Giustizia il 2010 è stato un “annus horribilis” per le carceri italiane La Discussione, 8 gennaio 2011 È ancora emergenza sovraffollamento nelle carceri italiane. Da questo punto di vista, come rileva Eugenio Sarno, segretario generale della Uil Pa Penitenziari, “l’anno nuovo si apre esattamente come si è chiuso il 2010”. “In questi primi giorni - spiega il sindacalista - dobbiamo già registrare tre morti per cause naturali a Lecce, Frosinone e Livorno, ma probabilmente correlate allo stato detentivo, un suicidio all’ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa il 4 gennaio e diversi momenti di violenza con la rissa di Porto Azzurro a fare da capofila”. “D’altro canto - continua - la presenza di 22.643 detenuti in più rispetto alla capienza massima, rilevata al 31 dicembre, è la fotografia più nitida dell’universo carcere e dell’anno che si è lasciato alle spalle, connotato da proteste, morte e violenza”. Per il segretario generale della Uil Pa Penitenziari “è necessario adoperarsi perché si affermi una coscienza sociale rispetto al dramma penitenziario che, in tutta evidenza, non trova sufficiente attenzione da parte della quasi totalità del ceto politico, sempre più insensibile e distante verso una delle più drammatiche questioni sociali del Paese”. Ed eccoli i numeri del dramma: al 31 dicembre erano presenti 67.623 detenuti (64.700 uomini, 2.923 donne). La media nazionale dell’indice di sovraffollamento si è attestata al 53,5 per cento. La regione con il più alto indice di sovraffollamento è la Puglia (81,9 per cento) seguita da Emilia Romagna (81,5), Calabria (77,3), Lombardia (66,5) e Veneto (65,5). L’istituto penitenziario con il più alto indice di affollamento risulta essere Lamezia Terme (176,7 per cento), seguito da Brescia Canton Mombello (174,3), Piazza Armerina (151,1). “Pur essendo solo quattro - sottolinea Sarno - gli istituti con capienza regolamentare oltre i mille detenuti (Poggioreale, Secondigliano, Rebibbia, Torino) al 31 dicembre erano 12 le strutture che ne ospitavano di più. Oltre ai quattro già citati, superavano tale limite anche San Vittore, Lecce, Opera, Palermo Pagliarelli, Bologna, Regina Coeli, e Bollate. Delle 205 strutture penitenziarie attive, 30 risultavano sovraffollate oltre il 100 per cento, 89 tra il 99 e il 50, 43 tra il 49 ed il 10 per cento, 9 con sovraffollamento sotto il 10 per cento”. Gli istituti non sovraffollati (o con saldo negativo rispetto alle capienze regolamentari) erano 34. Milano San Vittore ha due reparti chiusi (2° e 4°) e quindi il dato del sovraffollamento reale è ben più grave di quello ricavato dalle tabelle dipartimentali. Rieti e Trento pur essendo istituti nuovissimi sono solo parzialmente utilizzati stante l’impossibilità di garantire i necessari contingenti di polizia penitenziaria per la loro completa attivazione”. La Uil Pa Penitenziari ha reso noti anche i dati relativi ai suicidi, ai tentati suicidi ed altri eventi critici: “Nel 2010 le morti in carcere per cause naturali sono state 173.1 suicidi in cella sono stati 66 ( 57 per impiccagione, 5 per asfissia con gas, 1 per recisone carotide, 2 per avvelenamento da farmaci, 1 per soffocamento da sacchetti di plastica). I detenuti suicidatisi in età compresa tra i 25 e i 35 anni sono stati 29; 20 quelli nella fascia di età tra i 35 e i 50 anni; 8 i suicidi in età compresa tra i 18 e i 22 anni; 9 gli ultracinquantenni. Nell’86 per cento degli istituti (176 su 205) si è verificato almeno un tentato suicidio, per un totale complessivo di tentati suicidi in cella pari a .1134.1 detenuti salvati in extremis dal suicidio da parte della polizia penitenziaria sono stati 398 . Gli atti di autolesionismo ammontano a 5603 (messi in atto in 192 diversi istituti). Giustizia: Persichetti libero, Papon in galera; il caso Battisti e il giustizialismo bipartisan di Piero Sansonetti Gli Altri, 8 gennaio 2011 Prima di tutto va chiarito un punto: non c’entra niente la discussione sul caso - Battisti con la discussione su cosa fu in Italia, negli anni 70-80, la lotta armata. La necessità di un ripensamento su quel periodo particolarissimo - e molto importante - della storia italiana, e sul ruolo che ebbe il terrorismo, e sugli effetti che là spinta armata (in grandissimi parte giovanile) produsse sulla sinistra, e sul Pei, e sul governo, credo che sia innegabile. Una discussione seria sulla lotta armata non è mai stata fatta. Nemmeno è stato mai compiuto un tentativo di chiudere davvero con gli anni di piombo. E tuttavia con quella discussione - che ci impegniamo a svolgere nel prossimo futuro su questo giornale - non ha nulla a che fare lo sconquasso provocato dalla decisione del Brasile di non concedere l’estradizione di Cesare Battisti. Perché non c’entra niente? Perché nella decisione dei brasiliani non c’è un giudizio sulla lotta armata in Italia, ma semplicemente c’è un giudizio, non positivo, sull’affidabilità della nostra Giustizia. I brasiliani sostengono innanzitutto che nei processi contro Battisti non furono fornite sufficienti garanzie all’imputato e non furono portate prove sufficienti di colpevolezza (dal momento che le uniche prove sono state testimonianze di pentiti, e di pentiti che in cambio hanno ottenuto fortissimi sconti di pena, e queste testimonianze non sono state sottoposte a riscontri e oltretutto sono state fornite in assenza dell’imputato che era contumace). E poi sostengono di avere una pessima opinione sulle carceri italiane, sul loro funzionamento e sulla loro umanità. Nessuno dei due “pregiudizi” brasiliani è infondato. La questione delle leggi speciali varate tra il 1974 e i primi anni Ottanta, e la questione del funzionamento del pentitismo nel nostro sistema giudiziario, sono apertissime ed evidentemente piuttosto gravi. Così come è gravissima la condizione delle nostre carceri. Anche perché dobbiamo prendere in considerazione il fatto che non solo il Brasile, ma paesi di antichissima tradizione democratica come la Gran Bretagna, la Francia, il Giappone, la Svezia, il Canada, la Svizzera, in questi anni, quasi mai hanno concesso l’estradizione per le persone accusate di lotta armata, perché tutti questi paesi considerano i processi conclusi in Italia, anche fino al terzo grado, come processi sommari, proprio perché svolti sulla base di quelle leggi delle quali parlavamo. E infatti i latitanti italiani che vivono all’estero - per fortuna senza dover subire la formidabile campagna di stampa e politica e che è toccata a Battisti - - sono più di cento. Perché il caso Battisti è diventato così importante? Probabilmente per la fama di scrittore che questo “condannato” si è conquistata negli ultimi anni, e la sua amicizia con una certa intellettualità francese, per altro non particolarmente di sinistra, anzi decisamente moderata. Tutto questo ha provocato una forma di risentimento, forse di invidia, e comunque di “clamorosità” che piace molto ai giornali. Naturalmente è assai diversa la posizione dei familiari delle vittime. I quali non partono da considerazioni politiche ma dal loro dolore. E difficile non rispettare il loro dolore, e anche la rabbia per il mancato risarcimento ola parte dello Stato. Però in democrazia il dolore delle vittime e l’esigenza di giustizia non sono mai ne identificabili né tantomeno possono essere considerati proporzionali. E allora non sarebbe più utile, alle forze politiche e agli intellettuali, interrogarsi su come abolire le leggi speciali e come restituire credibilità al sistema giudiziario italiano? Cioè non sarebbe ragionevole impegnarsi per una riforma seria delle giustizia, che ristabilisca i criteri fondamentali dello Stato di diritto e che restituisca al nostro paese il giusto prestigio internazionale? Purtroppo, allo stato attuale delle cose, è impossibile che questo avvenga. Perché? Perché forme diverse e molto profonde di giustizialismo hanno ormai invaso nel profondo sia i vertici sia la base dell’opinione pubblica, di destra e di sinistra. A destra, per la verità, spesso si invoca il garantismo, perché la destra, in questi anni - e soprattutto il suo leader supremo, e cioè Berlusconi - è stata oggetto di molti attacchi della magistratura. Però il garantismo della destra non è affatto maturato, non è diventato cultura, è rimasto garantismo per i “papaveri”, non ha in nessun modo permeato l’idealità conservatrice. E ogni volta che la discussione si sposta dai processi a Berlusconi a qualunque altro processo, la destra diventa più “giustizialista” della sinistra. A sinistra si sa bene cosa è successo: da dopo Tangentopoli ha preso sempre più piede l’idea che combattendo solo con le armi politiche non si vincerà mai, e che è necessario un sostegno giudiziario per battere la destra. Perché? Perché si pensa che il punto debole della destra sia quello di essere coinvolta, più della sinistra, nelle pieghe dell’illegalità economica, che è molto diffusa in Italia. E dunque si immagina che l’unico modo per vincere è attaccare il “punto debole”. Con l’aiuto dei giudici. Solo che, per abitudine, la sinistra è più coerente