmente, passano dall’assopimento alla morte. Domenica scorsa è toccato ad Alessandro Giordano, trentottenne originario di Salerno, recluso nel carcere “Due Palazzi” di Padova per reati legati alla sua tossicodipendenza. In base alla legge avrebbe potuto scontare la pena in affidamento terapeutico presso una comunità, invece si trovava in cella con davanti ancora tre anni di detenzione lenita solo dagli psicofarmaci. Come altre migliaia di tossicodipendenti detenuti nelle carceri italiane e come Walter Bonifacio, con il quale condivideva la cella e che appena dieci giorni prima aveva visto morire nella stessa maniera: ucciso dal gas. Il decesso di Alessandro Giordano è il quarto in due mesi nella Casa di Reclusione di Padova, considerata una delle migliori di Italia, dove 823 detenuti possono contare su due soli psicologi penitenziari per un totale di 54 ore mensili. E dove lo psichiatra, interpellato solo pochi giorni fa dalla radicale Rita Bernardini sul rischio di nuovi suicidi ha ammesso: “se mettessero me in galera, in queste condizioni, mi toglierei la vita dopo due giorni”. Dei quattro decessi contati a Padova da aprile ad oggi, solo uno - avvenuto per impiccagione - è stato archiviato come suicidio. Gli altri tre, causati dall’inalazione di gas, sono ancora al vaglio delle autorità giudiziarie. Scelta o incidente? Questo è il dilemma. Come se facesse davvero differenza, in un luogo dove la morte è reale e la vita apparente. Lettere: ergastolano suicida nel carcere di Spoleto… un’altra morte inutile? www.infooggi.it, 10 giugno 2011 Mentre oggi si dà ampio spazio ai commenti sulla liberazione di Cesare Battisti in Brasile, della “Pena di morte viva” che esiste in Italia nessuno vuole parlarne e neanche dei continui e inarrestabili suicidi in carcere. Venerdì 3 giugno si è impiccato a Spoleto un uomo condannato all’ergastolo, già in carcere da 22 anni Quasi nessun giornale ne ha parlato, poco è trapelato e questa morte è passata ancor più inosservata delle altre, tra l’indifferenza di chi non vuole rendersi conto della carneficina che si sta consumando dentro le nostre galere. Quest’uomo due giorni prima aveva avuto conferma di avere una pena ostativa ai benefici penitenziari. Sapete che significa allo stato attuale? Nessuna possibilità di uscire, mai, un reale fine pena mai che dura fino alla morte, tutti i santi giorni in carcere fino alla morte. Nazareno non ce l’ha fatta e due giorni dopo averlo saputo, alla prima occasione in cui è rimasto solo, ha preferito la morte, ha scelto di morire. È desolante e demoralizzante tutto questo, oltre che profondamente ingiusto, di un’ingiustizia che urla, ma l’urlo questa volta è addirittura quello di un morto; non ci rimane che l’assurda speranza che questa morte possa toccare il cuore di qualche giudice e legislatore. Sì, lo so, non lo saprà nessuno, tutto già è nell’oblio e la morte di Nazareno forse è stata vana, ma noi siamo dei sognatori. Lasciateci sognare: sogniamo un fine pena per tutti che non sia la morte. Ecco cosa scrivono due compagni dell’ergastolano suicida: “Silenzio! Un ergastolano ostativo si è appena suicidato. Nelle sezioni di alta sicurezza è piombato un silenzio assordante. Nazareno ha staccato la spina. Si è impiccato. Perché? Forse perché stava poco bene? Forse perché dopo 22 anni di galera si era stancato? Pochi giorni fa lo stesso aveva appreso la notizia che la sua istanza tendente a ottenere un permesso era stata rigettata. La motivazione per la quale Nazareno si è visto negare il permesso non ve la dico. Tanto la sapete già. Ne abbiamo parlato tante volte, ricordate? Chi viene condannato all’ ergastolo ostativo può usufruire dei benefici penitenziari solo a condizione che questo diventi un delatore, un collaboratore di giustizia. Te la devi cantare! Chi sono gli ergastolani ostativi? Ebbene, non ve lo dico. Tanto lo sapete già. Ne abbiamo parlato tante volte, ricordate? Gli ergastolani ostativi sono coloro che a torto o a ragione avrebbero ucciso altri pregiudicati in un contesto di “guerra”. Non so perché Nazareno abbia deciso di togliersi la vita, immagino però quello che avrà detto nel momento in cui ha dato un calcio allo sgabello. Fanculo! Ciao Nazareno. Si porgono sentite condoglianze ai famigliari di Nazareno. Gino Rannesi Un uomo ombra scrive al filosofo Giuseppe Ferraro Giuseppe, ho scelto un brutto giorno per rispondere alla tua lettera perché oggi l’Assassino dei Sogni di Spoleto s’è divorata una vita. Una guardia mi ha appena sussurrato che s’è tolto la vita un detenuto del quarto piano della media sicurezza. Per adesso sappiamo solo che si chiama Nazareno, aveva l’ergastolo e si è impiccato fra le sbarre della sua cella. Un altro prigioniero che amava la vita e per continuare ad amarla è dovuto morire perché in carcere si vive una non vita. In galera si continua a morire, ma nessuno fa nulla perché la morte dei “cattivi” non interessa quasi a nessuno. Nel mio diario ho scritto: “Ciao Nazzareno, ti ammiro per esserti rifiutato di vivere una vita da cani. Spero un giorno di avere anch’io il tuo coraggio. Buona morte. Giuseppe, nella tua lettera mi parli di vita: “Non riesco a fare differenza tra la libertà e la vita” ma quanti altri ne devono “morire” perché i buoni si accorgono di noi? Come farò a dormire questa notte con la scena davanti agli occhi di un uomo ombra appeso alle sbarre di una finestra di una cella? Io sono al primo piano, invece lui era al quarto. Ora lui non c’è più, mentre io ci sono ancora. Questa notte mi sarà difficile dormire. Questa sera cercherò un po’ di conforto nel tuo cuore perché il mio è troppo triste per state con lui. Giuseppe, senza speranza non ci può essere vita. Gli uomini ombra lo sanno, per questo alcuni decidono di ammazzarsi. E non lo fanno per paura. Piuttosto lo fanno per sentirsi ancora vivi. Per sentirsi ancora umani. Giuseppe, questa sera l’Assassino dei Sogni odora di morte. Nazareno se n’è andato perché amava la libertà più che la vita. Anch’io la amo tanto, ma non abbastanza, perché non ho il coraggio di ammazzarmi e questo mi fa stare male. Non capirò mai perché continuo a vivere una vita che non è più mia, ma dell’Assassino dei Sogni. Ci deve essere in me qualcosa di sbagliato. Che fare? Lanciamo la proposta di costituire un Comitato per l’abolizione dell’ergastolo per chiedere l’adesione di giuristi, intellettuali, uomini politici, giornalisti e gente comune. Giuseppe, non credo alla speranza, eppure devo sperare un po’ tutti i giorni per continuare a vivere questa non vita. Questa sera il mio cuore non ti può mandare nessun sorriso perché è triste e malinconico. Ti posso solo dire che ti voglio bene. Carmelo Musumeci Lettere: sprechi e illegalità… vi racconto cos’è il carcere La Repubblica, 10 giugno 2011 “Tutto questo sistema è uno spreco inutile, che alimenta la criminalità e si ripercuote sulla società. Qualcuno dovrebbe far qualcosa credo. E spero”. Un giovane barese racconta la vita in cella. La lettera che segue è stata scritta da Claudio, un giovane barese arrestato per spaccio, passato dal carcere di Bari e attualmente recluso nella casa circondariale di Noto, in provincia di Siracusa. Claudio parla del sovraffollamento delle carceri ma anche e soprattutto di diritti umani calpestati, reinserimento negato, assoluta mancanza di prospettive per chi, una volta scontata la condanna, esce di cella e torna nella società civile. “Scrivo nella speranza di poter condividere un problema che riguarda a mio avviso, tutti i cittadini italiani: le carceri. Lo scorso anno si