Giustizia: la storia di Michele Massaro, un suicidio anomalo anche in carcere Nuova Società, 24 gennaio 2011 Dall’inizio del 2011 sono già cinque i detenuti nelle carcere italiane che si sono tolti la vita, circa uno ogni quattro giorni. Ma il caso di Michele Massaro, 23 anni, morto a Perugia il 12 gennaio, non è un caso come gli altri. “Nostro figlio non si è ucciso, il gas della bomboletta che aveva in cella per preparare il cibo lo ha ucciso lentamente e nessuno lo ha salvato” dicono infatti i genitori del giovane che si trovava in carcere da quattro mesi e dove doveva restare fino al 2018 per scontare una condanna ad un cumulo di pena di otto anni e sei mesi per una serie di furti e rapine. La storia di Michele, raccontata sulla edizione di Taranto del quotidiano “La Gazzetta del Mezzogiorno”, è un vero mistero. Un mistero, però, su cui i genitori sono intenzionati a fare chiarezza. Michele Massaro poco più che adolescente era diventato tossicodipendente e negli ultimi tempi, invano, aveva anche cercato di disintossicarsi in una comunità. Ma poi era ricaduto nella rete della droga e per procurarsi le dosi aveva compiuto furti e un paio di tentativi di rapine. Era stato sempre poi arrestato dalle forze dell’ordine fino a quanto il tribunale lo ha condannato ad un cumulo di pena. Soffriva di depressione Michele e per curarla assumeva numerosi farmaci. Eppure è stato lasciato solo in cella e con la disponibilità di una bomboletta del gas necessaria, ufficialmente, per preparare i pasti. Dall’autopsia, infatti, risulta che il ragazzo aveva gli alveoli dei polmoni saturi di gas che, evidentemente, inalava abitualmente. “Michele non si è tolto la vita. La sua morte non è stato un suicidio come all’inizio volevano farci credere. Il gas lo ha ucciso lentamente e nessuno lo ha salvato”, dicono i genitori. “Era disperato il mio Michele - racconta il papà del ragazzo, Mimmo - perché voleva tornare in comunità dove era seguito e dove aveva iniziato il percorso di disintossicazione. Ma il giudice è stato inflessibile. Non si è reso conto di avere di fronte un ragazzo debole e spaventato”. Due giorni prima di Capodanno mamma Michela e papà Mimmo sono andati a trovare Michele in carcere dove lo hanno trovato “pallido come un cencio”, respirava a fatica e sembrava asmatico. Hanno chiesto di essere ricevuti dal direttore del carcere ma nessuno ha risposto. Hanno quindi chiesto che il figlio fosse sottoposto a visita medica e il medico che ha visto Michele ha poi riferito ai due genitori che il figlio “ha il cuore forte come un toro”. “Ma a mio figlio - racconta la mamma - non è stata fatta ne una spirometria, né un’analisi del sangue”. Una settimana dopo il giovane è morto per infarto. Una morte facilmente classificata come suicidio, ma che suscita tante perplessità e lascia tanti dubbi ancora irrisolti. Giustizia: mio figlio non si è tolto la vita, lo hanno lasciato morire in cella di Maristella Massari Gazzetta del Mezzogiorno, 24 gennaio 2011 Michele sorride con gli occhi. Sensibile e dal carattere arrendevole, questo ragazzone di Fragagnano è morto il 12 gennaio in solitudine nella cella del carcere di Perugia che da quattro mesi era diventata la sua casa. Aveva 23 anni e gli alveoli dei polmoni saturi di gas. Lo inalava abitualmente, quel gas. Per lui era come una spugna. Serviva a cancellare in un solo colpo le mura, le sbarre, tutti quei chilometri che lo separavano dalla famiglia. Poco più che adolescente, Michele era stato travolto dallo tsunami delle cattive amicizie e il suo carattere debole non gli aveva permesso di salvarsi. Così era diventato tossicodipendente. “Michele non si è tolto la vita. La sua morte non è stato un suicidio come all’inizio volevano farci credere. Il gas lo ha ucciso lentamente e nessuno lo ha salvato. Nessuno si è accorto di quello che stava passando, nonostante tutte le nostre denunce”. Mamma Michela, che per quel figlio sfortunato avrebbe dato la vita, mostra la foto di Michele che sorride con l’orgoglio di chi, fino alla fine, ha combattuto per strappare da un destino doloroso la carne della sua carne. Ora che ha seppellito suo figlio non si dà pace. Insieme con il marito Mimmo, Michela oggi ha intrapreso un altro sentiero irto. Vuole capire perché un ragazzo di soli 23 anni, curato in carcere con gli antidepressivi, sia stato lasciato da solo in cella e con la disponibilità di una bomboletta del gas necessaria, ufficialmente, per preparare i pasti. Mamma Michela e papà Mimmo non chiedono giustizia, ma solo una risposta a tutti i loro perché. “Quando ti muore un figlio in quella maniera, non puoi rassegnarti”. La famiglia Massaro non lo aveva mai fatto con Michele. Aveva lottato per cambiare il futuro del figlio. Non si era chiusa nel dolore di chi vive la tossicodipendenza come una lettera scarlatta marchiata a fuoco sulla pelle. Aveva chiesto aiuto urlando a squarciagola tutta l’impotenza di chi si trova all’improvviso di fronte ad un mondo sconosciuto, ad un mostro dalle mille facce. Si era rivolta ad un’associazione, il Cast (Centro assistenza sulla tossicodipendenza) e, insieme con il figlio, aveva cominciato il faticoso percorso nelle comunità di recupero dei tossicodipendenti. Ma la strada che porta alla disintossicazione dall’eroina è lunga e costellata di ostacoli. Michele era stato ad Oria, poi ad Assisi. Lungo il suo cammino aveva incontrato più volte il polso fermo della legge. Per procurarsi la dose aveva compiuto furti, un paio di tentativi di rapina. Ma il crimine non era certo il suo mestiere. Era sempre stato “pizzicato” dalle forze dell’ordine ed era finito alla sbarra. L’ultima volta il tribunale lo aveva condannato ad un cumulo di pena di otto anni e sei mesi. Doveva restare in cella fino al 2018. “Era disperato il mio Michele - dice papa Mimmo - , perché voleva tornare in comunità dove era seguito e dove aveva iniziato il percorso di disintossicazione. Ma il giudice è stato inflessibile. Non si è reso conto di avere di fronte un ragazzo debole e spaventato. Per lui mio figlio era solo un numero su una pratica da evadere in fretta”. Due giorni prima di Capodanno Michela e Mimmo vanno a trovare il figlio. Michele è pallido come un cencio, respira a fatica, sembra asmatico. Chiedono di essere ricevuti dal direttore del carcere di Perugia. Nessuno risponde. Chiedono che il figlio sia visitato. Il medico vede Michele qualche giorno dopo. “Il dottore ci ha detto: ha il cuore forte come un toro. Ma a mio figlio non è stata fatta né una spirometria, né un’analisi del sangue”. Michele una settimana dopo è morto due volte: stroncato da un infarto e soffocato dall’indifferenza delle istituzioni. Giustizia: carcere di Sulmona, allarme per le condizioni disumane www.abruzzo24ore.it, 24 gennaio 2011 Sono troppi i suicidi di Sulmona, e fanno pensare. Qualcuno però già aveva segnalato le condizioni di quel carcere. L’ultimo suicidio, è accaduto nella sezione degli internati, una sezione molto particolare. Eugenio Sarno, segretario nazionale della Uil-Pa Penitenziari “Da tempo abbiamo posto il problema dell’inadeguatezza strutturale della sezione internati a Sulmona”. Ha affermato Eugenio Sarno, segretario nazionale della Uil-Pa Penitenziari, che aggiunge: “Per questa tipologia di reclusi occorrono ambienti ben diversi. Purtroppo al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, evidentemente, sono distratti dalla fregola edificatrice per interessarsi di cose reali”. L’esponente della Uil si riferisce alla morte di Tawfik Mohammed, 71 anni, egiziano, proveniente dalla libertà vigilata e internato nel supercarcere di Sulmona da due mesi, che si è tolto la vita impiccandosi nella sua cella. Nel 2010 al supercarcere di Sulmona si sono contati 2 suicidi, i 14 tentati suicidi, e oltre 28 aggressioni a danno del personale. Negli ultimi