della destra. E di conseguenza il suo giustizialismo anti - Berlusconi si è rapidamente esteso a tutti. E il garantismo è sparito. E si è saldata l’alleanza con settori molto ampi della destra antiberlusconiana, e del centro antiberlusconiano, come quelli legati allo Scalfari - travaglismo. E questi settori hanno finito per assumere la leadership dell’opinione pubblica di sinistra. Sradicandone principi, tradizione, storia, idealità. Tutti gli opposti giustizialismi hanno finito per convergere nell’affare Battisti. C’è un modo per frenare questa deriva? Per ridare consistenza al pensiero liberale? Al momento tutti gli spazi sembrano chiusi. Il pessimismo prevale. Questo giornale è una “vocina” piccola piccola e mostruosamente isolata. Però, chissà, le vocine talvolta bastano a tenere viva la speranza. PS. Recentemente Oreste Scalzone mi ha raccontato questo aneddoto, che a me sembra fantastico e drammatico. Qualche anno fa l’Italia, con un sotterfugio, ottenne l’estradizione di Paolo Persichetti dalla Francia (caso unico). Allora si tenne una manifestazione di protesta a Parigi. In quei giorni era stato condannato in Francia Maurice Papon - leader politico gollista - perché riconosciuto colpevole di crimini contro l’umanità durante l’occupazione tedesca. Scalzone, che non stava tanto bene, non partecipò al corteo ma aspettò che arrivasse nella piazza dove c’era il palco e dove lui doveva parlare. Il corteo arrivò in piazza gridando: “Persichetti libero, Papon in galera”. Scalzone prese la parola e disse: “Voglio provare a sostenere delle idee che so non condividete. A me non piace mai dire: “in galera”. Nemmeno per Papon. Abbiamo passato la vita a combattere contro le carceri, per abolirle, come facciamo a fare un corteo gridando: “In galera”? Occorre coerenza, se no le nostre idee muoiono. Anche coerenza estrema”. Sorprendentemente il corteo, invece di rumoreggiare, come si aspettava Oreste, applaudì in modo clamoroso. E Oreste era davvero contento. Poi finì di parlare e il corteo ripartì alla volta dei campi elisi. E iniziò a gridare a squarciagola: “Persichetti libero, Papon in galera!”. Sapete quanti miei amici sono come quei ragazzi francesi? Quasi tutti. Giustizia: intervista a Alessandro Margara; ecco perché il Brasile ha detto no su Battisti di Eleonora Martini Il Manifesto, 8 gennaio 2011 Dietro il rifiuto brasiliano c’è anche un rapporto sulle nostre galere stilato dai volontari italiani. Per Margara, “in Brasile sono anche peggiori ma l’Italia ha ormai fama di paese non democratico” Galere impresentabili, tortura non punita dal codice ed ergastolo. Parla Alessandro Margara, ex capo del Dap. C’è anche un dossier sulle carceri italiane nella documentazione raccolta dal governo brasiliano prima di decidere per il no all’estradizione dell’ex terrorista Cesare Battisti. Fu il senatore Eduardo Suplicy, del Pt, il partito di Inácio Lula Da Silva, a contattare un’associazione italiana e a chiedere di stilare un dettagliato rapporto sul sistema penitenziario italiano. “Che è assolutamente impresentabile e che contribuisce a costruire la fama internazionale di un Paese, l’Italia, di rango non proprio democratico”. Ne è certo Alessandro Margara, una vita nell’amministrazione penitenziaria e a capo del Dap dal 1996 al 1999. Oggi presidente della Fondazione Giovanni Michelucci che si occupa anche di edilizia penitenziaria, le carceri le conosce bene, non solo quelle italiane. Le prigioni brasiliane? Ride, quando glielo chiediamo: “Terribili, peggiori di quelle italiane”. Tra i motivi addotti dal governo brasiliano per negare l’estradizione di Battisti c’è la pessima fama del nostro sistema giudiziario e penitenziario. Secondo lei è una buona ragione? Nella polemica su Battisti manca in effetti l’unico dato noto da tempo: l’impresentabilità del nostro sistema carcerario. Credo invece che sul sistema giudiziario italiano, a parte la lungaggine processuale spesso sanzionata in sede europea, non si possano avanzare critiche come fa invece il nostro governo e il suo capo. Il nostro carcere però gode di pessima fama soprattutto per il problema del sovraffollamento per il quale siamo secondi in Europa solo dopo la Bulgaria, e che è determinato dalle politiche governative soprattutto nei confronti delle persone in difficoltà sociali. Leggi varate dal centrodestra che purtroppo neanche il governo Prodi ha modificato. L’Italia è stata più volte condannata dal Consiglio d’Europa e della Corte europea dei diritti dell’uomo… Sì, per quella che nel linguaggio del diritto europeo si chiama “tortura”: cioè “trattamenti contrari al senso di umanità e degradanti”. L’ultima volta nel 2009 per la condizione di sovraffollamento del 2004 ma da allora nonostante l’indulto il numero di detenuti è aumentato di 10 mila unità, arrivando quasi a 70 mila. Da quando lei era a capo del Dap a oggi come è cambiata la condizione detentiva? Erano meno affollate. E guardi che il sovraffollamento inceppa tutto il sistema, rende disumana la detenzione, difficoltoso il collegamento con l’esterno e annulla il fine rieducativo della pena. Reato di tortura ed ergastolo: altri due nei che rendono il sistema giudiziario italiano poco credibile… Esistono, sia sulla tortura che sul controllo dei diritti dei detenuti, convenzioni internazionali che sono state firmate dall’Italia ma non sono mai state eseguite dalla lex esecutionis. L’Italia si è rifiutata di inserire il reato di tortura nel codice penale e nega ad organismi indipendenti Onu il diritto di ispezione: infatti nel 2003 ha firmato, ma mai ratificato, un protocollo alla Convenzione Onu sulla tortura entrato in vigore nel 2002, mentre il Brasile lo ha ratificato nel 2007. Sull’ergastolo, poi, nel caso di Battisti si dovrebbe trattare di un ergastolo cosiddetto ostativo, vero cioè, in cui non si può ottenere la liberazione condizionale o altri benefici perché rientrerebbe nei reati previsti nell’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario. Secondo lei nelle carceri italiane l’incolumità di Battisti sarebbe a rischio? Si è creato attorno al personaggio un clima mediatico che certamente lo mette a rischio rispetto agli altri detenuti. Quindi in effetti, visto che probabilmente sarebbe posto in regime di isolamento, il problema del sovraffollamento non lo sfiorerebbe nemmeno. Semmai dovesse invece essere sottoposto al 41 bis, allora sì che rimpiangerebbe il sovraffollamento. Le cronache testimoniano che nelle carceri italiane si muore, questo è certo. Ma quali sono i soggetti più a rischio, secondo lei? Certo, in un quadro così fosco come quello delle nostre carceri può succedere tutto: non possiamo dire che c’è una ragionevole certezza che questo signore possa venir perseguitato o maltrattato psichicamente e fisicamente, ma certo un carcere di questo genere può riservare sorprese di ogni tipo. Le persone più a rischio nelle carceri però sono i poveracci, non c’è dubbio. Tossicodipendenti, malati psichici, giovani teppisti che vivono ai margini della società. Non certo i Battisti di turno... Sicuramente. Ma in effetti lo stesso personaggio, per come è stato presentato e anche per le sue caratteristiche personali che non lo rendono di certo simpatico, rischia di trovarsi a contatto con un ambiente che non è rispettoso nei suoi confronti. Secondo lei le prigioni brasiliane sono migliori? No (ride, ndr). Le prigioni brasiliane sono terribili. Basta leggere le cronache: dentro, ci sono veri e propri stati di guerra. Come forse c’erano da noi in altre epoche. Perché sicuramente va detto che gli anni di piombo furono terribili sotto vari aspetti e uno di questi era il carcere: negli anni 70 era terribile finirci dentro, ma era anche terribile ciò che accadeva tra i detenuti stessi. Gli omicidi e le ribellioni erano tante, e accanite. Quindi le nostre carceri sono più sicure oggi? Il personale di sorveglianza, che allora era un corpo militare, era molto meno numeroso di oggi, e debole complessivamente. Ne derivava una politica di durezza nei confronti dei singoli detenuti che era in qualche misura di difesa. Oggi invece il personale è più numeroso ed ha un potere maggiore. La forza è indispensabile per avere il controllo della situazione, se viene meno si rischia la degenerazione e la trasformazione in atti di violenza. Forse la fama di quel clima anni 70 potrebbe aver influito nella decisione presa. Lei che idea si è fatto di questa storia? Condivide la posizione del Brasile? Bisognerebbe prendere atto della decisione, cercando di capire i motivi per cui sia Lula che Dilma Rousseff non vedono con simpatia il sistema penitenziario e giudiziario italiano. È gente che ha conosciuto il carcere. E credo che facciano fatica a concepire l’idea di cedere alla richiesta di galera da parte di un Paese che ha molti torti, e non solo in questo campo, e che persegue una politica delle carceri, anche se il Brasile non è da meno, non c’è dubbio. Quello che proprio non capisco è come si fa a dire che Battisti, che ha passato tutto il periodo iniziale di latitanza in Francia, non debba