Giustizia: Michele, Yuri e gli altri… i drammi del silenzio per le morti di carcere di Diego Motta Avvenire, 26 gennaio 2011 Sono almeno cinque i casi di morte sospetta denunciati da madri, sorelle e nipoti. “Le ipotesi di suicidio? Irrealistiche. Temiamo che vogliano nasconderci la verità”. È sempre difficile rispondere alle domande di una madre davanti alla morte di un figlio. Quando poi tutto succede dietro alle sbarre, spesso le domande lasciano il posto alle certezze. “Michele non si è tolto la vita” sostiene mamma Michela. Michele è Michele Massaro, 23 anni, morto nel carcere di Perugia il 12 gennaio scorso per aver inalato dosi letali di gas. “La sua morte non è stato un suicidio come all’inizio volevano farci credere - ha denunciato la madre nei giorni scorsi. Il gas lo ha ucciso lentamente e nessuno lo ha salvato. Nessuno si è accorto di quello che stava passando, nonostante tutte le nostre denunce”. Non è un altro caso Cucchi, forse, ma certo gli episodi di morte sospetta avvenuti in carcere negli ultimi anni crescono, al pari del vergognoso sovraffollamento. Sono cinque, almeno, le storie su cui i familiari delle vittime hanno sollevato pesanti dubbi. I nomi dei detenuti in questione sono quelli di Michele Massaro e Aldo Bianzino morti a Perugia, di Yuri Attinà e Marcello Lonzi deceduti a Livorno, di Carmelo Castro morto a Catania. Nel frattempo, anche gli italiani morti in carcere all’estero aumentano: dopo il caso di Daniele Franceschi nel penitenziario di Grasse, in Francia, ieri si è avuto notizia del suicidio di un giovane rinchiuso in regime di detenzione preventiva in Svizzera, nel carcere distrettuale di Zurzach, nel Canton Argovia. Due settimane fa, un episodio analogo si era verificato nel penitenziario di Aarau-Telli. A dare voce a chi non ha più voce spesso sono mamme, sorelle, fratelli. “Mio figlio non era in grado nemmeno di allacciarsi le scarpe, figuriamoci di attaccare un lenzuolo alla branda e impiccarsi” ha detto la mamma di Carmelo Castro, diciannovenne incensurato morto in Sicilia in circostanze oscure. “Lui, altro un metro e ottanta, è stato trovato impiccato a una branda alta un metro e settanta. Com’è possibile?” si chiede oggi Francesco Morelli dell’associazione Ristretti Orizzonti, da sempre un osservatorio quotidiano sul pianeta carceri. I dubbi su quella morte sono legati anche a una fotografia del giovane scattata al momento dell’ingresso in carcere, con un volto che porta i segni di un possibile pestaggio. “Non conosco la dinamica precisa di quella morte - spiega Donato Capece, segretario generale del Sappe - e sono certo non ci sia alcuna responsabilità degli agenti. D’altra parte, di casi così ce ne sono a centinaia mentre molti dimenticano che ogni giorno, grazie al nostro impegno, viene sventato il 99% dei tentativi di suicidio”. Per una famiglia che rivendica a maggior ragione chiarezza sui fatti, esiste infatti la posizione speculare della polizia penitenziaria, costretta a lavorare in situazioni drammatiche nell’indifferenza generale. “Le carceri adesso sono delle polveriere, ma nessuno sembra accorgersene” denuncia Capece. Il silenzio assordante delle istituzioni è spesso squarciato da fatti di cronaca come quello di Aldo Bianzino, falegname arrestato a Perugia per il possesso di alcune piante di marijuana, trovato morto in carcere due giorni dopo il suo arresto nell’ottobre 2007. Quattro anni prima, a Livorno, aveva perso la vita Marcello Lonzi, secondo l’autopsia per arresto cardiaco. Una versione duramente contestata dalla madre, che ritenendo il decesso conseguenza di un violento pestaggio, ha iniziato un lunghissimo iter giudiziario per chiedere chiarezza. “Ho paura che prevalga la volontà di nascondere la verità” scrisse la donna in una lettera all’allora presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi. La battaglia di mamma Maria continua, con dubbi avvalorati da terribili immagini scattate sul cadavere della vittima, che farebbero pensare a un’aggressione subita dietro le sbarre. Anche Yuri Attinà è morto nel penitenziario di Livorno, ufficialmente per infarto, il 5 gennaio scorso. “Ci hanno detto che è morto per un malore, ma Yuri era sanissimo, un ragazzone alto, senza problemi di salute. Andremo avanti fino in fondo perché in questa storia vogliamo vederci chiaro” ha detto Valentina, nipote del ragazzo. Perché il dolore accomuna tutti, le giovani donne e i loro fratelli. Il tempo non è bastato per cancellare le loro domande. Giustizia: per la morte di Cucchi 2 anni a un funzionario del Prap e12 rinvii a giudizio Corriere della Sera, 26 gennaio 2011 Una condanna e dodici rinvii a giudizio. Ci sarà un processo per la morte di Stefano Cucchi, il tossicodipendente arrestato per droga dai carabinieri il 16 ottobre del 2009 e deceduto sei giorni dopo il ricovero all’ospedale “Sandro Patini”. Il gip Rosalba Lisi ha confermato l’impostazione della procura: Cucchi è stato picchiato dagli agenti di custodia nelle celle del Palazzo di giustizia, dove era in attesa dell’udienza di convalida del fermo. Ma ha perso la vita perché non è stato curato dai sanitari. Il giudice ha inflitto due anni di reclusione (ha scelto il rito abbreviato) a Claudio Marchiando, direttore dell’ufficio detenuti e del trattamento del “Prap”, il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria. Accusato di falsità ideologica e abuso d’ufficio, il funzionario (insieme con la dottoressa Rosita Caponetti, medico di turno al Patini), “al fine di precostituirsi le condizioni previste dal protocollo organizzativo di struttura complessa di medicina protetta per accettare il ricovero di Cucchi, indicava falsamente nell’esame obiettivo riportato nella cartella clinica redatta all’ingresso del paziente dati palesemente falsi in ordine alle reali condizioni del paziente”. Gli agenti penitenziari Nicola Minichini, Corrado Santantonio e Antonio Domenici sono accusati di lesioni aggravate e “abuso d’autorità nei confronti di arrestati o detenuti” per aver preso a calci Cucchi. Medici e infermieri - per i pm Vincenzo Barba e Francesca Loy - hanno abbandonato il paziente, “incapace di provvedere a se stesso, omettendo anche di adottare i più elementari presidi terapeutici e di assistenza che, nel caso di specie, apparivano doverosi e tecnicamente di semplice esecuzione ed adottabilità e non comportavano particolari difficoltà di attuazione, essendo per altro certamente idonei ad evitare il decesso di paziente”. Il 24 marzo inizierà il processo contro il primario del reparto ospedaliero, Aldo Fierro, i medici Silvia Di Carlo, Flaminia Bruno, Luigi Preite De Marchis, Stefania Corbi e la Caponetti e gli infermieri Giuseppe Flauto, Elvira Martelli e Domenico Pepe. Eccetto la Capo - netti, rispondono tutti di “abbandono di persona incapace”, reato punito fino a otto anni di carcere. “Resta comunque l’amarezza perché si continua a dire che Stefano è morto per una malattia e non per le botte. Andremo a dibattimento con questa falsa ricostruzione che si basa su una consulenza medico - legale insufficiente e che descrive una realtà che non condividiamo”, ha detto l’avvocato Fabio Anselmo, legale della famiglia Cucchi. “Ho visto il dolore negli occhi della mia famiglia. Ma il processo darà ragione a noi e alle nostre tesi”, ha aggiunto Ilaria Cucchi, sorella di Stefano. E mentre il sottosegretario Carlo Giovanardi ha ribadito che la Presidenza del Consiglio si costituirà parte civile, il sindaco Gianni Alemanno e la presidente della Regione Renata Polverini hanno espresso soddisfazione per la decisione del giudice. Di “segnale positivo” ha parlato il vicesegretario del Pd Enrico Letta, mentre il Sappe (Sindacato autonomo polizia penitenziaria) ha ammonito: “Il rinvio a giudizio non è una sentenza di condanna”. “Nessuno potrà restituire Stefano Cucchi alla famiglia. Mi auguro che il processo stabilisca la verità su quanto è accaduto”, ha osservato il senatore Ignazio Marino, presidente della Commissione d’inchiesta sul Servizio Sanitario Nazionale che ha svolto una lunga e approfondita indagine sul decesso di Stefano Cucchi e ha chiesto e ottenuto una modifica dei protocolli organizzativi delle strutture protette per quanto riguarda l’assistenza ai pazienti detenuti. Giustizia: la sorella; per loro era solo “un tossico”… e manca l’accusa di omicidio Corriere della Sera, 26 gennaio 2011 Anche ora che la giustizia ha fatto un passo avanti - quanto lungo si vedrà - Ilaria Cucchi non riesce a dimenticare quella frase scovata fra le trascrizioni delle intercettazioni. Due guardie carcerarie, coinvolte nelle indagini sulla morte di suo fratello Stefano, parlavano al telefono e una di loro esprimeva disappunto per il clamore suscitato da quella vicenda. Ha chiamato Stefano “tossico di m...”, racconta Ilaria, ripensando al