Giustizia: da Strasburgo è in arrivo una “stangata” per lo sfascio delle nostre carceri di Giacomo Russo Spena Il Riformista, 5 gennaio 2011 Più di mille ricorsi alla Corte europea dei diritti dell’uomo per “trattamento inumano e degradante”. Presentati da detenuti, reclusi nelle carceri nostrane. Una notizia che rinvigorisce quella parte politica che in queste ore sta facendo quadrato intorno a Lula e alla sua decisione di non estradare l’ex terrorista Cesare Battisti per non relegarlo nelle galere italiane. “Celle strapiene, condizioni igienico-sanitarie pessime, assenza di spazi e ore di svago. Il reinserimento professionale e sociale? Un miraggio. I penitenziari italiani sono incivili e illegali. Il sovraffollamento disumano”, dichiara la deputata radicale Rita Bernardini. “Far stare - aggiunge - detenuti in cella ventidue ore al giorno senza dar loro la possibilità di lavorare per poter guadagnare e costruirsi un’opportunità per quando escono, non corrisponde a criteri di giustizia”. L’articolo 27 della Costituzione, che stabilisce la presunzione d’innocenza fino a condanna definitiva, l’umanità e il fine rieducativo delle pene, rimane un sogno irrealizzabile per la maggior parte dei reclusi. E ora c’è il fantasma di Izet Sulejmanovic che aleggia per il Ministero della Giustizia, pronto a mettere mano al portafogli in caso di nuove condanne. Sono infatti più di mille i ricorsi fatti dai detenuti, rinchiusi nei nostri penitenziari, alla Corte europea per i diritti dell’uomo che nell’estate 2009 ha sanzionato l’Italia a risarcire proprio il bosniaco per essere stato costretto, durante la sua detenzione nel carcere romano di Rebibbia, a vivere in uno “spazio personale” inferiore ai tre metri quadrati. Risarcimento quantificato in mille euro per “trattamento inumano e degradante” che viola l’articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo. La vivibilità minima si misura in termini di spazi assegnati a ogni detenuto, sulla carta sette ma Strasburgo condanna nel caso non si arrivi nemmeno alla soglia di tre, tempo quotidiano che si può trascorrere fuori dalla cella e accesso alla luce e all’aria. Il precedente di Sulejmanovic ha fatto scuola nelle carceri italiane, dove la situazione dall’estate 2009 è solo che peggiorata. In primis il problema del sovraffollamento: i reclusi hanno superato da poco la soglia dei 69mila, di fronte ad una capienza di posti letto di 44.874. Mai così tanti dal ‘45 ad oggi. I tossicodipendenti sono quasi 20mila, mentre gli immigrati sono circa 26mila. Poco meno del 50 per cento quelli in attesa di giudizio. In base ai dati Istat, il picco del sovraffollamento è in Emilia Romagna dove sono 188 i detenuti ogni 100 posti letto, mentre si sta meglio nei penitenziari della Sardegna dove la media scende a 118. E la popolazione carceraria cresce di 400 unità al mese. “L’attuale gestione del sistema penitenziario è fuori legge, per la giustizia e la legalità non ci resta che appellarci all’Europa” sentenzia Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. Una delle associazioni che dopo il caso di Sulejmanovic si è messa a disposizione dei detenuti per organizzare i ricorsi. Le altre principali sono Ristretti Orizzonti e il Comitato radicale per la giustizia Piero Calamandrei. La Corte dovrebbe esprimersi entro gennaio e si rischia che per l’Italia non arrivino buone notizie: Sulejmanovic è stato risarcito con mille euro per una detenzione di soli cinque mesi, tra i ricorrenti adesso ci sono persone in cella da anni e anni. Il governo potrebbe arrivare a pagare anche un milione di euro. “E non tutti i detenuti si appellano a Strasburgo perché hanno paura di ritorsioni”, fanno sapere ancora i radicali. Secondo i calcoli delle associazioni ben l’80 per cento dei reclusi potrebbe appellarsi alla Cedu perché soggiorna in condizioni non idonee alla Convenzione Europea. Nelle grandi città si vivono le realtà più difficili: Regina Coeli a Roma, Poggio Reale a Napoli, San Vittore a Milano, Ucciardone a Palermo, solo per citarne alcuni. Intanto, come riferisce il Dap, il piano di edilizia penitenziaria per la costruzione di nuovi padiglioni, all’interno di carceri già esistenti, e di nuovi istituti entro fine 2012 (per un totale di 17.891 posti in più e un costo complessivo di 1 miliardo e 600 milioni di euro) è in forte ritardo per la mancanza di copertura finanziaria. In attesa del prossimo ricorso perso a Strasburgo. Giustizia: ministro Alfano… se ci sei, batti un colpo di Valter Vecellio Notizie Radicali, 5 gennaio 2011 Ieri le manifestazioni davanti l’ambasciata e i consolati brasiliani per protestare contro la mancata estradizione di Cesare Battisti, il terrorista dei Proletari Armati per il Comunismo, condannato a quattro ergastoli per altrettanti delitti. Due ergastoli sono sicuramente meritati, essendo responsabile Battisti di almeno due delitti; i fatti sono relativi a vicende di venti e passa più anni. Battisti tutto questo tempo ha vissuto a Parigi, poi si è rifugiato in Brasile; e il Brasile appunto ha negato l’estradizione. Comprensibile lo sdegno e la protesta dei familiari delle vittime; soprattutto il centro-destra cavalca il sentimento di indignazione, ieri alle manifestazioni c’era tutto il fior fiore del Pdl, lo stesso Silvio Berlusconi è sceso in campo, anche se ha avuto cura di dire che i nostri rapporti con il Brasile non cambiano. In effetti con il Brasile abbiamo rapporti commerciali per milioni e milioni di euro, Fiat, Finmeccanica, Impregilo, Telecom, centinaia di ditte lombarde...Solo un tipo come il ministro Ignazio La Russa poteva ipotizzare che questi affari potessero essere pregiudicati. Finirà tra qualche giorno, e finirà in niente, per quanto amaro e irritante la cosa possa essere. Del resto, chi sostiene che bisogna fare qualcosa dovrebbe anche dire che cosa si può fare. Il Brasile si giustifica con quella che ha il sapore di una foglia di fico, e cioè che nelle carceri italiane non verrebbe garantita l’incolumità a Battisti. È un po’ il bue che dà del cornuto all’asino, perché le carceri brasiliane insomma non è che siano sul tipo di quelle scandinave, se avete qualcuno a cui augurare molto male, augurategli di finire in una cella brasiliana. Però questa obiezione di consente di sollevare una questione che viene da tutti ignorata, e in primo luogo da coloro che si dicono molto indignati per l’ingiustizia commessa dal Brasile. Di quello che succede nelle carceri italiane, dove ogni giorno si muore, i La Russa e i Maurizio Gasparri, i Fabrizio Cicchitto e le Daniele Santanché, i Lorenzo Cesa e gli Antonio Di Pietro, se ne fregano; e se ne frega anche il ministro della Giustizia Angiolino Alfano. Nelle carceri italiane, si diceva, si continua a morire. Per esempio a Lecce, nel 2010, si sono verificati cinque decessi (due per suicidio), mentre negli ultimi 5 anni hanno perso la vita 17 persone, delle quali 7 si sono suicidate. E siamo già al primo decesso del 2011: un detenuto foggiano, si chiamava Salvatore Morelli, 35 anni, è stato trovato morto all’alba del primo giorno del 2011 nella sua cella. A stroncargli la vita, probabilmente, un infarto. Morelli era affetto da patologie preesistenti legate a problemi cardiocircolatori. Inoltre era obeso. Una situazione clinica che lo costringeva a recarsi quasi ogni giorno presso l’ospedale di Lecce. La situazione del carcere è ben descritta da alcuni dati diffusi dal sindacato Uil Penitenziari: Capienza regolamentare: 680; Detenuti presenti: 1.449; Ricorsi al Magistrato di Sorveglianza c/o Tribunale di Lecce per ingiusta detenzione: 