essere considerato fruitore della dottrina Mitterrand riguardo il terrorismo politico. Comprendere però i brasiliani, che hanno avuto esperienze di carcere per motivi ineccepibili di resistenza alla dittatura, diversamente dal caso Battisti, significa capire perché non riescono a comprendere tutte le ragioni dell’Italia che internazionalmente è purtroppo noto per non essere un Paese di rango democratico. Giustizia: considerazioni di carattere umanitario dietro il rifiuto della estradizione di Paolo Persichetti Liberazione, 8 gennaio 2011 Il comportamento tenuto dalle autorità italiane nella complessa vicenda estradizionale di Cesare Battisti assomiglia molto a quel particolare stadio della crescita infantile che gli esperti definiscono “egocentrismo radicale”, lì dove il bambino non percepisce alcuna distanza tra il mondo esterno e il proprio corpo. Fase evolutiva primordiale che approda più avanti ad una forma di egocentrismo più sofisticato, di tipo “intellettuale”, una sorta di dittatura infantile dove il punto di vista delle altre persone non è differenziato dal proprio. Insomma la classica situazione dove i propri desideri vengono presi per realtà inoppugnabile. Siccome il ceto politico pensava che l’estradizione di Battisti fosse dovuta senz’ombra di dubbio, il rigetto finale pronunciato da Ignacio Lula da Silva nell’ultimo giorno del suo mandato presidenziale ha suscitato strepiti indispettiti, urla viziate, lagne tiranniche. Pare proprio che i vari Frattini, La Russa, Gasparri, e ancora più giù i politicanti mozza - orecchie dell’Idv e gli ipocriti piddini senz’anima e cervello, pensino al Brasile come ad una repubblica delle banane col bollino blu o al paese dei viados che bazzicano la Tomba di Nerone. Solo un Paese caduto ormai in una sorta di medioevo postmoderno può guardare con tanta cecità ad una potenza subcontinentale in espansione, come il Brasile appunto, dando prova del classico sprezzo degli idioti come quel cronista del Giornale che ha invocato le Cannoniere. Di fronte alle scomposte reazioni provenienti dalla Penisola, prim’ancora dell’annuncio ufficiale della sua decisione, il presidente Lula ha abbandonato ogni cortesia diplomatica rinunciando ad informare preventivamente i vertici istituzionali italiani. Un segnale molto netto raddoppiato dal sostegno arrivato dal nuovo ministro della Giustizia José Cardoso, che a nome del nuovo governo (e della stessa neopresidente Dilma Roussef) ha difeso la scelta di non estradare Battisti. Col passare delle ore hanno perso consistenza giuridica anche i bellicosi annunci di ricorso lanciati da Frattini. Come ha spiegato Sabino Cassese su Repubblica, impugnare la decisione di Lula di fronte al Stf avrebbe poche possibilità di successo, molto probabilmente l’iniziativa verrebbe considerata irricevibile. Anche l’eventuale ricorso all’Aja non avrebbe maggiori chances. Si tratta, infatti, di una commissione arbitrale che dovrebbe presupporre la disponibilità del Brasile a rendere negoziabile un aspetto della sua sovranità. Cassese avanza l’ipotesi di un compromesso sulla pena di Battisti, come la commutazione dell’ergastolo ad una condanna inferiore. Perché mai il Brasile dovrebbe negoziare ora qualcosa che l’Italia si è sempre rifiutata di fare durante l’intera procedura d’estradizione? La formula giuridica prescelta da Lula per il rifiuto, ovvero il rischio di un aggravamento della posizione personale di Battisti che la consegna all’Italia potrebbe provocare, richiamato alla lettera f, del primo comma dell’articolo 3 del trattato bilaterale, fa riferimento proprio a questo atteggiamento di chiusura totale pervenuto dall’Italia. Una volta che il Stf ha annullato la concessione dell’asilo politico, Lula per poter esprimere la propria decisione finale, prevista dalla costituzione, doveva attenersi strettamente ai requisiti indicati dal trattato bilaterale. Stabilito ciò, nel parere presentato dall’avvocatura dello Stato si esaminano attentamente tutti i fondamenti giuridici che attribuiscono al presidente della repubblica brasiliana il potere di rifiutare l’estradizione anche in difformità con il parere fornito dal Stf, e in particolare per “considerazioni di carattere umanitario”. Eventualità prevista in numerosi trattati bilaterali stipulati con paesi europei. Il testo richiama come filosofia giuridica guida per la scelta finale il diritto penale minimo, definito “pensiero criminologico umanitario”, esposto da Luigi Ferrajoli nel suo testo canonico, Diritto e ragione. Teoria delle garanzie penali. Il parere prosegue elencando le diverse situazioni di criticità del dossier Battisti: la presenza di una condanna all’ergastolo (pena capitale abolita in Brasile) aggravata da una pena accessoria pari a tre anni di isolamento diurno; pena che anche nel caso assai improbabile venisse scontata solo in parte terrebbe Battisti, che ha 56 an ni, in carcere praticamente fino alla morte, nonostante siano trascorsi oltre 30 anni dai fatti imputati, venendo meno al principio di risocializzazione; l’impossibilità di ottenere un nuovo processo nonostante la condanna in contumacia; infine il clima acceso che circonda la vicenda documentato con una ricca rassegna di bellicose e ingiuriose dichiarazioni di esponenti politici e istituzionali italiani. “Uno stato d’animo che giustifica preoccupazioni a causa del peggioramento che ne deriverebbe sulla sua situazione personale”, quando - suggerisce sempre l’avvocatura - “servirebbe serenità”. Non mancano precise critiche alla deriva vittimaria presente in Italia dove il diritto penale è inteso come diritto delle vittime anche se “il diritto processuale contemporaneo respinge questo concetto”. Giustizia: “ridacci Battisti e riprenditi i trans”… finisce così il sit in contro Lula di Paolo Persichetti Liberazione, 8 gennaio 2011 Non si da pace il ministro degli Esteri Franco Frattini da quando il presidente brasiliano Lula ha negato, nell’ultimo giorno del suo mandato, l’estradizione di Cesare Battisti. Sembra un nuovo Cimabue, quello che una ne pensa e ne sbaglia due. Prima un nuovo ricorso al tribunale supremo brasiliano, poi quando ha capito che l’ipotesi non reggeva ha tirato fuori dal cilindro l’appello al tribunale dell’Aja, per fare cilecca anche qui. Ormai è interminabile la lista degli scivoloni diplomatici, delle brutte figure, delle tirate d’orecchie e dei sonori ceffoni ricevuti dal governo italiano in questa vicenda. L’ultimo incidente si è verificato ieri quando Michael Mann, uno dei portavoce della commissione Ue, ha dovuto precisare che per il diritto internazionale e comunitario il caso Battisti “è una questione essenzialmente bilaterale, non di competenza Ue”. Il chiarimento è venuto dopo che la Farnesina aveva fatto circolare la voce di una iniziativa europea per costringere il Brasile a consegnare l’ex militante dei Pac. “È il Brasile che deve decidere”, punto. Così ha sgomberato ogni dubbio sulla questione l’esponente della commissione. Affermazioni tacciate di “superficialità” da parte del ministero degli Esteri che tuttavia ha dovuto riconoscere la natura “complessa” dell’iniziativa. Affrettato è stato invece l’incontro concesso nella mattinata all’aeroporto milanese di Linate dal premier Silvio Berlusconi ad Alberto Torreggiani. Pochi minuti, il tempo di una foto da utilizzare per la giornata di protesta organizzata sotto l’ambasciata del Brasile a Roma, e di una dichiarazione per le agenzie, “andremo insieme a Bruxelles per una conferenza stampa”. Nel pomeriggio si sono tenuti i sit - in di protesta a piazza Navona, dove per un giorno il tradizionale raduno della Befana è stato scacciato dall’arrivo delle tricoteuses. La questura è stata chiamata ad un difficile gioco d’incastro, un autentico rompicapo geometrico per tenere insieme i diversi contestatori di Lula, tutti uniti dall’odio feroce per la persona di Battisti ma divisi su tutto. Un circo Barnum promosso dal movimento della Santaché che sta cercando di lanciare in politica, per racimolare un po’ di voti, Alberto Torregiani, il figlio dell’orefice ucciso per rappresaglia dai Pac per aver a sua volta ammazzato un rapinatore in una pizzeria. Alberto venne ferito durante l’attentato da un proiettile esploso dalla pistola del padre che tentò di reagire all’agguato e da allora è tetraplegico. Davanti all’ambasciata brasiliana saluti romani, tricolori, manifesti che ricordavano Acca Larentia, un radioso Borghezio, slogan del tipo “chi non salta è brasiliano” , cartelli con scritto “Lula riprenditi i trans brasiliani e ridacci Battisti”. Improvvisamente nei paraggi si è materializzata la preoccupata presenza del senatore Gasparri. Grida di grande astio anche nei confronti di Carla Bruni mentre un manifestante un po’ alterato diceva a chi non lo avesse ancora capito, “sò nazista e laziale”. I pochi esponenti del Pd sono stati accolti al grido di “buffoni” dai giovani di estrema destra che animavamo la protesta. Silenzio assoluto invece sulla mancata richiesta di estradizione da parte italiana degli agenti della Cia condannati per il rapimento di Abu Omar. Toni simili anche a Milano, in corso Europa, davanti al consolato brasiliano. Un gruppetto di manifestanti raggiunto dal ministro La Russa gridava, “Ridateci Battisti e riprendetevi i travestiti”. Insomma contenuti molto qualificati per una giornata che ha ridato vigore all’orgoglio neofascista. Mancava solo l a forca esposta in piazza. Il clima era tale che una scritta inneggiante a “Battisti libero” ed alcuni manifesti di Militant hanno suscitato allarme contro una supposta eversione. Giustizia: Alfano; l’Ue intervenga, il Brasile deve onorare il trattato di estradizione Il Velino, 8 gennaio 2011 “Ci vediamo eccepito dal Brasile un problema di mancate garanzie costituzionali e l’Europa non dice niente?”