brivido di indignazione che l’ha percorsa quando ha letto il brogliaccio. Un’espressione uscita dal senno dell’intercettato, sintomo dei pregiudizi da cui è scaturito il dramma che ha portato alla morte di suo fratello: L’hanno sempre considerato non una persona, ma un drogato che creava problemi. E quella frase, pronunciata dopo la diffusione delle fotografie del cadavere di Stefano ridotto come tutti hanno potuto vedere, dimostra che nemmeno in quel momento c’è stato un ripensamento, la voglia di rendersi conto degli errori commessi. Mio fratello per loro e sempre rimasto un tossico, che sia morto senza diritti e dignità è un dettaglio che non interessa. Eppure ieri un giudice ha rinviato a giudizio dodici persone per la fine di Stefano Cucchi, e una è già stata condannata. È un primo successo, senza dubbio - dice Ilaria, ma parlare di soddisfazione sarebbe davvero fuori luogo. Intanto perché non dobbiamo dimenticare che alla base di questa decisione c’è la morte atroce e inspiegabile di un ragazzo di 31 anni che voleva vivere, nonostante i suoi problemi. E poi perché l’imputazione parla ancora di lesioni e non di omicidio, sia pure preterintenzionale. È rimasta l’idea che le percosse non siano collegate con la fine di Stefano, come se fosse finito in ospedale per chissà quali motivi. Per me è assurdo, ma anche per il giudice. Il quale però in questa fase non poteva fare diversamente”. Nella sua ordinanza il giudice che ha deciso i rinvii a giudizio ha specificato che “le considerazioni emerse dalle parti civili evidenziano problematiche degne di considerazione, che necessitano di essere approfondite”. Significa che resta il dubbio sulla natura e la gravità delle lesioni sul corpo di Stefano, avanzato ripetutamente dagli avvocati della famiglia Cucchi dopo una consulenza che (al contrario di quella dei pubblici ministeri) metteva in stretta correlazione le botte prese dal detenuto con la morte provocata secondo l’accusa - dallo stato di abbandono in cui l’avrebbero lasciato i medici dell’ospedale Sandro Pertini. “Dopo le parole del giudice commenta Ilaria Cucchi, mi auguro che anche i pubblici ministeri si rendano conto che sono rimasti soli a credere alle conclusioni dei loro consulenti. Spero che cambino idea”. Se non dovessero farlo, modificando il capo di imputazione per gli agenti penitenziari, gli avvocati della famiglia Cucchi, Fabio Anselmo e Dario Piccioni sono pronti a riproporre la questione alla corte d’assise. Ma qualora i giudici dovessero convincersi che l’accusa di “lesioni” sia troppo blanda per gli imputati, il processo tornerebbe all’udienza preliminare, con un considerevole allungamento dei tempi. Ed eccoci al paradosso: dopo un anno e mezzo di tira e molla per arrivare al processo di primo grado, i familiari della vittima sono disposti a retrocedere alla stadio precedente pur di arrivare un quadro più convincente di come si sono svolti i fatti. “Sarebbe un nuovo dispendio di energie, emozioni e dolore - dice la sorella di Stefano Cucchi - ma se è necessario siamo disposti ad affrontare anche questa prova. Perché in tutta sincerità, e con tutto il rispetto per il lavoro dei pubblici ministeri, la soluzione che si sta affermando mi sembra un po’ ipocrita. Come si fa a dire che le lesioni non sono collegate alla morte di Stefano, se sono il motivo per cui è finito in ospedale? Se non era in condizioni gravi, perché l’hanno nascosto a noi e al resto del mondo chiudendolo in quella struttura protetta dove nessuno poteva entrare?”. Questo è un punto chiave del processo, individuato dalla condanna del rappresentante dell’amministrazione penitenziaria giudicato colpevole di aver disposto l’ingresso di Cucchi nel reparto carcerario del Pertini un sabato pomeriggio, in tutta fretta e fuori dalle regole. Per l’accusa il movente di quel ricovero era proprio la necessità di sottrarre il detenuto picchiato da sguardi indiscreti, e Ilaria Cucchi insiste: “Con questa premessa è contraddittorio e illogico continuare a separare le percosse dai motivi per cui è morto Stefano. Che motivo aveva quel funzionario della direzione delle carceri di esporsi con un comportamento del tutto inusuale, se non quello di proteggere qualche comportamento grave da parte di altri esponenti dell’amministrazione? Stefano è stato ucciso dalle botte che l’hanno portato all’ospedale dove non è stato curato come doveva. Già l’inchiesta non ha chiarito che cosa è davvero accaduto la notte dell’arresto, nelle caserme dei carabinieri; se dovessero rimanere ombre anche su ciò che hanno fatto gli agenti di custodia, sarebbe veramente inaccettabile. Ma continuiamo a sperare. In fondo non era nemmeno scontato che arrivassimo alla celebrazione di un processo”. Giustizia: economia carceraria, quando stare dietro le sbarre diventa un’impresa di Camilla Bernacchioni Nuovo Corriere di Prato, 26 gennaio 2011 Attraverso “Recuperiamoci” è nata una rete tra le cooperative presenti nei penitenziari. “Attività fragili e da sostenere che aiutano a rifarsi una vita”. Paolo Massenzi promuove il lavoro dei detenuti mettendo in commercio i prodotti realizzati dentro le carceri. Si può uscire dal carcere attraverso il lavoro e un percorso assistito, in un graduale ritorno alla libertà. Anche chi non ha finito di scontare la pena ha diritto di reinserirsi nella società. Un mercato che può fiorire quello delle attività professionali che si svolgono nei penitenziari italiani e che può diventare occasione di incontro e scambio di esperienze fra i detenuti e la cittadinanza. È quello che sta facendo Paolo Massenzi romano di nascita e pratese d’adozione che dell’economia carceraria ha fatto il suo obiettivo. Da un anno gira l’Italia in lungo e largo con il suo camper anni ‘80. Un “Jail tour” che lo ha portato a conoscere tutte le realtà carcerarie del territorio a cominciare dalla Dogaia e che alla fine ha dato vita a “recuperiamoci!” (www.recuperamoci.org) network solidale - e da settembre associazione no profit con sede a Prato - all’interno del quale circolano le esperienze lavorative esistenti dentro il “pianeta carcere”. Un cambio di vita per Massenzi, che per anni si è occupato di gestione e riorganizzazione dei processi produttivi in vari settori, scaturito dalla notizia della morte assurda di Stefano Cucchi (avvenuta dopo la detenzione nel carcere di Regina Coeli). Si è posto delle domande: “Volevo capire se nelle carceri italiane ci fosse qualcosa di buono, ho pensato che avrebbe potuto esserci mio figlio in quella situazione. E da lì ha deciso di conoscere da vicino le carceri”. Trentamila chilometri dopo “ho visto che ci sono anche cose positive e ho capito che il sistema migliore è di aprire le carceri, far lavorare i detenuti, la recidiva in questo caso diminuisce drasticamente e si crea sicurezza sociale”. Cosa che già fanno in molti penitenziari. “Ma la maggior parte delle cooperative che fanno attività in carcere sono fragili - continua Massenzi - io invece vorrei intervenire sui processi produttivi, sul concetto di impresa carceraria che manca, sia dentro che fuori, mettendo a disposizione la mia esperienza”. Tra gli obiettivi di “recuperiamoci!” infatti c’è la creazione e il coordinamento di eventi e incontri, per “fare si ste ma fra tutte le buone attività carcerarie” per promuovere il lavoro, i prodotti e le professionalità acquisite dai detenuti, dentro e fuori. “I numeri dimostrano che in presenza del lavoro e di un percorso assistito la recidiva passa dal 70% al 19%, quindi puntare sul circolo virtuoso carcere-lavoro-recupero conviene a tutti”. Tutto il 2010 Massenzi lo ha passato con la sua Jail mobile in giro per gli istituti ma anche a fiere solidali come “Fà la cosa giusta!” e “Terra Futura” dove ha ospitato venti cooperative e produzioni nel primo “emporio carcerario” di recuperiamoci!. Così ha preso campo il percorso non commerciale e s pe cu lati - vo di “cr e a zi one di un network virtuoso” tra le cooperative, gli istituti di reclusione, le istituzioni e la società civile. In tutto l’anno ha raccolto e catalogato il “made in carcere” prodotto da circa 100 cooperative che producono circa quattrocento prodotti di tutti i generi dall’abbigliamento ai generi alimentari ai mobili e alla moda, spesso con materiale di recupero. “Cerchiamo di valorizzare l’economia carceraria, che spesso non ha la possibilità di entrare nel mercato”. Da recuperiamoci! le richieste di informazioni sui prodotti e di fornitura ricevute vengono girate alle cooperative che si occupano della produzione, soldi compresi. Adesso ricomincia da Prato dove ha iniziato il tour: “sto lavorando a un progetto per portare avanti questa rete, servono risorse, spazi e soprattutto la volontà di dare voce a queste realtà”. Un tour per l’Italia con un camper anni 80 Tutto è cominciato nell’ottobre 