Giustizia: suicidi in carcere, prevenirli è un dovere di Patrizio Gonnella e Susanna Marietti (Associazione Antigone) Il Manifesto, 25 gennaio 2011 Caltagirone, provincia di Catania, giovedì scorso. Nella Casa Circondariale della cittadina siciliana, Salvatore Camelia, neanche 40 anni, si impicca alla grata della finestra della sua cella. Stesso giorno, altra parte d’Italia. In una cella del carcere di Prato si impicca Antonino Montalto, 22 anni. Il giorno prima nella casa di lavoro di Sulmona - istituto che ha visto una quindicina di suicidi negli ultimi dieci anni e del quale simbolicamente proponemmo la chiusura - si era ucciso un internato di 66 anni, Mahmoud Tawfic. Tre suicidi in due giorni qua e là per le galere italiane. Come se - più o meno questa la proporzione - quattro o cinque tifosi si togliessero la vita tutti assieme dentro lo stadio Olimpico di Roma. Certo la società del bel pensare si interrogherebbe su che cosa non funzioni là dentro. Cosa non funziona nelle carceri italiane? Dietro le storie di disperazione individuale che hanno fatto contare almeno 65 suicidi penitenziari lo scorso anno e già cinque in questo nuovissimo 2011, c’è senz’altro qualcosa che non dipende dalle individualità bensì dalla sciatteria del sistema, per non dire di peggio. Il legame tra le invivibili condizioni di sovraffollamento carcerario e l’altissimo tasso di suicidi non è dimostrato, pur apparendo di una certa plausibilità. Ma al di là di ciò, le misure di buon senso che una struttura statale deputata alla custodia di esseri umani può adottare sono molteplici e trascurate. Il buon senso sembra spesso fermarsi alle porte del carcere, come purtroppo di varie altre istituzioni nell’attuale fase storica. Elenchiamo, senza alcuna pretesa di esaustività, qualcuna di queste misure. Innanzitutto, durante la scorsa legislatura, una circolare emanata dall’amministrazione penitenziaria per volontà dell’allora sottosegretario Luigi Manconi invitava gli istituti a dotarsi di un’apposita sezione per nuovi giunti dove allocare i detenuti nella fase immediatamente successiva all’arresto, quella psicologicamente più delicata a detta di ogni esperto. L’uomo morto a Caltagirone, così come molti altri nel recente passato, aveva appena fatto ingresso nello stato di detenzione. La sezione per nuovi giunti avrebbe dovuto vedere tra le altre cose una presenza più assidua di educatori e psicologi. Di tale sezione ben poche carceri si sono a oggi dotate. Sarebbe un segnale forte nella giusta direzione se le carriere dei dirigenti si misurassero principalmente sul rispetto o meno di indicazioni di questo tipo, cosa che fino a ora non è accaduta. Non abbiamo notizia di alcun provvedimento preso nei confronti delle direzioni inadempienti. In secondo luogo, non è chiaro cosa vieti al legislatore - al di là di una più o meno esplicita volontà vendicativa - di liberalizzare il numero di telefonate per quei detenuti che non sono soggetti a censura o controllo da parte della magistratura. Il contatto con famigliari e amici, oltre a costituire un ovvio elemento di reintegrazione sociale, è spesso il sostegno maggiore rispetto a eventuali momenti depressivi. In terzo luogo, l’isolamento deve divenire una pratica penitenziaria da utilizzare in via del tutto eccezionale. Carmelo Castro, la cui vicenda è oggi nuovamente sotto l’esame dei magistrati, prima di morire - sia stato suicidio, come la prima archiviazione ha sostenuto, o meno, come i dubbi dei famigliari non escludono - ha trascorso in isolamento i suoi primi e ultimi tre giorni di detenzione. Infine: è recentissima la notizia che la Corte Europea di Strasburgo ha intimato all’Italia di rivedere la propria normativa in merito all’interdizione al voto di detenuti ed ex detenuti. I diritti politici sono libertà fondamentali incomprimibili, ha detto. Sicuramente la negazione del voto è il contributo maggiore a quel processo di infantilizzazione che investe ogni detenuto nelle carceri italiane. I detenuti sono trattati come bambini e come bambini sono privati di ogni responsabilizzazione. Più facile, così, che smettano di sentire anche la responsabilità verso se stessi. Restituire il voto ai detenuti significa dare loro fiducia, farli sentire parte della costruzione di quella società nella quale la pena vuole tendere a reinserirli e far loro sentire il carico della propria soggettività. Una soggettività che vale maggiormente la pena di non dismettere. Giustizia: Osapp; l’emergenza non è finita e di riforme sostanziali nemmeno l’ombra Comunicato stampa, 25 gennaio 2011 L’emergenza carceri non è finita e probabilmente non è mai stata concepita veramente come tale da parte di questo Governo - sono le dichiarazioni di Leo Beneduci, segretario generale dell’Osapp, il secondo sindacato della categoria, che in rappresentanza dei baschi azzurri interviene per lanciare di nuovo l’allarme sul problema del sovraffollamento - è interessante scoprire come in Italia si analizzi e si discuta tanto - continua Beneduci - per poi scoprire come la situazione, al di là delle inutili rassicurazioni del nostro Ministro della Giustizia, non desti alcun segnale di cambiamento. Probabilmente in queste ultime settimane ad Alfano qualcuno ha raccontato un’altra storia, impegnato come è a difendere spasmodicamente il suo leader di partito. Il Guardasigilli dimentica però, o non sa, come nelle oltre 200 carceri italiane ci siano ancora 67.874 persone detenute (dato riferito al 23 gennaio), con un Corpo di polizia penitenziaria “sacrificato” e in costante calo a cui qualcuno dovrebbe dare una risposta e non una simbolica “pacca sulle spalle”. Che dei presunti 9.000 reclusi che dovevano essere scarcerati per effetto della legge sulla detenzione domiciliare, in un mese, siano stati disposti solo il 10% dei provvedimenti ex lege: segno che l’iniziativa non ha portato a quei benefici che qualcuno vuole ancora dare ad intendere. Che per effetto di un tasso di crescita, sempre più incalzante, della popolazione reclusa quei 1.800 agenti promessi dal Ministro, e ribaditi nell’ultimo intervento pubblico, si annulleranno presto nel giro di 2 anni, anche perché dal 2012 in poi andranno in pensione circa 2.000 poliziotti penitenziari l’anno. Che nell’anno appena concluso le morti in carcere per cause naturali sono state 173 e che i suicidi sono stati 66. Che nell’86% degli istituti (176 su 205) - continua l’Osapp - si è verificato almeno un tentato suicidio: per un totale complessivo di 1.134 casi. Che i detenuti salvati in extremis, dal Corpo di Polizia che questo sindacato ha l’onore di rappresentare, sono stati 398. Che le carceri promesse, - indica ancora il sindacato - quelle poche passate in Finanziaria, verranno completate solo a fine 2012 e non risolveranno completamente il problema del sovraffollamento, come invece tiene tanto a ribadire il nostro Guardasigilli, e non solo lui. Che senza le riforme sostanziali del sistema penitenziario ed in particolare della polizia penitenziaria - conclude Beneduci - che né il Ministro Alfano né il capo del Dap Ionta sono nella volontà di affrontare e di portare avanti, l’Amministrazione penitenziaria è destinata ad ulteriori gravissimi fallimenti in danno della popolazione detenuta, del personale che vi opera e per la sicurezza dell’intera