. Così il ministro della Giustizia Angelino Alfano, in un’intervista concessa al quotidiano il Messaggero sul caso Battisti. “Voglio ribadire tutta la mia indignazione per questa vicenda, Battisti è un volgare assassino, condannato da un Paese democratico e sovrano che dispone di istituti di pena, di carceri nei quali il controllo di legalità è plurimo e massimo - sottolinea il Guardasigilli . Ribadisco che noi abbiamo un trattato di estradizione con il Brasile e ne pretendiamo il rispetto”. Sulla scelta politica del presidente Luiz Inacio Lula da Silva, Alfano parla di influenze legate “alla provenienza politica” del capo di Stato uscente e “degli ambienti decisionali del partito al quale appartiene”. Lettere: il carcere è malattia di Francesco Ceraudo (Direttore Centro Regionale per la salute in carcere della Toscana) Ristretti Orizzonti, 8 gennaio 2010 Nelle condizioni attuali il carcere viene meno a quella che è la sua prerogativa costituzionale principale: la pena rieducativa. Il carcere è malato. Sempre più spesso viene usato come discarica sociale in quanto serve a gestire fenomeni sociali quali: l’immigrazione, la tossicodipendenza, la povertà, l’emarginazione, la malattia mentale. Sovverte, pertanto, la sua stessa natura che è quella di contenere i fenomeni propriamente criminali. Il sovraffollamento carcerario attuale è un dato che non deriva dall’aumento della criminalità, i cui numeri sono in diminuzione, ma è invece la conseguenza di precise scelte di politica legislativa. Basta citare la legge sulla droga e la cosiddetta legge Bossi-Fini che prende di mira i clandestini. Congiuntamente ai detenuti minorenni è stato superato il numero di 70.000.Mancano complessivamente circa 30.000 posti-letto. Le carceri italiane sono le più sovraffollate d’Europa. Il sovraffollamento in sé considerato può essere portato in relazione alla sua entità e ai suoi effetti, come elemento che configura trattamento disumano e degradante ai sensi dell’art.3 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo. Nelle carceri italiane in 100 posti-letto sono ammassate 152 persone. Soltanto in Bulgaria il tasso di affollamento delle carceri è maggiore (155), mentre la media europea è 107 detenuti ogni 100 posti. Di fronte a questi numeri preoccupanti occorre una seria politica di depenalizzazione. Non tutto deve essere sanzionato con il carcere. Non tutto può essere sanzionato con il carcere. Occorrono forme alternative al carcere. Il carcere deve essere riservato ai reati che destano allarme sociale e deve costituire una sorta di extrema ratio. Invece succede che per ogni tipo di devianza marginale, comunque determinata, la risposta è una sola, il carcere, cioè l’esclusione. La criticità sociale non può avere come risposta sempre e comunque il carcere. Benissimo ha fatto l’Assessore Scaramuccia a portare in Giunta Regionale una Delibera per cui i detenuti tossico-alcoldipendenti possono usufruire di misure alternative alla detenzione e potranno curarsi in comunità. È un segno di grande civiltà. Nella Delibera si stabilisce che il percorso di presa in carico dei detenuti tossicodipendenti dovrà essere equiparato in tutto e per tutto a quello delle persone tossicodipendenti in libertà. Questo consentirà, altresì, di decongestionare anche se parzialmente le carceri toscane. La cosiddetta legge svuota carceri approvata nel dicembre 2010 si sta rivelando un gigantesco fallimento. Dei circa 500 detenuti che dovevano uscire dal carcere in Toscana, finora sono usciti un centinaio. Veramente pochi. Questo soprattutto perché molti non hanno fuori un domicilio. La Medicina Penitenziaria è quella branca della Medicina che tutela la salute in carcere. Non più una Medicina difensiva. Non più uno strumento per salvaguardare il concetto predominante della sicurezza. Ma una Medicina di opportunità e di iniziativa. Dall’attesa all’iniziativa: costruiamo il cambiamento. È questa una vera trasformazione epocale per la Medicina Penitenziaria. Un cambiamento che ora si va definendo, perfezionando, inventando strumenti conoscitivi ed organizzativi adeguati. È questo lo spirito che anima la Riforma e in questa prospettiva intendiamo muoverci con rinnovato vigore, appena vengono resi applicativi i contratti del Personale Sanitario. Anche se con molta gradualità si è messa in moto l’imponente rete dei servizi dell’Azienda Usl competente per territorio. I Presidi Sanitari Penitenziari cominciano a prendere forma dispensando servizi appropriati alle esigenze di salute della popolazione detenuta. L’anno 2010 è stato importante perché ha posto le basi di una seria prospettiva di miglioramento. L’anno 2011 sarà ancora più importante perché renderà attuativa la rivisitazione dei compiti professionali all’insegna di una Medicina Penitenziaria di opportunità e di iniziativa. Lettere: l’epifania… il manicomio si porta via! di Giuseppe Ortano Ristretti Orizzonti, 8 gennaio 2011 Ieri 7 gennaio 2011 è stato per G.M. il più bel compleanno della sua vita: in lacrime ha fatto la sua uscita dall’Opg F. Saporito di Aversa, ove è stato internato per oltre 5 anni per lesioni personali. “Non voglio mai più tornarvi”, sono state le sue prime parole, mentre carico di due buste piene dei suoi poveri effetti personali ha varcato il portone della struttura, avviandosi alla macchina che lo avrebbe ricondotto al suo paese di origine, Sessa Aurunca.. Il progetto di dimissione curato dalla Uosm 23, diretta dal dott. Giuseppe Ortano, e fortemente voluto dal direttore del Dsm ex Asl Ce/2 prevede che egli verrà accolto in un gruppo appartamento in Ptri/budget di salute cogestito con la cooperativa sociale “Del tuo futuro” ed è mirato ad un suo pieno reinserimento nel tessuto sociale. L’Opg di Aversa finalmente assurge alle cronache non soltanto a ragione dei gravi episodi che vi si sono verificati in quest’ultimo periodo. A breve altri due internati dovrebbero essere dimessi: si è in attesa del provvedimento del giudice. È proprio il caso di dire: L’epifania il manicomio si porta via! Lettere: aspettando il nuovo anno in carcere di Emanuela Cimmino Ristretti Orizzonti, 8 gennaio 2011 È stato un inverno freddo freddo quello del 2010 in carcere. Sguardi incrociati, braccia conserte per riscaldarsi, rumori di carrelli porta vitto, colorano i corridoi del transito, voci di richieste e di proteste pacifiche, detenuti in fila per effettuare colloqui con gli operatori dell’Area pedagogica popolano le sezioni. Attivi per i preparativi del Natale, c’è chi mette su il presepe accanto alla sala teatro, dominano pastori antichi con il rosa ed il celestino, e c’è chi fischietta Bianco Natale mentre decora un albarello che pende ad un lato. Volontari, collaboratori vari si danno da fare per eventi intramoenia; arriva il giorno dello spettacolo musicale seguito dal Recital di poesie nel reparto di alta sicurezza. Si prova a far sentire l’aria natalizia, ma nonostante fuori cadano dal cielo fiocchi di neve rendendo il paesaggio simile a quello di un libro di fiabe, il Natale in carcere è meramente lontano da come lo si vive da liberi. Sguardi tristi riposti sulle foto dei bambini, mani che stringono penne che scivolano su pezzi di carta decorate, i detenuti scendono a “colloquio” con i familiari con pacchi di biscotti e coca cola, risalgono con panettoni che poi divideranno con i compagni di detenzione, i loro occhi esprimono dolore, rammarico, speranza, sofferenza. Un ritornare alle radici, al passato, il viaggiare nei ricordi, il fronteggiare assieme il dolore, il fornire strumenti per cambiare, è il compito dell’educatore, che in questo periodo, ancora più, si fa forte, perché le stesse festività possano essere occasioni per poter cambiare. Nella notte Santa sono i profumi del sugo e di spezie varie provenienti dalle celle a fare socialità, i detenuti si invitano vicendevolmente, i pochi metri quadri diventano salotti per chiacchierare, qualcuno preferisce starsene da solo, qualcun altro andare a dormire stringendosi al cuscino. Ed è la realtà del 31 dicembre, quella agghiacciata, solitaria, senza fuochi d’artificio ed abbracci dei familiari allo scoccare della mezzanotte, in mattinata, inaspettata la visita dell’educatrice di sezione che passa per un saluto “cella per cella”. A piccoli passi senza troppa invadenza, legge i nomi riposti