Giustizia: svuota-carceri? la montagna ha partorito il topolino di Valentina Ascione Gli Altri, 3 gennaio 2010 È tempo di bilanci, come ogni qual volta che un anno si chiude. Tempo di tirare le somme, prima di lasciarsi andare ai buoni propositi. Ebbene, nonostante abbia seguito quello che tutti sono stati concordi nel definire l’annus horribilis delle carceri italiane, il 2010 non ha mostrato progressi tangibili. E mentre cala il sipario, emergono cifre tutt’altro che confortanti, a cominciare da quelle generali del sovraffollamento. L’aumento della popolazione carceraria rispetto al 2009 è stato di circa cinquemila unità, al quale non è però corrisposto un aumento della capienza delle strutture, come invece previsto nel piano - carceri lungamente sbandierato dal governo. Qualche padiglione è stato aperto, qualcun altro riadattato, ma in assenza di nuove assunzioni di personale, di alcune migliaia di agenti di polizia penitenziaria, sarebbe inutile perfino raddoppiare gli istituti. In carcere ogni spazio non sottoposto a vigilanza, è uno spazio inutilizzabile. O almeno così dovrebbe essere, dal momento che gli agenti fanno salti mortali (e turni massacranti) per mantenere l’ordine e garantire la sicurezza. E se il numero dei suicidi tra i detenuti dall’inizio dell’anno a oggi (27 dicembre 2010) risulta leggermente inferiore alla soglia dei 72 raggiunta lo scorso anno, è soprattutto per merito loro, che ne hanno sventati diversi. Caricandosi di uno stress e di una tensione tali da indurli, in alcuni casi, a togliersi a loro volta la vita. Accade sempre più spesso, 75 volte negli ultimi 10 anni. Nessuna delle altre misure varate per allentare la pressione del sovraffollamento si è rivelata efficace, tanto meno lo sarà il cosiddetto ddl “svuota carceri” del ministro Alfano: una montagna che partorirà un topolino. Nel frattempo le condizioni di vita all’interno delle prigioni italiane continuano a peggiorare. E se la funzione rieducativa della pena è andata a farsi benedire già da un pezzo, il diritto alla salute in carcere ormai non è che un optional. Sono oltre un centinaio, infatti, i decessi registrati quest’anno per malattia o per cause “da accertare”. E se nelle ultime settimane sono state denunciate epidemie di scabbia tra i detenuti, un recente studio della rivista “Plos Medicine” ha calcolato che in carcere il rischio di ammalarsi di tubercolosi è 23 volte maggiore rispetto all’esterno. Per non parlare dei tossicodipendenti, che rappresentano quasi il 30 per cento della popolazione reclusa e che, come osserva il presidente di “A Buon Diritto” Luigi Manconi, ovunque dovrebbero stare fuorché in cella. E degli stranieri, anch’essi in aumento, a dimostrare ancora una volta - qualora ce ne fosse bisogno - che in galera ci finiscono e ci restano soprattutto i poveracci. E poi ci sono i figli delle detenute, una sessantina in tutto. In beve calo rispetto al 2009, quando di questi tempi ci auguravamo che nessun bambino fosse più costretto a passare il Natale in carcere. Purtroppo è andata diversamente. La proposta di legge a tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori, che prevede l’istituzione di case famiglia protette e l’applicazione di misure alternative al carcere, è ancora all’esame della Commissione Giustizia della Camera. La sua approvazione sarà il miglior regalo per le decine di innocenti reclusi insieme alle proprie madri. Il miglior regalo di Natale. Del prossimo. Giustizia: Fernando che è morto in carcere di Andrea Boraschi L’Unità, 3 gennaio 2010 Vi è così tanta solitudine e desolazione, nella morte di taluni, che i dilemmi etici ed esistenziali più radicali sembrano suggerire una sola risposta. Ed è una risposta cupa, che ha a che fare con l’ingiustizia più profonda e col dolore più intenso e incurabile. Questa solitudine e questa desolazione mi sembra di scorgerli nella fine di un ragazzo di 27 anni, che si chiamava Fernando Paniccia. Qualcuno, meritevolmente, ne ha raccontato poche cose, tirate fuori da un casellario o dalla carte di un istituto di pena. Poche cose, sì, perché non si sa cosa abbia pensato, sentito, vissuto quel Fernando nei suoi pochi anni; così che la su vicenda, ora, si compone di soli tratti clinici, giudiziali e penali. È morto a poche ore dal trascorso Natale, probabilmente per un arresto cardiaco, nel carcere di Sanremo. Pesava 187 chili. Era invalido al 100%, affetto da un gravissimo ritardo mentale che ne faceva, cognitivamente, un bambino di 3 anni o poco più, che non sapeva neppure parlare bene. Era semiparalizzato ed epilettico. Fernando aveva iniziato la sua “carriera criminale”, se così la si può chiamare, a 19 anni. Aveva rubato tre palloni di cuoio da una palestra. E subito era finito in carcere. Di lì una piccola scia di furtarelli e sottrazioni, di chi forse neppure sa, neppure è cosciente di stare rubando. Di chi non ha neppure le capacità motorie necessarie a realizzare un “reato” quale il furto. Gli mancava ancora un anno di pena da scontare, ma la sua fisiologia si è esaurita, consumata definitivamente in questi giorni. E forse le “cause naturali” che ne hanno determinato il decesso hanno a che fare, questa volta, con qualcosa di realmente “naturale”; con un moto di rivalsa - un moto che è paradossalmente un “arresto”, una fine - che restituisce all’oblio ciò che mai avrebbe dovuto essere, che termina ciò che davvero non merita d’essere sopportato. Chissà: forse Fernando era un tipo che sorrideva; forse i suoi occhi ingenui non trovavano questo mondo brutto e feroce come chiunque, al suo posto, lo avrebbe visto. Chissà. Certo è che il suo cuore, smettendo di pompare sangue in quel corpo gigantesco e malato, ha silenziosamente mandato a quel paese questa vita e tutti noi. Noi colpevoli e incolpevoli, noi tutti, che di lui non sapevamo nulla e che nulla abbiamo fatto, fingendo incoscienza di quante storture affliggano il nostro sistema penale, di quante ingiustizie vi si consumino: abbiamo finito per consentire che un vero innocente (innocente come lo è un bimbo) vivesse malato e sofferente lunga parte della sua vita in carcere. Come lui - è ancora utile ricordarlo - ve ne sono ancora molti nelle nostre carceri. Una cifra - quella dei disabili gravi - che si aggira attorno alle 500 unità. Giustizia: intervista a Patrizio Gonnella, presidente dell’Associazione Antigone di Roberta Mazzacane www.clandestinoweb.it, 3 gennaio 2010 Per la rubrica “La voce dietro le sbarre” Clandestinoweb ha intervistato il Presidente Nazionale dell’associazione Antigone, Patrizio Gonnella. Il ruolo di associazioni come la Sua quanto è importante per migliorare la qualità di vita dei detenuti in carcere? “È difficile valutare se stessi. Si rischia sempre di essere auto - referenziali o eccessivamente narcisi. Penso, però, che il mondo penitenziario sarebbe ancora più opaco senza le associazioni, un mondo sicuramente meno conosciuto e meno conoscibile. A noi spetta far uscire le carceri dal cono d’ombra in cui vengono riposte, nonché rendere consapevole l’opinione pubblica che nelle galere vengono calpestati