Società civile. Giustizia: le sentenze non vanno scambiate per un “giudizio di Dio” di Piero Ostellino Corriere della Sera, 25 gennaio 2011 Mi hanno colpito le parole di Totò Cuffaro, l’ex governatore della Sicilia, dopo la sentenza della Corte di Cassazione che ne conferma la condanna a sette anni: “Affronto la pena come è giusto che sia”. Sembrano un’ammissione di colpevolezza tanto più sorprendente se si tiene conto delle ombre che si sono allungate sul processo e che hanno pesato su un’accusa così difficile da definire concretamente quale è quella di collusione con la mafia in una regione dove i corrimi fra società legale e società criminale sono spesso tutt’altro che individuabili sociologicamente e, soprattutto, di facile codificazione sotto il profilo giuridico”. Le ombre. Prima: Cuffaro aveva più volte dichiarato di “non avere mai consapevolmente incontrato mafiosi”, un’espressione sulla quale si era fondata, a suo tempo, la sentenza di assoluzione di Calogero Mannino dall’accusa di “concorso esterno di stampo mafioso”. L’ex governatore si era battuto, vent’anni fa, in difesa di Marinino, accusato, assolto, condannato e nuovamente e definitivamente assolto (dopo diciassette anni!). Seconda: si è trattato del “processo politico” - come scrive Giovanni Bianconi (“I chiaroscuri del processo e le relazioni pericolose”, Corriere del 23 gennaio) - che più ha caratterizzato gli ultimi dieci anni dell’antimafia giudiziaria, segnato da forti contrasti fra accusa e difesa (abbastanza naturali) e all’interno della magistratura (meno naturali)”. Lo stesso procuratore generale era convinto dell’inesistenza della prova. Le conseguenze. Un fatto sarebbe stato, dunque, da parte di Cuffaro, il rispetto (sempre dovuto) per l’istituzione che ha emesso la sentenza (la Corte di Cassazione), un altro è la sua rassegnazione di fronte a una sentenza fondata su prove che dall’imputato stesso, per non parlare addirittura all’interno della stessa magistratura, erano state ritenute infondate. Una sentenza di tribunale non è la Verità rivelata e, in quanto tale, indiscutibile per definizione; è una verità processuale - frutto del confronto fra accuse e prove a discarico in sede dibattimentale - nonché (presumibilmente) correlata al contesto in cui si sarebbe perpetrato il reato, nella fattispecie la difficile individuazione della contiguità fra mafia e società civile e politica e, per ciò stesso, esposta all’errore. Cesare Beccaria era contrario alla pena di morte non per ragioni umanitarie, ma perché escludeva la possibilità che la sentenza potesse essere emendata qualora si fosse rivelata errata. Insomma, ciò che mi ha colpito nelle parole di Cuffaro è che una condanna, della cui legittimità si era discusso fino a pochi minuti prima, sia stata accertata come un “giudizio di Dio”, insindacabile e indiscutibile anche da parte di chi ne usciva sanzionato. Una sindrome, diffusa negli ambienti giustiziali - sti collegati con le Procure e i pubblici ministeri, cioè con l’accusa, che ha contagiato persino coloro i quali, in uno Stato di diritto e in un Paese civile, si collocano dalla parte opposta, cioè della difesa. Ma che razza di Stato di diritto e di Paese civile è mai, mi chiedo allora, questo, dove la presunzione di innocenza è negata a priori in vista dell’istruzione di processi mediatici e allo scopo di pervenire al linciaggio morale dell’accusato, e la possibilità di errore, a sentenza avvenuta, è esclusa anche da parte di chi l’ha sostenuta in sede processuale? Personalmente, ritengo che la diffusione di tale sindrome sia il riflesso di un’errata, ma ormai diffusa, convinzione che compito della Giustizia non sia di applicare la legge, di condannare o assolvere chi è accusato di aver compiuto un reato, bensì quello di “far rigare dritto” i cittadini. Il fatto, poi, che la magistratura, sulla base di tale convinzione, sia stata investita di una missione salvifica, spiega, altresì, perché una parte dell’opinione pubblica e, ahimè, degli stessi magistrati, ritengano rispettato il compito della Giustizia solo quando soddisfa le loro pulsioni morali soggettive. Una distorsione, questa, dello “spirito delle leggi” che ha finito con giustificare l’autoreferenzialità di certi pubblici ministeri che parlano più come preti che come magistrati e tendono, di conseguenza, a confondere il peccato col reato, un comportamento condannabile sul piano morale e politico con un comportamento penalmente perseguibile; a “fare giustizia”, più che a realizzare Giustizia. Penso, d’altra parte - sulla base della mia lunga esperienza di dialogo con i lettori - che farei torto a quei magistrati se attribuissi solo ad essi la “distorsione dello spirito delle leggi” di cui parlo. No, essa è figlia della carenza di cultura liberale - dei diritti e delle libertà individuali - di un Paese che ha ereditato dal totalitarismo (dal fascismo), e non l’ha ancora esorcizzata, l’idea che le ragioni dello Stato, incarnate nella fattispecie dal sistema giudiziario, debbano sempre prevalere su quelle degli Individui, e ha assimilato, dal Sessantotto, la prospettiva di cambiare il mondo. Col risultato che una assoluzione è percepita come una sconfitta dello Stato, e della Verità rivoluzionaria, e una condanna come un loro successo. In definitiva, ci siamo dati uno Stato di diritto senza possederne la cultura che in altri Paesi ne è il fondamento morale e, forse, neppure le istituzioni. Non siamo una democrazia compiuta e neppure ancora un Paese civile. Giustizia: l’ex Capo del Dap Amato; su revoche di 41-bis ho subìto pressioni dal Viminale Gazzetta del Sud, 25 gennaio 2011 È tornato davanti ai pm della dda di Palermo che indagano sulla trattativa tra Stato e Cosa nostra Nicolò Amato, ex magistrato ed ex capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria negli anni delle stragi di mafia. I magistrati l’hanno interrogato nei locali della Dia di Roma. La scorsa settimana era stato sentito anche dalla commissione Antimafia. I pm Nino Di Matteo e Paolo Guido, che avevano sentito Amato a novembre, l’hanno riconvocato dopo avere acquisito una serie di documenti nella sede del Dap e dopo avere interrogato diversi funzionari dell’amministrazione penitenziaria. Al centro dell’interrogatorio, ancora una volta, le vicende relative al carcere duro negli anni successivi agli eccidi mafiosi. L’ex capo del Dap allora fu autore di un documento in cui si suggeriva all’ex guardasigilli Giovanni Conso la revoca del 41 bis. Amato ha confermato le pressioni esercitate dal Viminale per la revoca dei decreti che imponevano il 41 bis relativamente agli istituti di pena di Secondigliano e Poggioreale e le riserve espresse, il 12 febbraio del 1993, dall’allora capo della polizia Vincenzo Parisi sull’eccessiva durezza delle misure carcerarie restrittive introdotte d’urgenza tra le stragi di Capaci e via D’Amelio e trasformate in legge dopo l’assassinio del giudice Borsellino. Un contesto istituzionale che rafforzò un convincimento personale di Amato, che riteneva il carcere duro uno strumento eccezionale, quindi necessariamente limitato nel tempo. Nel 1993 Conso revocò e non prorogò il 41 bis a oltre trecento detenuti. I pm stanno cercando di accertare se proprio il carcere duro fu la “merce di scambio” messa sul piatto dallo Stato per far cessare la stagione stragista. Amato dunque non si è discostato dalle dichiarazioni rilasciante davanti alla Commissione Antimafia, presieduta dal senatore Giuseppe Pisanu. “Il 41 - bis così come è stato usato per anni è sostanzialmente inutile”, aveva detto il direttore del Dap dall’83 al ‘93. “Un esempio? I colloqui. Il 41bis nel limitava il numero e ne riduceva la durata: dobbiamo continuare a prenderci in giro dicendo che questo basta davvero a tagliare i collegamenti tra l’interno e l’esterno delle carceri? Ben altro risultato si sarebbe raggiunto prevedendo per legge che quei colloqui venissero registrati, come io proponevo nell’appunto del 6 marzo del ‘93 diretto al ministro della Giustizia: se fosse stato fatto davvero, quante comunicazioni, e quanti delitti, sarebbero stati evitati?”