sono aperte per me le porte del carcere. Dopo essere andato via da Bari vecchia mi sono ripulito, ho ripreso a lavorare ed ho provato anche ad andar via da Bari senza riuscirci e tornando dopo pochi mesi. Non reggevo la lontananza da mia figlia di quattro anni e mezzo. Per diverso tempo son rimasto fuori dai casini, fino ad un anno fa, quando avevo perso un paio di mesi di lavoro ho pensato di far fronte alle spese con dell’hashish. Cinquanta grammi mi sono costati un’intera vita. Per fortuna che ho quasi finito, spero. Ho potuto così entrare in questa realtà, che fuori dalle larghe mura è sconosciuta, sottovalutata ed è certamente la causa dell’aumento di criminalità nel nostro paese. Le carceri gravano sul bilancio degli italiani, sono le loro tasse che fanno fronte alle spese di queste mura, e credo che dovrebbero sapere il perché non diano i risultati dovuti. Il sovraffollamento c’è per davvero. Ogni carcere ha più del doppio di detenuti. A Bari la capienza è di circa 300 detenuti, sono invece reclusi più di 700 persone. Qui a Noto, invece, la capienza è di 100, siamo 240. E si posso avere le stesse cifre da ogni carcere. Il carcere dovrebbe avere sia la funzione di tutela per la collettività e sia quella di rieducazione e reinserimento per i detenuti. Rieducazione e reinserimento invece, sono solo parole. Siamo al limite della dignità umana, se non proprio superati i limiti. Che rieducazione c’è nel far passare 20 ore in cella a detenuto? Le giornate si trascorrono tra tv, partite giocate a carte, chiacchierate tra loro, che sono ovviamente scambio di informazioni per le “vie facili”. L’amministrazione penitenziaria dovrebbe passare ai detenuti i beni primari e necessari, almeno per l’igiene. Si finisce invece a curare l’igiene personale e quella degli ambienti solo con dell’acqua. A Bari addirittura solo con acqua fredda, anche d’inverno. Se si pensa che il peggior cibo venga passato nelle strutture ospedaliere, assaggiate quello dei carceri che nella maggior parte dei casi ha solo il nome commestibile. Non ci sono corsi o attività di alcun genere. Non ci crederete, ma nel 2011 c’è ancora gente analfabeta. Quello che poi non capisco è il senso della reclusione. Per esempio, arrestano un tossicodipendente, in carcere lo riempiono di metadone fino al suo fine pena. È ovvio che questo appena fuori, per farsi ricommetterà altri crimini. Non ha quindi giovato né all’individuo, né alla società. In conclusione dico che, dopo essere stati arrestati, veniamo ammassati in celle-sgabuzzino, dove quello che ci circonda è illegalità. Vengono calpestati i diritti e la dignità umani, senza reale osservazione, recupero o reinserimento ti rimettono in libertà perché hai scontato la pena, senza rendersi conto di averti trattato peggio degli animali e che ti rimettono in libertà senza averti offerto alternative a tutto questo. Si esce da questi posti più negativi di prima, più arrabbiati e senza prospettive. Tutto questo sistema è uno spreco inutile, che alimenta la criminalità e si ripercuote sulla società. Qualcuno dovrebbe far qualcosa credo. E spero”. Lettera firmata Toscana: Uil-Pa; nelle carceri situazione oltre soglia di allarme rosso Adnkronos, 10 giugno 2011 La grave situazione delle carceri toscane, definita “oltre l’allarme rosso”, con particolare attenzione allo stato delle relazioni sindacali, al grave sovrappopolamento (1.200 detenuti in più della tollerabilità regionale), alle deficienze organiche del personale di polizia penitenziaria e degli operatori amministrativi (circa 1.100), all’inadeguatezza degli stanziamenti per garantire le ordinarie attività penitenziarie e servizi connessi. È quanto hanno sottolineato i vertici della Uil-Pa Penitenziari al termine dei lavori del Direttivo regionale Toscana, tenutosi questa mattina nel carcere di Sollicciano. “Sullo stato delle relazioni sindacali in Toscana ci pare indicativo ciò che è accaduto per il carcere di Arezzo, per il quale l’Amministrazione ha emanato un decreto di sospensione provvisoria delle attività penitenziarie ed amministrative riconducendo tale necessità alla ristrutturazione dell’edificio - osserva Eugenio Sarno, segretario nazionale Uil-Pa. Inoltre è ben noto che in Toscana vi sono alcune delle carceri più degradate dell’intera penisola. Noi pensiamo che sia utile e necessaria una più razionale politica di distribuzione delle presenza detentive negli istituti regionali, ma soprattutto che è ora di confrontarsi sul recupero di risorse umane”. “Una riflessione va fatta sulle centinaia di unità di Polizia penitenziaria sottratte alle strutture toscane per essere diversamente impiegate - aggiunge Sarno - e sull’opportunità di chiudere istituti, come Gorgona o Massa Marittima, dal costo economico insostenibile e che non garantiscono nulla in materia di deflazionamento delle presenze. Credo di poter affermare che in questa situazione, che va oltre l’allarme rosso, se il sistema ancora regge è per esclusivo merito del personale - conclude il segretario - che agisce ogni giorno con passione, sacrificio, professionalità e competenza”. Sardegna: trasferite alla regione le competenze sulla sanità penitenziaria, ora la programmazione Agenparl, 10 giugno 2011 Finalmente, sono state approvate le norme di attuazione per il trasferimento delle competenze in materia di sanità penitenziaria al Servizio sanitario regionale. “In una delle prossime riunioni della Conferenza Stato/Regioni verrà decisa l’entità del conseguente trasferimento finanziario - ha sottolineato l’assessore Liori - che dovrà essere compatibile con lo sforzo organizzativo che da questo momento compete alla Regione, al fine di garantire un servizio appropriato alla popolazione carceraria, che ha una più alta incidenza e prevalenza di patologie infettive e psichiatriche.” “Finalmente, sono state approvate le norme di attuazione per il trasferimento delle competenze in materia di sanità penitenziaria al Servizio sanitario regionale. Ora potremo cominciare a programmare, con la collaborazione di tutte le componenti del settore, la definitiva organizzazione del sistema per garantire un adeguato servizio di assistenza ai detenuti.” È il commento dell’assessore della Sanità, Antonello Liori, dopo il passo avanti compiuto dal Consiglio dei Ministri sul tema. “In una delle prossime riunioni della Conferenza Stato/Regioni verrà decisa l’entità del conseguente trasferimento finanziario - ha sottolineato l’assessore Liori - che dovrà essere compatibile con lo sforzo organizzativo che da questo momento compete alla Regione, al fine di garantire un servizio appropriato alla popolazione carceraria, che ha una più alta incidenza e prevalenza di patologie infettive e psichiatriche.” Abruzzo: Di Carlo (Giustizia Giusta); istituire subito il garante regionale dei diritti dei detenuti Asca, 10 giugno 2011 “69.000 carcerati e una capienza delle carceri di 48.000 unità. Possono vivere in queste condizioni i nostri detenuti?”