anni anche suicidi “eccellenti”, come quelli del sindaco di Roccaraso, Camillo Valentini, e della direttrice Armida Miserere. Un carcere difficile, quello di Sulmona, che scoppia, con le condizioni igieniche pessime. Questo emergeva molti mesi fa dai resoconti dell’Associazione Antigone, che da anni realizza un importante osservatorio sulle carceri italiane. Nelle settimane tra il 21 giugno e il 2 luglio 2010 una delegazione di A Buon Diritto e Antigone, accompagnata da rappresentanti istituzionali, visitò alcuni tra gli istituti penitenziari più affollati d’Italia. Tra questi, c’era il carcere di Sulmona. Fu visitato il 24 giugno, e il rappresentante istituzionale era il consigliere regionale Maurizio Acerbo. Quella visita servì a valutare le condizioni delle case circondariali in base a sette indicatori: numero dei detenuti presenti; reparto più sovraffollato e descrizione dettagliata della cella tipo; luminosità della cella e possibilità di apertura del blindato durante la notte per favorire la ventilazione nel periodo estivo; frequenza di accesso alle docce in comune e condizioni igieniche delle stesse; numero di ore trascorse al di fuori della cella; presenza di una cucina ogni duecento detenuti. Maurizio Acerbo, consigliere regionale Prc “L’ennesimo suicidio nella casa di reclusione di Sulmona dovrebbe richiamare le istituzioni regionali e nazionali ai propri doveri ma poco confido nella sensibilità di un governo che è garantista soltanto nei confronti di chi sta ai piani alti delle gerarchie economiche e politiche. Riteniamo grave l’atteggiamento dilatorio della maggioranza e ricordiamo che langue in commissione la nostra proposta di legge per l’Istituzione dell’Ufficio del Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale (figura già operativa da anni in molte altre regioni italiane). Come ha già fatto il Consiglio Regionale dell’Emilia - Romagna proponiamo che anche l’Abruzzo approvi una proposta di legge per l’abrogazione delle norme del Codice penale che prevedono la reclusione in una Casa di Lavoro da consegnare alle Camere ai sensi dell’articolo 121 della Costituzione. L’opinione pubblica forse non ha consapevolezza che l’internato sessantaquattrenne che si è suicidato non era recluso sulla base di una condanna, ma internato sulla base di una norma risalente al codice fascista mai abrogata. L’Abruzzo ospita a Sulmona la più sovraffollata di queste sezioni come ha giustamente riferito la stampa. Quello che forse non a tutti è chiaro è che l’assegnazione a tali istituti avviene alla fine della pena detentiva carceraria, quando una volta scontata per intero la condanna, la persona anziché essere rimessa in libertà, è sottoposta a una ulteriore misura di sicurezza, a discrezione del magistrato. Questo reperto archeologico giuridico determina la paradossale condizione di “detenuto senza pena”. Tra l’altro codice penale e ordinamento penitenziario prevedrebbero l’obbligatorietà del lavoro all’interno di queste strutture, ma la situazione di sovraffollamento rende impossibile la concretizzazione di tale prescrizione rieducativa”. L’Associazione Antigone La visita dell’Associazione Antigone e di Maurizio Acerbo al carcere di Sulmona (24 giugno 2010), permise di individuare questa situazione, riportata dall’Associazione Antigone. “La Casa di Reclusione - Casa di Lavoro di Sulmona, la cui capienza regolamentare è fissata dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria in 270 unità, si trovava nelle seguenti condizioni: erano presenti 444 detenuti; ogni piano è composto da 2 semi - sezioni, ciascuna con 25 celle singole usate come doppie, per cui in ogni sezione ci stanno 50 detenuti, tanto tra gli internati quanto tra i detenuti comuni; la cella, progettata come singola, misura circa 9 mq escluso il bagno, ospitato in vano separato, e ospita due persone; non c’è doccia in cella e le docce sono in comune in ciascuna semisezione. Le condizioni igieniche e di manutenzione sono pessime, e si attende la ristrutturazione di quelle del reparto visitato; in tutto l’istituto c’è una sola cucina, più una per il piccolo reparto dei collaboratori, con 14 presenze”. Furono queste le parole di commento dell’Associazione Antigone, dopo la visita di quelle carceri: “Tutti gli istituti visitati, in base agli indicatori utilizzati (numero dei detenuti presenti, mq a disposizione per detenuto; luminosità della cella e possibilità di apertura del blindato durante la notte per favorirne la ventilazione nel periodo estivo; frequenza di accesso alle docce in comune e condizioni igieniche delle stesse; numero di ore trascorse al di fuori della cella; presenza di una cucina ogni duecento detenuti) sono risultati fuorilegge. Da qui la stesura di esposti indirizzati ai rispettivi Sindaci, Assessori regionali alla sanità e ai Dirigenti delle Aziende sanitarie con la richiesta di provvedere immediatamente a superare, per quanto di competenza, con ogni provvedimento opportuno o con ogni adempimento relativo al caso di specie, le situazioni di violazione delle disposizioni in materia, al fine di ripristinare con immediatezza condizioni sanitarie conformi al dettato normativo nel termine di giorni trenta dal ricevimento dello stesso esposto.” L’esposto per Sulmona fu inviato al Direttore Generale della Asl, Giancarlo Silveri, che girò l’esposto al Dott. Giovanni Carducci, del Servizio Aziendale medicina penitenziaria. Questa la risposta, in data 10 agosto 2010, del Servizio Aziendale medicina penitenziaria, della Asl dell’Aquila Dott. Giuseppe Carducci. “In riscontro a quanto rappresentato dalle SS.LL., in nome e per conto delle Associazioni “A Buon Diritto” e “Antigone”, con nota del 13/07/2010, pervenuta a questa Azienda in data 23/07 u.s., si ravvisa l’esigenza, in relazione alla espressa individuazione dello scrivente quale responsabile del procedimento, di fornire talune, essenziali precisazioni. Il Dpcm 1 aprile 2008, ha disciplinato, in attuazione dell’art. 2, comma 283, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, “Le modalità, i criteri e le procedure per il trasferimento al Servizio Sanitario Nazionale delle funzioni sanitarie, delle risorse finanziarie, dei rapporti di lavoro, delle attrezzature, arredi e beni strumenta/i relativi alla sanità penitenziaria”. Le attribuzioni trasferite agli enti ed aziende del Servizio Sanitario Nazionale, pertanto, non possono non essere circoscritte agli ambiti di competenza sopra indicati. Le condizioni di oggettiva e incontrovertibile sofferenza rappresentate nella nota che si riscontra (sovraffollamento, promiscuità, inadeguatezza degli spazi etc.), fanno riferimento a carenze funzionali e strutturali, anche di carattere igienico - sanitario, che devono essere ricondotte nel novero delle competenze dell’Amministrazione penitenziaria. Al riguardo, non appare secondario far rilevare che, sulla scorta del prefato Dpcm (art. 4, comma 2), la disponibilità, da parte degli enti del Servizio Sanitario Nazionale, degli immobili che ospitano le strutture penitenziarie limitata all’utilizzo dei “locali adibiti all’esercizio delle funzioni sanitarie”, concessi in uso alle AA.SS.LL. a titolo gratuito e sulla base di apposite convenzioni. Nel manifestare la piena disponibilità di questa Servizio ad avviare proficue azioni di collaborazione con le Associazioni rappresentate dalle SS.LL., si coglie l’occasione per inviare i migliori saluti. Questa risposta, come spiegano da Antigone, certifica un mancato interesse della Asl rispetto alla questione. Avendo indicato nella amministrazione penitenziaria l’ente responsabile della situazione segnalata, la Asl ritiene di avere assolto al proprio compito, non assumendo impegni a sollecitare la rimozione di quelle condizioni di illegalità ed insalubrità che pure la Asl non nega. Più in