sull’etichetta fissata al blindato, quasi come a chiedere permesso, posso, con la coda dell’occhio scruta se c’è qualcuno in casa. È l’ora della socialità, alcuni sono a colloqui con i propri congiunti, altri sono dai vicini di cella. Riuniti i rumeni, gli slavi, i cugini nomadi, marocchini che pregano, albanesi che giocano a carte, e c’è il napoletano doc che come Don Raffaè sta preparando il caffè, il romano che un cucchiaio di plastica gira il suo sugo alla matriciana. C’è chi sta facendo pulizie ed aggiusta il cuscino con cura e mola lentezza per colmare il tempo ripetendo lo stesso gesto per diverse volte, c’è chi guarda la televisione e la spegne quando l’educatrice si avvicina alla porta per scambiare quattro chiacchiere; chi è nel corridoio in accappatoio e timidamente saluta l’educatrice prima di entrare nella sala doccia, chi inaspettatamente alla visita dell’operatrice si “rende presentabile”, chi balza dal letto, chi “piange” e con occhi meravigliati stringe con entrambe le mani quelle di chi ha difronte, ricambiando gli auguri, chi quasi ad invitare ad entrare fa notare le decorazioni della stanza, pezzi di carta colorate che scendono come pendoli dal soffitto, È la giornata della Vigilia di Capodanno e tutto prosegue nella norma, gli agenti della polizia penitenziaria si scambiano gli auguri dandosi il cambio turno, il Comandante gira con fogli e ricetrasmittente , l’Ispettore controlla che tutto sia al sicuro, l’infermiera passa con le pillole anti depressive per chi è sottoposto a trattamento farmacologico quotidiano, il poliziotto al transito saluta l’educatrice che esce dalla struttura penitenziaria, chiedendole con stupore come mai anche quella mattinata sia al lavoro e sia “dentro”. Si arriva in ufficio, neppure il tempo di aprire la porta, che il telefono squilla e squilla ancora, è l’operatore giudiziario che vuole che gli si mandi la relazione di A. per il permesso ordinario, è la moglie di B. che vuole sapere come sta suo marito, è la madre di C. che disperata vuole avere notizie del figlio ed assicurarsi che mangerà anche la notte della Vigilia di Capodanno. L’educatrice prende un break, vorrebbe, sta per dare un morso al suo tramezzino quando dalla matricola le chiedono se è pronta l’istanza di R. per l’ottenimento del beneficio della l.199/10; niente da fare, il 31 dicembre in carcere è una giornata senza fiato, senza un minuto da perdere, una struttura complessa, difficile, dove fermarsi sembra quasi vietato. Un luogo paradossalmente affascinante, in continuo itinere, dove tutto e tutti crescono e vivono di confronto. Lo spaccio, finalmente, è possibile recarsi allo spaccio per un caffè, un po’ si respira; lo scambio di auguri diventa contesto ed occasione per parlare, ma ancora una volta di carcere e di vita lontano dalle proprie famiglie, la vita in carcere; poiché anche noi operatori come loro i detenuti, viviamo metà della giornata tra le sbarre pur “fuori le sbarre”, lontano dalle nostre terre e dai nostri affetti, coinvolti nelle loro storie e nel processo strutturale di un’istituzione dinamica che potrebbe diventare “possibile ed aperta al cambiamento” se solo lo si volesse veramente e senza farsi seppellire dalla troppa burocrazia che spesso non ci fa vedere al di là della punta di naso. Lettere: perché nel carcere si umiliano i volontari? di Vittorio Svegliado Il Mattino di Padova, 8 gennaio 2011 Tutti asseriscono che senza volontariato l’Italia non andrebbe da nessuna parte, Basti ricordare quello che hanno fatto e fanno per il terremoto in Abruzzo e nel Veneto allagato. Ma c’è il “normale volontariato” negli ospedali, nella Croce Verde; per le persone deboli, i disabili, i minori, di solidarietà, di giustizia sociale, di tutela della natura e mi fermo qui per non riempire la pagina. Dovunque un grande apprezzamento per il lavoro di sacrificio (non retribuito). C’è però un tipo di volontariato che non è ben visto, ed è quello che si fa in carcere. Io parlo per l’esperienza diretta che ho avuto al Penale di Padova in cui ho dovuto sopportare umiliazioni, angherie culminate con una perquisizione completa, non autorizzata dalla Procura, per cui gli stessi agenti sono stati inseriti nel registro degli indagati. In carcere i volontari non sono graditi; quante volte ho dovuto subire attese lunghissime quasi sempre provocatorie al portone d’entrata! O mi hanno controllato registri, penne, blocchi, quasi come i detenuti stessi! Quante volte mi hanno rifiutato il colloquio con il detenuto per “problemi di sicurezza” inesistenti! Io ho lavorato in questo ambiente più di 8 anni come socio e vicepresidente del “Gruppo operatori carcerari di Padova”. Con il direttore abbiamo avviato progetti interessanti fra cui uno riguardante la prevenzione dei suicidi, che poi - fortemente ridimensionato - ha perso ogni valore; poi il sevizio guardaroba e il Polo universitario e molto altro. Due anni fa sono stato privato dell’articolo di legge (n. 78) che mi consentiva di entrare nelle carceri (ne hanno parlato i giornali) e il mio volontariato è finito. Nemmeno l’intervento del magistrato di sorveglianza ha fatto cambiare idea al direttore Pirruccio. Ecco, vorrei che con il nuovo anno anche i volontari del Carcere Penale di Padova potessero svolgere il loro lavoro, difficile ed encomiabile, senza ostruzioni e boicottaggi. Sicilia: nelle carceri sovraffollamento sempre a livelli record Gazzetta del Sud, 8 gennaio 2011 Palermo Al 31 dicembre scorso nelle carceri siciliane erano presenti 7.782 detenuti (7.597 uomini, 205 donne), ben 2.392 in più rispetto alla capacità ricettiva massima, con una media dell’indice di sovraffollamento attestata al 44,7%. Il carcere di Piazza Armerina (151,1%) è la struttura più affollata della regione (la terza in ordine nazionale); seguono Castelvetrano (108,5%) e Termini Imerese (102,7%). Sono i dati forniti da Eugenio Sarno, segretario generale della Uil Pa Penitenziari. Nel corso del 2010 nei penitenziari dell’Isola si sono verificati otto suicidi (quattro a Siracusa, due a Catania Bicocca, uno a Caltanissetta e Giarre). I tentati suicidi sono stati 124 (21 i detenuti salvati in extremis dalla polizia penitenziaria). Gli atti di autolesionismo assommano a 549 ( 1 nel solo Ucciardone). I detenuti che hanno fatto ricorso, in segno di protesta, a scioperi della fame sono risultati essere 869. Gli atti di aggressione ai danni di poliziotti penitenziari sono stati in totale 36 (8 al Pagliarelli; 4 all’Ucciardone e Barcellona Pozzo di Gotto; 3 a Messina; 2 a Enna, Ragusa, Siracusa e Trapani; 1 a Agrigento, Augusta, Castelvetrano, Catania Bicocca, Favignana, Giarre, Modica, San Cataldo e Sciacca). “Il futuro preoccupa, e non poco - dice il sindacalista - e la Uil per questo ha già chiamato alla mobilitazione il personale ed è pronta alla protesta unitaria. Abbiamo ripetutamente denunciato la grave situazione che si abbatte sulle incolpevoli spalle della polizia penitenziaria. Oramai, stante la carenza di personale, è accertata l’impossibilità di godere dei diritti soggettivi e di lavorare in condizioni dignitose e sicure e con turni compatibili. È chiaro che di fronte a questa triste realtà non ci resta altro che la strada della mobilitazione e della protesta”. Così, per il 23 gennaio, a Messina, è stata indetta con tutte le altre organizzazioni sindacali una sorta di sciopero in bianco: “Solo la prima - avverte Sarno - di una delle tante azioni di protesta da mettere in piedi. Il personale è stanco e sfiduciato, allo stremo psico - fisico. Nelle sezioni detentive il rapporto è un agente contro un centinaio di detenuti. Le traduzioni sono sistematicamente effettuate con scorte sottodimensionate. Questo in terra di mafia non conforta e non aiuta”. “Il problema dei nostri penitenziari rappresenta una vera emergenza sanitaria, sociale e di ordine pubblico, richiede un intervento immediato da parte delle istituzioni e dalla politica. Quello regionale è un sistema carcerario da rivisitare totalmente cercando di garantire condizioni migliori ai detenuti e alle guardie carcerarie”. Lo dice il deputato regionale di Forza del Sud, Toni Scilla. “Gli ultimi dati diffusi circa la situazione delle carceri in Sicilia - conclude il deputato di Forza del Sud - evidenziano una situazione davvero allarmante e con un sovraffollamento aggravato da condizioni dubbie degli istituti e gravi carenze delle strutture. Il quadro è inquietante ed è necessario mettere in campo sinergie diverse”. Molise: la Regione dà lavoro ai carcerati, i nuovi cantonieri già all’opera Il Tempo, 8 gennaio 2011 Sono già entrati al lavoro i tre nuovi cantonieri assunti a tempo indeterminato dalla Provincia di Campobasso nell’ambito della selezione pubblica per esecutori tecnici. Deborah Di Vincenzo Lavorare, anche fuori dal carcere, per assicurarsi un posto nella società una volta saldato il conto con la giustizia. Un diritto per i detenuti che continuerà ad essere garantito anche nella casa circondariale di Ponte San Leonardo a Isernia e nei penitenziari di Campobasso e Larino, grazie allo stanziamento