. Si apre con questa domanda l’intervento che l’avvocato Alessio Di Carlo, ha chiesto ed ottenuto dalla quinta commissione del Consiglio regionale per affrontare un tema che a lui “sta molto a cuore: le condizioni di disagio e malessere psicologico, in cui versano migliaia di detenuti italiani”. Ed ha le idee chiare il giurista, direttore dell’associazione Giustizia giusta creata dal deputato radicale Mauro Mellini e trasformata in giornale online, tanto che quando il presidente della commissione gli dà la parola fa una richiesta ben precisa “propongo che la figura del difensore civico sia obbligata a fare visita periodicamente alle carceri e a fare rapporto alla commissione sulle criticità riscontrate in questi ambienti”. E si dice pronto a fare lo sciopero della fame se le sue richieste dovessero restare inascoltate. “Una figura, quella del Garante che dovrebbe tutelare anche i soggetti presenti negli istituti penitenziari, negli istituti penali per minori o comunque sottoposti a misure restrittive della liberà personale e di cui l’Abruzzo avrebbe bisogno”. Una proposta di legge è già stata presentata (numero 0151/10 del 4 maggio 2010), su iniziativa dei consiglieri Nicoletta Verì e Nazario Pagano alla quale si aggiunge quella di Acerbo-Saia, poi unificate il 26 maggio 2010 in un testo unico. “Ma in attesa che le proposte di legge sul garante diventino legge”, dice Di Carlo, “e prendendo atto dell’interesse che questa commissione ha dimostrato nei confronti della situazione carceraria abruzzese tanto che ha fatto una visita ispettiva al carcere di Sulmona, propongo di regolarizzare la figura del difensore civico dandole delle regole: obbligo di visite periodiche nelle carceri e rapporti da inviare periodicamente alla commissione”. E, a supporto della sua tesi tira in causa due carceri: Sulmona e Teramo, al centro di episodi di presunti pestaggi e suicidi. “Il sovraffollamento delle carceri abruzzesi non è l’unica piaga del sistema carcerario italiano. Ad esso si sommano una serie di problemi che vanno dall’elevato tasso di suicidi, all’autolesionismo, alle risse tra i detenuti e la polizia penitenziaria”. Ma cosa ancora più grave, secondo il Di Carlo, è la promiscuità carceraria che fa sì che soggetti che hanno commesso crimini gravi convivano con detenuti sulle cui spalle pesano reati minori. “Anche se”, commenta, “so dell’esistenza di un assessorato regionale alla legalità che dovrebbe occuparsi di questi problemi”. Non tralascia Di Carlo “uno degli aspetti più delicati”, riferendosi alla dignità umana dei carcerati e parla “di detenuti costretti ad oltre 20 ore di permanenza in cella nelle carceri abruzzesi senza fare attività lavorative o ricreative”. Condizione che, secondo lui, li getta in uno stato di sconforto psicologico portandoli a gesti inconsulti. Poi, è il momento di dati e cifre: “20 ore mensili di assistenza psicologica l’anno scorso a Pescara per 250 detenuti”. Un rapporto, sottolinea Di Carlo, che esprime una percentuale pari allo zero. E, nel concludere il suo intervento l’avvocato esprime le sue preoccupazioni circa i tempi burocratici perché questo progetto si possa realizzare. “La mia associazione farà attività di vigilanza, proposta e stimolo”, dice con voce dimessa al presidente. Sperando che questa volta la burocrazia sia celere. Puglia: Fimmg; assistenza sanitaria a rischio nelle carceri della Regione Gazzetta del Sud, 10 giugno 2011 “Cresce la preoccupazione che con il sovraffollamento nelle carceri pugliesi l’attuale assistenza sanitaria così come è organizzata non riesca a garantire il diritto alla salute dei detenuti”, è quanto ha affermato il dottor Filippo Anelli - Segretario Regionale Fimmg Puglia - in una lettera inviata all’Assessore alle Politiche della Salute, prof. Tommaso Fiore. Tale preoccupazione è ulteriormente accentuata dalla carenza di personale sanitario che si registra nelle carceri pugliesi, all’inizio di questa estate dove le ondate di calore costituiscono motivo di grave preoccupazione per gli effetti sulla salute dei cittadini ed in particolare per quelli in condizioni di fragilità. “Abbiamo chiesto all’Assessore Fiore di avviare una ispezione in tutti gli istituti penitenziari pugliesi al fine di verificare tutte quelle situazioni di rischio per la salute dei detenuti”, ha dichiarato il dott. Filippo Anelli. “Una situazione particolarmente accentuata nel carcere di Bari dove a fronte di circa 190 posti regolamentari disponibili sono ospitati 530 detenuti circa, quasi il 300% in più. Una situazione che rischia di precipitare anche sul piano sanitario vista la carenza dei medici e il ritardo da parte della ASL a porre rimedio”. Sicilia: i detenuti imparano l’arte dai “maestri d’ascia” Redattore Sociale, 10 giugno 2011 Il progetto interesserà venti detenuti che, per un periodo di due anni, lavoreranno nei cantieri navali. Acquisiranno la qualifica professionale di mastro d’ascia e resinature. I detenuti di Trapani, Marsala e Castelvetrano lavoreranno nei cantieri navali imparando l’arte dei “maestri d’ascia”. Il progetto “Per.for.ma.re” (questo il nome dell’iniziativa) ha un duplice obiettivo, che è da una parte quello della formazione professionale e dall’altra quello di cercare di recuperare un antico mestiere, oggi poco diffuso, qual è proprio il “maestro d’ascia”. Il “maestro d’ascia”, un tempo, era una professione di spicco dei vecchi cantieri navali, quando le imbarcazioni venivano ancora costruite prevalentemente in legno. Erano esperti dei vari tipi di legname che ne riconoscevano l’essenza, l’uso e infine la locazione all’interno dell’imbarcazione. La loro bravura consisteva nel sagomare, adattando il ceppo di legno a quella che poi sarebbe stata la sua definitiva funzione per la realizzazione della barca. Il progetto interesserà venti detenuti che, per un periodo di due anni, lavoreranno nei cantieri navali. È rivolto a detenuti ancora in carcere e in regime di semilibertà o sottoposti a misure alternative quali gli arresti domiciliari e servirà al loro reinserimento lavorativo una volta scontata la pena e quindi, al loro reinserimento definitivo nella società. In pratica gli verrà data la possibilità di avere un lavoro ancora prima di uscire. I venti detenuti, che hanno già svolto delle ore di formazione in aula, a breve saranno impegnati presso tre cantieri navali “Pianino Mecanav” di Mazara del Vallo, “Parrinello” di Marsala e “Miceli” di Trapani. Il progetto è stato finanziato con fondi europei impegnati dall’assessorato regionale alla Famiglia nell’ambito del programma operativo obiettivo convergenza 2007/2013, il cui fine è realizzare “progetti sperimentali per l’inclusione sociale di soggetti adulti in esecuzione penale”. Il costo del progetto è di 678.621 euro e consentirà ai venti detenuti destinatari di acquisire la qualifica professionale di mastro d’ascia e resinature. L’obiettivo finale è quello di auspicare, alla fine di questo corso di formazione sul campo, l’inserimento in modo effettivo negli organici dei cantieri. L’individuazione dei detenuti partecipanti al progetto è stata svolta dal distaccamento dell’Uepe (Ufficio esecuzione Penale Esterna) del Ministero della Giustizia. “Questo progetto nasce da una collaborazione che vede insieme Provincia di Trapani, consorzio Solidalia, associazione “Mimosa” e cooperativa sociale “La Sorgente”, la prima di Mazara, la seconda di Marsala - ha riferito l’assessore provinciale alla Famiglia Giovanni Lo Sciuto. Assieme a questi fanno parte del progetto attivamente anche gli istituti di pena distribuiti lungo tutta la Provincia di Trapani”. Bologna: Lenzi e Ghedini (Pd); nel carcere della Dozza c’è una situazione vergognosa Adnkronos, 10 giugno 2011 “Due rotoli di carta igienica al mese per ciascuno. Questa è la cifra della povertà e del degrado in cui vivono le 1.200 persone, da anni, sempre il triplo della capienza, detenute nel Carcere Dozza di Bologna”. È quanto affermano le parlamentari bolognesi del Pd Donata Lenzi e Rita Ghedini che parlano di una “situazione vergognosa”. A questo si aggiunge il problema dell’ “assenza di risorse per il lavoro di persone costrette in