in diritti umani, che la giustizia penale è selettiva, che è indecoroso vivere per anni in condizioni inaccettabili. Tutto questo avviene in un Paese democratico che ha formalmente - ma solo formalmente - aderito a tutti gli organismi internazionali sui diritti dell’uomo. Noi interpretiamo il nostro ruolo come una sorta di specchio che faccia rifrangere all’esterno le immagini di disperazione, di violenza, di morte che arrivano dalle galere italiane”. Quali sono le condizioni igienico - sanitarie dei carceri italiane? “Noi ci occupiamo di carceri su scala nazionale. Abbiamo un surplus di 25 mila detenuti rispetto alla capienza regolamentare delle nostre carceri. Ciò significa che le persone vivono in meno di tre metri quadri a testa, cos configurando una ipotesi di violazione degli standard europei. Negli ultimi anni siamo stati condannati ben 5 volte dalla Corte europea dei diritti umani per aver violato l’articolo 3 della Carta del 1950 che proibisce la tortura e i trattamenti inumani e degradanti. Il tutto è determinato dal sovraffollamento. In condizioni di vita tali la salute delle persone è a rischio. Noi abbiamo invitato i sindaci e le Asl a ispezionare le carceri per accertare se i reparti troppo affollati non vadano chiusi in quanto luoghi patogeni”. Quali sono i diritti più spesso negati ai detenuti secondo lei? “Un elenco che potrei cos riassumere: diritto alla vita, diritto all’integrità personale, diritto alla salute, diritto al trattamento rieducativo, diritto all’istruzione. Non è facile tornare alla legalità penitenziaria. Bisognerebbe investire in progetti educativi e culturali, cambiare prospettiva, coinvolgere il mondo delle associazioni”. Ci sono dei volontari che operano a fianco degli agenti di polizia penitenziaria nelle carceri? “Il ruolo di Antigone è quello di monitorare le condizioni di detenzione. Seppur con analisi non sempre coincidenti, ultimamente ci siamo ritrovati insieme alle organizzazioni rappresentative della polizia penitenziaria, accomunati dall’obiettivo di rendere più decorose per tutti - detenuti e operatori penitenziari - le condizioni di vita nelle prigioni italiane”. Avete mai segnalato al Ministro Alfano situazioni gravi o casi di emergenza verificatisi in carcere? Se si, siete stati ascoltati? “Non abbiamo mai incontrato il ministro della Giustizia Alfano. Abbiamo, per, un rapporto consolidato con l’amministrazione penitenziaria. C’è piena consapevolezza della emergenza che stiamo vivendo e subendo. Ci vorrebbe, per, più responsabilità politica per evitare che siano i singoli direttori delle carceri ad assumersi sulle loro spalle iniziative dirette a rendere migliori le condizioni di vita interne. E spesso sono impossibilitati per mancanza di risorse. Si pensi che in molti istituti a settembre finiscono i soldi persino per comprare la carta igienica”. Giustizia: caso Battisti; in Italia clima da guerra fredda, un errore voler vendicare le vittime di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 3 gennaio 2011 “In Italia c’è un sentimento politico a favore della detenzione di Battisti, ed è innegabile che questo contesto possa legittimare i timori per la situazione della persona da estradare, che si aggraverà”. Alla fine la giustificazione per impedire il rimpatrio nella cella di un carcere dell’ex terrorista dei Proletari armati per il comunismo, l’hanno trovata nel clima che si respira intorno alla sua vicenda. “È un caso che ha raggiunto dimensioni enormi, che divide le opinioni, mentre invece il momento richiederebbe serenità”, sostiene l’Avvocatura generale dello Stato nel parere consegnato al presidente Lula, utilizzato come base giuridica e politica per negare la riconsegna del “rifugiato” per il quale il tribunale supremo federale aveva dato il via libera alla consegna. Per motivare le condizioni ostili a Battisti, il relatore Arnaldo Sampaio de Moraes Godoy ha impiegato tre pagine del lungo documento, in cui sono riportate alcune dichiarazioni di autorità italiane, dal presidente della Repubblica in giù, riprese dalla stampa italiana. Il capo dello Stato, Napolitano, “ha esortato il Brasile a estradare Battisti per rendere giustizia alle vittime” dei suoi reati. Il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, ha spiegato che con il suo ritorno i parenti delle persone uccise “avrebbero un certo sollievo dopo il dolore provato per la perdita dei loro cari; una diversa decisione sarebbe terribile”. Franco Frattini, ministro gli Esteri ha spiegato che l’estradizione “metterebbe fine alla profonda amarezza dell’opinione pubblica italiana, mentre Gasparri, presidente dei senatori del partito di maggioranza, ha annunciato che la concessione dell’asilo politico all’ex terrorista sarebbe stata considerata “patetica in Italia, con conseguenze nefaste sulle relazioni con il Brasile”. L’antologia di dichiarazioni prosegue con Gianni Letta, Roberto Maroni e altri esponenti politici. Fino a suggerire al relatore questa conclusione: “C’è uno stato d’animo che giustifica preoccupazioni per la concessione dell’estradizione di Battisti, a causa del peggioramento che ne deriverebbe alla sua situazione personale”. In quelle prese di posizione, “si parla ricorrentemente di fare “giustizia per le vittime”, ma il diritto processuale penale contemporaneo respinge questo concetto”. Viene citato l’insegnamento di un autore italiano, Luigi Ferrajoli: “Lo scopo della pena è (o dovrebbe essere) il reinserimento sociale e del criminale”. Nel caso di Battisti rinchiuso in un carcere italiano, secondo l’Avvocatura dello Stato, la situazione sarebbe di tutt’altro segno: “La decisione da prendere dev’essere basata su criteri umanitari. La pena inflitta è superiore a trent’anni, e dovrà essere ridotta. Ma per un condannato con oltre cinquant’anni di età (Battisti ne ha compiuti 56, ndr) sarebbe comunque simile a una pena perpetua”. Comunque ergastolo, insomma, non previsto nell’ordinamento brasiliano. E se pure Battisti riottenesse un giorno la libertà, come previsto dalle autorità italiane, sarebbe “una persona di oltre ottant’anni, a sessant’anni di distanza dai presunti fatti”. Tutto questo, è scritto nel parare sottoposto a Lula che l’ha fatto proprio, non significa contestare la civiltà giuridica dell’Italia e la “dignità” di un Paese che “ha avuto un’influenza immensa sulla nostra cultura, la terra madre della maggior parte dei nostri immigrati; l’Italia è, senza dubbio, una dei nuclei fondativi dell’identità brasiliana”. Ciò non toglie che “la condizione personale” di Cesare Battisti, “agitatore politico che operò negli anni difficili della storia italiana, sebbene condannato per crimini di matrice comune, potrebbe subire conseguenze negative dalla sua estradizione. Ci sono ponderate ragioni per ipotizzare che il detenuto potrebbe soffrire forme di aggravamento della sua situazione”. È una formula, quest’ultima, che ricorre spesso nelle sessantacinque pagine del documento. E ricalca la lettera f del comma 3 dell’articolo 1 del trattato di estradizione fra Italia e Brasile, laddove è scritto che “l’estradizione