187; Ricorsi alla Commissione contro la Tortura della Corte di Strasburgo: 47; Tentati suicidi (con lettera d’addio): 41; Invii con estrema urgenza al Pronto soccorso per eventi critici: 937; Detenuti stranieri: 382; Detenuti tossicodipendenti: 253; Detenuti affetti da Epatite C: 361; Visite mediche eseguite giornalmente: 80; Detenuti affetti da patologie ansioso-depressive: 90; Detenuti affetti da patologie psicotiche: 40%; Detenuti che fanno uso di ansiolitici: 90%. Una situazione limite, ma che è anche il paradigma di quello che accade un po’ ovunque. Ecco, piacerebbe che molti di coloro che si infiammano sul caso Battisti, si occupassero anche di queste violazioni, di queste illegalità, che non sono meno gravi e inquietanti. E piacerebbe che un decimo dello spazio mediatico riservato al caso Battisti venisse riservato alle condizioni delle carceri italiane. Invece no, e quando, per esempio, Marco Pannella, Rita Bernardini e altri dirigenti radicali vanno a Capodanno al carcere di Padova e di Bologna, non ne parla nessuno o quasi. Quanto al ministro della Giustizia Alfano, sembra non esserci; se c’è, sembra dormire. Se non dorme, resta a guardare…C’è chi lo indica come il possibile successore di Berlusconi. In effetti ha delle ottime possibilità. Giustizia: il ddl Alfano non serve… ecco come si svuotano le carceri di Adriano Sofri Il Foglio, 5 gennaio 2011 L’ultimo morto in galera del 2010 si chiamava Rambo Djurjevic, era un rom di 24 anni. Recluso a Roma, Rebibbia Nuovo Complesso, sarebbe stato scarcerato fra soli cinque mesi. Si è impiccato a una striscia di lenzuolo. 66 suicidi ufficiali, con lui, nell’anno. Due giorni prima era morto nel carcere di Sanremo, per cause che spiritosamente diremo naturali, Fernando Paniccia, 27 anni. Gli restava un “solo” anno da scontare. “Invalido al 100 per cento, affetto da ritardo mentale, epilettico e semiparalizzato, pesava 186 chili. Era entrato in carcere per la prima volta a 19 anni, per il furto di 3 palloni di cuoio in una palestra. La sua capacità di comprensione era quella di un bambino di tre anni”. Un altro detenuto cardiopatico era morto in cella a Larino il 29 dicembre. All’alba di Capodanno, il primo morto in galera del 2011: Salvatore Morelli, 35 anni, in una cella del carcere di Lecce; era anche lui cardiopatico e obeso. Usciva scortato ogni giorno alla volta dell’ospedale locale: poi lo riportavano dentro, a morire. Peccato per le statistiche. A Lecce i detenuti sono 1.449 su una capienza di 680. Pannella, Bernardini e altri esponenti radicali hanno trascorso la notte e il giorno di Capodanno nelle prigioni: per loro è un’abitudine, dunque doppiamente meritoria. A Pisa, dove a ogni Natale i miei amici comprano (a prezzo di costo, grazie alla Coop di Cascina) un panettone a ogni detenuto, quando io entrai in galera, tredici anni fa, occorrevano 210 panettoni. Quest’anno se ne sono dovuti comprare 420. Solo che al momento di distribuirli i detenuti erano diventati 421. Sia dedicata, la piccola posta di oggi, al quattrocento ventunesimo detenuto, quello senza panettone (in pratica ne avrà fatto indigestione: i compagni di galera sono generosi), milite ignoto della Grande Guerra carceraria. Giustizia: Carmelo Castro, il caso non è chiuso di Patrizio Gonnella Il Manifestodi , 5 gennaio 2011 Incensurato, solare, con meno di vent’anni, da poco rientrato dalla Germania dove era andato a cercare lavoro e fortuna, Carmelo Castro viene coinvolto in una piccola storia criminale nella sua Sicilia. Il 24 marzo 2009 alle ore 14.00 i carabinieri lo portano prima nella caserma di Biancavilla, poi in quella di Paternò vicino Catania. La sorella Agatuccia lo segue disperata. L’accusa è quella di aver preso parte, insieme ad altre due persone, a una rapina. Si sarebbe prestato a fare il palo. Agatuccia, insieme ad altre due donne, lo raggiunge a Paternò. I militari non le fanno vedere il fratello. Loro, testarde, si piazzano in una stanzetta. Lì hanno modo di sentire le urla e i pianti di Carmelo. Agatuccia ci riprova e tenta di andarlo a vedere. Viene fermata ancora una volta da un carabiniere. Passano cinque ore, sono le 7 di sera e un carabiniere le invita ad andarsene. Loro si piazzano nel giardinetto antistante la caserma. Passa un quarto d’ora e lo vedono uscire. Dicono che hanno visto una faccia gonfia e “pestata”. Agatuccia urla ai Carabinieri: “cosa gli avete fatto?” Carmelo Castro alle 2 di notte del 25 marzo finisce in galera a Piazza Lanza. Così iniziano tre giorni di buio carcerario. Il 28 marzo a un orario imprecisato della tarda mattinata, racconta la “versione ufficiale”, il ragazzo si sarebbe suicidato attaccando il lenzuolo allo spigolo della branda della sua cella. In quei giorni ai familiari viene impedito di incontrarlo, di comunicare con lui in qualsiasi modo. Lo rivedranno cadavere. Avranno la notizia della morte tre ore dopo il decesso. Una volta incarcerato, Carmelo Castro è messo in isolamento. Non si capisce, perché non ve ne è traccia negli atti di indagine, se l’isolamento sia stato disposto dal giudice: sta di fatto che viene disposto. Nel frattempo psicologi ed educatori accertano che ha bisogno di sostegno in quanto “fortemente provato dalla detenzione”. A loro dice che “da tempo vive in una condizione di assoluta paura”. Eppure viene lasciato solo in cella con lenzuola a disposizione per impiccarsi. Tenere in isolamento una persona a rischio di suicidio è gravissimo e colpevole. Il 28 marzo alle 9 e 30 un agente lo trova “tranquillo e sereno”. Alle 12 e 20 l’assistente capo di turno va a farsi un giro nel reparto e lo trova “all’impiedi con il lenzuolo in dotazione attorniato al collo con un nodo”. Lo lascia lì impiccato e va a chiamare aiuto. Il medico interviene alle 12.35. Il verbale del pronto soccorso segna le 12. 30 come orario dell’arrivo del cadavere di Carmelo Castro. Orari fra loro contradditori. Dalla documentazione carceraria parrebbe che l’ultimo ad averlo visto in vita sia stato l’agente di sezione alle 9.30. Ma l’autopsia rileva che Castro aveva mangiato pochi minuti prima di morire. Alle 11 e 30 gli era stato portato il pranzo (carne con patate) dal detenuto porta vitto e lui lo aveva mangiato tutto. Qualcuno con la divisa deve avergli aperto la cella. Pochi minuti dopo, a pancia piena, si sarebbe ammazzato impiccandosi alla spalliera di un letto alto 170 centimetri. Lui che era alto 175 centimetri. Su tutta questa storia - dal presunto pestaggio alla morte in carcere - le indagini della magistratura sono state del tutto lacunose. A luglio 2010 il caso è stato archiviato senza che i giudici abbiano mai sentito la sorella di Castro, l’ultimo agente che lo ha visto in vita, l’assistente che lo ha trovato morto (che fra l’altro dopo un anno e mezzo avrebbe a sua volta tentato il suicidio), il detenuto che gli ha portato il pranzo, psicologi, psichiatri ed educatori che hanno ascoltato e documentato le sue preoccupazioni. Il caso è stato chiuso senza aver acquisito il registro delle visite mediche di primo ingresso, dal quale avrebbero potuto risultare eventuali segni di violenze subite, senza aver verificato il perché Castro era preoccupato e impaurito, senza aver sequestrato la cella, senza aver accertato come mai un detenuto a rischio di suicidio fosse stato lasciato solo con un lenzuolo in dotazione. Tutto questo è successo nella terra del ministro della Giustizia Angelino Alfano. La madre e la sorella di Carmelo Castro non hanno una loro verità, ma vogliono giustizia. Per questo va riaperta l’inchiesta. Per questo, insieme con “A Buon Diritto”, abbiamo