cella ad annichilire per 22 ore su 24 e nessun mezzo per garantire i trasferimenti perché rotti o senza carburante”. “Queste condizioni - sostengono Lenzi e Ghedini - non hanno nulla a che vedere con la funzione costituzionale della pena e rappresentano gravi violazioni dei diritti umani”. “Per questo - annunciano le due parlamentari Democratiche - ci rivolgeremo alla Commissione parlamentare straordinaria per i Diritti umani affinché, nell’ambito della propria attività in favore dei diritti dei detenuti, inserisca Bologna nel proprio programma d’indagine”. Un’iniziativa che giunge dopo aver presentato tre interrogazioni alla Camera e altrettante al Senato su cui, spiegano le firmatarie, “non è mai stata data alcuna risposta dal ministro Alfano”. Insomma, “non rimane altra strada per tentare di accendere una luce su una situazione vergognosa, indegna di un Paese democratico, affrontata solo con annunci roboanti di grandi opere e con brucianti tagli alle risorse” concludono Lenzi e Ghedini che esprimono “comprensione e piena solidarietà per tutti coloro che vivono in condizioni così insopportabili: i detenuti, ma anche per gli operatori ed i dirigenti che ogni giorno condividono con frustrazione questa situazione allucinante”. Pavia: protesta in cella, i detenuti rifiutano il cibo del carcere di Marianna Bruschi La Provincia Pavese, 10 giugno 2011 Il cucchiaio batte contro le sbarre di ferro della cella. Un suono che si ripete nei corridoi del carcere di Pavia. Il suono della protesta, per chiedere spazio, il rispetto dello spazio. Una buona parte dei 506 detenuti di Torre del Gallo rifiuta il cibo del carcere: mangiano solo quello che possono comprare. Anche questa è una forma di protesta. Ieri pomeriggio il consigliere regionale Giuseppe Villani e Alessia Minieri dei Radicali sono entrati in carcere, un sopralluogo per monitorare la situazione e verificare ancora una volta i numeri del sovraffollamento che porta i detenuti a protestare. “Ci sono circa 80 detenuti in più rispetto alla soglia di tolleranza di 432 persone - spiega Alessia Minieri - e comunque il numero legale dovrebbe essere 244”. “Quasi in tutte le celle dormono tre detenuti - aggiunge Villani - e a fronte di un sovraffollamento c’è un sottodimensionamento del personale”. Per questo da giorni i detenuti hanno messo in atto la protesta della “battitura”: il rumore del ferro delle celle su cui battono con quello che hanno a disposizione. Una protesta confermata anche dalla direttrice del carcere Iolanda Vitale: “È una manifestazione per far sentire la propria voce per la situazione del sovraffollamento - spiega - comune in tutte le carceri”. I detenuti chiedono condizioni migliori: i frigoriferi che hanno a disposizione non funzionano, impossibile conservare il cibo in estate. La direttrice conferma anche il rifiuto del cibo passato dal carcere. C’è anche la segnalazione di un detenuto in sciopero della fame. “Ci hanno detto che lo sciopero è iniziato oggi - spiegano i Radicali - ma avevamo una segnalazione di uno sciopero iniziato da mercoledì scorso”. “In questo momento non posso confermarlo - dice la direttrice - un detenuto ha detto che vorrebbe iniziarlo, ma bisogna aspettare”. “Il nostro sopralluogo si lega a un’attività che vogliamo mantenere nelle carceri per monitorare le condizioni umane, civili e sociali - spiega il consigliere regionale Villani - anche sull’edificio abbiamo notato che il livello delle condizioni si è abbassato. E il servizio socio-sanitario, nonostante il lavoro delle poche persone che possono operare, non è a adeguato”. Trento: ISTITUTO DI GARDOLO DI TRENTO RADDOPPIERÀ PROPRIA CAPIENZA = Adnkronos, 10 giugno 2011 Disposto il raddoppio della capienza del nuovo carcere di Gardolo di Trento, che a regime potrebbe ospitare un massimo di 480 detenuti. Lo ha fatto sapere la direttrice dell’istituto Antonella Forgione, durante la festa interregionale del Triveneto della Polizia penitenziaria, nel 194/o anniversario di fondazione, svoltasi nel carcere di Trento. La Forgione ha anche espresso una certa “preoccupazione perché una cosa è gestire una struttura con un numero ragionevole di detenuti, un’altra trovarsi all’improvviso una quantità raddoppiata. Questo comunque è il mio lavoro e non bisogna drammatizzare”. Attualmente, nel carcere di Trento ci sono 170 detenuti, che dovrebbero diventare 220 con il trasferimento dei detenuti rimasti nell’altro istituto di pena del Trentino, a Rovereto, per il quale è prevista la chiusura entro l’estate. Contrario presidente provincia Dellai La direttrice del carcere di Trento, Antonella Forgione, ha annunciato di avere ricevuto la disposizione del raddoppio della capienza dell’istituto di pena, fino a un massimo di 480 detenuti. ‘Costituisce - ove fosse confermato - una dichiarazione di guerra nei confronti del Trentinò ha commentato nel pomeriggio il presidente della Provincia autonoma, Lorenzo Dellai, ricordando le intese sottoscritte a fine gennaio col ministro della Giustizia, Angelino Alfano. “Il dimensionamento della nuova struttura - ha affermato Dellai - era e deve rimanere su un livello di circa 250 ospiti. Se la questione non viene immediatamente chiarita nelle sedi istituzionali - ha proseguito Dellai - mi metterò personalmente e fisicamente a capo di una catena umana, con gli assessori provinciali e tutti i cittadini disponibili, attorno al carcere per impedire una simile follia”. Dellai parla di tradimento per gli accordi sul trattamento penitenziario, rieducativo, alla base della leale assunzione di responsabilità finanziaria e organizzativa della Provincia autonoma di Trento, che tra l’altro si era accollata anche gli interi oneri per la costruzione. La notizia del raddoppio è stata data dalla stessa Forgione a margine della festa interregionale del Triveneto della Polizia penitenziaria, nel 194/o anniversario di fondazione, svoltasi nel carcere di Trento. Conferma è stata data dal provveditore regionale per il Triveneto, Felice Bocchino. La direttiva farebbe quindi preludere alla trasformazione del carcere in punto di riferimento per il Triveneto “a condizione però che vengano garantite attività lavorative ai detenuti, sul modello del carcere milanese di Opera” ha detto Bocchino. Rossano (Cs): in carcere mancano anche i soldi per la carta, solo pratiche via mail Redattore Sociale, 10 giugno 2011 I fondi per l’acquisto della carta sono finiti per cui il carcere di Rossano, dal 16 giugno prossimo ‘non sarà in grado di stampare alcun provvedimento e, di conseguenza, potranno essere trattate solo le pratiche la cui lavorazione può avvenire esclusivamente via mail’. A scriverlo è il direttore dell’istituto, Giuseppe Carrà, all’Ufficio contabilità del Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria, dopo il diniego dello stesso ufficio ad un ulteriore acquisto di carta in assenza di fondi. Il direttore ha quindi scritto al Dipartimento, al Provveditore regionale, ai sindacati ed a tutti gli uffici del carcere, comunicando che la decisione ‘sarà tempestivamente comunicata a tutti gli uffici giudiziari locali, provinciali e regionali con richiesta di fare pervenire direttamente, tramite carabinieri o ufficiali giudiziari, tutti gli atti di cui si chiede la lavorazione e, soprattutto, l’esecuzione urgente (esempio scarcerazioni) che non potranno neppure essere ricevuti a mezzo fax’. “L’iniziativa della direzione della casa di reclusione di Rossano - affermano Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe e Damiano Bellucci, segretario nazionale, che hanno ricevuto