non sarà concessa se la Parte richiesta ha fondati motivi per ritenere che la persona sarà oggetto di atti di molestie e discriminazioni basate su razza, religione, sesso, nazionalità, lingua, opinione politica, condizione sociale o situazione personale, o la sua posizione potrebbe essere aggravata da uno degli elementi di cui sopra”. Le “opinioni politiche”, nel parere dell’Avvocatura, aleggiano in molte pagine. “È abbastanza chiaro che la vicenda di Battisti scontenta settori della destra e della sinistra, a voler usare espressioni del vocabolario della guerra fredda, mentre ciò non dovrebbe avere conseguenze sul caso in esame”. L’Avvocatura precisa che l’eventuale mancata estradizione, “come qui suggerito sulla base del trattato, non sarebbe indice di disprezzo per l’accordo tra Brasile e Italia. Il Brasile è strettamente conforme ai trattati che ha sottoscritto”. È proprio l’accordo siglato tra i due paesi a prevedere che l’ultima parola spetta al presidente della Repubblica, “in un fortissimo inquadramento politico”. Nella vicenda della riconsegna o meno dell’ex terrorista Cesare Battisti al suo Paese d’origine, che vuole fargli scontare l’ergastolo al quale è stato condannato, “i reati sono comuni, non politici. Ma politica è la dimensione dei fatti”. Giustizia: sulla vicenda di Cesare Battisti una fiera di vaniloqui di Luigi Rintallo Agenzia Radicale, 3 gennaio 2011 A dirla chiaramente, non sono tra coloro che spasimano per vedere a ogni costo Cesare Battisti nelle patrie galere. Non certo perché provi simpatia nei suoi confronti: anche il più sprovveduto dei supplenti, avendo di fronte un tipo simile fra i suoi alunni, saprebbe immediatamente classificarlo fra gli arroganti e i violenti. Non occorrono davvero le sentenze che lo condannano per omicidio per capire chi sia Cesare Battisti. Che diversi cosiddetti intellettuali si siano spesi per difenderlo, testimonia soltanto la loro malafede, perché è impossibile immaginare lo facciano in quanto riconoscono in lui una persona meritevole di difesa. Al pari del presidente brasiliano, usano Battisti come un mezzo. Per Lula tutelare Battisti significa compiacere la Francia (che Battisti ha protetto sia durante la permanenza a Parigi, sia quando ne ha favorito la fuga in Brasile) e forse far dimenticare che il suo mandato presidenziale è stato in forte contrasto con quella politica di sinistra annunciata al suo esordio. Per gli intellettuali, italiani ed europei, della sinistra salottiera il sostegno all’ex delinquente di Cisterna Latina è soltanto un modo per rivivere la febbre pseudo - rivoluzionaria e rimestare nel torbido per lanciare le loro accuse agli avversari politici del momento. Il fatto è che non convincono i discorsi che vanno facendosi attorno al caso della mancata estradizione. Quello di cui si accusa oggi il Brasile, altre volte è stato fatto da altri paesi. Inclusa l’Italia, che in più occasioni ha mancato le promesse verso altre nazioni nella gestione di detenuti (dai terroristi palestinesi fino al caso Baraldini, consegnataci dagli Usa per scontare in prigione la sua pena e poi scarcerata). Il Brasile, se non intende consegnarci Battisti, non fa altro che replicare un comportamento già assunto in altre occasioni sia con imputati di mafia che di terrorismo. Il problema è piuttosto nelle motivazioni addotte per la mancata estradizione, laddove si lascia intendere che in Italia ci sia un regime alla cilena capace di “uccidere” Battisti. Puro vaniloquio, se si guarda a come sono stati in genere trattati gli imputati di terrorismo: quasi tutti in libertà o affidati ai servizi sociali. Al vaniloquio, sia detto senza offesa, è da ascrivere anche l’atteggiamento di chi evoca giustizia per le vittime dei delitti di Battisti: quasi che la sua mancata cattura sia un fatto unico o eccezionale. Si è tenuto conto, forse, delle vittime quando si è evitato il carcere ai complici degli assassini di Tobagi? Non altrettanto severa fu la magistratura nei confronti di Caterina Rosenzweig, coinvolta nel delitto Tobagi a giudizio dei carabinieri di Dalla Chiesa, che riuscì a evitare persino l’incriminazione. Della Rosenzweig Benedetta Tobagi, figlia del giornalista ucciso dalla brigata 28 marzo di Marco Barbone e soci, parla nel suo libro Come mi batte forte il tuo cuore in uno dei passaggi (pp. 254 - 59) più contrastanti col tono così controllato del volume, anche se subito si preoccupa di scagionare la procura milanese attribuendone la responsabilità del mancato arresto ai magistrati di Varese. Eppure, una domanda Benedetta Tobagi poteva farsela: perché in dibattimento il pm Spataro allora negò alla parte civile l’ascolto delle intercettazioni delle telefonate intercorse fra Barbone e i suoi amici? Proprio Armando Spataro che, oggi, si reca in tv per chiedere che Battisti sconti l’ergastolo al quale è stato condannato è lo stesso che pretese la libertà provvisoria immediata per l’assassino di Tobagi, in nome di presunti pentimenti, rivelatisi poi niente affatto determinanti ai fini delle indagini. Su Cesare Battisti si sta assistendo a un brutto spettacolo, dove chi canta lo fa per lo più in modo stonato. Vale anche per il centro - destra e, in particolare, per la campagna di stampa promossa da alcune testate di riferimento. Anche in questo caso, pare prevalere più l’interesse a conseguire un risultato purchessia in nome del rigore contro l’estremismo che fu, anziché l’obiettiva consistenza politica e giudiziaria del caso. Finendo così per cadere in plateali contraddizioni, perché gli stessi giornali che contestano la magistratura italiana per la parzialità e l’incapacità di dare giustizia, se ne fanno ora paladini e in nome di condanne emanate dopo processi a base di pentiti e responsabilità morali. A dirla tutta non piace questa voglia di galera. Né è così decisivo che lo Stato italiano debba far il diavolo a quattro per vederci finire un miserabile come Cesare Battisti. Giustizia: l’ex Br Persichetti; ma il carcere non risarcisce il dolore di chi ha perso un familiare di Concetto Vecchio Corriere della Sera, 3 gennaio 2011 Persichetti, come valuta la mancata estradizione di Cesare Battisti? “Mancata estradizione? Giusto rifiuto. Me ne rallegro. Il Brasile si aggiunge alla lunga lista di Paesi che non hanno accolto le richieste dell’Italia: Grecia, Svizzera, Francia, Gran Bretagna, Canada, Argentina, Nicaragua, e non cito il Giappone perché mi ripugna, visto che ha dato la cittadinanza al neofascista Delfo Zorzi”. L’irriducibile Paolo Persichetti, romano, 48 anni, condannato a 19 anni di carcere per la sua partecipazione alle Brigate Rosse della seconda metà degli anni Ottanta - è l’unico terrorista che è stato estradato dalla Francia nel 2002. Aveva trascorso undici anni a Parigi, gli ultimi come ricercatore all’Università. Era sospettato, senza saperlo, dell’omicidio Biagi, accusa che poi cadde. Ma qua è rimasto: detenuto per sei anni. Da due anni è semilibero, a Rebibbia. Collabora con il quotidiano Liberazione. La motivazione di Lula è che tornando in Italia l’incolumità di Battisti sarebbe