. “In quell’appunto - ricorda Amato - mi limitavo ad affermare ciò che ho sempre pensato. Proponevo una condizione carceraria per i detenuti mafiosi ancora più dura e rigorosa di quella prevista dal 41 - bis, solo un po’ più intelligente, efficace e corretta dal punto di vista giuridico: ho sempre creduto che il 41 - bis, come prima l’articolo 90 (pensato per i terroristi e i cosiddetti “killer delle carceri”, ndr) fosse uno strumento eccezionale, cui era giusto ricorrere nell’immediatezza delle stragi, e che trasformarlo in un istituto ordinario significasse calpestare la Costituzione e le regole minime dell’Onu e del Consiglio d’Europa”. “Perché, ne sono convinto - conclude - la sicurezza del carcere non dipende dalla durezza della condizione carceraria ma da una organizzazione razionale, dalla professionalità del personale di custodia, dal rispetto dei criteri fondamentali di umanità” Nell’occasione Amato criticò anche Martelli. “L’ex ministro ricorda male, davvero molto male quello che accadde nell’estate del 1992. Non è vero che io fossi contrario al 41 bis, come ha detto e che dovette firmare lui i provvedimenti perché io non mi facevo trovare”. “L’ex capo del Dap, Nicolò Amato, ha confermato di aver ricevuto pressioni dal Viminale negli anni ‘92 - ‘93 perché fosse revocato il regime del carcere duro a boss della criminalità organizzata”. È quanto afferma il capogruppo del Pdl al Senato, Maurizio Gasparri, che aggiunge: “Amato ha sostanzialmente chiamato in causa l’allora ministro dell’Interno, Nicola Mancino, ma ha anche aggiunto che l’allora capo della polizia, Vincenzo Parisi, aveva manifestato riserve sul 41 bis. Dopo le dichiarazioni dell’ex ministro della Giustizia del governo Ciampi, Giovanni Conso, le parole di i Amato non fanno altro che confermare - afferma Gasparri - uno scandalo grande come una casa. Nel ‘93, lo Stato, quando al governo c’era il centrosinistra guidato da Ciampi e con Scalfaro Presidente della Repubblica, si piegò alle richieste dei boss. Lo scenario di quella che sembrerebbe una trattativa è ancora tutto da delineare. Ma i nomi di molti protagonisti della storia dell’epoca sono stati già fatti. Vogliamo un’operazione verità per capire responsabilità e ruoli”. Giustizia: Direzione nazionale antimafia; boss si fingono malati per avere i “domiciliari” Agi, 25 gennaio 2011 “Le organizzazioni criminali hanno affinato le tecniche per sottrarsi alla custodia in carcere”, e la cosa costituisce una problematica allarmante perché “l’accesso al regime degli arresti domiciliari dei detenuti per mafia oltre i limitatissimi casi di effettiva incompatibilità con il regime carcerario (ed anche in tali casi dovrebbero essere attivati adeguati sistemi di controllo che riducano al minimo i rischi) ha ricadute devastanti sull’ordine e la sicurezza pubblica, sulle esigenze di prevenzione, sui procedimenti penali in corso e sulla stessa complessiva attività di contrasto alla criminalità organizzata”. È quanto affermato Maria Vittoria De Simone, magistrato componente della Direzione nazionale antimafia, coordinatrice per il distretto di Catanzaro, conversando con l’Agi a proposito di un’interrogazione parlamentare presentata nei giorni scorsi dal gruppo del Pd alla Camera. L’interrogazione riguardava “le frequenti concessioni degli arresti domiciliari, successivamente revocati dalla Corte di Cassazione, ad esponenti della ‘ndrangheta in Calabria” e segnalava l’”inquietante fenomeno” della concessione degli arresti domiciliari ad affiliati alla ‘ndrangheta in maniera “significativamente superiore, dal punto di vista statistico, rispetto a quanto avviene in altre realtà”. De Simone spiega che “la normativa in materia di misure cautelari per delitti di particolare allarme sociale, come quelli di mafia, è estremamente rigorosa. Le esigenze cautelari sono presunte, e possono essere soddisfatte unicamente con la custodia cautelare in carcere. Dal dettato normativo - aggiunge il magistrato - si evince dunque che la permanenza di tali esigenze, pur se attenuate, impone sempre il mantenimento della misura coercitiva più grave della custodia in carcere. La presunzione di pericolosità e la conseguente obbligatoria previsione della custodia in carcere sono ostativi all’ adozione o sostituzione con una misura coercitiva meno grave, come ad esempio gli arresti domiciliari. A fronte di questa rigida disciplina, - spiega De Simone - l’unica condizione per accedere ai domiciliari è l’incompatibilità delle condizioni di salute con il regime carcerario”. Di qui i vari escamotage che soprattutto gli affiliati alla criminalità organizzata adottano. “Le situazioni che più frequentemente ricorrono sono le condizioni di salute inesistenti o simulate - ha spiegato ancora De Simone - , mentre più raramente capitano condizioni di salute reali ma volontariamente create dal detenuto per sottrarsi alla detenzione”. “Nei casi segnalati dall’interrogazione parlamentare, - fa rilevare - la valutazione della sussistenza di una incompatibilità con il regime carcerario richiede, proprio perché incide sulle esigenze cautelari poste a fondamento della misura applicata a soggetti appartenenti ad organizzazioni di stampo mafioso, un accertamento estremamente rigoroso, basato su esami diagnostici e terapeutici affidabili che tengano conto: della diffusa pratica della simulazione emersa dalla esperienza giudiziaria; delle ipotesi di collusioni o compiacenze del perito determinate da corruzione o contiguità al detenuto o al contesto criminale nel quale è inserito; delle ipotesi di intimidazione e minacce messe in atto per ottenere esiti peritali compiacenti; e di un possibile apprezzamento errato, frutto di valutazioni superficiali o scorrette, o di apparenze costruite dall’interessato. È evidente che in contesti ad altissima densità criminale come la Calabria - dice la componente della Dna, dove le cosche ‘ndranghetiste godono di ampie coperture e sono diffusamente infiltrate nel tessuto sociale, il rischio di situazioni come quelle sopra descritte è elevatissimo. Ne deriva un doveroso particolare rigore nell’espletamento delle verifiche per l’accertamento delle asserite incompatibilità col regime detentivo, e nella valutazione da parte dell’Autorità giudiziaria quando si è in presenza di un detenuto di notevole spessore criminale o comunque inserito in contesti mafiosi, ed ancor di più quando si tratta di detenuti sottoposti al regime del 41 bis. I casi di sostituzione della misura cautelare in