presentato un esposto alla Procura, che finora ha indagato in modo che potremmo definire burocratico. Se il caso dovesse restare chiuso ci rivolgeremo ai giudici europei. In ogni caso ci attendiamo che l’amministrazione penitenziaria avvii una sua inchiesta per capire come può accadere che un ragazzo di 19 anni senza precedenti si impicchi in isolamento nonostante avrebbe dovuto essere controllato a vista. Giustizia: Sappe; inaccettabile l’idea che nelle carceri ci sono violenze sistematiche Il Velino, 5 gennaio 2011 “Abbiamo tutti il massimo rispetto umano e cristiano per il dolore dei familiari dei detenuti che nel corso degli anni sono deceduti in carcere. Ma non possiamo accettare una falsa rappresentazione delle carceri italiane come luogo fuori dalle regole democratiche e dal rispetto dei diritti umani in cui quotidianamente e sistematicamente avverrebbero violenze in danno dei detenuti ed ogni decesso è quindi sospetto. Non accettiamo che al duro, difficile e delicato lavoro che quotidianamente le donne e gli uomini della Polizia penitenziaria svolgono con professionalità, zelo, abnegazione e soprattutto umanità vengano associati i terribili vocaboli di violenza, indifferenza, cinismo e omertà. E non lo accettiamo soprattutto se il comprensibile dolore di una madre per il suicidio in carcere del figlio, nel marzo del 2009, viene oggi strumentalizzato da alcune corporazioni per i diritti dei detenuti. Nessuno può dare giudizi superficiali o attribuire frettolosamente responsabilità senza alcuna prova: è la Magistratura che deve accertare - e lo farà come sempre con serenità, equilibrio e pieno rispetto dei valori costituzionali - gli elementi di cui è in possesso quando si verificano in carcere questi tragici eventi critici. Ma è invece importante per il Paese conoscere il lavoro svolto dai poliziotti penitenziari, è importante che la Società riconosca e sostenga l’attività risocializzante della Polizia Penitenziaria e ne comprenda i sacrifici sostenuti per svolgere tale attività, garantendo al contempo la sicurezza all’interno e all’esterno degli Istituti. Il nostro Corpo, a Catania Piazza Lanza come negli altri oltre 200 penitenziari italiani, è costituito da persone che nonostante l’insostenibile, pericoloso e stressante sovraffollamento credono nel proprio lavoro, che hanno valori radicati e un forte senso d’identità e d’orgoglio, e che ogni giorno in carcere fanno tutto quanto è nelle loro umane possibilità perché nessuno perda la vita, sventando ogni anno centinaia e centinaia suicidi di detenuti (quasi mille all’anno!)”. È quanto dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa organizzazione dei Baschi Azzurri, in relazione alla conferenza stampa tenuta ieri a Catania da alcune Associazioni dei detenuti e dai familiari di Carmelo Castro, un ragazzo di 19 anni morto suicida nel carcere catanese di Piazza Lanza il 28 marzo del 2009. “Noi, che rappresentiamo il primo e più rappresentativo Sindacato della Polizia Penitenziaria, siamo i primi a sostenere che il carcere deve essere una casa di vetro, proprio perché non abbiamo nulla da nascondere. Ma non è accettabile il gioco al massacro dell’onorabilità della Polizia penitenziaria e dei suoi appartenenti. Ci offendono le sollecitazioni a fare piena luce su alcune morti avvenute in carcere quasi a instillare il dubbio (a gente che nulla sa di carcere e delle reali dinamiche penitenziarie) che questi tragici eventi fossero stati seguiti e gestiti con leggerezza e disinteresse o, peggio ancora, con omertà. Ed è sconfortante e squalificante che vi sia chi tenti di mettere etichette sul dramma ed il dolore di tante famiglie”. Giustizia: caso Battisti; perché il Brasile non ha torto a diffidare della giustizia italiana di Lanfranco Pace Il Foglio, 5 gennaio 2011 Tutto sommato il più sobrio è stato Frattini: il ministro degli Esteri ha provato, senza successo, a fare piedino a Dilma Rousseff, ha annunciato un ricorso inutile all’Alta corte brasiliana e successivamente un altro, altrettanto inutile, al Tribunale dell’Aja. Altri ministri e dirigenti politici invece si sono messi a farla fuori dal vaso, allegramente. Alcuni parteciperanno oggi alla manifestazione indetta dai famigliari delle vittime davanti all’ambasciata brasiliana, dimenticando che sono pur sempre membri di un governo della repubblica italiana e che il Brasile rimane, fino a prova contraria, un grande paese amico. Altri chiedono ritorsioni, niente di meno che commerciali, un must per la nostra economia e per i tempi che corrono. Italo Bocchino che da quando ha mancato la spallata, invece di tuonare non riesce ad andare oltre al sapido ruttino all’aglio, ha intimato al premier di volare a Brasilia e minacciare la fine delle relazioni commerciali tra i due paesi, senza “portarsi dietro i calciatori brasiliani del Milan come fece l’altra volta”. Bossi vuole che anche il pur minimo chiodo made in Brazil rimanga invenduto, se ne stia a marcire nei retrobottega padani. Altri vogliono che siano boicottati libri, film e dischi di coloro che hanno firmato per la liberazione di Battisti, bei nomi non c’è che dire, da Vauro a Fred Vargas e Bernard-Henri Léyy. Non si trattasse del solito palazzo en-folie, ci sarebbe da preoccuparsi. Nessuno che abbia il coraggio di ricordare che il Brasile non è il solo paese ad averci sbattuto la porta in faccia, che ci sarà pure un perché se Gran Bretagna, Canada, Svezia, Nicaragua, Algeria, Grecia, Svizzera, Giappone ci hanno detto di no, se la Francia, primo paese a dare accoglienza ai rifugiati degli anni di piombo, ha rifiutato nove richieste di estradizione su dieci, e per quella concessa ancora chiede perdono al mondo, se ci hanno detto di no paesi di consolidata democrazia o repubbliche dall’incerto diritto, se la decisione ci è stata sfavorevole a volte anche in deroga a trattati o convenzioni bilaterali, o grazie a interpretazioni forzate, capziose, come quel riferimento all’aggravarsi delle condizioni personali che pare abbia motivato la decisione dell’ex presidente Lula. C’è una costante nella reazione di questi paesi: quando vedono arrivare dall’Italia le richieste di estradizione si mettono le mani nei capelli. Nemmeno nel sangue riusciamo a scrollarci di dosso l’immagine di interessati costruttori di arzigogoli e cavilli. Non si è mai trattato da parte degli altri paesi di stabilire se gli assassini siano simpatici o meno, pentiti o meno del loro crimine. Ma solo se l’ordinamento italiano sia compatibile con l’idea che hanno di ordinamento democratico, se vi siano stati eccessi di legislazione speciale, se i processi avvengano in tempi ragionevoli, dando tutte le garanzie agli imputati, se i tribunali siano giusti, le condanne motivate da prove che non siano solo circostanziali, le sentenze scritte in modo chiaro. Infine se i detenuti non siano passibili di regimi speciali particolarmente punitivi. Così non è, ancora, in Italia. Allora con chi ce la prendiamo? Giustizia: Cesare Battisti e un Paese che non sa più pensare www.linkontro.info, 5 gennaio 2011 Mai fatto più emblematico poteva segnare l’inizio mediatico di questo 2011. Se l’anno vecchio si chiudeva con i telegiornali che mattina e sera arrivavano sulla palestra da cui era scomparsa una povera ragazzina piccola, adesso si accalcano sulle dichiarazioni di questo e quel politico riguardo la mancata estradizione brasiliana per Cesare Battisti. Quasi nessuno pensa, tutti dichiarano. Eppure poteva essere un’occasione per ragionare su tanti aspetti della nostra storia recente. Perché un Paese niente affatto ostile come il