2009 quando Paolo Massenzi ha visitato le lavorazioni all’interno della Casa di Reclusione di Rebibbia, ha incontrato il direttore e il responsabile dell’area pedagogica del carcere di Prato, alcune cooperative Romane, Lombarde e Toscane. A luglio 2010, è iniziata l’avventura del “Jail Tour 2010”, un viaggio attraverso la penisola alla scoperta di quanto di buono viene prodotto nell’immenso universo carcerario. Il futuro di recuperiamoci! (www.recuperiamoci.org) è continuare a “fare” quanto ideato nel 2009: valorizzare gli spazi fisici e mentali dove possano lavorare detenuti e ex detenuti, insieme a donne e uomini liberi e volontari, un ponte tra il carcere e la società civile. E poi avviare il progetto di promozione dell’economia carceraria - su scala nazionale - attraverso l’occupazione di detenuti: una rete organizzativa dove far viaggiare il Jail Tour e dove sviluppare il network virtuoso di recuperiamoci!. Infine progettare il recupero di “Cantieri - Laboratori - Vetrine” nel territorio per creare oggetti e manufatti a partire dal recupero degli scarti, dei saperi e dei mestieri, per iniziare a dare visibilità del buono fatto in carcere. Dal vino alle borse: un mercato in crescita “Dolci evasioni”, “Ora d’aria”, “Made in Carcere”, “Il Fuggiasco”: si chiamano così i prodotti realizzati nei vari istituti carcerari italiani. Si va dall’abbigliamento, ai generi alimentari, all’arredamento. Tanti tantissimi articoli che lo stesso sito internet del Ministero della Giustizia mostra in una sezione a parte: “Vetrina dei prodotti dal carcere”. “Vetrina” appunto delle buone pratiche ma anche di valori e possibilità. Nella sezione si trovano gli articoli artigianali, creazioni e prodotti agricoli curati dai detenuti e che si possono acquistare individuando in ogni regione i negozi che li commercializzano. I prodotti si possono anche selezionare in base all’istituto penitenziario che ha avviato l’impresa. E non c’è che l’imbarazzo della scelta: si comincia dalle shopper bag “Made in Carcere” modelli con manici o tracolla in tessuti tinta unita o fantasia. Le shopper bag sono confezionate da sedici detenute con materiali spesso provenienti dalle aziende del territorio pugliese. E non è l’unico prodotto di Officina Creativa cooperativa sociale senza fini di lucro che nel 2007 ha dato vita al marchio Made in Carcere®, che produce borse, accessori e shopper bag colorate e originali. Ma si trova anche la maglietta “Punto interrogativo” della linea O’press con versi di canzoni di Fabrizio De Andrè: “Quello che non ho è quel che non mi manca” che nasce dalla collaborazione della Fondazione De Andrè, la casa discografica Universal, e la casa circondariale di Genova - Marassi. La serigrafia è realizzata in carcere, dai detenuti della V Sezione di alta sicurezza. E poi pasticcini, cioccolatini e tavolette di “Dolci libertà” prodotti nel laboratorio di pasticceria artigianale di alta qualità della casa circondariale di Busto Arsizio. Produce birra invece la cooperativa Pausa caffè: 4 gradi, si ispira allo stile delle Weizen, interpretato in modo del tutto originale con l’impiego di Tapioca, Quinoa, Amaranto e Riso basmati. È di aspetto paglierino, opalescente, schiuma pannosa, abbondante e molto persistente. Giustizia: dai Radicali un’interrogazione parlamentare sul carcere di Sulmona Redattore Sociale, 26 gennaio 2011 Interrogazione a risposta scritta della radicale Rita Bernardini ai ministri della Giustizia e della Salute, dopo la visita nella casa di lavoro dove la settimana scorsa si è tolto la vita un detenuto. Dopo la visita al carcere di Sulmona, domenica 23 gennaio, a seguito del suicidio di un detenuto di 64 anni di origini egiziane, la parlamentare radicale Rita Bernardini ha rivolto un’interrogazione a risposta scritta, al Ministro della Giustizia e al Ministro della Salute, sottolineando diverse criticità della struttura che ad oggi accoglie una popolazione carceraria di 445 persone a fronte di una capienza massima di 250 e con un carenza di 60 agenti di polizia penitenziaria. Ma è sulla casa internati che la Bernardini ha posto la sua interrogazione. “Nonostante gli sforzi del direttore, gli internati che lavorano sono attorno al 40% - si legge nell’interrogazione - , tutti gli altri passano almeno 18 ore al giorno in cella in una vera e propria detenzione carceraria; d’altra parte, il taglio di un ulteriore 25% degli stanziamenti per le mercedi, non può non ripercuotersi sulle possibilità di svolgere un’attività, tanto che gli internati che sono impiegati a turnazione nei servizi di pulizia e vitto, nel mese in cui hanno la fortuna di lavorare, non riescono a guadagnare più di 100-130 euro; molti degli internati, peraltro con condizioni familiari di estrema indigenza, hanno riferito all’interrogante che - pur di essere impiegati in un’attività - sarebbero disponibili a farlo a titolo totalmente gratuito”. Altra questione è l’assistenza sanitaria. “A detta di pressoché tutti gli internati, - racconta la Bernardini - la più che deficitaria assistenza sanitaria pone a forte rischio la loro salute. Un internato con 5 infarti alle spalle, per esempio, non è mai stato sottoposto a visita cardiologica tanto che si è visto costretto a farla approfittando di una licenza; un altro, privo di un rene e con pressione alta che peraltro non gli viene mai misurata, da mesi attende di essere operato per la rottura di una protesi d’anca; un malato psichiatrico “che parla da solo” (dicono gli altri internati), che non si lava e non fa colloqui, continua a rimanere lì mentre risulta evidente che le sue condizioni richiederebbero il ricovero in una struttura sanitaria adeguata; un invalido totale dichiara di non ricevere alcuna assistenza sanitaria specifica; evidenti sono i problemi odontoiatrici: molti internati, infatti, sono sdentati o hanno gonfiori a causa di infezioni in corso; lo stesso egiziano che si è suicidato alcuni giorni fa da tempo si lamentava di non essere curato e già aveva tentato il suicidio alla vigilia di Natale.” Sempre a proposito di problemi sanitari, nell’interrogazione si segnala che il “reparto penitenziario ospedaliero, si trova nel seminterrato dell’ala vecchia dell’ospedale di Sulmona, dichiarata da tempo inagibile, il che mette in serio pericolo l’incolumità dei detenuti, degli agenti penitenziari e del personale civile che ivi opera. Sicuramente va segnalato - continua - come aspetto positivo della visita di sindacato ispettivo effettuata, l’ottimo rapporto che gli internati hanno con il direttore e con gli agenti della polizia penitenziaria; ma ciò che rimane difficile accettare da parte di queste persone è il supplemento di pena che gli viene imposto quale misura di sicurezza decisa dal magistrato di sorveglianza per una valutazione di “pericolosità sociale” che li sottopone ad una restrizione della libertà che in nulla si differenzia dalla detenzione ordinaria”. Per tutti questi motivi la Bernardini chieda al ministro se “non intenda provvedere alla immediata chiusura della casa di lavoro di Sulmona o quanto meno, prendere le opportune iniziative per riportarla nella legalità sia per quanto riguarda le effettive possibilità di lavoro degli internati sia per quanto attiene alle condizioni “detentive” in cui si concretizza la loro permanenza nell’istituto; se intenda, e in che tempi, ripristinare l’organico oggi fortemente deficitario, degli agenti di polizia penitenziaria; cosa intenda fare il ministro della salute per vigilare sul rispetto del diritto alla salute degli internati nel carcere di Sulmona; cosa intendano fare in merito all’ubicazione del reparto penitenziario dell’Ospedale di Sulmona; quali siano gli intendimenti del Governo ai fini di una piena considerazione dei problemi esposti in premessa e, conseguentemente, quali indirizzi giuridici e legislativi intenda assumere, in coordinamento con le diverse responsabilità e con i soggetti istituzionali interessati, sul fronte della riforma delle modalità e dei meccanismi applicativi ed esecutivi delle misure di sicurezza detentive”. Giustizia: la Repubblica mediatica dei Travaglio e la carcerazione di Totò Cuffaro di Sandro Padula Liberazione, 26 gennaio 2011 Il 7 dicembre 2010 il giornalista e affabulatore televisivo Marco Travaglio criticò il ddl Alfano riguardante “l’esecuzione presso il domicilio delle pene detentive non superiori a un anno”. Pensava fosse un “indulto mascherato” e, di conseguenza, a suo parere, si sarebbe notevolmente ridotto il numero dei detenuti. Il 25 gennaio di quest’anno, quando grazie a quel ddl non sono uscite di galera neppure un centinaio di persone, il signor Travaglio ci racconta, come se nulla fosse, che “da tre giorni, fra i 70 mila detenuti stipati nelle patrie galere, c’è anche un politico”. Si riferisce a Totò