a rischio. Lei conosce bene le nostre carceri. Non è una motivazione ridicola? “Guardi che nelle motivazioni si fa soprattutto riferimento all’aggravamento della posizione di Battisti, che finirebbe in un carcere duro nonostante non commetta reati da 30 anni. Nel giudizio dei brasiliani incide poi anche il fatto che nel loro ordinamento non è prevista la pena dell’ergastolo. Soprattutto guardano a quelle vicende con gli occhi della storia, come da tempo dovremmo fare anche noi. Noi al contrario vogliamo regolare ancora dei conti in termini giudiziari invece che affrontare gli anni di piombo con un atto di chiusura politica”. Ma Battisti non ha scontato un solo giorno di carcere per i quattro omicidi. Le sembra eticamente sostenibile in uno Stato di diritto? “Ma tra Italia, Francia e Brasile, per altri reati, ha scontato cinque, forse sei anni. Certo, è una piccola parte rispetto all’ergastolo”. C’è di più: Battisti si è sottratto ai processi, fuggendo prima in Messico e poi in Francia. “Era un suo diritto”. Le pare che questa è giustizia? “Cosa vuol dire giustizia? Battisti è sfuggito alle leggi emergenziali di quel decennio. Le faccio notare che quando, nel 2004, le autorità francesi decisero di estradarlo in Italia lo fecero perché il nostro governo promise loro che gli avrebbe rifatto i processi, visto che le condanne erano state comminate in contumacia. Era chiaramente una promessa di marinaio”. Infatti Battisti preferì scappare di nuovo, in Brasile. E le vittime aspettano da 30 anni: provi a mettersi nei loro panni. “Lo faccio spesso. Ho incontrato Sabina Rossa per un’intervista ed è stata un incontro doloroso, difficilissimo, avevo paura di sbagliare un solo aggettivo. Dopodiché non credo che la presenza in carcere di Battisti risarcisca i parenti dal loro dolore. Insisto: questo Paese non sa rielaborare il proprio passato, lo strumentalizza continuamente. Risultato: la piaga rimane sempre aperta”. Che ricordo ha di Battisti? “L’ho incrociato spesso in Francia, anche se avevamo giri diversi. Un personaggio simpatico, guascone, che viene da una famiglia proletaria. Ho conosciuto anche i suoi famigliari, persone oneste che si sono sempre ammazzate di fatica. Cesare era un ragazzo ribelle, che poi ha politicizzato la sua ribellione, come tanti di quella generazione”. Giustizia: Ferrante (Pd); da Sergio D’Elia parole sconcertanti su caso Battisti Dire, 3 gennaio 2011 “La mancata estradizione di Battisti è un’offesa intollerabile alla memoria e ai familiari delle vittime, e nessuno dovrebbe strumentalizzare la vicenda. Cosa che irresponsabilmente ha invece fatto l’ex componente di Prima Linea e attuale segretario di “Nessuno tocchi Caino” Sergio D’Elia in una sconcertante intervista al quotidiano “Il Riformista” con cui difende la scelta del governo brasiliano con argomentazioni che tradiscono palesemente il suo oscuro passato”. Lo dice il senatore del Pd Francesco Ferrante. “Il sentimento di solidarietà verso chi ha avuto un passato di violenza - continua Ferrante - induce evidentemente D’Elia a formulare una difesa d’ufficio della decisione del presidente brasiliano mettendo sul piatto una tragica realtà, qual è la condizione di vita dei reclusi nelle carceri italiane, che nulla ha a che fare con il principio della certezza della pena e con la sacrosanta esigenza di riconoscere giustizia a coloro che hanno perso i propri cari a causa della violenza di Battisti”. “Il riflesso condizionato del passato di D’Elia - conclude il senatore del Pd - lo ha portato a una personale quanto impressionante assoluzione di Cesare Battisti, squalificando però in questo modo l’attività meritoria dell’associazione ‘Nessuno tocchi Cainò che dovrebbe forse considerare l’idea di farsi rappresentare da qualcun altro per portare avanti più degnamente le proprie importanti battaglie”. Puglia: l’Osapp denuncia la situazione disastrosa delle carceri Ansa, 3 gennaio 2011 “Nuovo anno 2011 a quota 70.000 detenuti nelle carceri da “bollino rosso” e già si contano i primi quattro feriti tra le fila della polizia penitenziaria. Il 2010 si era chiuso con un trend di suicidi, tentativi di suicidio, risse, sommosse, evasioni e tentativi di evasione, feriti, altamente in negativo per il sindacato di polizia penitenziaria. Un trend degno dei tempi del terrorismo e della criminalità delinquenziale di spessore: 1978/1980. I baschi azzurri della polizia penitenziaria, nelle giornate di rilievo come il 24/25/26 dicembre e il primo gennaio 2011hanno operato con elevatissimo spirito istituzionale e di sacrificio umano mantenendo, con solo pochissime unità di polizia intere città penitenziarie: esempio Bari carcere con 650 detenuti i turni sono stati impiegati circa 8/10 unità al massimo di polizia, con orario di servizio da otto e nove ore continuative e con una vigilanza nei reparti di più settori come il caso di Foggia, Trani, Lucera, Taranto, Lecce affidata ad un solo agente. Nei prossimi giorni al Prap Bari Puglia si dibatteranno sindacati di polizia ed amministrazione regionale sull’apertura di una nuova ristrutturata sezione detentiva la cui capienza regolamentare sarà di 130/150 detenuti probabilmente provenienti dalla Sezione Seconda detentiva del carcere di Bari da porre urgente ristrutturazione, con lo stesso attuale organico che a Trani mantiene già 300 circa reclusi per un solo plesso, mentre circa una sessantina di agenti uomini e donne sono distaccati in sedi, più che altro Uffici e settori non istituzionali in difformità della Legge di Riforma art.5 legge 395/90. Intanto scarseggia il benessere del personale di Polizia nei momenti di relax o di cambio turno con la chiusura incomprensibile di spaccio bari agenti, sale convegno, mense e caserme (lasciate prive di riscaldamento ed in condizioni strutturali allarmanti). Stessa situazione di apertura di un nuovo ristrutturato reparto detentivo potrà accadere a breve a Matera, un padiglione di circa 100 reclusi che si aggiungeranno all’attuale organico detentivo. Serve urgentemente l’apertura di un Tavolo di concertazione Regionale con le Parti Sindacali del Comparto Sicurezza per affrontare l’endemica preoccupante situazione di carenza di Polizia Penitenziaria e di sovraffollamento detentivo (attualmente sono 2.800 poliziotti distribuiti su quindici strutture, servono altre 300 unità per i solo servizi operativi di polizia). Il budget lavoro straordinario del 2011 è stato ridotto di migliaia di ore rispetto al 2010 per le singole Regioni”. Domenico Mastrulli Responsabile Politiche Nazionali Osapp Sardegna: sanità in carcere; nuovo allarme… entro due settimane reclusi senza cure L’Unione Sarda, 3 gennaio 2011 Meno male che sono governi amici: Stato e Regione non sono ancora riusciti a raggiungere l’intesa per il passaggio delle competenze in materia di assistenza medica penitenziaria. “Tutto è pronto, manca solo la firma”, avevano detto dalla Commissione paritetica. Non è così. Quell’accordo è bloccato perché manca la firma della Presidenza del consiglio. Non è solo un problema burocratico: tra poco, come in un film già visto, i