la comunicazione come gli altri sindacati - evidenzia ancora una volta le criticità come la mancanza di carburante, toner, ed altro materiale per il funzionamento degli uffici che, nei giorni scorsi, hanno rischiato di bloccare l’attività di altre strutture. La gestione delle carceri è ormai diventata una vera e propria emergenza per sovraffollamento, carenza di personale, mezzi e risorse economiche. L’esempio di Rossano è emblematico: una pianta organica di sole 90 unità per la gestione di un istituto che ospita 370 detenuti, buona parte in regime di alta sicurezza e con una sezione detentiva destinata ai ristretti per terrorismo internazionale”. Milano: Uil penitenziari; auguri a Lucia Castellano per nomina assessore Il Velino, 10 giugno 2011 In relazione alla nomina di Lucia Castellano ad assessore nella giunta del comune di Milano il segretario generale e il segretario nazionale della Uilpa Penitenziari, Eugenio Sarno ed Angelo Urso, dichiarano: “Esprimiamo le nostre più convinte felicitazioni alla Lucia Castellano, già direttore della casa reclusione di Bollate, per la prestigiosa nomina ad assessore nella giunta del sindaco Pisapia. Siamo convinti - continuano -, che l’esperienza e la sensibilità del dirigente penitenziario sapranno affermarsi nel suo nuovo percorso amministrativo, in un contesto cittadino, peraltro, che ha già insignito della cittadinanza onoraria il corpo di Polizia penitenziaria. A Lucia Castellano gli auguri di buon lavoro e all’amministrazione penitenziaria l’onere per individuare un nuovo direttore per Milano Bollate”. Palermo; i Sindacati; chiudere le sezioni 3 e 7 dell’Ucciardone, hanno condizioni da terzo mondo Ansa, 10 giugno 2011 Muri screpolati, muffa, umidità, condizioni igienico sanitarie da terzo mondo, celle sovraffollate e carenze strutturali. È lo stato in cui versa il Carcere Ucciardone di Palermo e la denuncia arriva dai sindacati di polizia penitenziaria, che chiedono l’immediata chiusura delle sezioni terza e settima, insieme a una disinfestazione generale di tutto il penitenziario. “Gli agenti polizia penitenziaria - sottolineano in una nota congiunta i sindacati - è costretto a operare in situazioni di difficoltà e con scarsissimi livelli di sicurezza. È prassi sorvegliare più sezioni e cancelli contemporaneamente e tamponare la carenza di personale, facendo ricorso ai doppi turni. II carcere rischia di esplodere da un momento all’altro - conclude la nota - e nessuno adotta i provvedimenti necessari, si continua a disattendere gli accordi sindacali e a calpestare i diritti umani di centinaia di detenuti”. Caputo (Pdl) incontra polizia Ucciardone e Pagliarelli “Tutti si preoccupano del sovraffollamento delle carceri e delle condizioni dei detenuti e nessuno spende una parola in favore del personale della Polizia penitenziaria che in numero notevolmente ridotto deve garantire la sicurezza all’interno degli istituti penitenziari con turni massacranti e con gravi pericoli per la sicurezza personale”. A dichiararlo è Salvino Caputo, parlamentare regionale del Pdl e componente la commissione regionale Antimafia che nei prossimi giorni si recherà nei due istituti penitenziari palermitani per incontrare il personale militare di vigilanza. “Comprendo le esigenze dei detenuti - ha precisato Caputo - e so che il governo ha in esame alcune iniziative infrastrutturali e legislative. Ma i detenuti hanno precisi e fondati motivi per stare in carcere. Mi preoccupano di più le condizioni di sicurezza della Polizia penitenziaria a fronte della eccessiva solidarietà di alcuni esponenti politici e di associazioni che invece tacciono sulle condizioni del personale civile e militare”. Salerno: detenuto di 35 anni tenta il suicidio bevendo varechina La Città, 10 giugno 2011 Ha tentato di togliersi la vita bevendo da una confezione di detersivo, in una cella del carcere di Fuorni dove era detenuto per alcune rapine. Adesso V.C., trentacinquenne di Eboli, è ricoverato nel reparto detenuti del San Giovanni di Dio e Ruggi d’Aragona. Non è in pericolo di vita, ma resta sotto osservazioni per monitorare le conseguenze dell’ingestione della sostanza tossica sull’apparato digerente. L’uomo è arrivato al Pronto soccorso del “Ruggi” martedì pomeriggio, con dolori lancinanti allo stomaco. Ai medici di via San Leonardo ha spiegato di aver bevuto da una bottiglia di detersivo, con l’intenzione di uccidersi. Il personale sanitario ha riscontrato i sintomi dell’avvelenamento e lo ha subito sottoposto a una lavanda gastrica. Poi il ricovero nel reparto dedicato ai detenuti, dove è rimasto ancora per l’intera giornata di ieri. • Il tentativo di suicidio nel carcere salernitano avviene a due giorni di distanza dalla morte di un altro detenuto di Salerno, avvenuto nel carcere Due Palazzi a Padova. Il trentaseienne A.G. è deceduto per avere inalato il gas da una bomboletta da campeggio che aveva nella cella, e anche in questo caso si sospetta un suicidio, sebbene la dinamica dell’episodio abbia alcuni elementi oscuri su cui sta provando a fare luce un’inchiesta della procura di Padova. Nella giornata di oggi dovrebbero essere noti i risultati dell’autopsia, eseguita ieri dal medico legale Massimo Montisci. A insospettire gli inquirenti Innanzitutto il comportamento del compagno di cella del salernitano, il 33enne di Gorizia P.C., che ha gettato dalle grate, facendoli finire sul cortile, la bomboletta di gas e il sacchetto di nylon che hanno provocato la morte del salernitano. Poi la vicinanza temporale con un altro decesso, anch’esso rubricato come suicidio, avvenuto nella stessa cella e con le stesse modalità lo scorso 24 maggio. A Padova sono arrivati anche i familiari di A.G., uno nota famiglia della zona orientale, per vegliare la salma e chiedere che sulla morte del loro congiunto sia fatta piena luce. Secondo la testimonianza del compagno di cella, A.G.si è suicidato nel bagno. Il goriziano ha raccontato di averlo visto uscire barcollando, fare due passi e subito accasciarsi sul pavimento. Gli avrebbe dato due schiaffi per cercare di fargli riprendere i sensi e ha dato l’allarme chiedendo aiuto. Poi è stato colto dal panico, e ha gettato dalla finestra bomboletta e sacchetto. Cagliari: detenuta malata di 130 chili non può stare in cella Ansa, 10 giugno 2011 Una donna di 50 anni, diabetica e con ulcerazioni alle gambe, del peso di 130 chili, è detenuta nel carcere cagliaritano di Buoncammino, nonostante le sue precarie condizioni di salute. La denuncia arriva dalla presidente dell’associazione Socialismo Diritti Riforme, Maria Grazia Caligaris. ‘Era stata trasferita da Pisa a Cagliari - ricostruisce la vicenda Caligaris - e dopo un lungo ricovero in ospedale, ora è nuovamente in carcere. Evidentemente Buoncammino continua ad essere prediletto dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria che, non essendo in grado di gestire situazioni problematiche, le scarica sul principale istituto sardo, accusa la presidente dell’associazione. Una situazione inaccettabile anche perché la donna, piantonata, è stata dichiarata incompatibile allo stato detentivo in carcere dai medici dell’Istituto ma non esistono strutture alternative in grado di accoglierla. Insomma si ripresenta l’urgenza di garantire condizioni di vivibilità per persone che dovendo scontare una pena non possono però restare in un carcere ottocentesco con gravissime carenze anche per la presenza di barriere architettoniche. Bologna: detenuto frattura un dito ad un agente, ma la protesta non c’entra… Agi, 10 giugno 2011 Questa