generale, rispetto al sistema penitenziario nazionale. Inoltre, fanno presente da Antigone, “sono trascorsi più di 2 anni da quando il Consiglio dei Ministri ha approvato il Decreto concernente il trasferimento di tutte le competenze in tema di medicina penitenziaria dalla responsabilità del Ministero della Giustizia, alle Regioni e quindi alle Asl del Servizio Sanitario Nazionale. Tale passaggio sanciva un principio, ossia quello della salute uguale per tutti i cittadini: detenuti o liberi che fossero. Da allora ad oggi, però, non tutte le Regioni si sono comportante allo stesso modo causando ritardi e vuoti che potrebbero mettere a rischio lo stesso Decreto. L’Abruzzo, appartiene insieme a Basilicata, Calabria, Campania, Marche, Molise, Puglia Umbria, al gruppo delle regioni silenti, cioè “regioni che non hanno disposto gli atti e le procedure precedentemente ricordati, ma che l’hanno fatto parzialmente o burocraticamente per svolgere il puro mandato istituzionale.” Rita Bernardini: ricorso alla Commissione europea Nella giornata di ieri anche la deputata radicale Rita Bernardini ha compiuto una visita nel carcere di Sulmona. Una visita a contatto con i detenuti, soprattutto quelli del reparto internati. Una denuncia forte sulla situazione del penitenziario sulmonese e una ferma critica al sindaco, Fabio Federico, responsabile dell’area sanitaria del carcere. Il bilancio della visita è una denuncia forte. “Il problema maggiore è quello degli internati”, ha detto la deputata radicale, che per la terza volta, in visita al carcere di via Lamaccio. “Tale misura c’è solo in Italia e la sottoporremo all’attenzione della Corte europea dei diritti dell’uomo per chiederne le cancellazione”. Il problema è anche nella casa lavoro: “Di fatto il lavoro non c’è e il corrispettivo a livello nazionale, è stato tagliato del 25%, quindi gli internati, di fatto, vivono anche lì una forma di reclusione”. La deputata radicale nella sua visita è stata accompagnata segretario dell’associazione “Certi diritti”, Sergio Rovasio, e del responsabile del dipartimento provinciale Diritti e garanzie del Pd, Giulio Petrilli. Uno dei problemi principali della Casa Circondariale di Sulmona, resta quello sanitario. “Detenuti che si sentono abbandonati e ci hanno riferito di difficoltà nell’ottenere visite specialistiche. Mi chiedo che cosa abbia fatto Federico” ha detto la Bernardini, “metteremo una serie di case in una interrogazioni parlamentare”. Ad accompagnare la delegazione Mauro Nardella, segretario provinciale della Uil penitenziari. Giustizia: morì nel carcere di Grasse, la madre protesta sotto il consolato francese La Nazione, 24 gennaio 2011 Cira Antignano: da Viareggio a Firenze per protestare contro i ritardi della Francia nel trasmettere gli atti relativi al decesso del figlio, Daniele Franceschi. Ma al Consolato nessuno la riceve. Ha protestato contro i ritardi delle autorità francesi nel trasmettere gli atti relativi all’inchiesta sul decesso del figlio, Cira Antignano, madre di Daniele Franceschi, il viareggino morto nel carcere di Grasse. Il sit-in questo pomeriggio a Firenze davanti al consolato transalpino. Cira Antignano, che da mesi si batte per la verità sulla morte di Daniele, sperava di parlare con il console onorario di Francia ma ha trovato il portone della sede diplomatica chiuso e nessuno l’ha ricevuta. “Avevamo avvisato circa un mese fa che sarei venuta a parlare col console - ha spiegato la donna ai giornalisti - Invece abbiamo trovato il portone chiuso, nessuno ci ha aspettato. Abbiamo fatto un viaggio a vuoto”. “Al console francese - ha spiegato Cira Antignano - avrei spiegato che da sei mesi attendiamo i risultati degli esami sugli organi e in particolare sul cuore di mio figlio, né ci sono stati mandati i suoi effetti personali come vestiti, diari e lettere. Aspettiamo risposte per sapere come è morto effettivamente mio figlio”. Con Cira Antignano sono arrivate a Firenze una cinquantina di persone di Viareggio che insieme ad alcune decine di esponenti dell’area antagonista fiorentina hanno realizzato un sit in davanti al consolato. Esposti striscioni con le scritte “Contro le morti di Stato giustizia per Daniele Franceschi” e “Si vive di ingiustizie si muore di carcere”. Durante la protesta, durata oltre un’ora, sono state ripercorse le varie tappe della vicenda di Francheschi e, in particolare, “le reticenze e le mancate risposte da parte delle autorità francesi, circa ad esempio il fatto se ci siano persone indagate o no”, ha detto Cira Antignano che ha anche annunciato di volersi rivolgere al ministro degli esteri Franco Frattini, come già fatto nei mesi scorsi, e al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Nel pomeriggio il sindaco di Viareggio Luca Lunardini ha affermato di “sentirsi moralmente vicino, e credo di essere facile interprete del sentire di tutta la città, a Cira Antignano. Una mamma che vuole continuare a far sentire in ogni modo la propria voce per reclamare quelle risposte che ancora tardano a venire”. “Dopo le voci di avvisi di garanzia che l’autorità giudiziaria francese sembrava dovesse emettere a breve - ha ricordato Lunardini - una nuova cortina di silenzio sembra essere calata sulla vicenda e certo colpisce sgradevolmente anche l’interdizione ad accedere, da parte del medico italiano di parte, agli organi che alcune settimane fa sono stati espiantati dai poveri resti del ragazzo e nei cui esami si nasconde forse la verità”. Lunardini ha aggiunto che pur “nell’assoluto rispetto della autonomia della magistratura francese e ricordando con gratitudine quanto la diplomazia italiana ha fatto in questi mesi, non posso che auspicare con forza risposte il cui solo arrivo potrà permettere ad una madre di piangere finalmente in pace il proprio ragazzo”. Cira Antignano si recherà dall’ambasciatore di Francia a Roma, il prossimo 2 febbraio. Lo farà insieme a una delegazione di cui faranno parte Lunardini e il presidente della Provincia di Luca Stefano Baccelli. Giustizia: caso Cucchi; attesa domani la decisione su rinvii a giudizio e condanna Apcom, 24 gennaio 2011 È attesa per domani la decisione del giudice dell’udienza preliminare Rosalba Liso rispetto alle richieste fatte dalla Procura di Roma in relazione alla morte di Stefano Cucchi, il geometra 31enne deceduto il 22 ottobre 2009 all’ospedale Sandro Pertini, sei giorni dopo essere stato arrestato per detenzione di stupefacenti. I pubblici ministeri Vincenzo Barba e Francesca Loy hanno sostenuto in aula, il 26 ottobre scorso, le ragioni dell’ufficio della pubblica accusa: “Disporre il rinvio a giudizio di tutti gli imputati e la condanna di Claudio Marchiandi a due anni di reclusione”. Sotto accusa ci sono 13 persone. Il rito ordinario è stato scelto da sei medici e tre infermieri dell’ospedale Sandro Pertini che ebbero in cura Cucchi, e tre agenti di polizia penitenziaria. Per quanto riguarda Marchiandi, quale direttore dell’ufficio detenuti e del trattamento del provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria, che ha chiesto di essere giudicato con rito abbreviato, i pm hanno sollecitato una condanna a due anni di reclusione. Lesioni aggravate, abuso di autorità nei confronti di arrestato, falso ideologico, abuso d’ufficio, abbandono di persona incapace, rifiuto in atti d’ufficio, favoreggiamento, omissione di referto, sono i reati contestati a seconda delle singole posizioni processuali. In particolare gli agenti penitenziari sono accusati, tra l’altro, di lesioni aggravate e di abuso d’autorità nei confronti di arrestati o detenuti per aver, secondo l’accusa, il 16 ottobre del 2009 picchiato Cucchi nelle camere di sicurezza del tribunale in attesa dell’udienza di convalida. Medici e infermieri, in sostanza, per i magistrati avrebbero abbandonato il paziente “incapace di