da parte della giunta regionale di 150mila euro. I fondi saranno destinati a iniziative progettuali di reinserimento sociale e - appunto - lavorativo. Ma per il Molise non si tratta certo di una novità. In passato infatti sono state create cooperative sociali e attivati percorsi formativi, grazie ai quali i detenuti hanno avuto anche la possibilità di frequentare corsi di teatro e laboratori di scrittura, continuando in qualche modo a confrontarsi con la realtà esterna. E ora, grazie all’arrivo di nuovi finanziamenti sarà possibile potenziare i servizi già esistenti e potenziare attività dentro e fuori dal carcere. “La scelta della giunta regionale - ha affermato l’assessore alle Politiche Sociali Angela Fusco Perrella, promotrice delle iniziative - rappresenta, pur in un periodo di congiuntura economica non favorevole, la volontà di implementare le attività intra ed extra murarie che hanno favorito, nelle precedenti annualità, l’attivazione di percorsi formativi e la creazione di cooperative sociali. Si tratta di misure tese a dare piena attuazione al dettato normativo, secondo cui la detenzione deve prevedere e garantire alle persone detenute effettive opportunità di reinserimento nel tessuto sociale”. Un diritto che va garantito, certo. Sempre e comunque. Perché sbagliare è umano e chi è dentro sta, ovviamente, ponendo riparo ai propri errori. Certo ci sono le eccezioni. Una per tutte: Angelo Izzo. Difficile cancellare dalla memoria dei molisani il volto del “mostro del Circeo” che, in regime di semilibertà, uccise a Ferrazzano Carmela Maiorano e la figlia adolescente Valentina. Izzo conobbe le due donne mentre lavorava per la cooperativa sociale “Città Futura” come operatore. Il che naturalmente provocò sconcerto e rabbia. Soprattutto verso chi aveva consentito al mostro del Circeo di vivere in semilibertà e lavorare. Sono trascorsi cinque anni da quella tragedia e, per fortuna, niente di anche lontanamente simile si è più verificato in Molise. A moltiplicarsi sono invece le iniziative a sostegno dei detenuti. Risale per esempio al novembre dello scorso anno la sottoscrizione di un protocollo d’intesa tra il Provveditorato regionale per l’Abruzzo e il Molise del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e Unioncamere per favorire il loro inserimento lavorativo. Un accordo che vuole mettere in relazione la domanda di lavoro proveniente dagli istituti penitenziari con i bisogni occupazionali espressi dal mondo imprenditoriale in modo da incrementare le opportunità lavorative esterne rivolte ai detenuti. Ma anche favorire informazioni corrette ed esaustive sugli sgravi contributivi e fiscali previsti dalla legge per chi assume detenuti. Livorno: i famigliari non credono che Yuri sia morto per “cause naturali”, era sanissimo Il Tirreno, 8 gennaio 2011 “Ci hanno detto che è morto per un malore, ma Yuri era sanissimo, un ragazzone alto, senza problemi di salute. Andremo avanti fino in fondo perché in questa storia vogliamo vederci chiaro”. La storia di cui parla Valentina è quella di Yuri Attinà, il ventottenne livornese che mercoledì pomeriggio è morto in una cella del carcere delle Sughere. Valentina Marchetti è la nipote di Yuri, figlia di sua sorella. Loro sono gli unici parenti che erano rimasti al ragazzo visto che la madre è morta quando lui era piccolo e del padre si sono perse le tracce. Il ragazzo era recluso alle Sughere da un mese, da quando era diventata definitiva la pena di due anni e mezzo per una serie di scippi ad alcune donne, messi a segno con un altro livornese nella primavera del 2009. Dopo la morte di Yuri - secondo quanto i detenuti hanno raccontato a Marco Solimano, garante per i diritti dei carcerati di Livorno - ieri è scattata la protesta dei compagni che hanno sbattuto oggetti contro le inferriate delle celle. I detenuti hanno anche raccontato che il malore del giovane potrebbe essere stato causato dall’inalazione di una bomboletta spray. Erano stati alcuni detenuti a portare a braccia il giovane all’ambulatorio dopo un primo intervento di un’infermiera che si trovava nella sezione. Non era la prima volta che Yuri aveva a che fare con la giustizia, le forze dell’ordine lo conoscevano già per furti e reati legati alla droga. Quella droga che aveva segnato la vita del giovane. “Negli ultimi tempi stava molto meglio - spiega ancora la nipote - ed era in attesa di entrare in comunità”. Mercoledì il decesso. Si è parlato di infarto, ma la famiglia non crede a questa versione dei fatti. Attinà era in cella insieme a due compagni. “Dicono che i due si fossero addormentati - racconta la nipote - e che sono stati svegliati da un tonfo. Ci hanno raccontato che il corpo di mio zio è stato trovato a terra, che hanno provato a rianimarlo ma non c’è stato niente da fare”. Il racconto non convince Valentina. “Quello che sappiamo - conclude la ragazza - è che Yuri stava bene. Aveva problemi di tossicodipendenza, è vero, ma non era malato. È impossibile che un ragazzo di ventotto anni muoia così”. La famiglia di Attinà, sul cui corpo verrà effettuata l’autopsia, ha già contattato un legale di Pisa per fare chiarezza sul decesso. Ieri pomeriggio il senatore del Pd Marco Filippi e Marco Solimano, garante dei detenuti per Livorno, hanno effettuato una visita alla struttura. Intanto gli amici di Yuri hanno appeso uno striscione sulle recinzioni del carcere, davanti al quale per domani hanno organizzato una manifestazione contro le morti in cella: parteciperanno la madre di Marcello Lonzi, morto nella casa circondariale di Livorno nel 2003, e quella del viareggino Daniele Franceschi, morto l’estate scorsa nel carcere francese di Grasse. Livorno: nel carcere delle Sughere un “record” di morti, 11 negli ultimi 10 anni Il Tirreno, 8 gennaio 2011 Una striscia di morti - lunghissima, terribile, inquietante - contraddistingue gli ultimi dieci anni del carcere Le Sughere. La vicenda più nota è la tragica fine di Marcello Lonzi, un caso nazionale insieme a quella di Stefano Cucchi: ma non è l’unico decesso all’interno di quelle mura, dove da tempo si vive in condizioni intollerabili di sovraffollamento. Febbraio 2001. Una donna grossetana di 39 anni si impicca in cella, a 4 mesi dal fine pena. Non ce la faceva, dopo una esistenza difficile fra siringa e bicchiere, a reggere la lontananza dal marito (anch’egli detenuto) e dai figli. Aprile 2001. Si impicca con la cintura dell’accappatoio un uomo di 35 anni, sezione ad alta sicurezza. Due ergastoli, l’accusa di far parte del clan mafioso Santapaola: l’hanno trovato con il rosario al collo. Aprile 2003. Il cadavere di un turco di 35 anni lo trovano impiccato con i lacci delle scarpe, vietatissimi dietro le sbarre. Corpo sospeso nel vuoto e sgabello rimasto in piedi. Luglio 2003. Muore in cella Marcello Lonzi, 29 anni. La famiglia viene avvertita solo dopo 12 ore, e non è che la prima stranezza in questa vicenda. La madre non crede alla morte accidentale, inizia una lunga battaglia per chiedere giustizia: saltano fuori foto terribili delle condizioni del cadavere di Lonzi. Alla fine viene tutto archiviato. Giugno 2004. Un calabrese di 50 anni, detenuto nel braccio di massima sicurezza si toglie la vita appendendosi alle sbarre con la cintura dei pantaloni. Luglio 2004. A distanza di appena un mese dal suicidio precedente, si impicca con sacchi di nailon un marittimo cileno. Era imbarcato su una nave cargo sulla quale erano stati trovati tre chili e mezzo di cocaina. Settembre 2004. Per la terza volta in tre mesi un detenuto finisce i suoi giorni impiccandosi in cella. Era un uomo di 28 anni, originario di Napoli, recluso nella sesta sezione del padiglione D (detenuti comuni): lo avevano arrestato con l’accusa di essere un “topo di treno”, doveva scontare otto mesi per furto. Dicembre 2004. “L’annus horribilis” delle Sughere non termina senza un altro decesso. Un pugliese di 57 anni chiede aiuto dalla sua cella nella seconda sezione, dov’era recluso per reati di stampo mafioso (Sacra Corona Unita). È stato un infarto? Il magistrato ordina l’autopsia. Settembre 2007. Pochi giorni dopo il tentato suicidio del padre di uno dei piccoli rom morti nel rogo di Pian di Rota, un polacco di 27 anni viene trovato avvelenato dal gas del fornellino in dotazione. Ottobre 2007. La brandina di un detenuto marocchino di 34 anni si trasforma in un letto di morte. Aveva il volto all’ingiù sul cuscino: fulminato da un infarto, dice il primo sopralluogo. Novembre 2007. Un albanese di 22 anni a rischio suicidio viene messo in una cella isolata “liscia”, senza vestiti. Ha già provato più volte a metter fine ai suoi giorni: l’ultima volta ci riesce, grazie a una felpa che riesce in qualche modo a ottenere. Maggio 2008. Una infermiera livornese, in servizio alle Sughere quando fu trovato morto Lonzi, si inietta in carcere una overdose di insulina pochi giorni dopo esser stata ascoltata dal magistrato. La salva in extremis un medico. Novembre 2008. Muore per asfissia un recluso trentunenne di Salerno. Dicono abbia sniffato il gas di una bomboletta da camping