Cuffaro, “condannato a 7 anni in Cassazione per favoreggiamento mafioso”, ma non ci spiega come mai, anche dopo il ddl Alfano, il numero degli “stipati nelle patrie galere” abbia raggiunto il record assoluto in 150 anni di storia nazionale. Sì, in 150 anni! Non sarebbe giunta l’ora di un vero indulto generalizzato e di un’amnistia per i reati minori? Non sarebbe giunta l’ora di eliminare l’ergastolo e (almeno) le pene detentive superiori ai 30 anni? I Re facevano delle belle amnistie ogni tanto. La Repubblica mediatica dei Travaglio è invece più tirannica delle vecchie monarchie e più liberticida del fascismo. Giudica gli altri senza aver mai studiato diritto, ignorando del tutto le disumane condizioni di vita dei detenuti e senza neanche sapere cosa sia il rispetto della dignità altrui. Si lamenta dell’eventualità che Totò Cuffaro possa usufruire della premiale e non ancora automatica legge Gozzini e quindi vedere ridotti gli anni da passare in carcere. Critica le parole del sottosegretario Giovanardi per il solo fatto che quest’ultimo ha espresso “preoccupazione e sconcerto” perché, come sanno in modo diretto le persone detenute in Italia negli ultimi tre decenni, “si può finire in carcere se risultano agli atti un mare di dubbi”. Critica Cicchitto e Quagliariello in quanto hanno elogiato Cuffaro “per la scelta compiuta”, cioè per essersi consegnato invece di scappare dall’Italia. Critica Il Giornale per il solo fatto che secondo tale quotidiano la Cassazione “ha rigettato la richiesta del Pg” di derubricare il favoreggiamento da aggravato a semplice. Critica Pier Casini, che nel 2006 e nel 2008 ha portato in Parlamento Cuffaro, anche dopo la condanna in primo grado, per il solo fatto che nella trasmissione televisiva Anno Zero il leader dell’Udc disse: “per me è una persona onesta, ho fiducia in lui. Mi assumo la responsabilità di ritenerlo una persona onesta. Quando e se verrà dimostrata una cosa diversa, vorrà dire che mi sbagliavo” (7.2.2006). Critica Pier Casini e l’ex Udc Marco Follini (responsabile comunicazione del Pd) solo perché i due uomini politici sono “umanamente dispiaciuti per la condanna”, “rispettano la sentenza” e, d’altra parte, restano convinti “che Cuffaro non sia mafioso”. La Repubblica mediatica dei Travaglio non è tollerante con nessuno. Non ha dubbi su nulla. Ama l’arroganza, il pettegolezzo, l’infamia, l’ipocrisia, il tradimento delle amicizie e la più completa disumanità! Come se non bastasse, vorrebbe peggiorare ancora di più il codice penale fascista del 1930. Vorrebbe farci tornare al Medio Evo e poi si meraviglia che tutti i paesi più civili nel campo dei diritti facciano da tre decenni le pernacchie all’Italia! La Repubblica mediatica dei Cesare Beccaria alla rovescia, sedicente opposizione al governo di centro-destra, in realtà è infinitamente peggiore del berlusconismo e, proprio per questo motivo, più criminale e pericolosa di mille Totò Cuffaro. Tutto è relativo. Ad ogni modo, se un giorno Marco Travaglio dovesse finire in carcere stia certo che nessuno lo vorrà come compagno di cella. Sarebbe un’ulteriore tortura non prevista dalle leggi! Forse lo accetterebbe solo quel Totò Cuffaro che, proprio da personaggi come lui, ha subìto e subisce una vera e propria gogna mediatica. Lettere: rivoglio la galera per chi è sospettato di molestie ai minori Oggi, 26 gennaio 2011 È un reato odioso. E c’è chi, come Anna, non accetta la sentenza che ha dichiarato incostituzionale la custodia cautelare automatica per gli indagati. Ma non è pericoloso lasciare in libertà persone che potrebbero continuare con gli abusi? Ho 23 anni e sto per laurearmi in giurisprudenza; da alcuni anni svolgo attività di volontariato presso una struttura che aiuta ragazzini che hanno subito violenza sessuale. Il lavoro con questi giovanissimi mi coinvolge molto e quindi sono particolarmente sensibile all’argomento. Ebbene, si sente tanto parlare di volontà di combattere la violenza e invece ho scoperto che è stata recentemente eliminata la norma che prevedeva - per i reati di violenza sessuale e di atti sessuali con un minorenne - l’obbligo, per il presunto molestatore, di attendere in carcere la celebrazione del processo. Non è pericoloso lasciare in libertà gente che potrebbe molestare altri bambini? Credo che la tutela dei minori non debba avvenire solo a parole. Anna, Padova Cara Anna, comincio con lo spiegare - per i lettori - che in Italia esiste un collegio di giudici, la Corte costituzionale, che ha la funzione di verificare la conformità delle norme di legge con i princìpi e le norme contenuti nella Costituzione. Con la recente sentenza n. 265 del 2010 questa Corte ha dichiarato incostituzionale - quindi, contraria ai princìpi costituzionali - la disposizione introdotta nel 2009, che prevedeva automaticamente l’applicazione della misura cautelare della custodia in carcere dell’indagato nel caso di alcuni reati (violenza sessuale in genere, atti sessuali con un minorenne, induzione o sfruttamento della prostituzione minorile). Le misure cautelari sono provvedimenti - di vario tipo e diversa gravità - che limitano la libertà personale prima della sentenza definitiva (prima, cioè, che tutte le fasi del processo si siano concluse), finalizzati a evitare che il tempo necessario alla conclusione del processo comprometta l’esplicazione dell’attività giudiziaria, pregiudicandone lo svolgimento e/o il risultato. Ebbene, secondo la norma censurata, nel caso dei reati sopra indicati l’unica misura cautelare applicabile all’indagato era proprio il carcere. Valutare se mantenere questa norma richiedeva un’attenta riflessione: da un lato, infatti, l’art. 32 della Costituzione tutela le vittime stabilendo il diritto fondamentale all’integrità fisica e psichica della persona, in particolare dei minori; la protezione dell’infanzia è infatti oggetto di specifica tutela nell’art. 31, secondo comma, della Costituzione. Dall’altro, l’art. 13 della Costituzione tutela l’indagato affermando che la libertà personale è inviolabile e l’art. 27 dichiara che l’imputato non può essere considerato colpevole prima della sentenza definitiva di condanna. La Corte costituzionale ha ritenuto che la inviolabilità della libertà personale e la presunzione di non colpevolezza dovessero prevalere sul diritto all’integrità psichica e fisica della persona. Questo non significa che gli indagati o gli imputati non verranno più messi in carcere prima della conclusione del processo, ma che non ci andranno automaticamente. Sarà il magistrato che si occupa del singolo procedimento penale a valutare, caso per caso, se sia opportuno prendere questa decisione o se non sia meglio disporre un’altra misura cautelare meno severa. Quindi, anziché di cancellazione del carcere preventivo, è più corretto parlare di scelta di affidare al Giudice la decisione se disporlo o meno. Giulia Bongiorno Penalista, prendente della Commissione Giustizia alla Camera Prato: era seguito dagli psichiatri, aveva soltanto 22 anni, si è impiccato in cella Il Resto del Carlino, 26 gennaio 2011 L’avevano rinchiuso in carcere a Prato perché non poteva rimanere a Pesaro. Troppe complicazioni con le indagini in corso. Ma là, Antonino Montalto, 22 anni, originario di Siracusa, residente da qualche anno a Pesaro con la sua famiglia, si è tolto la vita impiccandosi. Senza motivo. Era il 20 gennaio scorso. Ieri ci sono stati i funerali del giovane nella chiesa di Madonna di Loreto perché la sua famiglia risiede in piazza Redi. Stando a quanto si è appreso, Antonino era stato arrestato un anno fa circa dai carabinieri di Pesaro per spaccio di droga. Venne portato in carcere e dopo qualche tempo ottenne gli arresti domiciliari ma da questi uscì senza autorizzazione. Per questo, venne riarrestato per il reato di evasione e portato in cella. Questa volta però non più a Villa Fastiggi ma nel carcere di Prato. Qui dopo qualche mese di detenzione, ha deciso di togliersi la vita impiccandosi. La direzione del carcere pratese ha spiegato che il 22enne era seguito da psichiatri dell’Asur locale perché “avrebbe dato in passato segnali di fragilità e di difficoltà nel rapportarsi con gli altri detenuti”. Soffriva di allucinazioni. Ha preso posizione sul suicidio la Uil Penitenziari: “Il personale è solo e abbandonato - scrive - un solo agente preposto alla sorveglianza di centinaia di detenuti è naturalmente impedito a prevenire morte e violenza dovendo badare soprattutto alla propria incolumità”. In altre parole, nessuno poteva accorgersi che Antonino si stesse infilando un cappio al collo per poi lasciarsi andare anche se erano le quattro del pomeriggio. Anche tra gli inquirenti pesaresi che arrestarono più volte Antonino c’è rammarico per la tragica fine: “Era un ragazzo cresciuto con esempi sbagliati e quindi si è ritrovato