provvedere a se stesso”, omettendo anche “di adottare i più elementari presidi terapeutici e di assistenza che nel caso di specie apparivano doverosi e tecnicamente di semplice esecuzione ed adottabilità e non comportavano particolari difficoltà di attuazione essendo per altro certamente idonei ad evitare il decesso di paziente”. I legali di parte civile hanno spiegato di non condividere appieno l’impostazione della Procura. Perché per la morte di Stefano altre persone avrebbero dovuto risponderne. “Lo Stato che l’aveva in custodia, che ne aveva la responsabilità, l’ha ucciso. Adesso, tra un mese, tra dieci anni, Stefano Cucchi per la sua famiglia non ci sarà più. Questo caso è la rappresentazione delle centinaia che viaggiano silenti nelle aule di convalida degli arresti, dove le botte di questo o quell’agente, vengono sopportate insieme con le manette”. L’avvocato Fabio Anselmo, in rappresentanza della madre, del padre, della sorella e dei nipoti di Stefano, tutti costituiti nel procedimento, ha sostenuto “le ragioni di una parte civile che si ritrova con un capo d’imputazione schizofrenico e una consulenza medica che dice tutto e il suo contrario”. Il penalista, insieme con Alessandro Gamberini, ha più volte sottolineato “le manifeste illogicità della consulenza medica disposta dal pm che poi porta alle accuse contestate agli imputati”. Giustizia: ex Governatore della Sicilia Cuffaro in prigione, condanna a 7 anni per mafia Ansa, 24 gennaio 2011 Finisce in una cella di Rebibbia la vicenda politica dell’ex governatore della Sicilia Salvatore Cuffaro. Quattro ore dopo il verdetto della Cassazione che lo ha condannato a sette anni di reclusione - per aver favorito Cosa Nostra facendo sapere al boss Michele Guttadauro che la Procura gli aveva piazzato una “cimice” in casa - il senatore dei “Popolari Italia domani” ha varcato l’ingresso del carcere romano. “Voglio affrontare il carcere con tranquillità”, sono state le sue prime parole da detenuto, recluso nel reparto di prima accoglienza. Cuffaro a Rebibbia: cerco tranquillità Prima notte in carcere a Rebibbia per Totò Cuffarò, costituitosi ieri dopo la condanna in via definitiva dalla Cassazione a sette anni per favoreggiamento aggravato a Cosa nostra e violazione del segreto istruttorio. “Voglio affrontare il carcere con tranquillità”, avrebbe detto l’ex Governatore della Sicilia, presentandosi agli agenti penitenziari. E la prima notte da detenuto sarebbe stata serena, secondo le prime indiscrezioni filtrate dal carcere Dopo essere stato ieri mattina in Chiesa in attesa della sentenza, Cuffaro ha reso subito noto di voler rispettare la sentenza e dare esecuzione alla sentenza, andandosi a costituire. Poi in macchina ha raggiunto il carcere romano. La sentenza della Corte di Cassazione ha confermato per Cuffaro la condanna che era stata emessa dai giudici della Corte d’Appello di Palermo che lo avevano ritenuto colpevole di avere informato, attraverso l’intercessione dell’ex assessore dell’Udc Mimmo Miceli, il boss di Brancaccio Guttadauro della presenza delle microspie piazzate dal Ros nella sua abitazione. Cuffaro, per effetto della sentenza definitiva, perde anche il seggio da senatore a Palazzo Madama al quale era stato eletto nel 2008, quando si candidò come capolista dell’Udc in Sicilia. Cuffaro, però, potrebbe seguire il precedente di Cesare Previti ed evitare la decadenza, presentando spontaneamente le dimissioni dal Senato. Nel caso di dimissioni, l’aula del Senato sarà chiamata a votare, così come avvenne per Previti. A palazzo Madama dovrebbe subentrare a Cuffaro Maria Giuseppa Castiglione. Giustizia: non merito questa condanna, Cuffaro diserterà il processo bis La Repubblica, 24 gennaio 2011 La decisione dopo la prima notte in cella: non andrà a Palermo. Viavai di parlamentari a Rebibbia in visita all’ex governatore Alfano: che dignità La messa e qualche parola con il cappellano del carcere. Poi l’abbraccio e le lacrime con l’ormai ex collega senatore del Pdl Luigi Compagna, il primo che ieri è andato a trovarlo a Rebibbia anticipando Marco Follini del Pd e Mario Pepe del Pdl. È trascorsa così la prima giornata in cella di Salvatore Cuffaro, l’ex governatore della Sicilia chiamato a scontare una pena di sette anni per favoreggiamento aggravato a Cosa nostra e rivelazione di notizie riservate; una pena resa definitiva dalla Cassazione. Preghiere, i suoi libri, la solitudine della cella nel reparto di prima accoglienza del carcere romano dove oggi Cuffaro riceverà nuove visite: a cominciare da quella dell’amico Calogero Mannino, il suo “maestro” politico che ha già provato l’onta della galera, anche lui accusato di mafia, prima condannato ma poi assolto. “Non merito questa condanna - dice a Compagna - ma non mi voglio sottrarre a tutto questo, ho la forza per vincere anche questa battaglia. Sono sereno perché almeno è finita l’angoscia, sono come uscito da un tunnel, affronterò tutto questo per i miei figli, ma anche per quello che ho rappresentato per le istituzioni”. Davanti al collega di Palazzo Madama, Cuffaro non è riuscito a trattenere le lacrime. “Ma non ha mai mostrato segni di cedimento, era addolorato ma sereno”, ha raccontato Compagna. Un atteggiamento che continua a suscitare apprezzamento da parte di amici e avversari politici. “Una grande dignità e un gran contegno. Li ha mostrati in tutti questi anni di processi e in ultimo anche sabato costituendosi per l’arresto”, ha detto il ministro della Giustizia Angelino Alfano rifiutando però ogni paragone con il comportamento del presidente del consiglio Berlusconi al quale invece ha fatto riferimento il leader dell’Idv Antonio Di Pietro: “Poveraccio quel Paese in cui ci si deve stupire se un politico condannato, invece di gridare che i magistrati sono dei farabutti e di denunciare complotti contro di lui, ha dichiarato di rispettare la magistratura e, invece di darsi alla fuga, si è andato a costituire. Bisogna riconoscere a Cuffaro un rispetto delle istituzioni che manca al presidente Berlusconi”. Oggi Cuffaro rivedrà i suoi legali che già da ieri sono al lavoro per studiare tutti i modi possibili per tirarlo fuori da lì il prima possibile. L’avvocato Oreste Dominioni ha anticipato quella che potrebbe essere la prima mossa: il ricorso al condono che potrebbe essere applicato a una parte della pena rosicchiando forse un altro anno da quel monte di sette anni dal quale prevede di poter già decurtare un anno e nove mesi di buona condotta. Il collegio difensivo di Cuffaro, nei prossimi giorni, appronterà la richiesta di condono, facendo riferimento all’ultimo provvedimento che porta la firma di Mastella, in relazione a uno degli episodi di rivelazione di notizie riservate per i quali Cuffaro è stato condannato: quello in favore del manager della sanità Michele Aiello, che non è aggravato dall’articolo 7 e che dunque potrebbe essere suscettibile di condono. Ma è ancora tutto da vedere. Quello che è certo, invece, è che l’ex presidente della Regione siciliana non si muoverà da Rebibbia per un bel po’. I legali intendono fargli firmare la rinuncia a comparire nelle prossime udienze del processo per concorso esterno in associazione mafiosa che a metà febbraio andrà a sentenza a Palermo. “Meglio evitare ogni passaggio da carceri siciliane”, dicono i suoi legali che già da oggi avranno comunque modo di concordare con lui il proseguo della strategia difensiva. Lettere: Battisti e il Partito Democratico di Beppe Battaglia Lettera alla Redazione, 24 gennaio 2011 Appello del Pd a Lula: Dica sì all’estradizione. Il Pd, intanto, lancia un appello al presidente Inacio Lula da Silva perché conceda l’estradizione. “Mentre prosegue l’assordante silenzio del governo”, scrivono Piero Fassino, Emanuele Fiano e Andrea Orlando, presidenti, rispettivamente, dei forum