carcere per soggetti appartenenti alle categorie indicate - spiega - dovrebbero essere rigorosamente limitati, e subordinati ad alcune condizioni: approfonditi accertamenti peritali delle reali condizioni di salute del detenuto, il che implica una elevata affidabilità del perito (in contesti come quello in esame sarebbero preferibili perizie collegiali affidate a soggetti totalmente estranei al contesto ambientale); valutazione critica degli esiti peritali verificati, nei casi dubbi, attraverso il confronto con un altro esame peritale; verifica della idoneità delle strutture sanitarie penitenziarie e, solo in caso di inidoneità, utilizzo di strutture esterne, preferibilmente pubbliche. Con riferimento alla concessione degli arresti domiciliari presso l’abitazione, comunque, è del tutto evidente che mai o quasi mai può essere ritenuta più idonea l’abitazione privata piuttosto che una struttura sanitaria”. Giustizia: caso Cucchi; 12 rinvii a giudizio e una condanna a 2 anni, per dirigente del Prap La Repubblica, 25 gennaio 2011 Sono accusati di lesioni e abuso di autorità, favoreggiamento, abbandono di incapace, abuso d’ufficio e falsità ideologica. La sorella Ilaria: “Mio fratello non è morto per una malattia ma per le botte. Mi auguro che i pm abbiamo il coraggio di portare avanti la verità e abbiano l’umiltà di tornare sui loro passi. Oggi ho visto il dolore negli occhi di mia madre e per noi il processo costituisce una tappa importante per la nostra battaglia di verità” Dodici rinvii a giudizio per la morte di Stefano Cucchi avvenuta il 22 ottobre del 2009 all’ospedale Pertini di Roma, sei giorni dopo essere stato arrestato per droga. Nel corso dell’udienza davanti al Gup, è stato condannato a due anni un funzionario dell’amministrazione penitenziaria regionale. Per la morte di Stefano Cucchi il gup Rosalba Liso ha rinviato a giudizio 3 agenti della polizia penitenziaria e 9 persone tra medici e infermieri dell’ospedale Sandro Pertini. Il processo prenderà il via il 24 marzo prossimo davanti alla terza corte d’assise di Roma. Il funzionario del Prap Claudio Marchiandi, direttore dell’ufficio detenuti e del trattamento del provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria, aveva chiesto di essere giudicato con il rito abbreviato. I dodici sono stati rinviati a giudizio a vario titolo per lesioni e abuso di autorità, favoreggiamento, abbandono di incapace, abuso d’ufficio e falsità ideologica. “È stato un momento di grande tensione emotiva, il gup la pensa come noi: Stefano non è morto per una malattia ma per le botte. Mi auguro che i pm abbiamo il coraggio di portare avanti la verità e abbiano l’umiltà di tornare sui loro passi. Oggi ho visto il dolore negli occhi di mia madre e per noi il processo costituisce una tappa importante per la nostra battaglia di verità. Ci continuiamo a domandare perché ci è stata data una verità diversa visto che è evidente che noi, attraverso i nostri consulenti medico legali, non abbiamo mai detto assurdità”. Così Ilaria Cucchi, commentando la decisione del giudice Rosalba Liso sui rinvii a giudizio disposti degli imputati nel processo relativo alla morte del fratello Stefano. Ilaria tra l’altro si riferisce a quanto affermato dal gup nell’ordinanza in merito al disporre una superperizia. La Liso ha sostenuto che non rientra nelle sue competenze, ma che sarebbe opportuno approfondire alcuni aspetti medici in sede di dibattimento. Alla fine dell’udienza Ilaria e i genitori sono andati a salutare il gup: “Con lo sguardo ci ha voluto manifestare il suo sostegno umano”, ha concluso la Cucchi. “Non c’è motivo di rallegrarsi, oggi comunque è stato messo un primo tassello per arrivare alla verità”, ha aggiunto il padre di Stefano Giovanni Cucchi, “Speriamo che quanto accaduto possa servire per migliorare il sistema giustizia del nostro Paese Vogliamo dire grazie tutti coloro che ci sono stati vicini a cominciare dal Comune, dalla Provincia, dal presidente Fini, dai parlamentari del comitato per Stefano. Riteniamo grave che tante istituzioni siano rimaste mute come l’Ordine dei medici”. Sulla vicenda è intervenuto anche il sindaco Alemanno. “Voglio esprimere la mia soddisfazione per l’esito dell’udienza davanti al Gup sul caso Cucchi” ha detto “Il rinvio a giudizio di dodici persone va nella direzione auspicata dall’amministrazione, che si è costituita parte civile nel processo, e da tutta la città: la ricerca della verità su quanto è accaduto a Stefano”. Giustizia: Cgil; basta mercanti di braccia, il caporalato sia reato penale L’Unità, 25 gennaio 2011 Cinquanta euro. È la multa che pagano, se sorpresi in flagrante, i “caporali”, quei mercanti di braccia che sulle piazze dei paesi del sud o nelle periferia urbane ingaggiano lavoratori, spesso per pochi euro, da destinare ai lavori agricoli e nei cantieri edili. Ma ora quella sanzione amministrativa “di appena 50 euro per ogni lavoratore ingaggiato” deve diventare reato penale, chiedono i sindacati di categoria degli edili e dell’agricoltura, Fillea e Flai, e tutta la Cgil. E per questo hanno messo a punto una proposta di legge, affidata “alle forze politiche e alle commissioni parlamentari, con la convinzione che si possa in breve tempo giungere a un testo condiviso e alla sua rapida approvazione”. “Bisogna riconoscere la natura di reato: la tratta delle persone, qualsiasi sia la sua forma, è un reato”, ha detto il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, parlando all’assemblea nazionale dei quadri Flai e Fillea. Ne consegue, ha aggiunto, l’esistenza di un “problema di appalti, subappalti, criminalità organizzata” che, insieme al caporalato, “riguarda l’Italia sia che del nord che del sud”. Le sanzioni penali ci sono già, replica però il ministero del Lavoro. La legge stabilisce che “in caso di intermediazione illecita c’è l’arresto fino a sei mesi e un’ammenda da 1.500 a 7.500 euro. Se non c’è scopo di lucro l’ammenda va da 500 euro fino a 2.500. E se c’è sfruttamento dei minori, è previsto l’arresto fino a 18 mesi, mentre l’ammenda è aumentata fino al sestuplo”. Secondo le stime di Flai-Cgil, sono 400mila i lavoratori in agricoltura che vivono sotto caporale, e 60mila di loro vivono in condizioni di assoluto degrado, come ha messo in luce il caso di Rosarno, un anno fa. Stesso ordine di grandezza, grosso modo, per il settore edilizio: secondo la Fillea, sono 300mila i lavoratori in nero o sotto ricatto. Contro il fenomeno anche le organizzazioni agricole Cia e Coldiretti. Lettere: i politici non sono uguali agli altri cittadini... soprattutto quando vanno in galera di Marco Travaglio Il Fatto Quotidiano, 25 gennaio 2011 Da tre giorni, fra i 70 mila detenuti stipati nelle patrie galere, c’è anche un politico. Il suo nome è Totò Cuffaro, assessore regionale siciliano col centrodestra poi col centrosinistra, due volte governatore di centrodestra, due volte senatore dell’Udc, ultimamente passato al Pdl, condannato a 7 anni in Cassazione per favoreggiamento mafioso. Prima che i carabinieri andassero a prelevarlo, s’è consegnato a Rebibbia, dove ha iniziato a scontare la pena. Trattandosi di mafia, non c’è indulto che tenga: i 7 anni, grazie alla “liberazione anticipata” prevista dalla legge penitenziaria, si ridurranno a 5 anni e 3 mesi. Il che significa che resterà