mattina, verso le 10.30, nel carcere bolognese della Dozza, un detenuto che si rifiutava di entrare nella cella ha ferito un agente della polizia penitenziaria. Il detenuto ha sbattuto violentemente contro l’agente il portone blindato della cella e gli ha provocato la frattura di un dito della mano. L’agente è stato portato in ospedale, dove gli hanno ingessato il dito e gli è stata data una prognosi di 30 giorni, salvo complicazioni. L’episodio non è legato alla protesta messa in atto tra ieri e oggi dai detenuti ristretti a Bologna, ma va inquadrato tra i tantissimi e intollerabili casi di aggressione al personale di polizia penitenziaria che quotidianamente si verificano nelle carceri italiane, dove ci sono 25000 detenuti in più rispetto ai posti previsti. A Bologna, questa mattina, i detenuti erano 1.141, a fronte di una capienza di 450 posti. Gli agenti continuano a diminuire sempre di più: a Bologna mancano circa 200 agenti, in Emilia Romagna 650. Lo rende noto il Sappe in una nota. Rieti: i detenuti incontrano le vittime dei reati… questo è il Progetto Sicomoro Adnkronos, 10 giugno 2011 Un dialogo fra detenuti e vittime di reati. È questo il senso del Progetto Sicomoro, i cui risultati sono stati presentati oggi al Teatro del Carcere di Rieti. Il progetto di giustizia riparativa è stato realizzato presso la Casa circondariale di Rieti dall’Associazione Prison Fellowship Italia, federata alla Prison Fellowship International, un’organizzazione cristiana a sostegno dei detenuti operante in 117 Paesi al mondo con 100mila volontari e 500 dipendenti. A partire dal 9 aprile e per le otto settimane successive, sei detenuti - si legge in una nota dell’associazione - hanno incontrato quattro vittime o familiari di vittime che avevano subito crimini analoghi. I partecipanti hanno analizzato e discusso i concetti di responsabilità, confessione, pentimento, perdono, riparazione e riconciliazione. Al centro del progetto - già sperimentato al carcere Opera di Milano - il concetto di giustizia riparativa: per i detenuti è un’occasione di riscatto morale e di recupero della propria dignità e per le vittime una possibilità di liberazione dalle catene della rabbia e dell’odio. Col termine giustizia riparativa si fa riferimento a un nuovo e diverso modo di fare giustizia che si pone come obiettivo primario quello di ristabilire il diritto attraverso la riappacificazione sociale delle parti in contrasto. “È necessario lavorare per una modifica legislativa che porti all’istituzione di misure detentive alternative perché un carcere più ‘apertò è un carcere più sicuro”, ha dichiarato Marcella Reni, presidente di Prison Fellowship Italia. Cagliari: sport per detenuti minorenni nel cagliaritano Agi, 10 giugno 2011 Un’altra volta nel mondò è il progetto sportivo dedicato ai sedici detenuti del carcere minorile di Quartucciu (Cagliari) che dallo scorso aprile hanno iniziato a praticare ginnastica, pesistica, arti marziali e calcio, affiancati dai tecnici e istruttori del Coni Sardegna. Il programma di attività, avviato grazie a un finanziamento della Regione di 20mila euro e presentato stamattina a Cagliari in conferenza stampa, ha come obiettivo il reinserimento dei giovani detenuti grazie all’insegnamento dei valori dello sport che si basano sul rispetto delle regole, della lealtà e dell’avversario. Il progetto prevede un processo pedagogico, uno psicologico e uno motorio-sportivo. Tutte le attività si svolgono nella prigione, che ha una palestra e un campo da calcio, a gruppi di 8-10 ragazzi anche per poter lavorare meglio sulle esigenze individuali. “Nella nostra struttura sono ospitati giovani italiani ma anche stranieri. Lo sport è un linguaggio universale quindi un importante elemento di integrazione e rieducazione”, ha spiegato Giuseppe Zoccheddu, direttore dell’istituto minorile di Quartucciu. “Quello sportivo è uno dei progetti che mettiamo in campo per il reinserimento dei giovani, che sono stati coinvolti nella scelta degli sport”, ha aggiunto. “Il Coni, assieme alla direzione del carcere, ha coinvolto 45 federazioni in questa iniziativa. Ne siamo molto soddisfatti”, ha sottolineato Gianfranco Fara, presidente del Coni Sardegna, “anche perché la Sardegna è una delle poche regioni italiane a portare lo sport in un penitenziario minorile”. Al progetto ha partecipato anche l’associazione ‘ Amico cuore”. Roma: lo Yoga insegnato in carcere; quattro appuntamenti a Rebibbia Ansa10 giugno 2011 Domenica pomeriggio alla Cascina Farsetti di Villa Pamphili la presentazione di “Evadere dentro”, lo yoga insegnato in carcere. Domenica 12 giugno alle ore 17 alla Cascina Farsetti di Villa Pamphilj (entrata via Aurelia Antica), nell’ambito dello Yoga Festival Roma, il presidente dell’Uisp Roma Andrea Novelli interverrà per illustrare l’iniziativa “Evadere dentro”, lezioni di Yoga e discipline orientali che si terranno in quattro lezioni all’interno del Carcere di Rebibbia. “Questa iniziativa - spiega Novelli - fa parte della nostra attività all’interno degli istituti di pena romani e costituisce una sorta di sperimentazione per verificare la possibilità di un’attività continuativa di discipline orientali all’interno delle carceri. Gli insegnanti dell’Uisp si sono dimostrati non sono disponibili ma anche in grado di suscitare l’interesse e l’attenzione di tutte le persone impegnate che, lo voglio ancora sottolineare, sono detenuti ma anche gruppi di allievi delle scuole Uisp coinvolte”. - Pordenone: la legge è uguale per tutti; favorevoli rdp e il teatro dei detenuti Ansa, 10 giugno 2011 Recitare oltre le sbarre, offrendo un messaggio di legalità. Decolla un nuovo progetto de I Ragazzi della Panchina (Rdp) con lo scrittore triestino Pino Roveredo: il teatro in carcere. Si tratta di un’importante opportunità offerta ai detenuti di mostrare il loro “lato positivo”. Anche loro sono infatti in grado di trasmettere contenuti culturali e di operare insieme agli esponenti della società civile nell’ottica della promozione del riscatto sociale, uscendo dalla marginalità e dalla devianza. Da questi presupposti prende le mosse l’idea elaborata dallo stesso artista giuliano insieme al gruppo pordenonese d’autoaiuto, le cui strategie di recupero sociale hanno dato vita a uno studio scientifico dell’Università di Padova. Ora i “Ragazzi”, in collaborazione con la direzione della Casa circondariale cittadina del Castello, presentano al pubblico la pièce “La legge è uguale per tutti”, su testi di Pino Roveredo che cura anche la regia dello spettacolo. La data scelta per la messa in scena dell’opera è quella di giovedì 23 giugno alle 21, nell’ex Convento di San Francesco di piazza della Motta. L’ingresso per il pubblico sarà gratuito. Gli attori sono gli ospiti della Casa circondariale. Ospiti speciali Gigliola Bagatin, Valentina Furlan e Marina Valent, con musiche di Diego Todesco. Nel cast anche la danzatrice Giulia Carli, il mimo Omaria Ursella, l’aiuto regista Guerrino Faggiani e il tecnico video Davide Pettarini. L’iniziativa gode del patrocinio della Provincia, dell’Azienda sanitaria numero 6 e del Dipartimento delle Dipendenze di Pordenone. Droghe: da 20 anni in Italia, un lavoro in regola… ora è in carcere per un permesso scaduto di Susanna Marietti Terra, 10 giugno 2011 Antigone si reca in visita, insieme al consigliere regionale Luigi Nieri, in una delle tante carceri italiane nelle quali ci capita di andare. Peggio di molte altre, per la verità, ma questa è un’altra storia. Parliamo con i detenuti, ascoltiamo i loro racconti. Un uomo di mezza