inserito in un contesto di illegalità. Non aveva però le caratteristiche del malvivente irrecuperabile. Si era perso per aver fatto uso di droga e da questo incubo non è più uscito”. Probabilmente il ragazzo aveva bisogno più di una comunità che di un carcere per tentare di disintossicarlo. Ma così non è stato. Catania: anche il Senatore Fleres chiede nuove indagini sulla morte di Carmelo Castro La Sicilia, 26 gennaio 2011 Dopo la recente riapertura delle indagini sull’oscura morte in cella (28 marzo 2009) del detenuto incensurato di Biancavilla, di 19 anni, sembra che la Procura catanese non abbia ancora svolto alcun atto di rilievo, salvo accogliere la richiesta dell’avvocato della parte offesa, Vito Pirrone, di ascoltare come persona informata sui fatti il senatore Salvo Fleres, reduce, nella sua veste di Garante dei diritti dei detenuti siciliani, da una recente visita nella cella e nel reparto dove per 4 giorni è stato recluso il ragazzo. Il senatore Fleres, venerdì prossimo, dovrebbe dunque testimoniare che i letti a castello della cella n. 9 del reparto Nicito di piazza Lanza (in cui si è detto è stato trovato impiccato penzoloni proprio all’apice di uno di quei letti) non sono più alti di un metro e settanta, mentre il povero Carmelo misurava un metro e 75. Come si fa, allora, a dire che il giovane si sia impiccato a un letto più basso di lui? L’inquietante interrogativo il senatore Fleres lo ha anche posto al ministro della Giustizia Angelino Alfano, al quale, nella seduta di martedì scorso, ha personalmente illustrato la sua interrogazione parlamentare sul caso Castro. Fleres, che a questo punto sostiene di meritare almeno la risposta del ministro (il quale alle prime due interrogazione sullo stesso caso non ha mai dato risposta), chiede anche un’ispezione ministeriale al palazzo di giustizia per valutare l’operato della magistratura (che in agosto scorso aveva archiviato il caso senza svolgere degli atti ritenuti essenziali). Anche il senatore Fleres ha rilevato in aula che la storia di Carmelo Castro mostra dei punti in comune col caso di Stefano Cucchi. Locri: il carcere è una bomba sul punto di esplodere; 83 posti, ma vi sono ben 215 detenuti Gazzetta del Sud, 26 gennaio 2011 Un primo grido d’allarme era stato lanciato il 20 agosto scorso, dopo la visita effettuata alla struttura locrese (che ospita solo uomini) da Marco Marchese, segretario dell’associazione “Calabria Radicale”, e dal consigliere regionale Demetrio Battaglia (Pd) nell’ambito di “Ferragosto in carcere”, iniziativa adottata su scala nazionale dai Radicali italiani unitamente al Partito democratico per verificare le condizioni di vita dei detenuti all’interno degli istituti di pena, lo stato di manutenzione delle strutture ed il rapporto che i loro ospiti hanno col personale che vi opera. Da allora le condizioni non sono certo migliorate, anzi, col passare del tempo si registra un aggravamento della situazione. L’ultima, forte e autorevolissima denuncia è di ieri mattina: la casa circondariale di Locri - da qualche anno ristrutturata sotto l’aspetto edilizio e del comfort - è una bomba pronta ad esplodere. Una situazione talmente allarmante che consiglierebbe di far chiudere immediatamente la struttura per pensare con serietà alla costruzione - sempre a Locri - di un Istituto penitenziario di massima sicurezza. La pesante denuncia è stata fatta durante una conferenza stampa tenuta ieri, nella sala “Barbarello” degli Uffici amministrativi del carcere locrese, dal Sappe (Sindacato autonomo di Polizia penitenziaria) e dal consigliere dei “Popolari Liberali” per il PdL, Giovanni Nucera, segretario questore del Consiglio regionale. All’incontro con gli organi dell’informazione hanno partecipato, insieme col politico reggino, i vice segretari regionale e provinciale del “Sappe”, Francesco Ciccone e Michele Ciancio; il segretario provinciale, Massimo Musarella; e il consigliere giuridico garante dei diritti dei detenuti, avv. Agostino Siviglia. Durante l’incontro con la stampa è stato unanimemente ribadito che ogni detenuto, a prescindere dal tipo di reato per il quale sta scontando una pena o è in attesa di giudizio, dev’essere garantito nel rispetto della sua dignità e nella possibilità di seguire un percorso rieducativo per il reinserimento nella società. Concetti molto cari, è stato sottolineato, al compianto provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria, Paolino Quattrone, che resta une vera icona del nuovo modo di concepire la pena. Accanto alla dignità dei detenuti va però garantita anche quella degli operatori penitenziari, del personale che opera all’interno delle carceri. Garanzie che, purtroppo, la casa circondariale di Locri non può offrire a causa di un sovraffollamento della popolazione carceraria e della situazione generale in cui versa l’intero apparato penitenziario italiano. Per capire la gravità della situazione locrese basta leggere alcuni dati forniti durante la conferenza stampa. Così com’è concepito il carcere di Locri può ospitare 83 detenuti; attualmente ve ne sono ben 215 di cui il 30% costituito da extracomunitari (con tutti i problemi che ciò comporta). Il personale ufficialmente in servizio conta 89 unità ma, in realtà, sono realmente operative solo 55 che quotidianamente si sottopongono a turni stressanti, superlavoro ( e non percepiscono straordinari, hanno un contratto di lavoro bloccato così come è bloccato il riordino e l’avanzamento di carriera, etc..). Molte le carenze in materia d’assistenza sanitaria; una fra tutte: la mancanza della specialistica e gli orari ridotti (appena sei ore al giorno) del servizio interno di guardia medica. Mancano mezzi, servizi di videosorveglianza e altro. La casa circondariale di Locri, è stato stigmatizzato, “non garantisce più nemmeno i servizi minimi di sicurezza sul territorio”. Più che giustificati l’allarme del Sappe e l’iniziativa del consigliere Nucera. Questi, tramite il deputato emiliano Emerenzio Barbieri, ha proposto sul “caso Locri” un’interrogazione parlamentare al ministro della Giustizia. Sollecitata, infine, l’apertura degli Istituti di pena di Arghillà a Reggio Calabria (700 posti) e il padiglione di Catanzaro (300). Venezia: il Comune non vuole il nuovo carcere a Campalto, ma decidono Regione e Dap La Nuova, 26 gennaio 2011 “La scelta di via Orlanda a Campalto è assolutamente inopportuna”. Così il Consiglio comunale dopo una lunghissima e tesa seduta in via Palazzo, ha approvato un ordine del giorno che dice di no al nuovo carcere a Campalto. Il documento è stato votato da 37 consiglieri. Alla fine dopo quattro ore di confronto acceso e quattro interventi del sindaco, è arrivata l’unanimità sul documento che chiede a Regione Veneto e Ministero di Grazia e giustizia di differire i tempi dell’intesa del 27 dicembre scorso, di conoscere il tipo di struttura prevista e impegna il sindaco a concordare con il Consiglio comunale possibile alternative, decidendo il futuro della casa circondariale di S.Maria Maggiore. Un documento che ha messo difficilmente d’accordo centrosinistra e centrodestra ma si è rischiata la spaccatura nella maggioranza con i consiglieri Caccia, Seibezzi, Bonzio e Venturini che volevano fosse chiaro anche il no all’ipotesi alternativa di forte Pepe. “Questa è una sfiducia nei suoi confronti”, ha tuonato il Pdl Cesare Campa verso Orsoni che si è sentito dire di no alla richiesta di ritiro dell’emendamento. Poi il pericolo è rientrato. Il documento finale conferma il no della Municipalità di Favaro e rimanda al Consiglio le ipotesi alternative. Di fatto però il voto non scongiura l’arrivo del nuovo carcere a Campalto visto che la decisione spetta a Regione e Stato, con il commissario nazionale al piano carceri. Per il sindaco il nuovo carcere è una “scelta di civiltà. Chi conosce le questioni che riguardano la giustizia - ha osservato - sa che il carcere veneziano viene definito vergognoso per la stessa città di Venezia. Una situazione indecente”. Orsoni ha ricordato che la scelta di Campalto è stata presa dallo Stato e dalla Regione Veneto. “La procedura prevede la comunicazione della scelta al Comune che deve esprimere un parere tecnico sull’idoneità dell’area. Io stesso sono venuto a conoscenza della stipula dell’intesa fra Ministero e Regione dai giornali. Premesso questo, non so se la scelta del sito di Campalto sia la migliore. Ma se mi si chiede se quella di Campalto sia sede inidonea, la risposta è che, viste le sue caratteristiche, non mi pare. Questo è stato chiesto e questo abbiamo risposto. La nostra scelta è stata quella di avere un nuovo carcere”. Matera: detenuto aggredisce 3 agenti, finiscono tutti all’ospedale Ansa, 26 gennaio 2011 Un detenuto aggredisce tre agenti di polizia penitenziaria, mandandoli al pronto soccorso e