direttori degli istituti di pena dell’Isola (anche minorili) non avranno più un centesimo da spendere per le cure dei reclusi. Da sabato, intanto, tutti gli internati sardi negli ospedali psichiatrici della Penisola sono a carico della Regione, compresi gli ergastoli bianchi, ex detenuti malati di mente che nonostante abbiano scontato la pena sono ancora rinchiusi “in fogne”, come denuncia il senatore del Pdl Michele Saccomanno, primo firmatario dell’ordine del giorno approvato da Berlusconi il giorno della fiducia al Governo. C’è da capire a chi fa comodo questa palude. Di sicuro non a medici, infermieri e reclusi. Anna Maria Busia è una componente della Commissione paritetica che ha elaborato il passaggio di consegne fermo al palo. “Il provvedimento è passato sotto la lente del Preconsiglio che ha dato l’ok. Ora è fermo in attesa che Berlusconi o Letta lo firmino”, dice con tono sconsolato. Perché i nostri parlamentari non riescono a smuovere le acque: disinteresse o scarso peso politico? “Il mancato passaggio della Sanità penitenziaria dallo Stato alla Regione - avverte Anna Maria Busia - da lunedì scorso riguarda anche la Giustizia minorile: il Ministero ha chiuso il rubinetto delle sovvenzioni”. Dal primo gennaio la Regione avrebbe dovuto accogliere in strutture specializzate isolane i 50 reclusi nei manicomi psichiatrici giudiziari. In attesa che si concretizzino le proposte dell’assessore regionale Antonello Liori (“tre strutture alternative agli Opg, che abbiano non più di 16 posti ciascuna, con moduli distinti di sorveglianza”), i costi sono da capogiro: 200 euro al giorno per ciascuno. Quella che anche il senatore Saccomanno definisce “scandalosa” è la condizione di “9 malati psichiatrici ex detenuti, che nonostante abbiano scontato la pena sono ancora rinchiusi nelle fogne di Aversa, Barcellona Pozzo di Gotto e Montelupo Fiorentino. Sono malati che per motivi di sicurezza non possono tornare in libertà e devono essere presi in carico dalla Regione che sino a ora però non ha dato la sua disponibilità”, afferma il senatore. “Per farli tornare in Sardegna abbiamo a disposizione 250 mila euro, finanziamento più che sufficiente”. Saccomanno fissa i tempi. “Se entro fine gennaio i pazienti saranno nella stessa condizione, chiederò un’ordinanza che costringa la Regione a intervenire”. Per il direttore dell’istituto di pena cagliaritano Gianfranco Pala l’emergenza è dietro l’angolo. “L’allarme non è ancora scattato, abbiamo risorse sufficienti ancora per alcune settimane”. Poi sarà costretto a firmare la copia esatta di una decisione presa a ottobre: chiusura del centro diagnostico - terapeutico (Cdt). Nei giorni successivi, vista la posizione irremovibile del ministero della Giustizia, l’assessore regionale alla Sanità aveva firmato un provvedimento tampone. Tradotto, soldi che ora stanno per finire. Soldi spesi non nel migliore dei modi per la mancanza di programmazione. Lecce: detenuto foggiano trovato morto in carcere, un infarto la probabile causa del decesso Apcom, 3 gennaio 2011 Tragico Capodanno per un detenuto foggiano, Salvatore Morelli, 35 anni. L’uomo è stato trovato morto all’alba del primo giorno del 2011 nella sua cella nel carcere di Borgo San Nicola a Lecce. A stroncargli la vita, con ogni probabilità, un infarto. Ad allertare gli agenti di polizia penitenziaria il compagno di cella insospettito dal prolungato silenzio del 35enne. Vano ogni tentativo di rianimarlo da parte del medico del penitenziario e l’immediato trasporto all’ospedale di Lecce “Vito Fazzi”, dove i medici non hanno potuto far altro che constatarne il decesso. Morelli era affetto da patologie preesistenti legate a problemi cardiocircolatori. Inoltre era sovrappeso. Una situazione clinica che lo costringeva a recarsi quasi ogni giorno presso il nosocomio leccese, in modo da controllare le sue condizioni di salute. Sarà la relazione redatta dal medico legale Alberto Tortorella, a chiarire le cause della morte. Nelle prossime ore il sostituto procuratore Giuseppe Capoccia potrebbe disporre l’autopsia. Porto Azzurro (Li): rissa in carcere, ferito detenuto nordafricano Ansa, 3 gennaio 2011 Una rissa è scoppiata nel primo pomeriggio di ieri, intorno alle 14, nel carcere di Porto Azzurro. Sono circa una quindicina i detenuti coinvolti, sia italiani che stranieri, ospitati nel terzo reparto. Secondo quanto si apprende, i detenuti sarebbero venuti alle mani per un regolamento di conti ai danni di un detenuto nord - africano, trasportato all’ospedale di Portoferraio con un trauma cranico e una forte contusione alla mascella. Gli agenti della polizia penitenziaria sono riusciti a riportare la calma dopo alcuni minuti di tensione. Quello di oggi è solo l’ultimo di una serie di episodi di violenza accaduti nel carcere elbano. Lo scorso 16 dicembre una rissa aveva coinvolto una ventina di detenuti. Non è escluso che tra gli artefici dell’episodio di oggi siano presenti alcuni detenuti che, non trasferiti, avevano perso parte alla lite accaduta a metà dicembre. Il 7 aprile scorso alcuni detenuti avevano invece sequestrato due agenti all’interno della struttura carceraria. “In una anno la situazione di Porto Azzurro è diventata ingovernabile - spiega Aldo Di Giacomo (Sappe) - ci sono state tre risse negli ultimi mesi. In queste condizioni è a rischio l’incolumità del personale di polizia penitenziaria e degli stessi detenuti. Ancora una volta si è evitato la tragedia solo grazie alla prontezza degli agenti. Chiederemo immediatamente all’amministrazione interventi urgenti, decisivi per garantire un livello più alto di sicurezza”. Venezia: per l’ubicazione del nuovo carcere prende corpo l’ipotesi di Forte Pepe Il Gazzettino, 3 gennaio 2011 Il luogo che 24 anni fa venne bocciato dal Consiglio di quartiere, dalle associazioni ambientalistiche e dalla gente del posto per insediare il nuovo carcere, oggi è lo stesso che a Favaro e dintorni viene invocato a gran voce per la medesima destinazione. Nel 1986 fu proprio l’amministrazione comunale a proporre Forte Pepe come sito idoneo ad ospitare il nuovo istituto penitenziario in sostituzione della casa circondariale di Santa Maria Maggiore, ma il Consiglio di Quartiere di Favaro, dopo ampio dibattito, rispose con un secco ed unanime no. Ora, invece, la situazione si è capovolta, perché rispetto all’ipotesi di costruire il nuovo istituto di pena nell’ex deposito militare di Via Orlanda a Campalto, molti ritengono che Forte Pepe sia la soluzione più di buon senso. Piano, piano, se ne sta forse convincendo lo stesso sindaco di Venezia Giorgio Orsoni, il quale, l’ultimo giorno dell’anno, ha preso carta e penna ed ha inviato una lettera al vicepresidente della Regione Marino Zorzato, firmatario del protocollo di intesa con il commissario delegato al Piano carceri, dopo che l’esponente regionale sulle pagine del nostro giornale, aveva affermato che “Regione e Ministero sono indifferenti alla scelta del sito”. “Fermo restando che la realizzazione della nuova struttura sia da considerarsi un’assoluta priorità per la nostra città - ha scritto il