Brasile dovrebbe negarci un nostro condannato? Come vede il mondo la giustizia italiana? E come vede il modo in cui sono stati affrontati gli eventi degli anni Settanta? E perché lo vede così? E quale soluzione abbiamo noi da proporre, oggi che l’attualità è sempre meno, la storia sempre più, e che il tempo avrebbe dovuto lasciarci elaborare strumenti di comprensione nuovi di quei fatti? E perché di tutte queste domande restano, nei politici di oggi, solo granitiche risposte? Il 2011 si apre con uno scenario emblematico, quello di una classe politica incapace perfino di scorgere un’occasione per ragionare, di accorgersi che l’attualità la sta proponendo. Abdicando al pensiero, usando lo spazio di comunicazione del quale dispongono per gridare più forte degli altri le parole comuni a tutti. Non è molto che si auspica un’unità nazionale che ci liberasse dal berlusconismo. Nel suo senso più autentico, poteva evocare la libertà da una politica disonesta, da un governo complice nei migranti morti ammazzati, da un’idea di società meschina e non solidale, dalla confusione tra essere felici ed essere grettamente potenti. Niente di questo, per una classe politica incapace di riflessione. Oggi si chiede l’unità di maggioranza e opposizione di fronte al terrorista Battisti. La chiede più di tutti il giustiziere Di Pietro, nato in politica nella sola opposizione a Berlusconi. Le grida contro un evento marginale e privo di ogni ricaduta concreta valgono di più dell’opposizione allo sfacelo reale in cui ci hanno precipitato. Una classe politica incapace di ragionare, intellettualmente disonesta e anche un tantino stupida. Giustizia: a Napoli baby rapinatore in fin di vita, colpito alla testa da un agente La Repubblica, 5 gennaio 2011 È in coma irreversibile Anthony, il rapinatore di diciassette anni ferito alla testa da un poliziotto mentre cercava di prendere l’incasso di una tabaccheria in via Cirillo, nel centro di Napoli. I medici non gli danno alcuna speranza di salvezza e non lo hanno operato per estrarre il proiettile entrato nella tempia. I fatti, accaduti lunedì sera prima delle otto, sono stati ricostruiti agli investigatori della squadra mobile dal titolare della tabaccheria e dai suoi genitori che si trovavano nel negozio. Anthony - un fratello ammazzato dalla camorra un anno fa, quando anche lui era minorenne, e il padre ucciso da un carabiniere durante una rapina - è piombato nella tabaccheria con un complice. I due hanno chiesto il denaro, ma dal retro del bancone il cane Nancy del negoziante, un rottweiler, gli si è avventato addosso ringhiando. A questo punto il giovane bandito ha sparato colpendo il cane alla testa (l’animale è stato operato ieri e si salverà). In quel momento nella tabaccheria stava entrando il poliziotto della squadra mobile in borghese che si è qualificato intimando ai malviventi di fermarsi, ma Anthony ha puntato l’arma contro il titolare della rivendita. L’agente ha dunque sparato conia sua pistola di ordinanza. Il ragazzo è stato ferito gravemente, solo un colpo di striscio alla gamba per il suo complice Alessandro Diana (medicato e già trasferito al carcere di Poggioreale) che intanto ha lanciato un mini frigorifero contro la divisa. Legittima difesa, per gli inquirenti. L’agente non è al momento indagato. “Spero che quel ragazzo si salvi - dice ora il titolare della tabaccheria, Raffaele Aliperta, ancora sotto choc dopo essersi visto puntare una pistola addosso. Siamo dei miracolati grazie a quel poliziotto. Lo abbiamo abbracciato per fargli capire quanto lo ringraziamo”. Spiega inoltre Aliperta: “Abbiamo subito altre rapine e il nostro rottweiler ci ha sempre salvato ringhiando. Ma nessuno era mai arrivato a sparare. Comunque non compreremo una pistola. Siamo convinti che chi ha un’arma la usa, prima o poi”. Sull’altro fronte i familiari di Anthony. Il nonno Ciro: “Mio nipote sarà stato coinvolto da qualcuno, trascinato da cattive compagnie, perché nonostante i suoi diciassettenne anni ha sempre lavorato. Il mio Anthony è stato raggiunto da un colpo alla testa senza che abbia avuto la possibilità di difendersi. Prima ho perso mio figlio, poi il fratello maggiore di Anthony, il primogenito che portava il mio stesso nome, un anno e mezzo fa. Adesso mio nipote è in coma. In questa città per gente come noi, non e ‘è più speranza. Si muore e basta”. Giustizia: la madre di Anthony: gente come noi può solo morire… di Giuseppe Crimaldi Il Mattino, 5 gennaio 2011 Dicono che una mamma non sopravvive alla perdita di un figlio. Vero. Non ce la fa, una madre. E comincia a morire piano piano, scontando un supplizio interiore lento e inesorabile, un dolore che ti scava dentro e aumenta giorno dopo giorno, perché il passare del tempo certe situazioni non le ammorbidisce, semmai è vero il contrario: le esaspera. Stefania Fontanarosa aveva già dovuto fare i conti con la morte di Ciro, “giustiziato” dai suoi stessi amici perché si era rifiutato di entrare nel sistema, i Bosti lo volevano camorrista e lui aveva detto no; lo ammazzarono come si fa con i boss, un’esecuzione in piena regola. A deciderla - questo ricostruiscono le carte di un’inchiesta della Direzione antimafia - fu Ettore Bosti, che volle anche dimostrare al quartiere e alla camorra di essere diventato a pieno titolo l’erede del padre Patrizio, forse anche per questo fu lui stesso a premere il grilletto, la sera del 25 aprile del 2009. Oggi Stefania perde un secondo figlio quell’Anthony che l’altra sera si era imbucato in una tabaccheria a due passi da Porta Capuana con una pistola in mano per fare una rapina. La pistola era vera, autentico era pure l’agente in borghese che ha sventato il colpo, sparando al ragazzo ancora minorenne e al suo complice diciottenne. Anthony come Ciro, dunque. Vite bruciate. C’è un destino ineffabile per certi giovani della malanapoli, una strada senza uscita al termine delia quale arriva il più tragico dei conti da saldare. È la strada percorsa già anni prima dallo stesso padre di Anthony, freddato dall’arma di un carabiniere mentre cercava di mettere a segno una rapina in un ufficio postale. Destini maledetti. Per quarantotto ore l’ospedale Loreto Mare - dove il ragazzo è stato ricoverato - è stato meta di decine di amici e parenti. Rabbia e disperazione sui loro volti: “Che motivo c’era di sparargli alla testa?”, urla qualcuno. Altissima tensione. C’è pure chi invoca giustizia: “Ora quel poliziotto deve pagare”, dimenticando probabilmente che tutto questo non sarebbe accaduto se lunedì sera i due baby rapinatori avessero preso un’altra strada, invece di dirigersi verso via Domenico Cirillo. Ma il rancore è un fiume in piena che cresce di ora in ora. Parla alle telecamere di una tv locale anche Ciro Fontanarosa, il nonno di Anthony: “Mio nipote sarà stato coinvolto da qualcuno, sicuramente trascinato da cattive compagnie perché, nonostante i suoi 17 anni, ha sempre lavorato. Anthony è stato raggiunto da un colpo alla testa senza che abbia avuto la possibilità di difendersi”. “Mio nipote ha sempre lavorato - insiste il nonno -In pizzeria come cameriere, in un bar come garzone; ha fatto anche l’ambulante, vendeva calzini, biancheria intima. Non so perché sia successo tutto questo ma ora la mia è una famiglia senza più pace. Non metto in dubbio che mio nipote abbia sbagliato ma so che gli hanno sparato alle spalle e chiedo quindi che venga fuori la verità”. Ciro ricostruisce le tragedie di una vita difficile: “Prima ho perso mio figlio, poi il fratello maggiore di Anthony, il primogenito che portava il mio stesso nome, un anno e mezzo fa