Esteri, Sicurezza e Giustizia del Partito Democratico, “ci rivolgiamo a Lula, uomo di sinistra, perché pensiamo che nessun principio garantista e nessuna salvaguardia dei diritti universali dell’uomo può giustificare l’eventuale non concessione dell’estradizione per il terrorista Cesare Battisti, condannato in Italia all’ergastolo per quattro omicidi compiuti negli anni di piombo”. Il movimento terroristico, del quale Battisti faceva parte, continua la lettera, “ha seminato morte, dolore e sofferenza, contribuendo a interrompere un processo di crescita civile e sociale, e ha avuto come bersagli principali le istituzioni, le forze democratiche, le organizzazioni dei lavoratori. Per questo ci auguriamo che il Brasile non assuma la decisione di non concedere l’estradizione di Battisti, scelta che contrasterebbe con fondamentali principi di diritto e di giustizia (…)”. Tra le tante cose scellerate che sentiamo e leggiamo in questi giorni attorno ad un uomo solo, fa impressione l’ennesima “chicca” a firma PD. Infatti, che i vari La Russa, Gasparri e soci saltino a piedi pari persino sulla propria, personale storia, è irrilevante. Che Berlusconi spinga la carrozzella di Torreggiani per scavarsi un ulteriore spazio mediatico, ripromettendosi il bis a Bruxelles, con gli scheletri mafiosi in parlamento, è in linea col personaggio. Ciò che colpisce sono le …parole in libertà di Fassino e soci, sulle quali vale la pena di soffermarsi. Evidentemente, per Fassino i diritti universali dell’uomo sono povera cosa alla quale si può soprassedere. Come dire: tutto, proprio tutto, può diventare carta straccia di fronte ad un solo delinquentello (quando serve) come Battisti. Il delinquentello però diventa qualcosa di diverso solo due righe dopo, quando contribuisce ad interrompere un processo di crescita civile e sociale bersagliando le istituzioni, le forze democratiche, le organizzazioni dei lavoratori. Delle due, una: o è un delinquentello, oppure è una potenza politica tale da interrompere un processo di crescita civile e sociale… dell’intero paese! Ma c’è di più. Uno come Battisti avrebbe, più di trent’anni fa, contribuito a bloccare le organizzazioni dei lavoratori. Naturalmente se questo fosse stato vero, non dovrebbe più esserlo ad oltre trent’anni di distanza. Oggi, infatti, non è certo Battisti a svendere le organizzazioni dei lavoratori a Marchionne che riscuote, invece, la solidarietà di Fassino e del Pd! E che dire dei fondamentali principi di diritto che, a dire di Fassino, il Presidente Lula avrebbe contrastato negando l’estradizione di Battisti? Fassino (e tutta la canea che gli fa rima) fa finta di ignorare il fondamentale principio di diritto internazionale secondo il quale il Brasile non può estradare Battisti per il semplice fatto che in quel paese non esiste la pena dell’ergastolo. È come se all’Italia venisse richiesta l’estradizione di un cittadino straniero condannato a morte nel suo paese, stante il fatto che l’Italia non ha nel proprio codice penale la pena capitale. Del resto, anche la Francia non aveva estradato Battisti, perché il codice penale francese prevede per i condannati “in contumacia” il rifacimento dei processi a cattura avvenuta. Evidentemente la Francia non si è fidata delle promesse dell’Italia secondo le quali - sulla parola - avrebbero rifatto i processi nei quali Battisti era stato condannato in stato di latitanza. Perché mai dovrebbe fidarsi il Brasile che non conosce la parola ergastolo? Eppure, i soliti noti, con l’aggiunta dell’unanimità parlamentare (i plebisciti, quando non destano preoccupazione, legittimano il sospetto!) e persino il Presidente della Repubblica Italiana, fanno finta di non sapere quali macigni gravano sulla giustizia italiana con l’ergastolo e ancora di più con l’ergastolo “ostativo”, secondo il quale la persona ergastolana deve morire in galera senza scampo, secondo il “sano” principio della vendetta. Altro che “Stato di diritto”, caro Presidente Napolitano! La lotta al terrorismo, all’epoca di Battisti, caro Presidente, si è avvalsa della sospensione della Costituzione e di una legislazione speciale sulla quale campeggiavano strumenti quale, per esempio, il “concorso morale”, tutt’altro che propri di uno “Stato di diritto”. E se non bastasse, c’è la strage quotidiana che le nostre carceri sfornano ogni giorno con grande disinvoltura, e con buona pace per il ministro della giustizia che si affanna ad assicurare che la dignità dei detenuti è garantita nelle carceri italiane, a fronte di privilegi incredibili che vedono mafiosi, imputati e condannati, sedere in parlamento! Un parlamento fatto di gente mai votata dai cittadini italiani! Può meravigliare che il Presidente Lula, uomo di sinistra, dica no all’estradizione di Battisti? Può meravigliare se l’Ue se ne lava le mani di fronte alla richiesta di aiuto dell’Italia che non sa e non vuole fare i conti senza barare sulle proprie contraddizioni? In un quadro simile -senza contare l’immagine penosa che l’Italia attuale mostra di sé al mondo - solidarizzare con la decisione del Presidente Lula è il meno che si possa fare! Non altrettanto si può dire per la candidatura di Fassino a sindaco di Torino. Lettere: che schifo… di Alessio Di Carlo www.giustiziagiusta.info, 24 gennaio 2011 La prossima volta che mi chiedono “cosa intendi per forcaiolismo?”, devo ricordarmi di citare il post uscito ieri sul blog di Beppe Grillo, a firma di Paolo R., a proposito della condanna definitiva di Totò Cuffaro. “Ma Salvatore Cuffaro, chi vuole prendere per il cuculo, con il “mi costituisco”? si chiede l’articolista. E spiega: “Facciamo due conti: Condanna definitiva a 7 anni da cui togliamo 3 anni di sconto con la condizionale e varie agevolazioni che sono concessi a tutti, 3 anni di sconto per l’indulto di Prodi & C. del 2006, 1 anno di sconto di pena agli arresti domiciliari per l’ultimo “indultino mascherato” made in “Alfano - Berlusconi - Bossi” per sfoltire le carceri. Risultato: Salvatore Cuffaro, si presenta a Regina Coeli, firma il registro delle presenze e torna a casa. Che schifo.” Ecco, quel “che schifo”, può tranquillamente essere rispedito al mittente. A parte il grossolano sistema di computo della pena, ci faccia capire, il signor Paolo R., cosa avrebbe dovuto fare l’ex governatore della Sicilia, suicidarsi? Consegnarsi ad un’orda inferocita di vaffanculini per essere appeso a testa in giù in Piazza Armerina? Totò Cuffaro è stato condannato e se n’è andato in galera. È proprio indispensabile commentare? Tacere qualche volta no, eh? Che schifo. Toscana: dalla Regione 120 mila euro per il reinserimento sociale dei detenuti In Toscana, 24 gennaio 2011 Continua l’impegno della Regione Toscana sul fronte del reinserimento sociale dei detenuti: pubblicato infatti un bando da 120 mila euro per sostenere progetti legati ai percorsi di accompagnamento, alla persona detenuta nella struttura carceraria fino all’uscita. Progetti legati quindi alle cosiddette figure degli “educatori ponte”, professionisti in grado di seguire il detenuto lungo il proprio “percorso” all’interno del carcere, “preparandolo” al progressivo reinserimento nel contesto sociale e nella comunità locale di riferimento. Il bando della Regione, rivolto ad enti locali, organizzazioni di volontariato, associazioni di promozione sociale e cooperative sociali, prevede un finanziamento massimo di 24 mila euro per ogni progetto. L’iniziativa toscana, che ha prodotto ottimi risultati nella prima edizione (con circa 700 casi seguiti in un anno), ha anche ottenuto grande attenzione e consensi a livello europeo. La scadenza per la presentazione delle domande è fissata per il 21.03.2011. Bologna: 1.150 detenuti e 373 agenti; allarme per sovraffollamento e per tagli economici Dire, 24 gennaio 2011 Non bastava il sovraffollamento tra