sindaco nella missiva indirizzata a Zorzato - penso che sarebbe opportuno, prima di affrontare il dibattito con la popolazione, sapere se siano possibili altre ubicazioni, ed in tal caso, quali caratteristiche esse debbano avere. Ti pregherei di darmi una risposta - ha aggiunto Orsoni - eventualmente interpellando il Ministero, in modo che io possa gestire nel modo più trasparente ed informato tale questione di grande interesse per tutte le nostre comunità”. Il 13 gennaio, nel corso di un consiglio straordinario della Municipalità di Favaro, il primo cittadino sarà infatti chiamato ad esprimere una posizione definitiva rispetto a questa vicenda e in quella occasione dovrà dire alla popolazione di Favaro e Campalto se la scelta di Forte Pepe sia, o meno, una soluzione praticabile. Oristano: quattro testimoni accusano don Usai; gara di solidarietà per portare viveri ai detenuti L’Unione Sarda, 3 gennaio 2011 Attenta strategia difensiva e solidarietà. Passa su questi binari il futuro di don Giovanni Usai e del Samaritano, la comunità messa in piedi dal sacerdote nel 2002. I legali sono al lavoro per spulciare i faldoni con le pesanti accuse di favoreggiamento della prostituzione e violenza sessuale. A breve dovrebbe essere presentata la richiesta di revoca degli arresti domiciliari che il sacerdote, originario di Assolo, sta scontando nel convento dei Cappuccini a Oristano dal 28 dicembre scorso. E intanto è scattata una vera gara di solidarietà per la comunità che accoglie circa venti detenuti: i viveri iniziano a scarseggiare, in particolare dopo il recente sequestro di attrezzature e cibo in cattivo stato di conservazione da parte dei Nas. I volontari della Caritas ma anche tanta gente comune sono in prima linea per portare aiuto. Da subito hanno parlato di “accuse infondate”. Adesso i legali Anna Maria Uras e Francesco Pilloni dovranno studiare attentamente ogni dettaglio per smontare l’impianto accusatorio. “Stiamo valutando la possibilità di presentare l’istanza di riesame della misura cautelare al Tribunale della libertà di Cagliari”. Dieci giorni di tempo da quando sono scattati gli arresti domiciliari. I legali non parlano di chissà quali disegni per screditare il fondatore del Samaritano, ma ovviamente insistono sui riscontri e sulle prove che andranno valutate accuratamente. Le accuse sarebbero partite dalla denuncia di una ragazza nigeriana che lavorava al Samaritano e che avrebbe avuto una relazione con un ragazzo che non sarebbe stato “aiutato” proprio da don Giovanni Usai. Dopo l’esposto sono scattate le intercettazioni che inchioderebbero il sacerdote ma che, sempre secondo la difesa, andranno interpretate e valutate con attenzione. Così come si dovranno vagliare con cautela le dichiarazioni di altri quattro testimoni. Persone che conoscerebbero bene la vita al Samaritano e che, sentite dagli inquirenti, non hanno certamente risparmiato don Usai. Testimonianze che al momento sembrerebbero isolate tra le duemila persone, detenuti ed extracomunitari che negli ultimi cinque anni si sono alternati nella comunità, alle porte di Arborea. Un centro di recupero che, proprio perché ospita reclusi, quotidianamente riceve la visita delle forze dell’ordine per i controlli di routine. Si tratta di un’area di 40 ettari aperta e facilmente accessibile. Ai legali sembra quasi impossibile che su tutto dovesse vigilare don Usai, e che nessuno avesse mai notato niente. Diversi aspetti, dunque, fanno pensare a un quadro indiziario viziato da elementi di sospetto. Che poi dietro ci possa essere un complotto contro il sacerdote e la comunità o un tentativo di scaricare le responsabilità è tutto da dimostrare. Da giorni al Samaritano è un continuo viavai di persone che, oltre a portare parole di solidarietà, donano viveri per i ragazzi (carne, pasta e olio). Se è vero, infatti, che non tutti gradivano la presenza di un “carcere alternativo” a pochi passi da casa, è altrettanto vero che moltissimi hanno sempre apprezzato l’attività del centro. Tra gli ospiti, intanto, c’è preoccupazione per il futuro della struttura, ma sembra ormai certo che continuerà la sua attività come lo stesso don Usai si è augurato al momento del blitz dei carabinieri. A giorni potrebbe essere nominato un commissario per gestire la comunità durante l’assenza del suo fondatore. L’arcivescovo Ignazio Sanna dopo aver espresso tutta la propria vicinanza a don Giovanni Usai, ha fatto sapere che presto andrà a trovarlo. Sarà un incontro privato e carico di emozione. Intanto, è stato nominato anche un supplente per l’assistenza spirituale al carcere di piazza Manno, dove il sacerdote da circa un anno ricopriva il ruolo di cappellano. Oristano: il cappellano del carcere si difende; “prostituzione? non ne so nulla” di Mauro De Lazzari La Nuova Sardegna, 3 gennaio 2011 La parola è “complotto”. Don Giovanni Usai non la usa di fronte al giudice per le indagini preliminari, ma ha sempre aleggiato come un fantasma sullo sfondo dell’interrogatorio di garanzia durato quasi un’ora e mezzo, a cavallo dell’ora di pranzo di venerdì. Il giudice Mauro Pusceddu non ha fatto domande. Si è limitato ad ascoltare la deposizione del sacerdote, accusato di aver abusato di una ragazza nigeriana - da lei avrebbe ottenuto una prestazione in cambio di un’assunzione a tempo indeterminato - ospite della comunità per detenuti o ex detenuti “Il Samaritano”, gestita proprio da don Giovanni Usai, e di aver consentito che la struttura si trasformasse in una casa di appuntamenti, in cui le ragazze ospiti vendevano il proprio corpo. C’era anche il sostituto procuratore Diana Lecca, che ha ascoltato una versione totalmente opposta a quella che ha messo in piedi in questi mesi di indagine. Il magistrato che coordina l’inchiesta dei carabinieri ha ascoltato con attenzione, senza intervenire. Di certo c’è che don Giovanni Usai, affiancato dagli avvocati difensori Anna Maria Uras e Francesco Pilloni, è arrivato a conclusioni opposte a quelle degli inquirenti. Per prima cosa ha puntato il dito su quelli che sono i testimoni chiave dell’indagine. Sono gli stessi finiti nelle intercettazioni, ma anche quelli che hanno rilasciato le loro dichiarazioni. È sulla loro attendibilità che la difesa punta il dito. La ritiene evidentemente scarsa, anche perché sono persone che si sono lasciate alle spalle un passato quanto mai burrascoso, fatto inevitabilmente anche di vita vissuta dietro le sbarre di un carcere. Ma c’è dell’altro. Potrebbero avere più di un motivo valido per vendicarsi, per farla pagare a quel prete che in passato aveva forse osteggiato le loro attività illecite ed è per questo che oggi lo accusano. Sarebbero quindi testimoni carichi di astio. Ma sulle circostanze che hanno portato all’accusa di favoreggiamento della prostituzione, don Giovanni Usai tira fuori un’altra argomentazione che già era stata preannunciata dalla difesa. In cinque anni, in un’area di 38 ettari, sono passate circa 1.500 persone. Sono tante, troppe perché su queste potesse esserci assoluto controllo da parte del sacerdote, che spesso non soggiornava al