adesso mio nipote è in coma. In questa città per gente come noi, non c’è più speranza. Si muore e basta”. E forse questa è la sintesi più adeguata per la vicenda. Lettere: l’obiettivo finale è la rieducazione, non dobbiamo dimenticarlo di Benedetta Guerriero Il Giorno, 5 gennaio 2011 Troppi sono coloro che ignorano le reali condizioni in cui vivono i detenuti e che si sono dimenticati quello che dovrebbe essere il vero obiettivo dell’istituto carcerario, ossia la rieducazione. Emergenza carceri. Un’espressione che ormai da diversi anni risuona nelle sale dei principali talk-show televisivi. Un problema che l’anno scorso ha costretto il ministro della Giustizia Angelino Alfano a dichiarare lo stato d’emergenza e ad approvare un Piano carceri per tentare di risolvere l’annoso problema. Un provvedimento che introduce un maggior ricorso alle misure cautelari e che da alcuni esponenti della maggioranza è stato duramente criticato in quanto eccessivamente garantista. Troppi, però, sono coloro che ignorano le reali condizioni in cui vivono i detenuti e che si sono dimenticati quello che dovrebbe essere il vero obiettivo dell’istituto carcerario, ossia la rieducazione. Un obiettivo che, tuttavia, salvo rarissimi casi, viene perseguito dai responsabili delle strutture penitenziarie. Non è più un mistero che quanti trascorrono lunghi periodi in carcere, escono e tornano a delinquere. A questo punto più che costruire nuove carceri, come previsto dal Piano del ministro della Giustizia, verrebbe spontaneo interrogarsi sul senso e sul ruolo dell’istituzione carceraria in questo momento storico. Partendo dal presupposto che chi sbaglia è giusto che venga punito, vale la pena chiedersi se è giusto lasciare una persona a vegetare in una struttura sovraffollata e in condizioni igienico-sanitarie deficitarie. Se l’istituzione carceraria ha fallito nel suo obiettivo primario che è la rieducazione, avrebbe senso fermarsi e ripensare il ruolo e la funzione di questa struttura. In molti Paesi europei, ad esempio, è sempre più frequente il ricorso alle pene pecuniarie che, se applicate in maniera adeguata, permetterebbero non di svuotare le carceri, ma di reperire nuovi fondi per sanare il sistema. Lettere: agenti e detenuti… convivere si può di Edoardo Scandella La Provincia Pavese, 5 gennaio 2010 Mi chiamo Edoardo Scandella, ho cinquant’anni, di cui 17 trascorsi in 43 Istituti di pena diversi. Dall’estero ricevo in continuazione lettere, ove traspare con evidenza che i detenuti vengono solo percossi o maltrattati da parte della Polizia penitenziaria, facendo così abuso della loro divisa, così come del loro potere. Posso assicurare, con totale imparzialità e coerenza, che al giorno d’oggi non si può assolutamente dipingere un quadro simile. Alla Casa Circondariale di Pavia ad esempio, ove mi trovo attualmente detenuto, nessuno può dire di essere maltrattato e/o percosso in alcun modo, il corpo della Polizia Penitenziaria è costituito da professionisti con un altissimo senso d’umanità. Si sa un carcere è pur sempre un carcere, c’è quello più duro e quello meno duro, ma non dimentichiamo che ci siamo arrivati noi, soli, e con le nostre gambe. Anche in merito ai continui suicidi dei detenuti: sono tanti, troppi purtroppo, ma quanti suicidi in più ci sarebbero stati senza il tempestivo intervento degli agenti di Polizia penitenziaria? Non voglio far apparire loro solo come dei santi, non tutti almeno: come in ogni comunità, c’è pur sempre una minima parte che svolge questo lavoro con pregiudizi. Non è comunque facile dover svolgere una giornata lavorativa come la loro, soprattutto con il sovraffollamento delle carceri che è sempre in aumento. Anche per loro il carcere è ormai diventata la loro casa, senza contare che vengono in continuazione presi a parole, a volte con veri insulti ed offese. Anche i detenuti sono cambiati, questo è forse il nostro problema più grande oggi: non siamo più uniti, non ci si può più fidare l’uno dell’altro. Noi siamo tenuti a scontare le nostre condanne per i nostri errori commessi, loro non hanno la minima possibilità di reinserirci nella società non avendo né i mezzi, né le possibilità, vuoi per il sovraffollamento, vuoi perché gli educatori non riescono o non vogliono seguirci come ci spetterebbe. Non dimentichiamo la Magistratura di sorveglianza: come tutti sappiamo, a Pavia ti devi scontare tutta la tua pena sino all’ultimo giorno. Il carcere, i detenuti, sono una cosa sola, un enorme tumore che nessuno cerca di guarire, senza però contare che coloro che continuano a essere dipinti come i nostri carcerieri, sì, anche loro sembrano essere sempre più dimenticati, e costretti quotidianamente a svolgere un compito che diventa sempre più difficile. Mi permetto di aggiungere che se nelle carceri oggi, nonostante un sovraffollamento mai registrato nella storia italiana, non ci siano state rivolte, non è certo merito dello Stato, bensì del corpo della Polizia penitenziaria che ha imparato a dialogare con noi. Siracusa: muore detenuto marocchino di 35 anni, indagini in corso per stabilire le cause Ristretti Orizzonti, 5 gennaio 2011 S.H., detenuto di 35 anni, muore nel pomeriggio di lunedì 3 gennaio. Si tratta del secondo “morto di carcere” dopo quello di Salvatore Morelli, avvenuto nel carcere di Lecce il giorno di Capodanno. Da evidenziare che questa morte non entra nel computo degli “eventi critici” elaborato dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, che registra solamente le morti accertate dai sanitari all’interno degli Istituti di Pena... quindi chi supera il muro di cinta, anche se in coma, non è più “morto in carcere”. Nella Casa Circondariale di Siracusa l’ultimo decesso risaliva allo scorso 8 ottobre, quando un detenuto colombiano di 28 anni si uccise impiccandosi. Durante l’anno 2010 nell’Istituto sono avvenuti altri 3 suicidi, mentre è di 14 il totale delle morti registrate negli ultimi 5 anni (10 i suicidi). I posti-letto del carcere “Cavadonna” sono 309, ma attualmente i detenuti presenti sono 550, di cui 110 stranieri. La cronaca della tragedia La corsa a sirene spiegate dell’autoambulanza del 118 scortata dall’auto della polizia penitenziaria alla fine è risultata vana. Un detenuto extracomunitario rinchiuso nel carcere di contrada “Cavadonna” è arrivato cadavere al pronto soccorso dell’ospedale “Umberto I”. La vittima è un marocchino di 35 anni. Sull’intera vicenda massimo il riserbo degli inquirenti e degli investigatori. La Procura ha avviato una serie di accertamenti preliminari e, con ogni probabilità, già nella giornata di oggi il sostituto procuratore della Repubblica Claudia D’Alitto potrebbe anche disporre l’esecuzione dell’esame autoptico. Il fatto, secondo i pochi elementi noti, risale al tardo pomeriggio di lunedì scorso anche se la notizia è trapelata solamente ieri. Il detenuto sembra che abbia accusato un malore mentre era in carcere. Attivati i servizi sanitari di assistenza interni, constatato verosimilmente che la situazione non poteva certo essere gestita all’interno della struttura di detenzione, è stato disposto il trasferimento del detenuto all’ospedale generale provinciale. Ma quando i medici del pronto soccorso hanno provato ad intervenire c’è stato veramente ben poco da fare. Il cuore del marocchino si era fermato. Solo gli accertamenti medico-legali potranno consentire di fare luce sulle cause della morte. Pordenone: senza effetto decreto “svuota-celle”; in 10 hanno fatto richiesta, 2 scarcerati Il Gazzettino, 5 gennaio 2011 Sono 10 i detenuti che hanno chiesto di scontare l’ultimo anno