età di origine tunisina vuole parlarci. Si sfoga con noi su quanto gli è successo. Ha lasciato la Tunisia da molti anni, è in Italia da circa due decenni. Una persona onesta, un serio lavoratore. Alcuni mesi fa gli scade il permesso di soggiorno. Ha un lavoro regolare, il rinnovo è scontato. Ma ciò che è scontato non per questo è anche rapido, soprattutto nel nostro Paese. Il questore, dunque, lo trova in posizione amministrativa irregolare e gli intima di andarsene. Ma l’uomo sa che è solo un problema di burocrazia. È questione di pochi giorni, spera arrivino subito le carte. E rimane. Nel gennaio scorso lo ritrovano senza documenti. Sono già scaduti i termini entro i quali la famosa direttiva europea che in tali casi proibisce il carcere andava applicata. Dal 24 dicembre del 2010, infatti, l’Italia avrebbe dovuto recepire la direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio con la quale, nel dicembre 2008, si stabilirono norme e procedure comuni da applicarsi negli Stati membri in relazione al rimpatrio di cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno non risulta regolare. Là è scritto che non si può punire con il carcere lo straniero che entro cinque giorni non obbedisce all’ordine di allontanamento impartito dal questore. Ma la Corte di giustizia dell’Unione Europea, al gennaio di quest’anno, non si era ancora pronunciata. Più tardi, su richiesta della Corte di appello di Trento in relazione al caso di una persona condannata a un anno di reclusione per l’inottemperanza in oggetto, dirà che l’Italia, in quanto Stato membro, deve dimenticarsi la sua Bossi-Fini là dove contrasta con le normative comunitarie per privilegiare queste ultime. Ma si viveva tuttavia allora in quella sorta di interregno nel quale ogni procura si regolava a modo proprio. Nella storia che stiamo raccontando, si decise di mandare in carcere il protagonista. È proprio là, come dicevamo, che lo incontriamo noi. In un carcere tra l’altro particolarmente difficile e inutilmente punitivo, un carcere dove si sta chiusi in cella quasi di continuo, un carcere fuori dalla legalità. Ma questa, dicevamo, è un’altra storia. L’uomo si trova recluso inutilmente da cinque mesi. Quando uscirà, a causa di questo passaggio attraverso il sistema penitenziario dovrà lasciare l’Italia. La sua speranza di una vita verrà così buttata via. Ma delle vite umane all’Italia, si sa, importa assai poco. Tornerà in Tunisia, dove non saprà nemmeno spiegare quel che gli è accaduto. Loro hanno rovesciato un tiranno con la rivoluzione dei gelsomini. Come potranno comprendere le nostre meschinità? Droghe: magistrati ed esperti; non basta repressione, serve anche il recupero Redattore Sociale, 10 giugno 2011 Le azioni repressive non hanno portato ad una soluzione delle problematiche legate alla droga che invece hanno bisogno di politiche alternative, di prevenzione e di trattamento dopo il reato. È quanto è emerso oggi a Roma nel corso del convegno “Droghe e tossicodipendenza. Il proibizionismo alla prova dei fatti”, in cui esperti e magistrati di Paesi europei e sudamericani, invitati da Magistratura democratica, Forum Droghe e Gruppo Abele, si sono confrontati sui temi del consumo e del commercio di sostanze stupefacenti, in relazione alle critiche e al sollecitamento a un cambio di rotta da parte di organismi internazionali, tra cui in parte l’Unodc (United Nations Office Drugs and Crime) e la Commissione globale per le politica sulla droga. “Le critiche espresse dalla commissione internazionale - ha spiegato Luigi Marini, presidente di Magistratura democratica - richiede di aprire un tavolo con gli operatori e di abbandonare una visione che criminalizza in maniera indifferenziata tutte le sostanze e tutte le forme di contatto con la droga, rendendosi conto che il 50% delle 65.000 persone in carcere è legato alla droga e che questo indica un percorso che non può essere proseguito”. Bisogna intervenire su due spazi di intervento - ha aggiunto Grazia Zuffa della fondazione Fuoriluogo - le convenzioni su cui è basato il sistema internazionale sul controllo, anche se datate, lasciano autonomia alla legislazione internazionale e quindi si può pensare a riforme mirate alla depenalizzazione del consumo, all’introduzione di pene alternative per il piccolo spaccio e di strategie socio-sanitarie di riduzione del danno. Nel contempo, si deve continuare a mettere in crisi l’approccio repressivo delle Nazioni Unite, facendo emergere le contraddizioni con le altre carte improntate sullo sviluppo e sulla promozione dei diritti umani. Tra le misure alternative, la comunità di recupero è stata indicata come una soluzione che permette di affrontare costi minori rispetto a quelli dei detenuti in carcere e di poter quindi utilizzare una parte di fondi per investire su nuove soluzioni. Il rischio di uno svilimento del ruolo processuale del pm, passivo ricettore di notizie di reato già preconfezionate, e la tendenza a indirizzare i programmi investigativi verso obiettivi immediati come arresti e sequestri “anziché verso componenti più sofisticate delle strutture criminali che regolano il narcotraffico”, richiedono una riflessione sulle caratteristiche operative e funzionali del sistema giudiziario, secondo Giovanni Melillo, procuratore aggiunto del Tribunale di Napoli. Sull’eventuale legalizzazione di droghe leggere, infine, Magistratura democratica descrive un’Italia che non apre alcuno spiraglio. Ma “il fatto che le Nazioni Unite stiano correggendo il tiro - ha precisato Marini - mette i nostri politici di fronte a qualcosa che non potranno continuare a ignorare: se mettiamo insieme un lavoro dal basso e una nuova politica internazionale le cose possono cambiare”. Droghe: Magistratura Democratica; in Italia non cambierà niente Redattore Sociale, 10 giugno 2011 Il presidente Luigi Marini: “Usare una droga leggera comporta il passaggio a quelle pesanti? Su questa falsità si sono costruite politiche di repressione indiscriminate”. Ma “l’appello dell’Onu non si può ignorare” “Non necessariamente bere una birra o avere il piacere del vino significa abusare degli alcolici, così non necessariamente usare una droga leggera in un certo periodo della propria vita comporta il passaggio alle droghe pesanti, questa è una falsità e su questa falsità si sono costruite politiche di repressione indiscriminate”. È quanto ha affermato Luigi Marini, presidente di Magistratura democratica a margine del convegno “Droghe e tossicodipendenza, il proibizionismo alla prova dei fatti” in corso a Roma presso Palazzo Valentini, sede della Provincia e organizzato da Magistratura democratica, Forum droghe, Gruppo Abele a cui ha aderito anche Antigone e il Cnca. Per Marini, l’allarme lanciato nei giorni scorsi dalla Global commission on drug policy sul fallimento delle politiche internazionali in materia di droghe e tossicodipendenze, difficilmente avrà delle ricadute in Italia, soprattutto per quanto riguarda la legalizzazione delle cosiddette droghe leggere. “Con questa maggioranza - ha affermato - sembra che non che non se ne possa neanche parlare. Il fatto che le Nazioni unite stiano correggendo il tiro forse significa qualcosa che i nostri politici non potranno continuare a ignorare”. Secondo Marini, l’Italia “è uno dei paesi che negli ultimi anni si è allineata in maniera molto chiara sulle politiche repressive. La cultura espressa da una larga parte del mondo politico è di intolleranza ad ogni idea di cambiare politica”. Ma l’allarme lanciato a livello internazionale dalla Global