finendo lui stesso in ospedale. È successo ieri sera a Matera, intorno alle ore venti, quando il soggetto, probabilmente un uomo giovane, sotto i trenta, si è reso protagonista di questo grave fatto di cronaca. A riferirlo, il segretario regionale della Uilpa, Giovanni Grippo, che ci ha contattato per segnalarci l’accaduto e le conseguenze che esso ha avuto, dopo che il giovane aggressore è stato portato al pronto soccorso. Il detenuto, che una decina di giorni fa, era già stato protagonista di una vicenda analoga, nella serata di ieri, si è procurato un taglio con un gesto autolesionista, richiamando l’attenzione degli agenti. I quali, secondo quanto riferito da Grippo, sono stati a loro volta aggrediti. Dopo l’accaduto, per tutti e quattro, detenuto e agenti, è stato necessario ricorrere alle cure mediche, presso il pronto soccorso dell’Ospedale di Matera. In particolare, per ognuno degli agenti, sette giorni di prognosi. Ma la vicenda non si è chiusa qui. Al pronto soccorso l’aggressore si è reso inoltre protagonista di altri atti di vandalismo, distruggendo un bagno e provocando il fuggi fuggi generale, fra gli altri pazienti. Un fatto, ha ribadito Grippo, di una gravità inaudita, in tutte le fasi del suo sviluppo, che torna a riproporre la necessità di rivedere e potenziare il sistema sanitario all’interno dell’istituto. È inammissibile, ha sottolineato Grippo, che in situazioni del genere un detenuto sia condotto in strutture mediche ordinarie, a stretto contatto quindi con gli altri pazienti. Al Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria di Potenza, il Segretario Regionale della Uilpa, chiede quindi un intervento immediato per l’attivazione di un reparto protetto presso l’ospedale. Milano: Uil; venerdì prossimo la Polizia penitenziaria scenderà in piazza 9Colonne, 26 gennaio 2011 La situazione penitenziaria in Regione Lombardia ha raggiunto livelli di allarme: 9400 detenuti presenti a fronte di una capienza di 5382, una carenza d’organico di Polizia Penitenziaria pari a 1200 unità su una pianta organica di 5300 e di 200 unità nel comparto Ministeri. “Purtroppo - dichiara Angelo Urso. segretario nazionale Uil Penitenziari - a quei numeri bisogna aggiungere le conseguenze che derivano dai tagli orizzontali che la legge finanziaria ha realizzato, i quali rendono praticamente impossibile il mandato istituzionale e insopportabili le condizioni di lavoro. Se consideriamo anche che i mezzi di trasporto sono ormai obsoleti; che le traduzioni dei detenuti sono garantite prelevando le relative spese dalle tasche del personale; che le caserme sono veri e propri colabrodo a causa delle infiltrazioni d’acqua e che le divise sono insufficienti è facile comprendere le ragioni che porteranno in piazza il personale di Polizia Penitenziaria della Lombardia in data 28 gennaio. Una manifestazione inevitabile, che si svolgerà davanti alla Prefettura di Milano, proclamata da tutte le Organizzazioni Sindacali del settore che spero non rimanga una protesta fine a se stessa ma si trasformi in strumento positivo per determinare un cambiamento di rotta”. E conclude: “La speranza è che dalla manifestazione del 28 gennaio il Ministro Alfano raccolga la sfida impegnandosi ad attuare un piano di rinnovo e di riorganizzazione del sistema penitenziario”. Firenze: “Spiragli”, la voce dei detenuti nel manicomio criminale di Montelupo di Annalisa Ausilio www.unicitta.it, 26 gennaio 2011 All’interno delle inaccessibili mura che circondano l’Opg (Ospedale Psichiatrico Giudiziario) di Montelupo vive una inedita realtà editoriale: si chiama “Spiragli” ed è un giornale redatto interamente dagli internati della struttura. Matteo Gatteschi è un giornalista che da anni cura l’intero progetto redazionale portando oltre le sbarre l’espressività degli internati. Ci ha raccontato le dinamiche di un contesto chiuso e lontano e la particolare esistenza di un giornale inteso come valvola di sfogo. Come mai hai deciso di iniziare questa avventura? Io abito a Montelupo e sono sempre stato affascinato dal luogo: l’Opg è una Villa Medicea maestosa, grande, bellissima ma è circondata da una doppia cinta di mura, è praticamente impenetrabile anche alla vista. Questo luogo ha sempre alimentato la mia curiosità: volevo entrare, conoscere la realtà che viveva al suo interno. Per caso conobbi un medico che lavorava nella struttura e gli chiesi come potevo accedervi. Lui mi disse che era appena nato un giornale interno molto artigianale, c’era bisogno di un giornalista per curarlo meglio. Allora presi la palla al balzo, parlai con il direttore e gli proposi di curare il giornale. Lui accettò e da quel giorno sono entrato e… “non sono più uscito”. Quando nasce “Spiragli”? Tredici anni fa, nel 1998. I numeri dei primi tre anni erano molto artigianali, il giornale veniva stampato con il ciclostile. Successivamente si è ottenuto un contributo dallo Stato di 6 000 Euro l’anno. Da allora si è potuto stampare con mezzi decisamente più moderni affidando il tutto ad una tipografia. Iniziarono il progetto Carla Cappelli, Presidente dell’Associazione Volontariato Penitenziario, e un obbiettore di coscienza. Originariamente era un mensile, adesso è un trimestrale. Io ho iniziato a collaborare dal terzo numero. Chi scrive sul giornale? “Spiragli” è aperto a tutti i contributi, siano essi internati o esterni. In tutto attualmente l’Opg ospita circa 170 reclusi. Il giornale non può contare su una redazione stabile, la partecipazione è molto improvvisata. Prima di tutto perché c’è chi entra ma c’è anche chi, per fortuna, esce, vi è quindi un grande riciclo. A volte ci sono, quindi, periodi in cui abbondano fior di scrittori e poeti. Allo stesso tempo ci sono periodi con contenuti scarsi. Comunque partecipa una percentuale minima rispetto all’intero numero. Scrive solo chi ha una certa lucidità, la maggior parte degli internati sono malati che non si muovono dal letto, altri sono gravemente disturbati. Da poco la partecipazione si è allargata anche al carcere di Prato. Cosa è “Spiragli” per i detenuti dell’Opg? È il tramite fra loro e l’esterno, è l’unica valvola di sfogo, l’unico mezzo di espressione. Credo che potersi esprimere sia una grande ed efficace medicina. L’ospedale ha tutte le caratteristiche del carcere: ci sono le porte blindate, le guardie con la chiave, le ore d’aria. In alcune sezioni gli internati sono in cella, come in carcere, 22 ore al giorno mentre in altre, dove ci sono i casi meno gravi, vi è maggiore libertà. È quindi un contesto di sofferenza, una realtà lontana dalla società. Le cure mediche sono carenti, non solo quelle psichiatriche. Il dentista, per esempio, va solo una volta a settimana. In tutti questi anni ho notato un deperimento degli internati piuttosto che un miglioramento. Resta, ancora oggi, un manicomio criminale a tutti gli effetti, è stato semplicemente scelto un nome meno brutale. Come viene distribuito? Chiunque lo richiede può riceverlo gratuitamente. Viene distribuito ad avvocati, magistrati, ed inviato ad altre carceri e ospedali giudiziari d’Italia, oltre naturalmente a famigliari e amici degli internati. Le spedizioni delle copie per gli “addetti ai lavori”, ossia a persone che lavorano all’interno di queste strutture, sono a carico della direzione dell’Opg, mentre per quelle a parenti amici e conoscenti ci pensa l’A.V.P. Il giornale è presente anche in un paio di edicole a Firenze. Come si svolge la tua attività redazionale? Due volte a settimana vado all’Opg dove ci riuniamo in una piccola saletta. I ragazzi mi portano i loro lavori scritti a mano su un foglio di carta perché lì non c’è una macchina da scrivere o un computer. Quindi io prendo questi testi, li scrivo al computer e li sistemo. Dopodiché li riporto dentro dove riguardo eventuali correzioni con gli autori degli articoli. Durante tutti questi anni di attività c’è un episodio o una storia che ti ha particolarmente colpito? Mi colpì tantissimo un articolo che scrisse un ragazzo qualche anno fa che aveva ucciso la mamma ed era molto colpito lui stesso, era stralunato. Veniva alle riunioni del giornale ma stava zitto in un angolo. Poi un giorno mi diede il suo articolo: era una lettera alla mamma. Se ci ripenso mi vengono i brividi, una cosa molto forte. Come riesci a fare un giornale con persone che non si sono mai cimentate nella scrittura? Si lavora insieme, cerco di aiutare anche chi non ha cultura e scrive male. Con soddisfazione ho notato che alcuni reclusi hanno progressivamente migliorato il loro stile. In tredici anni di attività ho conosciuto solo due laureati, c’è un livello di istruzione molto basso. Spesso gli Ospedali Psichiatrici sono ricettacoli di persone abbandonate, è l’ultima spiaggia per uno che non ha famiglia, non ha soldi e ha un po’ la testa sbandata. Non