di pena ai domiciliari. Per ora solo due sono tornati a casa. Ben poco per un carcere sovraffollato come quello di Pordenone. Non sarà il decreto “svuota-carceri” a risolvere i problemi di sovraffollamento della casa circondariale di Pordenone. Entrato in vigore il 16 dicembre il provvedimento riguarda soltanto 10 detenuti comuni che hanno ancora un anno di pena da scontare. Due - un italiano e uno straniero - hanno già lasciato il Castello e sconteranno il resto della pena agli arresti domiciliari. Le istanze presentate dagli altri otto non sono state ancora definite. Il magistrato di sorveglianza di Udine deve ancora ultimare l’istruttoria e quindi verificare se vi siano i requisiti previsti dalla legge, a cominciare dalla idoneità del domicilio. Se saranno tutte accolte, nella sezione dei reati comuni potrà esserci un po’ di spazio in più, ma non si potrà parlare di una ritrovata normalità. Attualmente nella struttura diretta da Alberto Quagliotto vi sono 83 detenuti, quando la capienza sarebbe di 68. I problemi maggiori si registrano proprio nella sezione in cui sono sistemate le persone che potrebbero beneficiare del decreto “svuota-carceri” (nell’altro settore sono sistemati i “protetti”, cioè coloro che scontano pene per reati di tipo sessuale). La linea seguita dal provvedimento è stata quella di consentire l’applicazione della detenzione domiciliare nei casi di minore gravità dei reati commessi e nell’ultimo anno di completamento del periodo di detenzione. Sono esclusi dal provvedimento i detenuti sottoposti al regime di sorveglianza particolare, i “delinquenti abituali, professionali o per tendenza”, colore che potrebbero approfittare della detenzione domiciliare per fuggire, chi potrebbe commettere ulteriori delitti e chi non dimostra di avere un domicilio adeguato. Lecco: carceri sovraffollate, anche Pescarenico scoppia Il Giorno, 5 gennaio 2011 Secondo i dati forniti dalla Federazione nazionale sicurezza della Cisl, la capienza regolamentale è pari a 54 unità, la massima tollerabile è di 60. Attualmente i detenuti rinchiusi a Lecco sono 65. Carceri che scoppiano. In Italia, come in Lombardia che a Lecco, dove la piccola casa circondariale di Pescarenico continua a riempirsi di detenuti. Rispetto alle condizioni degli altri penitenziari della regione, la situazione del capoluogo lariano può comunque essere considerata un’isola felice. Nella struttura di Pescarenico, secondo i dati forniti dalla Federazione nazionale sicurezza della Cisl, la capienza regolamentale è pari a 54 unità, la massima tollerabile è di 60. Attualmente i detenuti rinchiusi a Lecco sono 65, di cui il 45 per cento è costituito da stranieri, per un totale di 47 agenti penitenziari. “Cifre- ha detto Massimo Corti, segretario generale della Fns - che mostrano un quadro tutto sommato positivo. La capienza regolamentale delle carceri lombarde è di 5.662 unità, al momento i detenuti sono più di 9.845, di cui 4.200 sono stranieri. Se paragonati con questi numeri, è evidente che il contesto lecchese è più sano, anche se l’evasione della scorsa estate è spia di un sistema deficitario che inizia a vacillare. Non voglio fare polemica o dare colpe, ma è evidente che quando si lavora in emergenza, le disattenzioni e gli inconvenienti possono capitare con più facilità”. A questo proposito anche nel capoluogo lariano dovrebbe a breve divenire attiva la vigilanza dinamica. “Si tratta di un provvedimento - ha affermato sempre Corti - che entrerà in vigore nelle strutture penitenziarie dove sono rinchiusi detenuti che devono scontare pene per delitti considerati poco gravi. La figura dell’agente penitenziario assomiglierà sempre più a quella del vigile di quartiere che sorveglia vasti spazi e diverse persone. Così accadrà in carcere: i poliziotti dovranno svolgere più compiti in contemporanea, a discapito della sicurezza”. Sicurezza che spesso è oggetto delle campagne elettorali, ma che poi non viene perseguita concretamente. Durante i periodi festivi, come spiega sempre Massimo Corti, la situazione delle carceri diviene ancora più ingestibile tanto per i detenuti che per le guardie carcerarie. A Lecco durante le festività a causa della mancanza del personale molti servizi che vengono normalmente erogati sono stati soppressi. Non solo. I turni, che dovrebbero essere di sei ore, vengono allungati fino a otto ore. Se scatta l’emergenza, poi le ore aumentano e nel capoluogo lariano la polizia penitenziaria non gode di integrazioni da circa otto anni. Tutte queste mancanze hanno spinto gli agenti lecchesi ad aderire alla manifestazione che si svolgerà davanti alla prefettura di Milano. “È un’iniziativa - ha detto Corti - che è stata organizzata dagli agenti penitenziari della Lombardia, a cui aderiranno tutte le sigle sindacali”. Bocciate anche le condizioni igienico-sanitarie. Il commento del segretario generale della Fns non lascia spazio a giri di parole. “Se le Asl entrassero nelle carceri, nessuna struttura passerebbe l’esame. I detenuti continuano ad aumentare, i fondi vengono tagliati e le spese minime diventano un’emergenza. Sembra irreale ma anche il costo di una latta di vernice per imbiancare una parete incrostata diventa una spesa che non si può affrontare”. Sebbene manchino ancora i dati ufficiali, buone notizie potrebbero arrivare nel momento in cui verranno applicate le misure alternative contenuto nel Piano carceri del ministro della Giustizia Alfano che, nelle intenzioni, dovrebbe alleggerire i penitenziari. “A Lecco - ha concluso Corti - ci sono circa 40 definitivi, quindi sei o sette persone potrebbero usufruire del provvedimento”. Lucca: in 10 anni il 55% in meno di agenti, Polizia penitenziaria al collasso Il Tirreno, 5 gennaio 2011 Il cellulare arriva dal penitenziario di Massa per accompagnare un detenuto in attesa di processo rinchiuso nel carcere di San Giorgio al tribunale di via Galli Tassi. Centocinquanta metri che costano alla collettività migliaia di euro perché l’amministrazione penitenziaria deve far partire un mezzo con tre guardie carcerarie a bordo (autista, caposcorta, agente della sezione traduzioni) da un’altra provincia. Una situazione al limite del paradosso che si ripete ogni qualvolta il nucleo traduzioni del penitenziario lucchese praticamente ridotto all’osso - dai 6-7 elementi originari adesso sono rimasti in tre - non può ovviare da solo ed è costretto a chiedere supporto ai colleghi di Massa, Pisa, Firenze, Siena o Livorno. Se il caso di ieri mattina può essere ritenuto la punta dell’iceberg anche in considerazione delle festività natalizie e delle ferie da smaltire resta il cuore del problema: l’organico anacronistico della polizia penitenziaria lucchese. Dal 2000 ad oggi si registra il 55% in meno di agenti carcerari. Come sottolinea l’assistente capo e segretario del sindacato Sappe, Antonino Sodano, da anni in forza al carcere di San Giorgio: “Al di là della circostanza di ieri mattina - sostiene - le carenze di carattere generali sono gravissime. Anche nel 2010 sono andati in pensione 5-6 agenti che non sono stati sostituiti. Negli ultimi 10 anni circa 60 colleghi hanno lasciato il servizio per raggiunti limiti di età, per problemi di salute o perché trasferiti in altri istituti di pena senza che siano stati rimpiazzati. Da noi l’eccezione diventa la normalità. Ed è logico che, in base anche alle esigenze, accada che il personale smontante sia costretto a svolgere un turno suppletivo”. Il sovraffollamento e la fatiscenza della prigione lucchese sono problemi che non possono aspettare oltre: “Duecentotrenta detenuti in un carcere