dentro 2 anni e 3 mesi, poi potrà chiedere di uscire per scontare gli ultimi 3 anni ai servizi sociali. Come un cittadino qualsiasi. Ma per la nostra classe politica, profondamente mafiosa nella testa, Totò non è un cittadino come gli altri. L’idea che un politico finisca dentro come tutti i condannati è fuori dal mondo (anzi, dall’Italia: i penitenziari americani e inglesi pullulano di politici condannati per reati molto meno gravi). Infatti il sottosegretario Giovanardi esprime “preoccupazione e sconcerto” perché “si può finire in carcere se risultano agli atti un mare di dubbi”. Quali dubbi, vista la condanna in Cassazione, non è dato sapere. Forse Giovanardi pretende che la Cassazione lo interpelli prima di condannare qualcuno: “Onorevole, ha per caso dei dubbi? Ci faccia sapere”. E si sprecano i complimenti a Cuffaro (anche da parte di insospettabili come Rita Borsellino ed Enzo Bianco) per lo squisito bon ton mostrato consegnandosi alla giustizia anziché fuggire o insultare i giudici. Oh bella, e questo sarebbe un merito? Ogni giorno centinaia di criminali entrano in galera senza fiatare. Ma, avendo avuto un ex premier latitante e avendo un premier che ogni giorno strilla al golpe giudiziario, se un senatore si comporta come un detenuto normale merita l’encomio solenne. Tanto di cappello, anzi di coppola. Così si afferma che i politici non sono uguali agli altri cittadini, anzi sono tenuti a comportamenti molto meno legalitari di quelli richiesti all’uomo della strada. Cicchitto e Quagliariello elogiano Cuffaro “per la scelta compiuta”. Scelta? Quale scelta? Pare quasi che abbia fatto un favore ai giudici consegnandosi a Rebibbia. Il Giornale critica la Cassazione che “ha rigettato la richiesta del Pg” di derubricare il favoreggiamento da aggravato a semplice, per far scattare la solita prescrizione, mentre “di norma la richiesta del Pg viene accolta”. E questo sarebbe avvenuto non perché il Pg aveva torto, ma perché i giudici han voluto “salvare la credibilità dei pm”. Cioè: il Giornale è sempre pronto a criticare i giudici “appiattiti” sui pm, ma se bocciano una richiesta dei pm li critica perché non si appiattiscono. Tanto per ribadire che per la Casta non valgono le regole normali, nemmeno quelle della logica. Un caso a parte è Casini, che nel 2006 e nel 2008 ha portato in Parlamento Cuffaro, anche dopo la condanna in primo grado. “Per me - spiegò Pier Casini - è una persona onesta, ho fiducia in lui. Mi assumo la responsabilità di ritenerlo una persona onesta. Quando e se verrà dimostrata una cosa diversa, vorrà dire che mi sbagliavo” (7.2.2006). Santoro gli domandò: “Lei garantisce per Cuffaro: ma se le cose si mettessero male dal punto di vista giudiziario, anche lei ne trarrebbe le conseguenze?”. E Casini: “Bè, questo è ovvio, mi assumo la responsabilità politica, l’ho detto davanti al Paese” (31 marzo 2008). Ora che la “persona onesta” è ufficialmente un favoreggiatore della mafia, Pier se la cava con un comunicato a quattro mani con Marco Follini (incredibilmente responsabile comunicazione del Pd): sono “umanamente dispiaciuti per la condanna”, “rispettano la sentenza” ma poi la cancellano: “Non rinneghiamo tanti anni di amicizia e resta in noi la convinzione che Cuffaro non sia mafioso”. Ecco, decidono loro. Nasce così ufficialmente il quarto grado di giudizio (per i politici, of course): Tribunale, Corte d’appello, Cassazione e Casini-Follini. Lazio: Garante; tagli ai fondi per le carceri, budget a disposizione cala del 15 per cento Il Velino, 25 gennaio 2011 Per garantire, nel 2011, il vitto agli oltre 6.400 detenuti presenti nelle 14 carceri del Lazio, il provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria, avrà a disposizione 740 mila euro in meno rispetto al 2010 ( - 10 per cento circa). Ammonta, invece, al 58 per cento il taglio delle risorse destinate al funzionamento degli asili per i figli delle detenute: a disposizione ci sono, infatti, solo 200 mila euro a fronte dei 475 mila euro stanziati nel 2010. Secondo il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni, che ha diffuso i dati, sono pesantissimi i tagli ai fondi per il funzionamento delle carceri del Lazio. Su 15 capitoli di spesa, i tagli rispetto al 2010 sfiorano il 15 per cento: quest’anno, infatti, il budget è di poco superiore ai 20 milioni di euro, a fronte degli 23.180 mila euro del 2010. “Nella programmazione di spesa nazionale del Dap 2011 - ha detto Marroni - c’è uno sbilancio di oltre 20 milioni di euro fra fabbisogno stimato (106 milioni) e risorse disponibili (85 milioni). Di questi, 3 milioni mancheranno al Lazio, dove già nel 2010 ci fu una riduzione dei trasferimenti del 30 per cento che faceva seguito al dato negativo del 2009. Quest’anno la situazione è ancora peggiore e si corre il rischio di paralizzare ogni tipo di attività nelle carceri, con conseguenze drammatiche per i detenuti e per quanti vivono e operano negli istituti”. Quello che preoccupa è che i tagli si contrappongono ad una crescita annua nazionale del 6,7 per cento dei detenuti. Un dato che quasi si raddoppia nel Lazio, con un incremento dei reclusi dell’11,5 per cento annuo. Strategicamente nel Lazio, i tagli più rilevanti riguardano il funzionamento degli asili nido per i figli delle detenute, gli interventi per il trattamento dei detenuti tossicodipendenti ( - 81 mila euro) e, soprattutto, il budget destinato ai detenuti lavoranti (la mercede). Per quest’ultima voce, se nel 2010 era stato tagliato un quarto il budget, per il 2011 le cose vanno ancora peggio visto che sarà tagliato quasi un milione di euro. “Un dato, questo, particolarmente importante - ha detto Marroni - perché vuol dire che saranno, inevitabilmente, ancora ridotte le ore di lavoro destinate alle pulizie e alla manutenzione degli istituti e sarà sacrificato il lavoro dei detenuti spesini e degli scrivani, degli addetti alle cucina e alle biblioteche e a coloro che lavorano nelle infermerie. Se i dati saranno confermati, il Prap e le singole direzioni delle carceri non hanno molti margini di manovra per restare nei limiti imposti dal budget si dovrà tagliare di tutto, comprese le fondamentali attività trattamentali, quelle scolastiche e di formazione professionale, le attività ludiche e di svago e, soprattutto gli interventi di carattere assistenziale e sanitario, come il sostegno psicologico e la mediazione culturale. Per questo ho scritto al capo del Dap Franco Ionta; senza un deciso cambio di rotta le carceri italiana rischiano seriamente il tracollo”. Sulmona: i Radicali; la Casa di Lavoro è da chiudere Il Centro, 25 gennaio 2011 Una visita di tre ore a contatto con i detenuti, soprattutto quelli del reparto internati. Una denuncia forte sulla situazione del penitenziario sulmonese e una ferma critica al sindaco, Fabio Federico, responsabile dell’area sanitaria del carcere. È il bilancio della visita di ieri in carcere della deputata radicale Rita Bernardini, del segretario dell’associazione “Certi diritti”, Sergio Rovasio, e del responsabile del dipartimento provinciale Diritti e garanzie del Pd, Giulio Petrilli, all’indomani dell’ultimo suicidio verificatosi nell’istituto. “Il problema maggiore”, ha detto la deputata radicale, per la terza volta in visita al carcere di via Lamacccio, “è quello degli