mettendosi in testa una busta di plastica, secondo una pratica diffusa fra i tossicodipendenti. Maggio 2009. Un ragazzo di 21 anni, originario dell’Est Europa, si toglie la vita impiccandosi il giorno dopo esser finito in cella con l’accusa di aver violentato la fidanzata. Agosto 2009. Un marchigiano di 48 anni, ricoverato in osservazione psichiatrica, si impicca con la maglietta. Marzo 2010. Un tunisino di 30 anni viene trovato senza vita nella sua cella all’interno del reparto transito. Accanto a lui la bomboletta del gas aperta: morto per una sniffata dal fornellino? Agosto 2010. Nella sezione ad alta sicurezza, ennesimo tentativo di togliersi la vita. Un agente penitenziario - rimasto da solo a controllare 15 celle per le solite carenze di organico - riesce a salvare in extremis un detenuto che si sta impiccando. Livorno: l’ispezione dei parlamentari trova celle affollate e manutenzione carente Il Tirreno, 8 gennaio 2011 Quasi quattro ore dentro il carcere. A discutere con i vertici del penitenziario, con lo staff medico e, a sorpresa, con una delegazione dei detenuti che fanno parte della sezione dove è morto Yuri Attinà. Il senatore Marco Filippi e il garante dei detenuti della città, Marco Solimano, ieri pomeriggio hanno varcato i cancelli delle Sughere, ricavando da questa loro mezza giornata trascorsa dietro le sbarre indicazioni che non hanno esitato a definire “molto utili”. Tanto Filippi quanto Solimano concordano sulla bontà della ricostruzione dell’episodio fornita dal personale sanitario del carcere. “Ci sono anche le riprese delle telecamere della sezione - hanno detto i due ieri sera all’uscita dal penitenziario - che confermano il puntuale resoconto degli interventi effettuati nel tentativo di salvare questo detenuto. Resta da chiarire il motivo della morte di questo giovane, ma è logico che sarà l’autopsia a stabilirlo”. Rimane anche il problema del numero elevato dei decessi all’interno del nostro carcere, che rappresenta il cuore della questione. Ed è di questo che Solimano e Filippi hanno parlato con la delegazione di detenuti che hanno incontrato. “Non trattandosi di un incontro programmato - dice il garante dei detenuti - assume un valore ancora maggiore e testimonia della disponibilità del carcere a promuovere e sostenere il dialogo”. Ancora una volta, il problema maggiore che i detenuti segnalano, nella vita carceraria di tutti i giorni, è il sovraffollamento di una struttura che continua a gonfiarsi di ospiti e che è in condizioni di manutenzione a dir poco precarie. “Non saranno fatti che hanno attinenza diretta con questo decesso - argomenta il senatore del Pd - ma si tratta di elementi che riguardano la qualità della vita all’interno della struttura, e come tali importantissimi”. Rincara la dose il garante dei detenuti Solimano: “Più detenuti, meno agenti di polizia penitenziaria, non un soldo neppure per gli interventi minimi. Questo significa che se si brucia una lampadina, è forte il rischio di rimanere al buio. Credo, con buona pace dei proclami del ministro Alfano, che queste non siano condizioni di vivibilità e di civiltà minima per una comunità democratica. Lo diciamo da tempo, non possiamo che ribadirlo adesso”. Qualche elemento di tensione all’interno della sezione dove ha perso la vita Attinà c’era. “I detenuti - ha detto Solimano - avevano dato vita a una protesta nella quale volevano esprimere il loro dolore per un compagno di detenzione morto all’improvviso, a 28 anni appena. Ma quando ci abbiamo parlato noi, i rappresentanti dei detenuti hanno segnalato i loro problemi con chiarezza e con serenità. È stata un’occasione di confronto importante perché, ripeto, giunta senza alcun preavviso. Penso che la città di Livorno con questa visita in carcere abbia dimostrato ancora una volta il suo impegno per i detenuti e per la qualità della loro vita”. La direzione e i medici devono spiegare “È necessario che la direzione del carcere Le Sughere chiarisca le circostanze che hanno portato alla morte” di Yuri Yuri Attinà. Lo chiede Marco Taradash, capogruppo Pdl al Comune e consigliere regionale: “Le informazioni fornite dall’istituto sono troppo generiche per non suscitare qualche legittima domanda”. Infarto? “Possibile certo, per quanto altamente improbabile. È bene che il personale medico dia un quadro preciso delle condizioni sanitarie del giovane nei giorni precedenti alla sua morte e ci descriva le cure cui è stato eventualmente sottoposto”. Taradash invoca “la massima trasparenza su episodi tragici che non devono lasciare dietro di sé tracce di incertezza o diffidenza”: si conoscono bene le “drammatiche condizioni” delle carceri e “le difficoltà, spesso l’abnegazione, di chi vi opera in condizioni difficilissime”. Venezia: per il suicidio in cella di un detenuto tunisino indagati direttrice e comandante Corriere Veneto, 8 gennaio 2011 Suicidio in cella. Il pm: omissione d’atti d’ufficio. Non avrebbero fatto abbastanza per evitare il peggio. Riesplode la polemica sul sovraffollamento dei penitenziari. Lo scorso 22 settembre aveva aspettato che i suoi sei compagni di cella uscissero per l’ora d’aria e che la guardia carceraria addetta a quell’ala si allontanasse. Poi aveva preso le lenzuola, le aveva legate alla finestra del bagno, se le era girate attorno al collo e si era lasciato andare. Era morto a soli 22 anni un giovane tunisino, detenuto nel carcere di Santa Maria Maggiore. Ora spuntano i primi due indagati e si tratta di nomi eccellenti: quello della direttrice del carcere lagunare Irene Iannucci e quello del comandante della polizia penitenziaria della struttura, Ezio Giacalone. Per entrambi il pm di Venezia Francesca Crupi ha formulato l’accusa di “omissione di atti d’ufficio”. Sul fascicolo c’è ovviamente il più stretto riserbo, vista la delicatezza del caso. Il tunisino era stato condannato per spaccio di droga e stava attendendo il processo di appello. Già in passato aveva tentato di mettere fine alla propria vita e perfino la mattina stessa del suicidio si era ferito un braccio. Da quel suicidio però il pm avrebbe avviato un’indagine più ampia sulla situazione del carcere lagunare. Guardando al reato contestato, essendo l’inchiesta ancora in corso, sembrerebbe che il magistrato ritenga che la direttrice - arrivata in laguna un anno e mezzo fa, nel giugno 2009 - e il comandante non abbiano fatto a sufficienza quanto in loro potere per rendere migliore la situazione di Santa Maria Maggiore. L’articolo 328 del codice penale punisce con una pena fino a un anno il pubblico ufficiale che, a precisa richiesta, “non compie l’atto del suo ufficio e non risponde per esporre le ragioni del ritardo”. Non si tratta peraltro della prima indagine della procura di Venezia sulla gestione di Santa Maria Maggiore. Anche in seguito al suicidio di un 27enne tunisino il 5 marzo 2009, il pm Massimo Michelozzi aveva aperto un fascicolo. A differenza della collega, però, aveva iscritto sul registro degli indagati sette poliziotti e con accuse diverse: per due il magistrato aveva ipotizzato l’omicidio colposo, per tutti e sette “l’abuso di autorità contro arrestati e detenuti”. L’avevano rinchiuso in una cella che tutti definivano “l’inferno”. Proprio lì, in quella cella vuota di mobili ma piena di sporcizia e dall’odore nauseabondo, il 27enne si era suicidato. La situazione del carcere lagunare è da anni esplosiva, tanto che proprio una decina di giorni fa è stato firmato un accordo a Roma per una nuova struttura a Campalto da 450 posti. Santa Maria Maggiore, progettata per 111 posti, può sopportare al massimo 240 detenuti, ma oggi ne ospita circa 360. Tanto che un anno fa, scatenando non poche polemiche, l’ex procuratore capo Vittorio Borraccetti, d’intesa proprio con la direzione del carcere, aveva chiesto ai suoi pm l’applicazione rigida della legge che prevede la custodia dei detenuti in attesa di processo nelle camere di sicurezza della polizia. Anche perché, solo a Venezia, ci sono mezzo migliaio di detenuti all’anno che escono dal carcere dopo soli tre giorni. Non che in altre strutture venete vada meglio, anzi: secondo un conteggio della Uil Pa, il 31 dicembre nella regione c’erano ben 1.267 detenuti in più rispetto alla capacità ricettiva massima: 3232 detenuti (3.068 uomini, 184 donne), con una media dell’indice di sovraffollamento al 65,5 per cento. Secondo i dati Uil, resi noti dal segretario Eugenio Sarno, il carcere di Vicenza (146,6%) è la struttura più affollata della regione, al quinto posto a livello nazionale, davanti a Treviso e Venezia. Nel 2010, oltre a quello di Venezia, ci sono stati altri cinque suicidi (tre a Padova, uno a Belluno e Verona), mentre i tentati suicidi sono stati 62. Gli atti di autolesionismo sono stati 326 e ben 422 detenuti hanno fatto scioperi della fame. Quindici le aggressione ai danni di poliziotti. Vicenza: il procuratore Pecori; servono subito nuovi penitenziari, no a palliativi Giornale di Vicenza, 8 gennaio 2011 Vicenza. Sovraffollate, fatiscenti, inadeguate, in perenne ristrutturazione. Ecco come sono le