ho mai incontrato persone facoltose lì dentro. Occuparsi di un giornale all’interno di un ospedale psichiatrico è sicuramente un’attività redazionale singolare. Quali sono i contenuti di “Spiragli”? Naturalmente c’è tutto quello che un internato sente di esprimere: può parlare di se stesso, scrivere poesie, racconti, dare forma alle sue speranze e anche criticare aspramente. Sono presenti anche accuse nei confronti della struttura? Certo, anche verso la direzione. Due numeri fa ci fu un ragazzo che scrisse, senza aver avuto esperienza diretta, del famoso letto di contenzione: quando un internato “sbarella” viene legato al letto. Oggi è una pratica rara, ma comunque, seppur in minima parte, presente. Lui ne parlò raccontando quello che si racconta: il recluso è legato nudo e lasciato solo per un periodo indefinito e variabile di tempo. Dopo questo articolo una infermiera dell’Opg ha risposto. Ha scritto una lettera smentendo la versione del ragazzo. Ha detto che l’internato non viene mai lasciato da solo e che tutta la procedura segue le norme. Nell’ultimo numero c’è un piccolo articolo in cui un ragazzo dice di essere trattato come una scimmia dalle guardie. Il problema è che il personale di sicurezza non è preparato a relazionarsi con un malato. Quindi il giornale diventa anche uno spazio di discussione fra gli internati e il personale. Certo, si cerca di accettare tutti i punti di vista. La mia prima e fondamentale regola è non censurare perché questo giornale è l’unico mezzo di espressione per questa gente. Prima di pubblicare l’intero giornale viene letto da una funzionaria della direzione dell’Opg che sovrintende il tutto. Lei può anche censurare qualcosa, ma è successo molto raramente. Comunque ci sono anche persone prossime alla scarcerazione che sentono il dovere di ringraziare la struttura perché hanno vissuto un’esperienza positiva e rieducativa, per cui ringraziano i medici, i volontari o gli infermieri. Ci sono progetti editoriali simili negli altri Ospedali Psichiatrici italiani? I giornali in questi contesti nascono e muoiono continuamente. Il nostro è uno trai i più longevi e duraturi perché possiamo contare su finanziamenti costanti. All’interno dell’Opg oltre a “Spiragli” il recluso può impegnarsi in altre attività? Sì, sono in genere attività a progetto quindi se ci sono i soldi il progetto va avanti altrimenti finisce. Mi ricordo c’è stata scuola di ceramica, di disegno, teatro, scrittura, computer. Durano 4 o 5 mesi poi si interrompono poi, magari, ricominciano. Ci sono anche attività sportive come il calcio o pallavolo. Oltre a coordinare la redazione del giornale svolgi anche altre attività nella struttura? Sin dall’inizio accompagno i detenuti che possono usufruire di un permesso. Questa attività mi piace molto, durante queste uscite gli internati si aprono e io amo ascoltare i loro racconti. Tutti hanno delle storie molto forti, non solo i pluriomicidi ma anche chi ha commesso piccoli reati. Tutti vivono sempre vite complicate, esistenze fuori dal comune. Mi ricordo un internato che era un piccolo piromane: incendiava un pagliaio in campagna o qualche cespuglio non di più. Questa persona ha vissuto metà della sua vita dentro l’Opg, era pieno di umanità disarmante. Cosa ti restituisce questa esperienza? La consapevolezza che ci sono esseri umani che non hanno niente di umano, la cosa più triste è vedere questa umanità totalmente ignorata. Continui a portare avanti questo progetto perché ti rendi conto che stai apportando qualcosa di utile nella vita di queste persone? Io lo faccio perché i diverto, mi piace. Non ho progetti filantropici o scopi educativi. La mia malattia è viaggiare, mi entusiasma anche l’idea di andare solo a Scandicci, sicché se mi chiedono di accompagnare un internato, per esempio, a Perugia io sono contentissimo: non solo viaggio ma anche con un compagno interessante. Roma: i Radicali portano 300 libri in regalo ai detenuti di Velletri Dire, 26 gennaio 2011 Oggi l’associazione Radicali Roma consegnerà ai detenuti della Casa circondariale di Velletri circa 300 libri donati in questi mesi da militanti e simpatizzanti Radicali romani. L’iniziativa nasce sulla scorta del “Ferragosto in Carcere 2010”, promosso dalla deputata radicale Rita Bernardini e che ha aperto le porte degli istituti penitenziari a circa 250 tra parlamentari e consiglieri regionali che hanno visitato quasi tutti gli istituti italiani. È quanto si legge in una nota. I libri in regalo sono il veicolo e il simbolo della battaglia politica per tenere aperto il dialogo tra comunità penitenziaria e società civile e rimarcare la necessaria e costituzionalmente definita funzione rieducativa e non punitiva del carcere. Al contrario la realtà carceraria rappresenta purtroppo uno dei luoghi in cui in modo strutturale si realizzano gli effetti di mancanza. Radicali Roma ribadisce a questo proposito “l’urgenza di interventi da parte del Parlamento per risolvere il problema del sovraffollamento, dell’illegalità e della vera e propria tortura che subisce oggi la comunità penitenziaria. A livello locale, inoltre, denuncia poi “il taglio dei fondi destinati alle strutture para carcerarie del Lazio e di Roma (infermerie, biblioteche)”. La delegazione sarà formata dai militanti Emanuela Capodicasa (Radicali Roma), Francesco Napoleoni (Radicali Roma) Giuliano Pastori (Radicali Roma) Luisa Simeone (Comita nazionale Radicali italiani), Mauro Zanella (Comitato nazionale Radicali Italiani)”. Roma: a Regina Coeli lo spettacolo teatrale “Timide confessioni” Il Velino, 26 gennaio 2011 Si intitola “Timide Confessioni” lo spettacolo di Umberto Canino che, domani, andrà in scena nel carcere di Regina Coeli con il patrocinio del garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni. Con questo spettacolo - scritto in collaborazione con Giuseppe Sorgi e prodotto dalla Regione Lazio e dall’Associazione “Teatro Sole” - Canino affronta ancora una volta temi di grande spessore sociale e sceglie come location le carceri del Lazio grazie alla collaborazione del Garante regionale dei detenuti; una collaborazione iniziata nel 2008 - 2009 con lo spettacolo “15 passi”. Umberto Canino artista poliedrico che da anni coniuga magnificamente la sua musica con il teatro. Fine anni ‘90, si accorge di lui Renato Zero, che lo presenta in programmi televisivi al grande pubblico, da lì parte un tour con diversi big della musica italiana, per promuovere il progetto Fonòpoli. Proprio negli uffici dell’Associazione culturale Fonòpoli, presieduta da Renato Zero, avverrà l’incontro tra Umberto Canino e Giuseppe Sorgi (autore, attore e regista), che sancirà l’inizio di una lunga collaborazione. “Timide Confessioni” è uno spettacolo in cui i giovani sono protagonisti con storie, racconti, immagini e riflessioni sulla loro quotidianità e le loro esperienze vissute. Protagonisti l’attrice Alessandra Ponti (che carriera vanta partecipazioni in opere teatrali come “I due nobili cugini”, di W. Shakespeare e “La signora delle camelie” con Monica Guerritore) con un monologo ironico sulla figura della donna. In scena anche il cantautore Alessio Copino, Lorenzo Tiberia e Leonardo Bocci. Infine, la danzatrice di origine africana Kim e il pluripremiato gruppo di breakdance “De Klan”. La musica è affidata al pianista Lorenzo Sebastianelli. Immigrazione: ragazzo ghanese picchiato dai vigili di Parma, arriva la prima condanna di Franco Giubilei La Stampa, 26 gennaio 2011 C’è una prima condanna nel processo per il pestaggio di Emanuel Bonsu Foster, il ragazzo ghanese picchiato durante un’operazione antidroga della polizia municipale di Parma nel settembre del 2008: è il vigile urbano Ferdinando Villani, uno dei dieci agenti che quella sera fermarono e malmenarono il giovane studente prima di portarlo in caserma, dove secondo le accuse venne insultato e umiliato con epiteti razzisti. Lo avevano scambiato per il “palo” di uno spacciatore in un parco cittadino, e durante le fasi concitate dell’arresto lo colpirono con un pugno che gli fratturò l’osso orbitale dell’occhio sinistro. Ieri, al termine del giudizio abbreviato davanti al Gup del tribunale di Parma Paola Artu - sì, Villani è stato condannato a due anni e dieci mesi di reclusione, oltre che al pagamento di una provvisionale di cinquemila euro al Comune di Parma, che nel procedimento si è ritrovato nel doppio ruolo di responsabile civile e di parte civile. L’agente era stato l’unico fra i suoi colleghi coinvolti nell’inchiesta a chiedere scusa al ragazzo, all’epoca 22enne, e alla sua famiglia. Ieri si è anche tenuta una nuova udienza del processo a carico degli altri otto vigili (uno era stato prosciolto). Il sottufficiale della polizia postale Remo Marini ha raccontato com’è stata ritrovata la fotografia, scattata al comando la sera