commission, secondo Marini, dovrà riaprire il dibattito. “Richiederà alla classe politica di riaprire un tavolo con gli operatori - ha spiegato - e di abbandonare una visione che criminalizza in maniera indifferenziata tutte le forme di contatto con la droga, cominciando a differenziare le risposte”. Per Marini, infatti, le pene previste in Italia in materia di droga sono “altissime”. “La normativa sulla recidiva che è stata introdotta nel 2005 e che si vuole ancora aggravare prevede praticamente inasprimenti di pena e impossibilità di trattamenti alternativi per chi sia già caduto una o più volte nei reati. Questo praticamente rende quasi impossibile politiche alternative, anche di trattamento dopo il reato. Mancano, poi, politiche preventive che non siano semplicemente di proibizione”. Il convegno di oggi, che proseguirà anche nella mattinata di domani, vede anche la partecipazione di diversi esponenti della lotta alla droga provenienti da paesi latinoamericani. Un confronto, ha spiegato Marini, che fa comprendere “come in questi paesi le politiche repressive hanno fallito”. Per questo occorre oggi cambiare rotta, ha puntualizzato Marini. “Dobbiamo renderci conto che le risorse finanziarie sono poche, e che quindi le politiche sociali necessarie non sono facilmente perseguibili. Differenziare molto di più le pene tra il consumatore e il piccolo spaccio rispetto agli altri, consentire pene che permettono misure alternative, non spendere tutti questi soldi in carcere. Il costo di un detenuto al giorno è molto maggiore al costo che si sopporta sostenendo le comunità di recupero e forme alternative. Quei risparmi potrebbero essere investiti e spesi meglio”. Brasile: caso Battisti; l’Italia ricorre al tribunale dell’Aja, ma il risultato è solo morale Adnkronos, 10 giugno 2011 “Contro la scarcerazione di Cesare Battisti in Brasile, che ne ha rifiutato l’estradizione in Italia, “si potrebbe fare un ricorso al tribunale dell’Aja, per stabilire che i diritti dell’uomo in Italia vengono rispettati e che la sentenza della Corte brasiliana ha leso i diritti dei familiari delle vittime. Ma il risultato sarebbe solo morale”. È quanto spiega, intervistato dal Messaggero, il giudice Italo Ormanni, che firmò la prima richiesta di estradizione di Battisti, da capo dipartimento del ministero della Giustizia, seguendo il successivo ricorso. Per Ormanni, si tratta di “una sentenza un po’ bislacca. La Corte brasiliana avrebbe deciso che il ricorso italiano violerebbe l’indipendenza di giudizio del governo brasiliano, motivo per il quale è stato rigettato. Evidentemente non sono andati a esaminarne il merito. Mi sembra strano che la Corte abbia accolto il nostro primo ricorso, non solo dichiarando estrudibile Battisti ma aggiungendo che quella sentenza doveva essere eseguita dal Presidente della Repubblica e poi, nel momento in cui il presidente Lula si è rifiutato di farlo, il Tribunale abbia accettato questo diktat”. Quanto al rischio di torture, vessazioni o pericolo di incolumità personale per Battisti, “questo - spiega il magistrato - significherebbe che il governo brasiliano ritiene che l’Italia sia una “repubblica delle banane” nella quale si torturano i detenuti e non si tutela l’incolumità della persone. Basti pensare che quando uno Stato, anche europeo, ci chiede la consegna di un detenuto, quest’ultimo si rifiuta di essere estradato nel proprio Paese, preferisce cioè le nostre carceri”. CASO BATTISTI: PREANNUNCIA BIOGRAFIA ROMANZATA = IL 22 GIUGNO SARÀ ESAMINATA LA SUA RICHIESTA PER IL VISTO Adnkronos, 10 giugno 2011 Cesare Battisti preannuncia la sua intenzione di scrivere una “autobiografia romanzata”. In una breve intervista al Agència Estado ripresa dal quotidiano Estadao di San Paolo, l’ex terrorista dei Pac condannato in Italia per quattro omicidi e rilasciato ieri dal carcere in cui si trovava Brasile, spiega che i personaggi del libro saranno dei detenuti brasiliani realmente incontrati. “Ogni prigioniero ha la sua storia, ho capito il Brasile attraverso le relazioni con queste persone. Ogni prigioniero è una finestra del Brasile. Si tratta di una biografia romanzata. Con la scusa di denunciare situazioni sociali, adotto il genere romantico”, afferma, dopo essere arrivato a San Paolo a bordo di un volo della Tam da Brasilia. La letteratura, dice “è il mio lavoro. Un romanzo con nessuna storia può esistere, ma non senza tema di romanticismo”. Battisti, si legge, ritiene che non sia prudente in questo momento fare altre dichiarazioni ai media, e dice di temere ripercussioni in tutto il mondo, soprattutto nella sua Italia. Ieri Battisti si è recato al Ministero del Lavoro per richiedere un visto per rimanere in Brasile. Il caso verrà esaminato dai consiglieri del consiglio nazionale per l’immigrazione National alla loro prossima riunione prevista per il 22 giugno. Usa: un 12enne rischia ergastolo per l’omicidio del fratellino Adnkronos, 10 giugno 2011 Christian Fernandez, 12enne di Jacksonville, in Florida, rischia l’ergastolo per omicidio di primo grado e potrebbe diventare il detenuto più giovane condannato al carcere a vita negli Stati Uniti. Il piccolo è accusato di aver percosso e ucciso a marzo il fratellino di due anni, David Galarriago. La madre, di appena 25 anni, verrà giudicata a settembre per negligenza, avendo affidato David al fratello più grande nonostante due mesi prima Christian avesse rotto una gamba al piccolo. La storia della famiglia di origini ispaniche suscita pietà e orrore. Il padre di Christian è stato arrestato per reati sessuali dopo aver messo incinta la mamma. La donna, Biannela Susana, è diventata madre di Christian a 12 anni; all’età di 14 è stata affidata ai servizi sociali perché il piccolo andava in giro nudo da solo. La nonna, all’epoca 34enne, faceva uso di droga e il patrigno che abusava di Christian si è suicidato davanti a tutta la famiglia per evitare il carcere. Il giovanissimo imputato, in aula davanti al Grand Jury che lo ha incriminato, si è dichiarato “non colpevole”, mentre i suoi avvocati tenteranno di ottenere che venga giudicato da un tribunale per i minorenni. Secondo la pubblica accusa, l’omicidio è stato compiuto coscientemente, quasi con premeditazione. Se Christian venisse riconosciuto colpevole e condannato da un tribunale per i minorenni potrebbe quindi uscire dal carcere raggiunti i 21 anni e non avrebbe tempo di correggersi, rimanendo così un soggetto pericoloso per la società. Russia: Khodorkovsky e Lebedev lasciano carcere di Mosca, nessuno sa per dove… Adnkronos, 10 giugno 2011 Mikhail Khodorkovsky e Platon Lebedev hanno lasciato il centro di detenzione di Mosca per il carcere in cui sconteranno il resto della loro pena (secondo quanto è stato stabilito al processo d’appello al secondo processo contro di loro, rimarranno in carcere fino al 2016). Nè i familiari, né gli avvocati sono stati avvertiti della loro partenza e neanche della loro destinazione finale. Come ha denunciato Natalya Terekova, una degli avvocati del collegio difensore del fondatore della Yukos, Khodorkovsky potrebbe essere inviato in uno dei 753 penitenziari del Paese. Secondo la legge russa, il servizio penitenziario russo ha dieci giorni di tempo, dal giorno dell’arrivo di un condannato in un carcere, per notificarne ai familiari l’indirizzo esatto. Alla moglie di Khodorkovsky è stato rifiutato il permesso di vedere il marito e le è stato detto solo oggi a mezzogiorno che sarebbe stato trasferito in un campo di prigionia, ha denunciato Terekhova, citata dall’agenzia di stampa Ria Novosti.