internati. Tale misura c’è solo in Italia e la sottoporremo all’attenzione della Corte europea dei diritti dell’uomo per chiederne le cancellazione”. A suo avviso andrebbe chiusa anche la casa lavoro. “Il lavoro non c’è”, ha aggiunto, “il corrispettivo per queste attività è stato tagliato, a livello nazionale, del 25%, quindi gli internati, di fatto, vivono anche lì una forma di reclusione”. L’attenzione si è poi spostata sul problema sanitario. “Abbiamo registrato una serie di casi”, ha detto, “che metteremo in un’interrogazione parlamentare. Detenuti che si sentono abbandonati e ci hanno riferito di difficoltà nell’ottenere visite specialistiche. Mi chiedo che cosa abbia fatto Federico”. Per Rovasio le visite nelle carceri “fanno capire come vengano violati i diritti umani minimi e indispensabili, soprattutto sotto due aspetti: l’assistenza sanitaria e il sovraffollamento”. “Il carcere di Sulmona”, ha concluso Petrilli, “è l’emblema del fallimento della politica governativa rispetto alle carceri”. Ad accompagnare la delegazione Mauro Nardella, segretario provinciale della Uil penitenziari. Venezia: il Consiglio comunale prende tempo, ma alla fine il nuovo carcere si farà Il Gazzettino, 25 gennaio 2011 Ed è probabile che la sede sia quella dell’ex deposito di Campalto scelta da un funzionario della Regione con il commissario di governo delegato al piano carceri. Sempre che, nell’arco di un paio di settimane, il Comune di Venezia non riesca a individuare un sito alternativo e a riaprire la partita virtualmente chiusa il 27 dicembre scorso con l’intesa fra Stato e Regione Veneto. A questa speranza si appiglia il Consiglio comunale che, dopo quasi cinque ore di dibattito, è riuscito ad approvare all’unanimità (37 votanti) un ordine del giorno che impegna il sindaco Giorgio Orsoni a differire l’intesa, a chiarire dimensioni e capienza del nuovo carcere e a proporre un’area alternativa. Ma soprattutto a concordare il futuro di Santa Maria Maggiore, che potrebbe essere “liberata” dalle celle, destinata a ospitare altre sedi giudiziarie ma che potrebbe anche mantenere, come temuto da qualcuno, una destinazione detentiva, sia pure ridotta rispetto alle dimensioni attuali. Alla fine, dunque, gli abitanti di Campalto possono continuare a sperare, e maggioranza e opposizione possono dirsi soddisfatti: se quest’ultima ha promosso il dibattito in Consiglio dopo aver accusato il sindaco di avere condotto una trattativa “sotterranea”, la maggioranza ha ribadito come la scelta di Campalto sia stata fatta da Stato e Regione che hanno messo il Comune davanti al fatto compiuto. Anche se, come sottolineato da tutti, Orsoni in testa, la decisione di chiudere Santa Maria Maggiore “è una scelta di civiltà”. Fino all’ultimo, però, il Consiglio comunale ha rischiato di rimanere “imprigionato” sul carcere: dopo avere convinto l’opposizione a ritirare alcuni siti alternativi, il sindaco ha dovuto vedersela con Sinistra e Verdi che chiedevano di escludere esplicitamente i forti dalle aree dove realizzare la struttura detentiva. Un invito che sarebbe suonato come un’implicita sfiducia a Orsoni, delegato dal Consiglio a chiedere a Stato e Regione di trovare un’altra sede per il carcere. Il difficile, però, viene adesso, perché nel giro di un paio di settimane il Comune dovrà essere in grado di indicare un sito alternativo al sindaco. Se il centrodestra propone Forte Pepe, l’Idv Lastrucci preferirebbe l’area destinata a bosco nel Quadrante di Tessera. Non mancano soluzioni fantasiose, come quella di Cavaliere (Pdl) che ha suggerito di fare il carcere alla Paolini & Villani di Marghera che ora ospita il Centro Rivolta. Fuori dal dibattito è rimasto uno dei nodi del contendere, ovvero le “compensazioni” che il Comune chiederà per l’area sulla quale sorgerà il nuovo edificio di pena. Oltre alla condizione dei detenuti che, fino a quando non ci sarà il carcere, dovranno continuare a popolare Santa Maria Maggiore, Dove, stando all’ex pm Fortuna, (Udc) “la funzione rieducativa è impossibile”. Bolzano: la Provincia costruirà il nuovo carcere, in cambio avrà l’area su cui sorge vecchio Ansa, 25 gennaio 2011 La Giunta provinciale ha approvato la proposta di modifica d’ufficio del piano urbanistico comunale di Bolzano. Viene prevista una zona di 4,2 ettari per attrezzature collettive sovracomunali al fine di realizzare il nuovo carcere del capoluogo. Un’area di dimensioni analoghe viene destinata a zona di espansione per l’edilizia abitativa in fondo a viale Druso. Il penitenziario di via Dante a Bolzano presenta condizioni di degrado e di sovraffollamento insostenibili, che rendono indifferibile la costruzione di una nuova struttura, ha detto il presidente Luis Dunrwalder. L’area è stata già localizzata a Bolzano sud, nelle vicinanze dell’aeroporto, ed e già stata siglata anche l’intesa istituzionale tra il presidente della Provincia Luis Durnwalder e il Commissario delegato dal governo, Franco Ionta. La Giunta, che realizzerà il nuovo carcere e in contropartita otterrà la disponibilità dell’area di via Dante, ha iniziato oggi la procedura di modifica d’ufficio del Puc del Comune di Bolzano. “Su un’area di 4,2 ettari viene prevista una zona per attrezzature collettive sovracomunali come presupposto per la costruzione del nuovo istituto penitenziario, che potrà alloggiare fino a 220 detenuti con una sezione femminile”, ha spiegato Durnwalder. Il presidente ha confermato che si conta di concludere entro l’anno la procedura di gara e l’assegnazione degli appalti. Con l’approvazione di una seconda modifica del Puc bolzanino la Giunta provinciale ha dato via libera alla trasformazione in zona C2 (zona di espansione) di un’area di 4,2 ettari in fondo a viale Druso, all’incrocio con via Resia. “L’area diventa edificabile e consente al Comune di avviare il programma di costruzione di nuovi alloggi”, ha detto Durnwalder. In questo contesto il presidente Durnwalder ha ribadito che l’assegnazione di questa area edificabile non è in conflitto con la sua convinzione di mantenere e salvaguardare il verde agricolo a Bolzano. “Dobbiamo portare avanti con urgenza il programma abitativo e quindi abbiamo concesso in via eccezionale al Comune di Bolzano la possibilità di muoversi al meglio per reperire le aree indispensabili, se necessario anche anticipando la modifica del Puc nel verde”, ha precisato Durnwalder. Pistoia: carcere sovraffollato; domani l’incontro tra Comune, Regione e Sindacati Il Tirreno, 25 gennaio 2011 La situazione di sovraffollamento che si vive al carcere di Santa Caterina in Brana sarà al centro dell’incontro in calendario per mercoledì prossimo in Comune, al quale prenderanno parte, oltre all’amministrazione comunale, anche i segretari di Cgil e Funzione pubblica Cgil e l’assessore regionale al sociale Salvatore Allocca. Venerdì scorso il carcere era stato visitato dal deputato dell’Idv Fabio Evangelisti, che non aveva potuto far altro che confermare la situazione insostenibile che detenuti e guardie vivono al Santa Caterina (come nelle altre carceri italiane). Reggio Calabria: manca la scorta, detenuto non può recarsi a dare l’addio al padre morto Gazzetta del Sud, 25 gennaio 2011 La Corte d’appello l’aveva autorizzato a lasciare il carcere per un paio d’ore e recarsi sotto scorta a casa per