i detenuti e la carenza di agenti penitenziari. Ora, a incombere sulle condizioni del carcere della Dozza di Bologna, ci sono anche i tagli del Governo, che “potrebbero riguardare fino a un 40% dei contributi degli ultimi anni”. È una prospettiva che preoccupa molto Gian Guido Naldi e Gabriella Meo, consiglieri regionali di Sel-Verdi, che questa mattina hanno visitato la casa circondariale di Bologna. Il sopralluogo alla Dozza, che ad oggi conta 1.150 detenuti, fa parte di un più ampio giro che il gruppo di Sel-Verdi sta organizzando nelle carceri dell’Emilia - Romagna. Ancora da visitare i penitenziari di Modena, Forlì e Ferrara; già visti quelli di Ravenna, Rimini, Piacenza, Parma e Reggio Emilia. E oggi, uscendo dalla Dozza, non hanno dubbi: “È un carcere sovraffollato e con troppi pochi agenti, ha delle gravi criticità strutturali e manca il lavoro, ma non è di certo la casa circondariale peggiore dell’Emilia - Romagna”. Le condizioni più critiche, dicono Naldi e Meo, riguardano sicuramente Ravenna e Parma, ma soprattutto l’ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia. Quanto alla Dozza, sono diversi gli aspetti che preoccupano i consiglieri di Sel. A partire dal fatto che l’ala Infermeria - nuovi giunti è in “condizioni di sovraffollamento insopportabile”, avverte Naldi. “Dovrebbe essere una zona di compensazione di altri disagi - gli fa eco Meo - invece va a finire che, a causa del sovraffollamento delle sezioni, i nuovi arrivati rimangano lì più del dovuto perché non si sa dove altro metterli. In questo modo l’infermeria, che dovrebbe essere un punto di maggior attenzione, anche dal punto di vista sanitario, finisce per essere un luogo dove si rimane in condizioni critiche”. Altro tasto dolente è il fatto che alla Dozza non c’è lavoro. “I lavoratori esterni sono appena 24 - 25, mentre i detenuti che svolgono lavori domestici sono solo 110 part - time, un terzo di quanti erano solo qualche anno fa” dicono Naldi e Meo. Un dato che, se rapportato al numero totale dei detenuti (1.150), fa capire che alla Dozza “lavora appena il 10% del totale”. Il numero esiguo di detenuti lavoratori, soprattutto di quelli esterni, è legato anche al fatto che, dicono Meo e Naldi, “negli ultimi anni è cambiato più volte il magistrato di sorveglianza, quindi una serie di pratiche sono rimaste aperte senza che nessuno si prendesse la responsabilità di firmare per l’uscita”. Insomma, “c’è difficoltà a far uscire i detenuti anche dove ci sarebbero le condizioni per farlo”. Non da meno la preoccupazione per la carenza di guardie carcerarie in servizio in via del Gomito (“in tutto 373 agenti, di cui 136 in distaccamento altrove”) e per l’alto numero dei tossicodipendenti: “Ufficialmente quelli iscritti ai Sert sono 350” dice Meo, ma quelli dietro le sbarre sono molti di più. A pesare sulla situazione della Dozza è sicuramente anche l’alto numero di detenuti stranieri. “Il provvedimento cosiddetto svuota carceri, firmato di recente dal Governo, è di difficilissima applicazione e qui a Bologna non ha fatto uscire nemmeno un detenuto - dicono i due consiglieri - il problema è che sono quasi tutti detenuti stranieri e per poter scontare la pena ai domiciliari devono avere un domicilio. È stato un provvedimento di facciata, senza nessun reale riscontro nella pratica”. Eppure, nel frattempo, il ministero di Giustizia sta andando avanti col piano per costruire nuove carceri: “A Bologna verrà realizzata una nuova sezione con 200 camere, dove saranno ospitati 400 detenuti. Ci vorranno un paio d’anni” dice Naldi. Perugia: insegnante 53enne parricida tenta il suicidio in carcere Adnkronos, 24 gennaio 2011 L’uomo si è procurato una quindicina di tagli superficiali agli avambracci con la lametta da barba usa e getta in dotazione a tutti i detenuti. L’omicidio il 30 novembre scorso. Antonio Leandri, in carcere a Perugia per aver ucciso e fatto a pezzi il padre Olinto, stamane ha tentato di tagliarsi le vene. Leandri si è procurato una quindicina di tagli superficiali agli avambracci. L’uomo è stato immediatamente soccorso nella medicheria del carcere perugino di Capanne. L’episodio è avvenuto all’alba. L’insegnante incensurato 53enne si è procurato i tagli con la lametta da barba usa e getta in dotazione a tutti i detenuti. In seguito a quanto accaduto Leandri è tenuto sotto osservazione e non gli è concesso di avere alcun potenziale oggetto pericoloso in cella. Secondo quanto appreso, all’origine del gesto, ci sarebbe stato un momento di profondo sconforto per la sua situazione di detenuto. Pistoia: delegazione Idv visita il carcere; sovraffollamento disperante Il Tirreno, 24 gennaio 2011 “Un sovraffollamento disperante”. L’onorevole Idv Fabio Evangelisti descrive con toni accesi la situazione del carcere di Santa Caterina in Brana, visitato venerdì insieme ad una delegazione del suo partito guidata dal consigliere regionale Rudi Russo e composta anche dal coordinatore dei Giovani Idv pistoiesi Federico Dall’Olio. Evangelisti si è detto colpito del sovraffollamento, delle condizioni inumane in cui sono costretti a vivere i detenuti, della pressoché totale assenza di attività per chi deve passare i propri giorni in carcere. “La nostra Costituzione - ha ricordato Ecangelisti - prevede che la detenzione non può consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. Ma qui, come in tante altre carceri, non per volontà della direzione o degli agenti, succede il contrario”. Evangelisti ha fornito cifre eloquenti: una struttura che potrebbe contenere 101 detenuti ne ospita 139 (sono stati anche 156). Gli agenti di polizia penitenziaria sono 48 invece di 79. Per la manutenzione ci sono 14.000 euro l’anno. Piacenza: poco spazio e celle male illuminate; ricorso di 11 detenuti a Corte Strasburgo Ansa, 24 gennaio 2011 Undici detenuti del carcere di Piacenza hanno fatto ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo per le condizioni in cui sono costretti a vivere in carcere. Lo si è appreso oggi dalla stessa Corte che ha comunicato i casi al governo italiano, chiedendo alcuni chiarimenti. Gli 11 detenuti dicono di essere sottoposti a trattamento inumano perché rinchiusi in celle in cui hanno a disposizione meno di 3 metri quadrati ciascuno e che sono mal illuminate a causa delle sbarre alle finestre. Inoltre, nel ricorso scrivono che l’accesso alle docce è limitato dal fatto che manca l’acqua calda. Due di loro, non fumatori, si dolgono inoltre di dover condividere la cella con dei fumatori e di essere quindi esposti ai rischi del fumo passivo durante tutta la giornata. La Corte di Strasburgo ha chiesto al governo di fornire tutti i dati sulla reale situazione del carcere di Piacenza e di indicare quali misure sono state prese dopo che il giudice di sorveglianza di Reggio Emilia ha dato ragione a tre dei detenuti che gli avevano già presentato un ricorso simile. L’Italia è già stata condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nel luglio del 2009 per aver tenuto per 2 mesi e mezzo un detenuto nel carcere romano di Rebibbia in una cella dove aveva a disposizione meno di 3 metri quadrati. In quel caso la Corte accordò al ricorrente mille euro per danni morali. Secondo il Comitato per la prevenzione alla tortura lo spazio minimo in cella a disposizione del detenuto deve essere di circa 7 metri quadrati. Venezia: il Sappe si appella al Consiglio comunale; no al nuovo carcere, più agenti Il Gazzettino, 24 gennaio 2011 Oggi il Consiglio comunale sarà chiamato ad esprimersi sull’individuazione di un’area da destinare a nuovo carcere, in luogo di Santa Maria Maggiore. Il Sappe, sindacato della polizia penitenziaria, rivolge un appello ai consiglieri affinché non prendano una decisione. “Quello che manca - attaccano Michele Di Noia e Filomeno Porcelluzzi della segreteria provinciale