del fermo, che ritrae Emanuel con l’occhio tumefatto seduto vicino a uno dei vigili. Avevano cercato di cancellarla dalla memoria del computer ma gli inquirenti sono riusciti a recuperarla: “L’immagine è stata creata il 29 settembre alle 21,18 e cancellata il 20 ottobre”, ha spiegato il poliziotto. Hanno poi testimoniato i medici che hanno curato il ragazzo prima di sottoporlo all’intervento all’occhio sinistro: “In gergo vengono definite fratture da pallina da tennis - ha detto il chirurgo maxillo - facciale dell’Ospedale Maggiore di Parma, Marilena Anghinoni - sono tipiche di chi ha ricevuto un colpo all’occhio con un corpo contundente o con un pugno”. Alla fine è stato ascoltato il maresciallo dei carabinieri Domenico Padua - no, che ha svolto le indagini anche nei confronti del giovane ghanese, inizialmente sospettato di avere a che fare col pusher, e che ha invece escluso qualsiasi rapporto di complicità: “Dai tabulati telefonici non risultano contatti tra i due”. Risulta quindi avvalorata la tesi dell’accusa per cui Bonsu sarebbe stato bloccato per errore. Alla prossima udienza, fissata per il 15 febbraio, sarà sentito proprio Emanuel. Si sarebbe dovuto presentare l’8 febbraio, ma i legali dei vigili hanno ottenuto un rinvio perché il 9 febbraio la Cassazione si pronuncerà sull’istanza di legittimo sospetto avanzata dalla difesa dei vigili. Se accolta, comporterà il trasferimento in altra sede. Svizzera: due detenuti italiani muoiono suicidi nell’arco di due settimane Ansa, 26 gennaio 2011 Un giovane italiano in detenzione preventiva in Svizzera si è tolto la vita ieri notte nel carcere distrettuale di Zurzach, nel Canton Argovia. Il giovane di 27 anni, arrestato sabato scorso perché sospettato di violenza carnale, si è impiccato nella sua cella, ha indicato oggi il dipartimento cantonale dell’interno citato dall’agenzia di stampa svizzera Ats. Non aveva manifestato alcuna tendenza suicida nel corso di colloqui con il personale del penitenziario, ha precisato il dipartimento. Sul caso è stata aperta un’inchiesta. Due settimane fa - ricorda l’Ats - un altro italiano, 57enne, si era suicidato in circostanze analoghe nel penitenziario di Aarau-Telli. Quindi il numero elevato di suicidi non è solo prerogativa delle carceri italiane. Questa notazione non conforta certo, ma l’abbiamo formulata per invitare a fare attenzione non solo ai suicidi che avvengono nelle carceri presenti nel nostro paese ma anche ai suicidi di italiani all’estero e comunque alle loro morti. Ricordiamo il caso di Franceschi, il livornese morto in un carcere francese. E nel caso di questi presunti suicidi in Svizzera occorrerà verificare attentamente i motivi alla base delle morti dei due detenuti, per evitare che queste non siano in realtà dovute a veri e propri suicidi, bensì ad altre cause. In molti paesi infatti i carcerati stranieri sono spesso oggetto di un trattamento peggiori rispetto agli altri. E ciò quindi induce ad essere prudenti e molto attenti. Tunisia: 11mila detenuti evasi e 71 uccisi nel corso delle rivolte Adnkronos, 26 gennaio 2011 “Sono 11mila i detenuti evasi dalle carceri tunisine dopo la fuga dell’ex presidente Zin el-Abidin Ben Ali”. È quanto ha annunciato il ministro della Giustizia tunisino, Lazhar Karoui Chebbi, nel corso di una conferenza stampa tenuta oggi a Tunisi. Il ministro ha inoltre aggiunto che, in virtù di un provvedimento del suo governo, sono stati scarcerati 2.460 detenuti, in buona parte prigionieri politici arrestati dal passato regime. 71 i detenuti morti durante rivolta Sono 71 i detenuti morti nei giorni della rivolta tunisina, che ha portato alla fuga dell’ex presidente Zin el-Abidin Ben Ali. Lo ha annunciato il ministro della Giustizia, Lazhar Karoui Chebbi, nel corso di una conferenza stampa tenuta oggi a Tunisi e trasmessa dalla tv di stato del paese nord africano. Parlando ai giornalisti delle rivolte carcerarie avvenute in Tunisia durante le proteste del 14 gennaio scorso, ha reso noto che 48 detenuti sono morti nell’incendio del carcere di Monastir mentre il resto delle vittime sono cadute nelle rivolte carcerarie avvenute negli altri centri di detenzione del paese. Il ministro ha inoltre chiesto agli undicimila detenuti evasi durante quella rivolta di consegnarsi alle autorità del paese. 700 arresti in disordini ultime settimane Sono 698 le persone arrestate nei disordini avvenuti durante le manifestazioni precedenti e successive alla caduta del deposto presidente tunisino, Zine El Abidine Ben Ali: lo ha annunciato il ministro della Giustizia di Tunisi, Lazhar Karoui Chabbi. Dei fermati 133 si trovano attualmente in libertà provvisoria, mentre altri 31 sono stati scagionati dalle inchieste della magistratura; le ipotesi di reato riguardano "sabotaggio, aggressione e saccheggio". Quanto all'applicazione della legge di amnistia, il Ministero sta valutando la scarcerazione dei detenuti di età superiore ai sessant'anni condannati per crimini non gravi, così come quelli di età compresa fra i diciotto e i vent'anni che rispettino il medesimo criterio. Stati Uniti: ergastolo per primo detenuto di Guantanamo a processo civile Reuters, 26 gennaio 2011 Un giudice statunitense ha condannato oggi all’ergastolo Ahmed Khalfan Ghailani, il primo detenuto di Guantanamo ad affrontare un processo in un tribunale civile, negando la richieste di clemenza avanzata dalla difesa in virtù del suo trattamento da parte della Cia. Ghailani, 36 anni, era accusato di aver partecipato all’attentato di al Qaeda nel 1998 contro le ambasciate Usa in Kenya e Tanzania che provocarono la morte di 224 persone. Una giuria Usa lo ha ritenuto colpevole di cospirazione per danneggiare o distruggere una proprietà Usa con esplosivi, assolvendolo invece da altre 284 imputazioni di cospirazione e omicidio. Il suo caso a New York è stato considerato un test sull’approccio del presidente Barack Obama nella gestione dei 173 presunti terroristi detenuti presso la base navale di Guantanamo Bay, a Cuba. Tra di loro c’è anche Khalid Sheikh Mohammed, che si autoaccusa dell’organizzazione degli attentati negli Usa dell’11 settembre 2001. Nel corso della sua campagna elettorale del 2008 Obama si era impegnato a chiudere la prigione di Guantanamo, oggetto di condanne internazionali per il trattamento dei detenuti. Ma i suoi sforzi hanno incontrato le dure critiche di chi sosteneva che la prigione è necessaria nella lotta contro gli estremisti islamici. In una serie di breve dichiarazioni prima di annunciare la sentenza oggi, il giudice Lewis Kaplan ha liquidato le affermazioni della difesa secondo cui Ghilani era un sempliciotto che faceva commissioni per uomini che ha poi scoperto essere agenti di al Qaeda. “Il signor Ghailani sapeva che delle persone sarebbero morte”, ha detto il giudice. Kaplan ha anche negato a Ghailani alcuna clemenza per le torture ricevute mentre era in prigione. Nel corso del processo, la difesa ha ammesso che l’uomo acquistò bombole di gas e un camion poi usato negli attacchi, pur non avendo idea dello scopo a cui sarebbero serviti. Russia: Khodorkovskij; sono finito in carcere perché Putin mi temeva Ansa, 26 gennaio 2011 “Uscirò dalla prigione e sono certo: il futuro della Russia è la democrazia, anche se la strada non sarà né semplice, né breve”. È quanto afferma il patron della grande compagnia petrolifera Yukos e oppositore di Vladmir Putin, Mikhail Khodorkovskij, detenuto nelle carceri russe, in una intervista al Corriere della Sera in cui attacca anche Putin: “Forse sa meglio di noi quanto sia debole in realtà il suo potere. E cosa potrebbe rappresentare una spinta sufficiente per farlo cadere. O forse è semplicemente il fatto che i funzionari che si sono riempiti le tasche con il saccheggio della Yukos sono veramente bravi a manipolarlo”. Se potesse tornare indietro, Khodorkovskij immagina che la sua “posizione civica sarebbe stata ancora più incisiva”. “E forse - aggiunge - sarei stato più capace di proteggere gli interessi degli investitori della Yukos. Avrei potuto immaginare che mi avrebbero tolto la compagnia ma mai che l’avrebbero fatta a pezzi. Questo è stato indubbiamente un errore per il potere”. Su Medvedev l’ex patron della Yukos afferma: “Per me il presidente è molto più comprensibile del premier. È pragmatico e ha ideali che sono compatibili con la democrazia. Capisco la sua situazione e per questo raramente lo critico. Comunque abbiamo il diritto di attenderci di più da Medvedev”. Dalla comunità internazionale invece, aggiunge, “mi attendo che capisca quanto sia importante il suo riconoscimento per la legittimità interna del regime in Russia. I Paesi occidentali debbono rendersi conto che le prospettive democratiche della Russia non sono bagatelle che possano essere sacrificate di fronte agli interessi dell’oggi”.