l’estremo saluto al padre defunto. Ma quell’autorizzazione è rimasta ineseguita per carenze di organico. Così come è rimasta ineseguita una seconda autorizzazione a recarsi al cimitero e pregare sulla tomba del genitore. Il detenuto, quindi, è rimasto col suo dolore in cella perché non c’erano agenti disponibili da impiegare nel servizio scorta. Una vicenda sconcertante che ha visto protagonista Antonino Sinicropi, 42 anni, reggino, imputato del processo “Testamento”, in attesa che si celebri il giudizio d’appello. Domenica 16 gennaio, Italo Vittorio Benito Sinicropi, padre del detenuto, era venuto a mancare a seguito di una grave malattia. I funerali erano stati fissati per il 18 e la famiglia aveva incaricato i legali del congiunto, gli avvocati Giulia Dieni e Francesco Calabrese, di presentare richiesta di far autorizzare il detenuto a rendere l’estremo saluto al padre. La Corte d’appello ha provveduto tempestivamente. Nonostante fosse stata emessa in tempo utile rispetto all’ora di celebrazione del funerale, l’autorizzazione è rimasta ineseguita. I legali hanno giocato l’ultima carta chiedendo ai giudici di autorizzare il detenuto, sempre sotto scorta, a recarsi per un’ora al cimitero e raccogliersi in preghiera sulla tomba del padre e per un’altra ora a rimanere con i familiari nell’abitazione paterna allo scopo di dare e ricevere il necessario conforto. Mercoledì scorso la Corte ha provveduto. Ma anche la seconda autorizzazione è rimasta sulla carta. La mancanza di personale ha impedito che fosse eseguita: “Abbiamo più volte contattato verbalmente - scrivono in una nota gli avvocati Dieni e Calabrese - i preposti della casa circondariale. Ci sono state comunicate le difficoltà organizzative determinate dalla carenza di organico. Appare, comunque, ingiustificabile che siano trascorsi 5 giorni dal primo provvedimento senza che fosse consentito al detenuto di poterne fruire. La situazione logistica del carcere è ormai insostenibile. Il numero dei detenuti è spropositato e l’organico ridotto all’osso. Basti pensare che le udienze spesso vengono differite a causa delle difficoltà a tradurre i detenuti”.(p.t.) Sulmona: detenuto ha raptus, distrugge cella di sicurezza dell’ospedale Ansa, 25 gennaio 2011 Era in attesa di subire un intervento chirurgico, ma colto da un improvviso raptus ha distrutto la cella dell’ospedale dove era ricoverato. Protagonista un detenuto del carcere di Sulmona, il quale ha distrutto l’intero reparto di sicurezza riservato ai reclusi nella struttura sanitaria peligna. Ingenti i danni causati; nel corso dell’episodio è rimasto allagato anche buona parte del seminterrato dell’ospedale dove é allocata la cella. A bloccare il detenuto sono intervenuti gli agenti di polizia penitenziaria in servizio in quel momento i quali con l’aiuto dei medici e degli infermieri lo hanno convinto ad accettare di subire l’intervento che è stato regolarmente effettuato. Messina: un giorno diverso all’Opg, giocatori e dirigenti del Basket Barcellona per la solidarietà Gazzetta del Sud, 25 gennaio 2011 Per loro, per quei ricoverati dell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona che hanno partecipato alla manifestazione, sono state ore diverse in una mattinata fredda e piovosa. Ore che li hanno portati a contatto con il mondo esterno grazie al progetto “Nice team”, promosso dalla Sigma Barcellona con la collaborazione del Comune, dell’assessorato provinciale allo Sport, di Motor show Yamaha e Santander Consumer Bank. Si è trattato del terzo momento del progetto sociale della società barcellonese dopo quelli all’associazione Co.Di. di Barcellona e al reparto di Pediatria del Policlinico di Messina. Per i ricoverati è stata una mattinata particolare, a tratti anche emozionante, non solo per quanto è stato detto nei vari interventi, ma anche quando Joe Crispin e Michael Hicks hanno consegnato le loro maglie autografate ad un ricoverato. Grande gioia e applausi quando sullo schermo sono state proiettate dieci tra le più importanti azioni della squadra giallorossa, filmato concluso con due bei canestri di Hicks e Crispin. E i due giocatori, particolarmente festeggiati, hanno avuto parole toccanti per coloro che vivono una fase delicata della loro vita mentre la società, per bocca dell’addetto stampa Benedetto Orti Tullo, ha assunto l’impegno di far vivere anche ai ricoverati dell’Opg le emozioni delle partite della squadra di Cesare Pancotto: sei ricoverati potranno infatti assistere alle prossime gare casalinghe, da domenica contro Pistoia. A fare gli onori di casa il direttore dell’Opg, Nunziante Rosania che ha evidenziato la valenza dell’iniziativa. “Nell’ambito di questo progetto sociale - ha detto - l’incontro con alcuni dei ricoverati dell’Opg è apparso una tappa quasi obbligatoria. L’Opg di Barcellona è uno dei cinque ospedali psichiatrici giudiziari del Ministero della Giustizia e sta attraversando un periodo difficile come tutto il settore penitenziario. Noi speriamo che le iniziative come quella di oggi possano segnalare una volta di più queste difficoltà in cui ci dibattiamo”. Rosania ha fatto riferimento al sovraffollamento degli istituti, alla carenza di risorse umane ed economiche e ha auspicato la necessità di arrivare a delle soluzioni. “Ringraziamo i nostri ospiti - ha concluso - che hanno portato ai nostri ricoverati e a chi opera all’interno di questa struttura la loro solidarietà, la loro vicinanza. La presenza dei dirigenti e dei giocatori del Barcellona Basket, che sta dando tanto lustro alla nostra città sul piano sportivo, è un evento di grande importanza”. L’assessore provinciale allo Sport, Rosario Catalfamo, ha sottolineato l’importanza del progetto che si propone di diffondere il più possibile lo sport sul territorio. “Abbiamo sponsorizzato questo progetto perché crediamo fortemente nello sport perché lo sport - ha detto Catalfamo - fa socializzazione, integrazione e lavoro. Lo sport per avere dei grandi risultati deve continuare non solo nell’età giovanile, ma anche nell’età adulta per evitare conseguenze alla salute”. Catalfamo ha poi affermato come il recupero e il benessere dei ricoverati passi anche attraverso la pratica sportiva. A rappresentare la società barcellonese, la dirigente Maria Bucca. “Il nostro è un progetto importante e sono convinta che lo sport e la solidarietà siano un connubio inscindibile, perché entrambi hanno gli stessi principi. Il basket - ha detto - offre a tanta gente diversa per cultura, nazionalità, di incontrarsi, apprezzarsi reciprocamente, divertirsi insieme e proprio sulla base di questo principio con grande piacere siamo qui a dare l’opportunità a tante persone che non vivono bei momenti di incontrarsi nello sport, di essere anche loro protagonisti di questa realtà che è il basket”. Maria Bucca ha affermato che “siamo noi con il nostro esempio, anche attraverso queste manifestazioni, a far capire che nella vita, come nello sport, si vince se si è tutti insieme”. E riferendosi all’offerta della società, ha aggiunto: “Siamo lieti di dare l’opportunità ai ricoverati di assistere a partite leali dove non c’è il conflitto dell’individualismo, della violenza. Sono delle realtà veramente importanti”. Napoli: Gianni Rivera in visita ai ragazzi di Nisida, forse un corso per arbitri nel carcere La