Samaritano perché impegnato al di fuori della comunità. Sullo sfondo di queste dichiarazioni, aleggia come un fantasma la parola complotto. L’avevano tirata fuori gli amici di don Giovanni Usai nei giorni scorsi. Non ricompare nell’interrogatorio, ma sarebbe rimasta sospesa. Chi e perché quindi avrebbe avuto motivi per mettere in ginocchio Il Samaritano e il suo uomo guida? In questi anni la comunità ha dato fastidio a molti. Perché si occupa di detenuti, di extracomunitari. Perché per un periodo ha ospitato i rom allontanati dai loro terreni a Terralba, dopo un’ordinanza del sindaco. Tutte queste non sono esattamente persone che di questi tempi in tanti vorrebbero avere come vicini di casa. E allora ci sarebbe stato più di un motivo per voler incastrare don Giovanni, la cui versione però contrasta pesantemente con quella degli inquirenti e soprattutto con il pronunciamento del giudice per le indagini preliminari, che aveva disposto la misura di custodia cautelare agli arresti domiciliari. E a dimostrare che gli inquirenti ci siano andati coi piedi di piombo e con tutte le precauzioni del caso, ci sarebbe il fatto, ad esempio, che tuttora non abbiano esattamente rivelato il luogo in cui il sacerdote sta trascorrendo questi giorni difficili. Ne passeranno altri, ma non più di dieci, prima che i due avvocati difensori presentino la richiesta di riesame al tribunale della Libertà che sarà certamente chiamato a decidere se confermare i domiciliari. Intanto la voce dell’arcivescovo, Ignazio Sanna, si leva per la prima volta in maniera ufficiale dopo il suo rientro dalla Germania. Lo fa dopo l’incontro col collegio dei consultori e ribadisce che “la comunità diocesana ha appreso la notizia con grande sofferenza”. Poi c’è un invito alla preghiera per chi si è sempre impegnato per i poveri e gli emarginati. Milano: dai detenuti di San Vittore fondi per il restauro del duomo Città Nuova, 3 gennaio 2011 Il duomo di Milano è patrimonio di tutta la comunità milanese. Ciascuno lo deve sentire come qualcosa di suo, da presentare ai turisti. Come qualcosa di bello da mostrare agli ospiti, aveva detto il cardinale Dionigi Tettamanzi sollecitando la comunità civile ad intervenire e a collaborare affinché possano essere fatte le opere necessarie di restauro e mantenimento. Tra le tante iniziative sorte a sostegno del duomo, è particolarmente bella quella di sei detenuti sudamericani reclusi nel VI braccio, che hanno avuto l’idea di donare cento collane fatte con le loro mani per contribuire al restauro della guglia maggiore della Cattedrale, per la quale è in corso un complesso ed oneroso restauro conservativo. “Questi sei ragazzi sono milanesi solo temporaneamente - dice con emozione Rosalba Riva, insegnante volontaria di accessori di moda a san Vittore di 74 anni, ma con l’energia di una ragazzina–, eppure hanno sentito il bisogno di rispondere all’appello dell’arcivescovo. Erano persino un poco impauriti che la loro iniziativa non fosse accolta, e invece il cardinale ha accettato subito e con entusiasmo. Chi si trova in una situazione di disagio, passando il proprio tempo in una cella, e trova nonostante ciò la forza e la sensibilità di contribuire per un grande simbolo come il duomo, dà un grande messaggio: la speranza di un futuro migliore”. Alla Veneranda Fabbrica del duomo questo gesto è sembrato uno dei più belli per il Natale. La realizzazione concreta di questo gesto si è resa possibile appunto grazie all’impegno di Rosalba Riva, che dal 1997 con il suo Centro terziario ricreativo è attiva nel carcere di San Vittore come volontaria per offrire ai detenuti la possibilità di reinserirsi nel mondo del lavoro come artigiani nel settore della moda, una volta usciti da quelle mura. Il lavoro dei carcerati si avvale anche della consulenza dei maestri orafi milanesi, che hanno donato alla signora Rosalba un manuale da cui vengono tratte indicazioni utili per realizzare i gioielli. Sono stati realizzati cento pezzi unici di collane che portano il marchio “Collana corona”, due C “incatenate”, una di colore rosa e una bordeaux. Il marchio è stato depositato e tutelerà a livello internazionale la produzione del monile nelle carceri. “Il nostro duomo – spiega l’arciprete, monsignor Luigi Manganini - è sempre più una cattedrale fatta di pietre vive, di fede per chi crede e comunque luogo aperto a tutti, casa davvero dei milanesi e non. Le luci che illuminano le vetrate, le terrazze fruibili di sera, l’accompagnamento della musica, i concerti che abbiamo previsto, fanno del duomo un cuore che pulsa con uno splendore evidente, ma spesso inatteso, perché si potranno scoprire tante suggestioni normalmente nascoste ai più”. Viterbo: anche Renata Polverini al carcere Mammagialla per il concerto di Masini Asca, 3 gennaio 2011 “Standing ovation dei detenuti del carcere Mammagialla di Viterbo per il concerto di Marco Masini, evento che ha chiuso la rassegna di spettacoli organizzati dalla Regione negli istituti penitenziari del Lazio nell’ambito dell’iniziativa “È Natale per tutti”. È quanto si legge in una nota della Regione Lazio. “Soddisfatta” la presidente della Regione, Renata Polverini, che ha assistito al concerto annunciando non solo che la manifestazione si ripeterà il prossimo anno, ma che “da oggi parte una nuova iniziativa, finanziata dalla Regione, che vedrà gli artisti già impegnati in “È natale per tutti” farsi maestri e dare lezioni di musica ai detenuti. Accanto all’impegno che già mettiamo nella formazione professionale abbiamo così voluto realizzare qualcosa di più”. Il concerto del cantante toscano, continua la nota, “ha riscosso una grande partecipazione tra i detenuti e anche tra le altre autorità presenti, tra cui gli assessori regionali alla Sicurezza, Pino Cangemi, e alle Politiche agricole, Angela Birindelli, il direttore dell’Istituto penitenziario, Pierpaolo D’Andria, il presidente della Provincia di Viterbo, Marcello Meroi, il sindaco della città Giulio Marini, la senatrice Laura Allegrini, il consigliere regionale Francesco Battistoni. “È la prima volta che suono in un carcere - ha commentato il cantante - e credo sia una tappa a livello umano che mai mi sarei aspettato di vivere. Per questo ringrazio la Regione Lazio e la direzione del carcere per questa opportunità”. L’iniziativa “È Natale per tutti”, conclude la nota, “proseguirà adesso fino al 6 gennaio con una grande giornata di cinema negli ospedali di Roma e delle province che hanno aderito all’iniziativa (Gemelli, Sant’Eugenio, San Pietro, Grassi di Ostia, Spaziani di Frosinone) e un film tutto dedicato ai piccoli pazienti del Bambino Gesù, “L’uomo fiammifero”, al quale assisterà anche la presidente Renata Polverini”. Civitavecchia: grande successo del concerto di musica gospel per i detenuti, Il Faro, 3 gennaio 2011 Un Concerto di musica gospel del “New York State Choir” diretto da John David Bratton e introdotto dal Reverendo Heverett Jenkins, una emozionante esibizione del coro americano per i detenuti della Casa di Reclusione di Civitavecchia e per gli ospiti presenti giovedì 30 dicembre 