che potrebbe accoglierne cento in meno. E non si venga a dire che adesso i detenuti con pene inferiori all’anno di reclusione possono scontare la pena a domicilio perché la maggior parte delle persone in galera sono extracomunitari senza fissa dimora che non possono accedere ai benefici. Per non parlare della struttura fatiscente che necessita di continua manutenzione. Ormai la polizia penitenziaria lavora quotidianamente due ore in più rispetto a quanto prevede il contratto nazionale rinunciando al riposo e gravando sulla famiglia. Il tutto per puro spirito di servizio. Ma la nostra pazienza è giunta al limite. Dal ministero rimbalzano voci di un’imminente assunzione di 5-600 unità indispensabili almeno per tamponare la situazione. Se anche stavolta le promesse del Governo dovessero essere disattese a Primavera siamo pronti a scendere in piazza”. Lauro (Av): l’aereo costruito dietro le sbarre? una mezza follia diventata realtà La Repubblica, 5 gennaio 2011 Beppe Battaglia dell’associazione “Il Pioppo” ha seguito giorno dopo giorno la realizzazione dell’aeroplano da parte dei tre giovani detenuti con il mastro falegname nel carcere di Lauro, in Irpinia. Battaglia, com’è nata l’idea? “Questo progetto nasce da un piccolo sogno, una follia che ho “farneticato” osservando i lavori di Aurelio Perillo, falegname con la passione per gli aeroplani assemblati nel suo hangar. Sulle prime ero un po’ scettico ma Aurelio mi ha fatto capire che un aero in metallo può fare acrobazie ma ha molti limiti: può piegarsi. Invece il legno è fatto per assorbire e quindi ha una flessibilità maggiore del metallo. Non si direbbe, ma è più sicuro. Ho pensato: se è fatto tutto in legno si può costruire anche in una situazione limite come il carcere”. La follia è diventata realtà. “Sì, anche se all’inizio è stata dura: ho bussato alle porte di molti privati, ma mi chiudevano tutti la porta in faccia. Bollavano il progetto come una fesseria, irrealizzabile. Poi siamo riusciti ad ottenere il denaro dal fondo nazionale per la lotta alla droga. Soldi della sanità trasferiti alle regioni”. Quanto costa il biposto? “Novantamila euro la costruzione e la parte meccanica. Finalizzato, può arrivare a 130mila euro. Certo, è artigianale, quindi trova mercato solo presso riccastri appassionati di queste cose”. L’aeroplano è pronto? “Aspettiamo, a breve, solo di montare il motore”. Come sono stati individuati i tre giovani che poi hanno partecipato al workshop? “La selezione spetta al personale del carcere. So soltanto che non avevano alcuna conoscenza pregressa di meccanica. Il fatto entusiasmante non è tanto la costruzione del “giocattolo” in sé quanto vedere la soddisfazione negli occhi dei ragazzi per aver creato qualcosa di bello”. Torino: nell’Ipm Ferrante Aporti, “l’officina” che ripara l’anima dei cattivi ragazzi di Lorenza Pleuteri La Repubblica, 5 gennaio 2011 Sfide e speranze al Ferrante Aporti: nel carcere minorile di Torino 27 ospiti cercano di costruirsi un futuro migliore. La direttrice: in cella più italiani di una volta, pezzi di gioventù senza valori. Le mani nere d’olio e di grasso, le guance sporche. Gli accenti che raccontano le provenienze più disparate, gli sguardi bassi, i sorrisi trattenuti. Imparano a smontare e rimontare le vecchie e sgangherate biciclette - quelle che sembrerebbero buone solo da buttare via, recuperate in discariche e in cantine - i ragazzi dentro. Nella ciclofficina allestita dietro le sbarre del Ferrante Aporti gli sciuscià di oggi smembrano pezzi e ingranaggi e li controllano con l’aiuto degli operatori con pochi anni più di loro, cooperativa “Muovi equilibri”. Lucidano, oliano, assemblano, collaudano. Le bici devono essere rimesse in carreggiata, in strada. Alcune reggeranno anni, altre si spaccheranno prima, altre ancora finiranno di nuovo tra i rifiuti. Succederà anche a loro, i giovanissimi detenuti del minorile. C’è chi avrà un futuro sereno e chi ricadrà nei circuiti della devianza e della violenza. C’è chi tornerà qui in fretta e chi manderà lettere da lontano. Sono in 27, in questi giorni, a dividersi celle e spazi comuni, oggetto e soggetto del lavoro di staff di educatori, psicologi, assistenti sociali, volontari, insegnanti, agenti, medici, coordinatori. Nabil, maghrebino, ha fatto il giro dei minorili del Nord Italia. Sta dentro da un anno e cinque mesi. Gliene mancano ancora otto. “Quando sei fuori non ci pensi, perché ti senti senza limiti. La cosa peggiore qui, prima non lo sai e non lo capisci, è la mancanza di libertà”. È il vivere le giornate secondo scansioni obbligate, ritmi prestabiliti, lo spazio limitato da mura e grate. Sveglia alle 7.30. Colazione dalle 8.30 alle 8.49. Dalle 9 alle 12 attività nei laboratori o a scuola, succursale della Dogliotti. Alle 13.10 pranzo nella mensa comune, che si chiama ancora refettorio, come ai tempi dei riformatori. Dalle 14, socialità. Fino alle 18.30, sport, letture, teatro, pittura, giocoleria. Una pausa in cella, alle 19.15 la cena. Le porte blindate delle stanze, camere ravvivate solo dalle lenzuola e dai vestiti stesi ad asciugare, perché colorare i muri è vietatissimo, chiudono alle 20.45. Fino a mezzanotte e mezzo luci e tv possono restare accese. Se c’è un bel film, che finisce più tardi, si può fare la domandina e viene accordata una deroga. “Il tempo che sono costretto a passare dentro - dice ancora Nabil - cerco di non buttarlo via. Ho imparato a leggere e a scrivere anche in italiano. Fuori non c’era la possibilità di studiare”. Aveva una ragazza, quando spacciava. “Mi ha aspettato per un anno, alla fine si è stancata. Mi ha mollato”. E allora restano i desideri. Una fidanzata nuova. La speranza di avere il permesso di soggiorno, a fine pena. Un impiego. “Se potessi davvero scegliere, farei il calciatore. Attaccante. Fascia destra. Lo so, non capiterà, a uno come me. Prenderò quello che ci sarà, un lavoro da imbianchino, cose così”. Jonathan, equadoregno, punta a entrare nel mondo dei computer. Il passato è una storiaccia di coltelli e di chance gettate al vento. Il presente sono i corsi di informatica e i permessi di uscita per il conseguimento della patente europea e per le visite ai parenti, sotto scorta. “Ho sbagliato, più di una volta - ripete - ma giuro che l’ho capita. Ho imparato la lezione. Quello che ho fatto ho fatto, ora guardo avanti. Il Ferrante Aporti è un punto di partenza e non lo dico perché mi hanno istruito a rispondere in un certo modo o perché ci sono gli agenti che sentono. Voglio dimostrare che sono cambiato, prima a me stesso che agli altri. Penso di rimanere in Italia e di avere dei figli qui, dove si sta meglio che in Equador”. Sognare non costa niente. Ma non è così scontato, al minorile. Lo si capisce leggendo il messaggio che Daniel ha scritto a un agente dopo il trasferimento in comunità: “A me questo luogo mi ha riempito tanto. Ho imparato a sognare e a vedere che i sogni si possono realizzare. Il giorno che me ne sono andato ho pianto”. Gabriella Picco da due anni e mezzo è la direttrice del “Ferrante Aporti”: “In cella finiscono più italiani di una volta. Sono pezzi di una gioventù senza valori, in genere figli di famiglie senza affetti, spesso sono più maturi dei genitori”. Oristano: solidarietà da parte di due detenute nigeriane al sacerdote arrestato Adnkronos, 5 gennaio 2011 Vogliamo dire a Don Giovanni Usai che gli siamo vicine e che non abbiamo mai dubitato della sua buona fede e che se sara' necessario faremo lo sciopero della fame in Istituto per gridare la sua innocenza. Sono le parole di due giovani nigeriane detenute