carceri italiane. E a Vicenza la situazione sembra essere tra le più critiche, non solo del Veneto, ma di tutto il Paese. A lanciare l’allarme, ieri, la “Uil Pa Penitenziari”, che ha spiegato: “Lo scorso 31 dicembre, nelle carceri regionali, c’erano 3232 persone, 1267 in più rispetto alla capacità ricettiva massima degli istituti di pena, con una media dell’indice di sovraffollamento attestata al 65,5 %”. “A Vicenza - spiegano - si raggiunge tuttavia 146,6 %. Si tratta della struttura più affollata della regione e si posiziona al quinto posto a livello nazionale”. Soluzioni? Non nell’immediato. “Solo con nuovi penitenziari si potrà risolvere definitivamente il problema” ha considerato il procuratore reggente Paolo Pecori. “Dobbiamo partire da un presupposto: il numero di persone che delinquono è alto - afferma il magistrato - e, per alcune tipologie di reato, cioè per quelle di una certa gravità si può solo che prevedere la detenzione in attesa di giudizio”. “Se a questi si aggiungono gli ordini di carcerazione, comprendiamo che le persone che, pressoché quotidianamente, entrano in carcere sono molte - aggiunge - Dovremo finalmente poter contare su nuovi istituti o almeno, come nel caso di Vicenza, su nuovi padiglioni per l’ampliamento delle sedi esistenti”. Le altre ipotesi? “L’indulto e il recente decreto “svuota carceri” sono palliativi. Tamponano semplicemente - sottolinea - la situazione di sovraffollamento senza risolvere il problema “alla radice”“. Proprio a proposito di edilizia carceraria nelle scorse settimane il commissario delegato per il Piano carceri, Franco Ionta, e il vice presidente della Regione Veneto, Marino Zorzato - su delega del presidente Luca Zaia - hanno siglato l’intesa per la localizzazione delle aree destinate alla realizzazione delle nuove strutture carcerarie nel territorio veneto. Per quanto riguarda il capoluogo berico è prevista la costruzione (che, proprio per risolvere l’emergenza dovrà avvenire in tempi rapidi) di un nuovo padiglione di 200 posti che sorgerà su un’area di 3900 metri quadrati e costerà undici milioni di euro. “Anno dopo anno il problema si ripresenta - analizza il presidente dell’ordine forense Lucio Zarantonello - a dimostrazione del fatto che, quando si affrontano il tema giustizia, in Italia non sembrano mai esserci i fondi”. Zarantonello condivide l’idea che, alla situazione attuale, non si possa più andare avanti con “decreti tampone”. “Ritengo sia positiva - conclude il presidente degli avvocati - la legge che prevede che i detenuti dell’Unione europea scontino nel proprio Paese la pena. Si tratta della soluzione ottimale per “alleggerire” le carceri e, soprattutto per ridurre costi ma, anche in questo caso, i tempi si preannunciano lunghi: dovremo attendere ancora un anno prima che entri in vigore e, nel frattempo, continueremo a convivere con gli stessi problemi”. Agrigento: i numeri di un anno a Petrusa, una fotografia a tinte abbastanza scure La Sicilia, 8 gennaio 2011 È tempo di bilanci anche sulla situazione registratasi nel 2010 nel carcere Petrusa. A stilarlo dal punto di vista strettamente statistico è il sindacato Uil polizia penitenziaria. Ne emerge una fotografia com’era facile pronosticare a tinte abbastanza scure, anche se tutto sommato la casa circondariale agrigentina si pone in una posizione di classifica certamente alta, ma non al vertice. Per una volta non essere primi suscita un po’ di soddisfazione anche se i punti di emergenza e preoccupazione non mancano di certo. Sono nove le “voci” che la Uil ha preso in considerazione per fotografare la situazione delle carceri siciliane. Capienza regolare, presenze al 31 dicembre scorso, esubero di presenze, percentuale dell’indice di affollamento, suicidi, tentati suicidi, gesti autolesionistici, aggressioni ai danni dei poliziotti penitenziari, scioperi della fame. Su una capienza regolamentare di 260 detenuti al 31 dicembre erano “ospiti” del Petrusa 452 persone, con un esubero di 192 unità, per un indice di affollamento del 73,8%. Agrigento si pone alle spalle di carceri come Palermo Pagliarelli e Ucciardone, Augusta, Catania e Siracusa. Anche sull’indice di affollamento il “nostro” penitenziario si pone circa a metà classifica delle 26 strutture detentive siciliane. Per fortuna e bravura degli agenti in servizio non si sono consumati suicidi, mentre invece sono 12 i tentativi sventati in extremis. Una dozzina di casi che fanno schizzare Agrigento immediatamente dopo le carceri di Palermo, segnale che le difficoltà logistiche a qualche detenuto hanno fatto abbassare le forze di autoconservazione, spingendo alcuni a cercare di farla finita. Gli atti di autolesionismo sono stati 40, al quarto posto in Sicilia dopo le carceri di Palermo e Siracusa. Secondo i numeri forniti dalla Uil polizia penitenziaria si è registrato un solo caso di aggressione consumata a danno degli agenti in servizio, un numero nella media isolana. I detenuti che nel 2010 hanno invece deciso e attuato lo sciopero della fame, rifiutando il vitto concesso dalla struttura detentiva sono stati 61, “pochi” rispetto ai 108 dell’Ucciardone. Dai numeri emerge dunque l’immagine di una struttura con situazioni difficili specie dal punto di vista strutturale, causa molto spesso dei gesti di insofferenza che a volte sfociano con il tentativo di suicidio. Negli ultimi mesi in particolare il personale della polizia penitenziaria hanno sventato almeno cinque quasi suicidi, salvando la vita a persone che ormai erano sul punto di passare all’altro mondo. Il sindacato Uil di categoria con una nota stampa diffusa ieri evidenzia la drammatica situazione delle carceri siciliane, chiedendo al Governo interventi immediati per migliorare la situazione. Il decreto “svuota carceri” è già entrato in vigore, ad Agrigento dovrebbe incidere sulla scarcerazione di una quarantina di detenuti nell’arco del 2011. Nell’anno in cui, si spera possano essere ultimati i lavori di costruzione della nuova ala del penitenziario, capace di accogliere - si dice - altri 200 detenuti. Prato: mistero su due detenuti feriti alla Dogaia, necessario un intervento d’urgenza in ospedale Il Tirreno, 8 gennaio 2011 Giallo sul ferimento di un paio di detenuti la scorsa notte al carcere della Dogaia. Testimoni oculari, passata la mezzanotte, hanno visto due detenuti mentre venivano accompagnati al pronto soccorso dell’ospedale. Entrambi perdevano sangue, ma uno era in condizioni critiche, tanto che è stato subito portato in sala operatoria, mentre l’altro è stato medicato dai sanitari sul posto. Dalla Dogaia negano che sia avvenuto un accoltellamento (si parla genericamente di una caduta) e della faccenda ufficialmente non si sono occupati né i carabinieri né la polizia. Porto Azzurro (Li): gli studenti visitano il carcere Il Tirreno, 8 gennaio 2011 Tre classi del liceo “Foresi” di Portoferraio hanno assistito alla rappresentazione teatrale che si è tenuta nella Casa di Reclusione di Porto Azzurro. In scena “Ubu Re”, lo spettacolo che ha chiuso il lavoro annuale del laboratorio teatrale che si svolge ormai da un decennio nel carcere elbano. L’iniziativa rientra nel progetto “teatro in carcere”, sostenuto e finanziato dalla Regione in collaborazione con l’Amministrazione penitenziaria e gestita dall’Associazione “Dialogo”, diretto dalla regista Manola Scali in collaborazione con Bruno Pistocchi e Adriana Michetti. Una ventina i detenuti coinvolti nel laboratorio. Va ricordato che a Porto Azzurro è istituita da anni una sezione del liceo Scientifico dell’Isis “Foresi”, frequentata da circa ottanta reclusi, che funziona accanto alle scuole medie, ai corsi di alfabetizzazione e ad un gruppo di studenti universitari. Soddisfazione hanno espresso i docenti accompagnatori (De Pascale, Marotti e Pistocchi) due dei quali per la prima volta hanno varcato le porte di un carcere. C’è comunque l’impegno a tenere viva l’attenzione sulla realtà carceraria e a individuare forme di collaborazione, soprattutto attraverso l’attiva Associazione “Dialogo”. L’associazione, come è noto, è presieduta da Licia Baldi, particolarmente sensibile alla dimensione culturale delle attività e sicuramente vicina alla realtà degli studenti, anche perché è stata per anni docente di latino e greco al liceo Classico. Stati Uniti: bambino di 10 anni uccide la madre, portato in tribunale in catene Ansa, 8 gennaio 2011 Lui ha dieci anni e il suo nome è rigorosamente top secret. La foto dei suoi piedi legati con le catene, però, ha già fatto il giro del mondo. Parliamo di un baby detenuto statunitense, che domenica sera ha ucciso sua madre con un colpo di fucile alla testa. Non bastasse l’orrore legato al gesto (dopo il quale è andato da un vicino e gli ha detto di chiamare la polizia), è arrivato anche il doppio orrore, ovvero quello di vedere un bambino così piccolo, sì colpevole di un delitto atroce (ha confessato), incatenato davanti al giudice e con la tuta arancione riservata ai detenuti. Sua madre, Deborah McVay’s, 46enne, viveva con lui e gli altri due figli, uno di 21 anni e una di 15.