del Sappe - non sono le nuove carceri, ma gli uomini e le donne della polizia penitenziaria per aprirli. Ci sono 75 strutture già pronte in Italia, per un totale di 5mila 989 posti, ma nessun fondo del Governo è previsto per adeguare l’organico delle guardie carcerarie. Abbiamo chiesto di mantenere l’attuale struttura di Santa Maria Maggiore e di restaurare la casa di lavoro alla Giudecca, ma pochi ci hanno ascoltati, mentre prevale l’idea della lobby che vuole relegarci in una discarica”. Reggio Calabria: Sappe; degrado e insicurezza nell’istituto penitenziario di Locri Gazzetta del Sud, 24 gennaio 2011 I problemi del carcere di Locri. Saranno trattati domani nella sede dell’istituto penitenziario nel corso di una conferenza stampa in programma a partire dalle ore 10. Saranno presenti il segretario questore del Consiglio regionale Giovanni Nucera e i rappresentati del Sappe (Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria). “Nel corso dei lavori - anticipa Nucera - si affronteranno tematiche di estrema rilevanza con l’intento di promuovere un confronto costruttivo sullo stato delle carceri in Calabria e in particolare verrà evidenziato lo stato di assoluto degrado e insicurezza in cui versa l’istituto penitenziario di Locri”. Durante la conferenza stampa, inoltre. sarà illustrato il contenuto dell’interrogazione a risposta scritta presentata dall’on. Emerenzio Barbieri del gruppo Popolari liberali nel Pdl, al ministro della Giustizia Angelino Alfano avente come oggetto la situazione complessiva della casa circondariale di Locri. I problemi delle carceri sono noti da tempo. Sovraffollamento, locali fatiscenti, carenza di personale interessano buona parte degli istituti di pena. Le alternative sono legate al completamento dei lavori di realizzazione di nuove sedi. Ma la crisi impedisce di trovare i fondi. Come nel caso del carcere di Arghillà che è diventato uno dei simboli delle grandi incompiute. Catania: Uil Penitenziari; soddisfazione per i lavori nel carcere di Caltagirone La Sicilia, 24 gennaio 2011 Fra le tre carceri siciliane che saranno ampliate con la costruzione di appositi padiglioni, destinati a ospitare 200 detenuti ciascuno, c’è anche quello di Caltagirone (insieme a Trapani e Siracusa). È quanto sancito dall’intesa firmata ieri, a Roma, dal commissario delegato per il piano carceri, Franco Ionta, e dall’assessore regionale Caterina Chinnici. La costruzione di un nuovo padiglione, che comporterà un investimento di 11 milioni di euro e, secondo le notizie giunte dalla Capitale, avverrà nel giro di due anni, aumenterà di oltre il doppio l’attuale capienza dell’istituto. Una recente indagine della Uil Penitenziari ha attribuito alla casa circondariale di contrada Noce, a Caltagirone, la maglia nera fra le carceri più affollate d’Italia, anche se sulle cifre diffuse dal sindacato la direzione dell’istituto penitenziario è intervenuta con alcune precisazioni da cui emerge un quadro meno sconfortante. “Si tratta indubbiamente di una buona notizia - commenta il sindaco Francesco Pignataro - I lavori, di grande utilità per porre fine all’eccessivo affollamento della struttura, potranno consentire anche di far tirare una boccata d’ossigeno al settore edile, con l’impiego di manodopera. Noi, dal canto nostro, continueremo a darci da fare, in sinergia con il direttore Valerio Pappalardo, per rendere sempre più efficace l’integrazione della struttura carceraria col nostro territorio”. Palermo: Fns-Cisl; entro febbraio riapre reparto ristrutturato dell’Ucciardone Adnkronos, 24 gennaio 2011 Sarà aperto entro la fine di febbraio il reparto ristrutturato del carcere Ucciardone di Palermo, con l’obiettivo di ripristinare le condizioni igienico sanitarie e di sicurezza necessarie alla sopravvivenza nella struttura detentiva del capoluogo siciliano. Ad annunciarlo ai rappresentanti sindacali della Fns Cisl è stato il direttore della struttura detentiva palermitana, a circa sei mesi dall’inizio della lotta che la Federazione nazionale della sicurezza della Cisl di Palermo, ha intrapreso per denunciare le gravi condizioni in cui versa l’antico carcere borbonico palermitano. “Questa soluzione da tempo da noi prospettata - commenta Paolino Campanella, Segretario Generale della Fns Cisl di Palermo - , consentirà finalmente di trasferire i detenuti da quel reparto divenuto inagibile, riportando quei minimi criteri di sicurezza e salubrità necessari anche per il personale che in questi mesi ha lavorato in condizioni drammatiche per le gravi carenze sia di personale che strutturali e igienico sanitarie”. “La Fns Cisl di Palermo - aggiunge - esprime poi apprezzamento al personale che nonostante la criticità degli eventi vissuti ha dimostrato, anche in questa occasione, di avere saputo mantenere, con spirito di abnegazione, l’ordine e la sicurezza della struttura e della collettività, unitamente al lavoro svolto dal direttore dell’istituto penitenziario Maurizio Veneziano per la difficile gestione della struttura”. Le denunce sullo stato indecoroso in cui versa il carcere palermitano erano state lanciate dalla Federazione nazionale della sicurezza della Cisl di Palermo, nel giugno del 2010 dopo la visita guidata all’interno dell’istituto penitenziario, ed erano stato ribadite nel tempo fino al 10 gennaio scorso dai vertici siciliani della federazione nazionale della sicurezza Cisl. “Il 17 gennaio - spiega Campanella - il capo del Dap presidente Franco Ionta, ha visitato gli istituti penitenziari palermitani, riscontrando quello che effettivamente avevamo da tempo denunciato” ha proseguito Campanella, che però aggiunge ‘se entro febbraio il reparto non sarà aperto organizzeremo nuove azioni di lottà. Le condizioni di invivibilità e degrado del carcere sono state riscontrate fino all’ultima visita dei giorni scorsi effettuata da una delegazione del sindacato della sicurezza della Cisl palermitana, composta da Paolino Campanella, Antonino Piazza, dirigente sindacale della struttura, e dal capo delegazione Domenico Ballotta, segretario generale aggiunto Fns Cisl Sicilia. Spoleto (Pg): scuola superiore in carcere; si diploma il 15% dei detenuti iscritti Redattore Sociale, 24 gennaio 2011 L’offerta didattica fa i conti con i limiti cognitivi dei detenuti, e li abbatte. Barbieri (Antigone): “Dentro al carcere non ho mai incontrato persone con un percorso di studi regolare” La scuola in carcere. Strumento di reinserimento sociale e di rieducazione, come detta la Carta costituzionale. Sul tema è stato incentrato l’incontro che si è tenuto a Spoleto, sede di una delle carceri italiane con detenuti sottoposti “ad alta sicurezza” (molti i condannati per criminalità organizzata e soggetti a regimi duri quali il 41 bis), a cui hanno preso parte rappresentanti di diverse realtà scolastiche e carcerarie italiane nonché del mondo dell’associazionismo che in carcere opera. Una analisi dell’esperienza scolastica in carcere è stata riportata da Roberta Galassi, dirigente del liceo classico e istituto d’arte Pontano Sansi - Leoncillo Leonardi che dentro le mura della casa di reclusione di Maiano di Spoleto opera da 10 anni. “Abbiamo a che fare con studenti - detenuti che provengono soprattutto dal Sud, mentre vanno aumentando gli stranieri del Nord Africa, aree slave e Cina”. Sono 650 i detenuti ad oggi, 90 gli ergastolani. “Ogni anno si iscrivono a scuola dai 60 agli 80 detenuti, anche se minore è il numero delle frequenze costanti. I diplomati sono il 15%: una cifra irrisoria se riguardasse ‘il fuori le murà, ma per noi un successo”. I meccanismi di abbandono della scuola da parte dei detenuti sono diversi dal ‘fuorì: si lascia per cambi di sede, spostamenti, o per la libertà raggiunta. Analizzando il percorso didattico, Galassi mette in evidenza che “pur essendo il nostro un istituto