Repubblica, 25 gennaio 2011 Un corso per arbitri all’ interno del carcere di Nisida e una squadra composta dai giovani detenuti che possa iscriversi al campionato federale Allievi. È la proposta del Comitato campano della Federcalcio a Gianni Rivera, che ieri ha trascorso una giornata all’ombra del Vesuvio. In mattinata il presidente del Settore giovanile e scolastico Figc ha preso parte a Castel dell’Ovo al convegno “Il calcio degli anni 60, il calcio di oggi e quello che verrà”. Dopo un pranzo posillipino con Beppe Bruscolotti e Antonio Juliano a base di paccheri ai frutti di mare, polipo alla luciana, mozzarella e babà, Rivera ha visitato il carcere di Nisida. Sciolto qualche imbarazzo iniziale, l’ex fuoriclasse milanista è rimasto a chiacchierare qualche minuto con i ragazzi e i tecnici impegnati nelle attività sportive coordinate dal Coni provinciale. Accompagnato dal direttore del carcere Gianluca Guida, dal coordinatore campano Figc Salvatore Amatrudo e dal presidente regionale della Lega nazionale dilettanti Salvatore Colonna, Rivera ha quindi visitato le strutture dove si tengono i vari corsi, dalla ceramica al legno. “Ho trovato una situazione di estremo disagio - ha commentato - ma è importante che venga permesso ai ragazzi di fare sport: siamo convinti che possa insegnare tanto, già in altre circostanze abbiamo ottenuto buoni risultati. Oggi l’educazione fisica nelle scuole viene all’ultimo posto e al sud la situazione impianti è drammatica”. Qualche battuta anche sul Napoli: “È l’anti Milan. Cavani è l’arma in più, ci saremmo trovati a meraviglia in campo”. Cagliari: concerto delle “Jam’n dreams” per i ragazzi dell’Ipm La Nuova Sardegna, 25 gennaio 2011 Un po’ di marmellata che rende più dolce la vita e tanti sogni, tutti da realizzare, per avere ancora qualcosa in cui credere. Soprattutto a diciotto anni, quando sbagli, e l’idea di avere, un giorno, una seconda opportunità diventa una speranza necessaria. Arriva così dalla Lombardia la giusta carica di entusiasmo. Con questa, ieri, si sono riaperte le porte dell’Istituto Penitenziario minorile di Quartucciu. Loro sono le Jam’n dreams, cinque giovanissime, dai 12 ai 19 anni, che cantano e ballano con un unico obiettivo: dire No al bullismo perché fare i duri con i più deboli “non è di moda e alle ragazze non piace”. Un’iniziativa particolare nata da un’idea del direttore del centro Giustizia Minorile regionale di Sardegna, Sandro Marilotti. “Ho assistito ad un musical delle Jam’n dreams in una scuola superiore di Lodi quando ero direttore del carcere Beccaria - spiega Marilotti - le ragazze parlano di bullismo, inneggiano alla pace e sono contro la violenza, così abbiamo pensato di invitarle in carcere. Ed è stata una serata bellissima perché sono riuscite a portare un pò di freschezza, di speranza e di fiducia per i detenuti. Ecco perché ho voluto ripetere l’esperienza qui”. E l’entusiasmo ieri ha coinvolto anche i 16 ragazzi detenuti nell’unico carcere minorile della Sardegna che per un’ora hanno assistito, divertiti, al piccolo musical preparato per loro da Lara, Alex, Francy, Benny e Valentina. Sulle note di “Credi in te”, “Fai come noi”, “Gigi ti amo” le giovanissime hanno conquistato gli applausi della sala. Testi semplici scritti da giovani per altri giovani: un mondo di emozioni, quello adolescenziale, dai primi batticuore al primo bacio, fino a quella strana sensazione di malinconia e di impotenza di fronte alla vita. “Nel sistema della giustizia minorile il carcere è l’ultima scelta a cui si opta quando non vi è altra risposta e quando è stato commesso un reato grave, dalla rapina fino all’omicidio - spiega il direttore dell’Istituto Giuseppe Zoccheddu - tuttavia è giusto che la società non si dimentichi di loro perché è necessario utilizzare la pena per reimpostare una vita, ecco perché organizziamo diverse iniziative. Il problema è che i giovani hanno sempre meno spazio nella società e soprattutto hanno sempre meno modelli di adulti autorevoli, basta guardare la tv”. Immigrazione: reato di clandestinità; le Procure optano per l’arresto “a discrezione” L’Unità, 25 gennaio 2011 La Procura di Firenze ci mette una pezza, come si suol dire. La direttiva europea 115/2008, che doveva essere recepita dal nostro paese entro il 24 dicembre 2010, disciplina le procedure di rimpatrio degli stranieri irregolarmente presenti sul territorio degli stati membri. Questa direttiva è in netto contrasto con la legge Bossi - Fini, soprattutto nella parte riguardante il “reato di clandestinità”, che obbliga le nostre forze di polizia ad arrestare coloro che, privi di un regolare permesso di soggiorno, non ottemperino all’ordine di espulsione. L’Italia è stata inadempiente, non avendo apportato le necessarie modifiche al Testo Unico, ma la direttiva europea potrà essere fatta valere lo stesso davanti ai giudici italiani. Il problema però rimane, nonostante la circolare diramata dal capo della Polizia a questori e prefetti in cui si chiede l’applicazione dei punti fondamentali della direttiva europea. E così, a livello locale, c’è chi ha pensato di intervenire autonomamente. Il Procuratore di Firenze Giuseppe Quattrocchi qualche giorno fa ha inviato ai magistrati e alle forze di polizia, una circolare in cui viene descritta la procedura da seguire: niente più arresti indiscriminati di stranieri trovati senza titolo di soggiorno, bensì una semplice denuncia all’autorità giudiziaria, che avrà il compito di valutare, caso per caso, la necessità della misura detentiva. Anche il Procuratore capo di Genova, Vincenzo Scolastico, sembra orientato nella medesima direzione. Gli stranieri (e gli istituti penitenziari) delle due città, sentitamente ringraziano. Ne risulta ulteriormente confermata l’ottusità della norma sulla clandestinità: iniqua e, oltretutto, inapplicabile. Russia: nel carcere di Mosca la prima sala di preghiera per i musulmani Ansa, 25 gennaio 2011 I musulmani detenuti nel carcere preventivo di Butyrka, la più antica prigione moscovita nella quale fu rinchiuso Aleksandr Solgenitsin, potranno pregare tutti insieme in una sala a loro riservata. Lo rendono noto i media russi, precisando che la sala di preghiera è stata inaugurata alcuni giorni fa dal Consiglio dei mufti russi, che l’ha finanziata. Ai musulmani, che rappresentano più di un terzo dei prigionieri e sono in gran parte di origine caucasica ed asiatica, saranno anche impartite lezioni di Corano, secondo il canale televisivo Vesti. “Finalmente i detenuti musulmani potranno preparassi a tornare alla vita normale”, si è rallegrato l’imam della moschea principale di Mosca, Ildar Aliautdinov. Nel carcere di Butyrka, dove sono rinchiusi 1.640 detenuti in attesa di giudizio, esiste già una sala di preghiera per gli ortodossi e a febbraio ne sarà inaugurata una per gli ebrei. Il carcere di Butyrka è stato oggetto di inchieste per il suo degrado dopo la morte nel 2009 dell’avvocato Serghiei Magnitsky, che vi ha trascorso molti dei suoi ultimi mesi di vita. L’avvocato, che un tempo lavorava come consulente per il fondo d’investimento Hermitage, secondo i suoi legali fu tenuto illegalmente in carcere e non ricevette le cure mediche di cui necessitava. L’amministrazione carceraria federale russa ammise una parziale responsabilità nella morte di Magnitsky.