2010. La musica è una delle vie più immediate di accesso e scambio culturale, facilita il dialogo tra le persone, accomuna molti popoli. Un importante progetto della Regione Lazio, portare cinema, libri, musica negli istituti penitenziari del Lazio. Presente all’evento l’Assessore alle Politiche Agricole Dott.ssa Angela Birindelli della Regione Lazio e un rappresentante del Garante dei detenuti, la Direttrice del Carcere Dott.ssa Patrizia Bravetti. Nell’occasione la referente del Comitato Unicef di Civitavecchia presente all’evento, ha consegnato ai detenuti l’attestato dell’Unicef quale ringraziamento per aver confezionato e adottato tante Pigotte attraverso le quali l’Unicef come ogni anno, attuerà la campagna di vaccinazione per i bambini nei Pvs. Grecia: leader politico curdo chiede asilo politico, ma viene messo in carcere Ansa, 3 gennaio 2011 Mustafa Sarikaya, ex vicepresidente del partito curdo Dtp, dichiarato illegale da Ankara nel 2009, è in stato di detenzione in Grecia dove aveva chiesto asilo politico dopo esservi entrato illegalmente. Le autorità elleniche hanno trasmesso la sua richiesta alla Repubblica di Cipro che, secondo il Regolamento di Dublino, sarebbe competente al riguardo. Sarikaya, secondo quanto indicano fonti della polizia, era stato arrestato nei giorni scorsi a Salonicco durante uno scalo, proveniente da Cipro e diretto a Sofia, perché trovato in possesso di un passaporto bulgaro falso. Tradotto davanti a un magistrato, questi lo aveva però scagionato per aver commesso il fatto ‘in stato di necessita”. Le autorità greche lo hanno comunque trattenuto in attesa della risposta del governo cipriota alla domanda di asilo. Sarikaya, 46 anni, ha giustificato la sua domanda di asilo affermando di aver trascorso 20 anni nelle prigioni turche e che la sua vita sarebbe in pericolo se fosse deportato in quel Paese, la cui politica repressiva nei confronti della minoranza curda è stata criticata anche a livello internazionale. Il Regolamento di Dublino 2 stabilisce, allo scopo di evitare richieste multiple di asilo, quale sia lo stato europeo competente a garantire la protezione in base alla Convenzione di Ginevra e alla legislazione Ue. Di solito tale competenza spetta al primo Paese dell’Unione in cui il richiedente ha messo piede, in questo caso la Repubblica di Cipro. Iran: in soli due giorni impiccate 20 persone, trafficanti di droga e “terroristi” Ansa, 3 gennaio 2011 Sette uomini condannati a morte per traffico di stupefacenti sono stati impiccati oggi in Iran, portando a 11 il numero delle esecuzioni capitali nel Paese dal primo gennaio. Le sette impiccagioni, riferisce l’agenzia Fars, sono avvenute nel carcere di Kermanshah, nell’ovest della Repubblica islamica. Il procuratore della città, Mojtaba Maleki, ha detto che i condannati erano stati trovati in possesso complessivamente di cinque chilogrammi di eroina e cento chili di crack. Secondo notizie di stampa, sono state 179 le esecuzioni capitali nel 2010 in Iran, dove la pena di morte è prevista per numerosi reati, quali l’omicidio, la rapina a mano armata, il traffico di droga, lo spionaggio e la violenza sessuale. Ma può essere applicata, anche se raramente avviene, anche per i colpevoli di adulterio e di omosessualità. È stato impiccato stamattina nel carcere di Zahedan Bahman Righi, familiare dell’ex leader della formazione armata Jundullah, Abdel - Malek Righi, lui stesso impiccato lo scorso giugno. Lo riferisce oggi il sito d’opposizione laica iraniana “Iran Press News”, spiegando che Bahman Righi era stato condannato a morte dal Tribunale della Rivoluzione di Zahedan perché riconosciuto colpevole di aver attentato alla sicurezza nazionale, organizzando attacchi terroristici, e di essere un Mohareb (nemico di Allah e dell’Islam). Nelle ultime 48 ore sono state impiccate circa 20 persone in Iran. Jundullah è una formazione armata di matrice islamico - sunnita, attiva soprattutto nella provincia del Balucistan iraniano, che da anni compie attività politiche clandestine contro la Repubblica islamica dell’Iran, rivendicando di rappresentare la voce dei sunniti iraniani. Nell’ultimo anno Jundullah ha organizzato diversi attentati terroristici in Iran, provocando la morte di decine di persone. Iran: per Sakineh l’ennesima messa in scena del Governo… e forse una nuova speranza Il Velino, 3 gennaio 2011 Riporta La Repubblica: “Nuovo anno, ma stesso copione. Sakineh che può cenare una sera con i figli ma minaccia di querelare quanti hanno pubblicizzato il suo caso, il figlio maggiore Sajjad rilasciato su cauzione dopo due mesi di carcere che dichiara la madre colpevole e la magistratura iraniana che apre a un possibile annullamento della condanna alla lapidazione: anche nel 2011 la guerriglia mediatica adottata dal regime di Teheran in risposta alle pressioni internazionali per liberare la vedova iraniana condannata a morte per adulterio e complicità nell’omicidio del marito alterna aperture e intimidazioni. Ad aprire è stato ieri Malek Ajdar Sharifi, responsabile dell’apparato giudiziario della provincia dell’Azerbaijan orientale dove Sakineh è detenuta. “Tutto è possibile”, ha detto a un giornalista che chiedeva se la sentenza di lapidazione potesse essere annullata senza però precisare se Sakineh rischi tuttora l’impiccagione. Il giorno prima ad accusare la donna era stato proprio il figlio, Sajjad Ghaderzadeh, lo stesso ad avere rivolto accorati appelli alla comunità internazionale. ‘Considero mia madre l’assassina di mio padre insieme a Issa Taheri (il suo presunto complice e amante, ndr)’, ha detto chiedendo però clemenza. Arrestato il 10 ottobre insieme all’avvocato Hutan Kian e a due giornalisti del domenicale tedesco Bild am Sonntag, Marcus Alfred Rudolf Hellwig e Jens Andreas Koch, sarebbe stato rilasciato il 12 dicembre dopo che - stando alle sue dichiarazioni in conferenza stampa - un parente avrebbe pagato una cauzione di 400 milioni di rial, 40mila dollari. E contro i due giornalisti tedeschi in carcere da oltre due mesi si è scagliata invece Sakineh, dopo aver avuto il permesso di lasciare il carcere una sera per cenare con i figli a Capodanno. “Ho detto a Sajjad di querelare coloro che hanno disonorato me e il mio Paese”, ha detto riferendosi ai due tedeschi, al suo ex - avvocato Mohammad Mostafaei e a Mina Ahadi del Comitato internazionale contro la lapidazione. “Voglio dire a coloro che vogliono strumentalizzarmi [...] lasciatemi in pace. Perché volete disonorarmi?”, ha aggiunto alla presenza di agenti di sicurezza, mentre ai giornalisti non era consentito fare domande. “Sono venuta - ha precisato - dinanzi alle telecamere di mia volontà, ma è difficile, come ha osservato il ministero degli Esteri tedesco, non dubitare delle dichiarazioni di madre e figlio come l’ennesima messa in scena voluta dal governo iraniano. Iniziativa giudicata sorprendente dalla Bild am Sonntag che ieri ha pubblicato un appello a favore dei suoi reporter siglato da un centinaio di personalità, tra cui ministri, sportivi come Michael Schumacher e scrittori come il Nobel Herta Müller”.