nel carcere di Buoncammino a Cagliari che hanno affidato una lettera a Maria Grazia Caligaris, presidente dell'associazione Socialismo Diritti Riforme, con l'incarico di rendere pubblica la loro solidarietà al sacerdote arrestato il 28 dicembre scorso per favoreggiamento della prostituzione. Don Giovanni Usai era responsabile della comunità per il recupero dei detenuti "Il samaritano", ad Arborea, in provincia di Oristano, ad accusarlo una donna nigeriana secondo la quale il sacerdote avrebbe preteso prestazioni sessuali in cambio di un contratto di lavoro. "Abbiamo letto nei vari quotidiani e sentito dalle televisioni - hanno scritto le due detenute - quanto sta accadendo a Don Giovanni Usai. Non crediamo alle parole accusatorie della ragazza nigeriana. Conosciamo Don Giovanni Usai e sappiamo abbastanza bene la persona che è. Lui è un uomo buono, generoso, che ha sacrificato la sua vita per aiutare le persone disagiate come noi". "Grazie a Don Giovanni Usai e alla sua comunità - concludono le due detenute - tantissime persone si sono risollevate dallo sconforto e grazie a lui ce l'hanno fatta e ora vivono una vita migliore. In attesa che questo malinteso sulla sua persona si chiarisca, porgiamo i nostri più sentiti saluti e un "ti vogliamo bene Don Giovanni Usai", con affetto e stima. Don Usai è attualmente agli arresti domiciliari. Gli avvocati del sacerdote, Francesco Pilloni e Anna Maria Uras, stanno valutando l'opportunità di presentare ricorso al Tribunale del riesame per chiedere la revoca della misura cautelare. Porto Azzurro (Li): rissa in carcere, tredici detenuti denunciati Il Tirreno, 5 gennaio 2011 Sono tredici le persone denunciate per rissa dopo l’ennesimo episodio violento accaduto all’interno del terzo reparto del carcere di Porto Azzurro. E alcuni dei detenuti coinvolti sono gli stessi dell’aggressione avvenuta a metà dicembre. L’immediato intervento della polizia penitenziaria e le immagini del sistema interno di videosorveglianza hanno consentito di accertare le responsabilità nei confronti dei protagonisti della spedizione punitiva avvenuta poco dopo le 14 di domenica. Di fatto una ritorsione nei confronti di due detenuti - uno dei quali ricoverato in ospedale e dimesso dopo alcune ore - per vendicare, in qualche modo, l’aggressione di due settimane prima. Un episodio che si poteva evitare se i detenuti coinvolti nella prima rissa fossero stati trasferiti, come peraltro richiesto. È forse questo uno degli aspetti che preoccupa maggiormente i rappresentanti sindacali degli agenti, Angelo Montuori di Fsa-Cnpp e Paolo D’Ascenzo del Sinappe, i quali tornano a scrivere al provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria. Montuori e D’Ascenzo ricordano che subito dopo la prima rissa avevano rappresentato ai vertici dell’amministrazione penitenziaria “l’assoluta gravità della situazione che andava delineandosi, ma l’amministrazione regionale non prese in minima considerazione i nostri segnali di allarme e non furono nemmeno trasferiti, per motivi di sicurezza, i detenuti”. In realtà le uniche novità degli ultimi mesi a Porto Azzurro sono la progressiva riduzione del personale e il contemporaneo aumento della popolazione carceraria. “Abbiamo problemi di sovraffollamento - racconta il comandante della polizia penitenziaria, Vincenzo Pennetti - che vanno di pari passo con la carenza di personale: possiamo contare su un organico che è di circa 50% in meno rispetto a quello previsto”. Per far fronte all’emergenza anche domenica il personale, compresi gli agenti che avevano smontato dal servizio notturno si sono messi a disposizione. Una dimostrazione di professionalità che tuttavia non può bastare: occorrono interventi da parte dell’autorità penitenziaria su un carcere dove mancano anche i generi di prima necessità per i detenuti, non c’è lavoro e ormai non esistono più celle singole. Un carcere molto diverso dall’esempio positivo di istituto di riabilitazione che è stato per anni dove intervenire in caso di emergenze e prevenire episodi come quelli di domenica è sempre più difficile. Enna: oggi al carcere spettacolo teatrale de “I guitti” La Sicilia, 5 gennaio 2011 Spettacolo teatrale ad opera de “I Guitti” quest’oggi alla Casa Circondariale di Enna dove si esibiranno gli attori della compagnia teatrale di Enna con lo spettacolo “Le tre Marie”. Gli attori ennesi ripeteranno lo spettacolo due volte (per le diverse sezioni ndr) e - come spiega il regista ed attore Gaetano Libertino - si tratta di un modo per regalare un sorriso ai detenuti. “Abbiamo proposto con piacere la realizzazione dello spettacolo al carcere e siamo lieti che sia stato accettato” ha detto Libertino che spiega la finalità: “L’obiettivo della nostra compagnia è quello di divertirsi facendo divertire usando l’arte al servizio della solidarietà”. A interpretare lo spettacolo saranno Adriana Comito, Ina Urania, Cettina Salamone, Guglielmo Ingrà, Franco La Paglia e Gaetano Libertino nella doppia veste di attore e regista. Al trucco ci sarà Rosario Primavera, fonica sarà Germana Libertino, musiche a cura di Totò Spedale, rammendatrice Rosaria Verdino e costumi di Adriana Comito. Iran: omicida impiccato pubblicamente sul luogo del delitto Ansa, 5 gennaio 2011 Un uomo è stato impiccato pubblicamente in piazza in Iran sul luogo dove commise il delitto, a nord di Teheran. L’uomo, Yaghub di 31 anni, uccise il rivale in amore davanti a decine di passanti che minacciò con il coltello perché non si avvicinassero e non soccorressero la vittima. Fu ripreso da un passante con il cellulare e il filmato, diffuso su internet e tv, servì a identificarlo. Sale così a 13 il numero delle impiccagioni dall’inizio dell’anno, mentre nel 2010 erano state 179. Russia: arresti oppositori, proteste a Mosca e nuovi fermi tra i manifestanti Ansa, 5 gennaio 2011 Picchetti e sit-in sono in programma oggi a Mosca per protestare contro l’arresto dell’ex vice premier Boris Nemtsov lo scorso 31 dicembre nel corso di una manifestazione di oppositori. Lo riferisce la radio Eco di Mosca. Nemtsov è stato condannato a 15 giorni di carcere. Il suo arresto ha suscitato la reazione del dipartimento di stato Usa che ha invitato la Russia a garantire la libertà di pensiero ed espressione. Immediata la risposta della Duma, il parlamento russo, che ha definito i commenti un’ingerenza americana, negli affari interni della Russia. Tre manifestanti sono già stati fermati mentre protestavano davanti alla sede dell’amministrazione presidenziale. Tra i fermati, Sergei Udalzov, coordinatore del gruppo di oppositori Fronte Sinistra. Oggi alle 14 (le 12 in Italia) è in programma un picchetto davanti al carcere in cui è rinchiuso Nemtsov. Dopo la diffusione della notizia secondo cui il giudice che ha seguito il caso dell’ex premier gli ha impedito di sedersi per diverse ore il noto registra teatrale moscovita Mikhail Ugarov ha proposto di portare davanti al tribunale una serie di sedie per i detenuti che verranno. Una decina di persone sono state fermate dalla polizia russa mentre stavano manifestando a Mosca davanti alla sede dell’amministrazione presidenziale contro l’arresto, lo scorso 31 dicembre, dell’ex vice premier Boris Nemtsov. Lo riferisce l’agenzia Interfax. Ieri 30 persone sono state fermate e portate in una stazione di polizia dopo aver manifestato fuori dalla prigione in cui è detenuto Nemtsov. Dieci persone hanno cercato di tenere una manifestazione non autorizzata oggi in piazza Staraya in sostegno di Boris Nemtsov. Gli agenti hanno fermato sette manifestanti, ha riferito una fonte di polizia.