d’arte che propone diversi laboratori - che posso apparire più appetibili e più immediatamente spendibili - , gli studenti non privilegiano i laboratori a scapito di materie come l’italiano o la storia, si registrano le stesse frequenze. Questo è dovuto alla serietà della scuola che si presenta come progetto forte, stessa serietà data come risposta dagli studenti”. L’esperienza artistica che è base dell’offerta formativa non significa, al carcere di Spoleto, mettere subito un pennello in mano ai detenuti: “Studiano una serie di sottodiscipline, non sempre così creative, che sono propedeutiche all’esperienza artistica, come la geometria, le discipline plastiche, il disegno dal vero. A scuola si sperimentano - e si tenta di abbattere - anche i limiti, i ritardi cognitivi dei detenuti. “In senso tecnico, il detenuto ha un senso falsato della prospettiva e un uso del colore limitato. Ad esempio, registriamo notevoli difficoltà a rendere la terza dimensione. Le attività scolastiche permettono di allungare lo sguardo, di sfondare le mura mentali e fisiche in cui sono costretti, ampliare gli orizzonti”. E, riferiscono i docenti, “escono fuori veri talenti”. La dedica in calce a un romanzo di un detenuto (nella struttura si fanno anche corsi di scrittura creativa) è esplicativa di questo: “Ho trovato il mio punto di fuga”. Tutto ciò diventa, talvolta, anche partecipazione a progetti che gettano ponti ben oltre le mura della casa di reclusione: con il Teatro lirico sperimentale i detenuti di Maiano hanno curato scene e costumi della Bohème insieme ai loro colleghi del carcere di Dublino, e poi hanno realizzato tessuti in stile longobardo in occasione della candidatura Unesco di Spoleto come sito longobardo, hanno realizzato bozzetti e scenografie per una mostra dedicata alle fiabe, in collaborazione con grandi artisti contemporanei come Jeffrey Isaac. “La realtà dentro è dura, il margine per diventare migliori è mettere al centro la persona e offrire tutto, ogni possibilità, a tutti, senza fare differenze tra i più buoni e i più cattivi, anche se certo si differenziano i livelli di intervento”, dice Ernesto Padovani direttore della struttura penitenziaria Fiorella Barbieri di Antigone - 17 anni come docente a Rebibbia e oggi coordinatrice, a Rebibbia circondariale, di attività di sportello e colloqui sulle condizioni detentive con medici e avvocati - mette in evidenza la relazione tra mancanza di studi seri, estrazione sociale e devianza. “Lo dico sia avendo presenti le statistiche sia sulla base delle esperienze dirette. Dentro al carcere non ho mai incontrato persone provenienti da un percorso di studi regolare”. Barbieri tiene a raccontarci il caso di un quarantenne rom, incontrato di recente in uno dei reparti di Rebibbia e che è stato raccontato anche sull’ultimo numero del periodico del carcere ‘Terrà: “Era molto preoccupato di poter uscire presto dal carcere e di essere espulso una volta fuori. Il motivo principale era che i suoi 7 figli - che vivono con la madre in una roulotte davanti alla scuola - non riuscissero più a studiare”. Pisa: Idv; presidio davanti al tribunale per ricordare i detenuti morti in carcere Ansa, 24 gennaio 2011 “Chiedere giustizia per Marcello Lonzi e accendere i riflettori sulla situazione drammatica delle carceri italiane”. Per questo stamani i giovani dell’Idv Toscana hanno svolto un presidio davanti al tribunale di Pisa. Con loro c’era anche il consigliere regionale dell’Italia dei valori Rudi Russo, anche coordinatore nazionale dei giovani dell’Idv: “Ci uniamo - ha detto - alla richiesta della madre del detenuto livornese morto alle Sughere l’11 luglio 2003 affinché avvenga al più presto la calendarizzazione in Cassazione dell’esame del suo ricorso contro l’archiviazione dell’indagine”. Gli esponenti del partito di Di Pietro per oltre un’ora hanno stazionato davanti al Palazzo di giustizia esponendo un striscione con la scritta: “Verità e giustizia per Marcello Lonzi” e distribuendo volantini ai passanti con i quali hanno spiegato la loro iniziativa. “In troppe occasioni - si legge nel testo - si sono verificati decessi all’interno delle carceri italiane. Uno di questi casi riguarda Marcello Lonzi. Noi dell’Italia dei Valori siamo convinti che un uomo affidato allo Stato non può e non deve morire. Chiediamo, insieme alla madre di Marcello di fare maggiore chiarezza sul caso e sulle ricostruzioni fatte in sede giudiziale”. Sul caso Lonzi la procura di Livorno ha condotto due indagini, conclusesi entrambe con la richiesta di archiviazione avvalorando la tesi della morte accidentale del detenuto provocata da un infarto. La madre è invece convinta che il figlio sia stato vittima di un pestaggio in cella da parte degli agenti di polizia penitenziaria. “Manifestiamo qui a Pisa perché è qui che da qualche mese è stato trasferito il pm, Antonio Giaconi, che avevo condotto la seconda indagine. Da 8 anni aspetto un processo che faccia luce sulla morte di mio figlio - ha detto Maria Ciuffi, madre di Lonzi - e ora chiedo alla Cassazione di calendarizzare la discussione del ricorso che abbiamo depositato il 3 giugno scorso. Se l’Italia non mi darà giustizia, sono pronta a ricorrere anche alla Corte di Strasburgo”. Milano: Sappe; ancora tensioni nelle carceri, grave episodio nel carcere di Opera Asca, 24 gennaio 2011 “Non posso che giudicare con estrema preoccupazione l’ennesima grave aggressione ad alcuni poliziotti penitenziari, avvenuta l’altro giorno nel carcere milanese di Opera. Un detenuto straniero, che già nel passato aveva posto in essere atti autolesionistici tentando di darsi fuoco con delle bombolette di gas, in un caso, e cucendosi la bocca e procurandosi tagli alle braccia in un altro, ha improvvisamente dato in escandescenza e si è scagliato contro 3 poliziotti penitenziari, fratturando un dito ad un nostro Ispettore. Durante una perquisizione, gli sono state rinvenuti addosso, abilmente occultate, degli psicofarmaci ed una lametta, che prima ha tentato di nascondere e poi di usare contro gli Agenti. Dopo aver gridato ai nostri agenti accuse farneticanti di razzismo e minacce varie, il detenuto si scagliava contro il nostro Personale con calci e pugni, fratturando appunto il dito al collega Ispettore. Noi intendiamo, per prima cosa, esprimere tutta la nostra vicinanza e solidarietà ai colleghi feriti, improvvisamente e violentemente aggrediti dal detenuto. Tutto questo è gravissimo ed inaccettabile, tanto più che si tratta dell’ennesima aggressione avvenuta a danno di appartenenti alla Polizia penitenziaria. Bisogna contrastare con fermezza questa ingiustificata violenza in danno dei rappresentati dello Stato in carcere e punire con pene esemplari chi li commette. Servono provvedimenti veramente punitivi per i detenuti che in carcere aggrediscono gli agenti o provocano risse: mi riferiscono alla necessità di introdurre un efficace isolamento giudiziario ed una esclusione dalle attività in comune che punisca i comportamenti violenti.” È quanto dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa Organizzazione dei Baschi Azzurri, a commento del grave episodio accaduto nel carcere milanese di Opera. Aggiunge Capece: “Opera patisce una gravissima situazione deficitaria per quanto riguarda gli organici del Personale di Polizia Penitenziaria: mancano infatti, ben 210 poliziotti dagli organici del Reparto! I detenuti, invece, aumentano ogni giorno di più. Nel carcere milanese, in cui 973 sono i posti letto regolamentari, le presenze sono ben oltre le 1.320 unità: uno su quattro è straniero. Proprio il fatto che spesso le criticità in carcere sono determinate e causate da detenuti stranieri dovrebbe fare seriamente riflettere le Autorità competenti. Si recuperi il tempo perso su questa significativa criticità penitenziaria e si avviino rapidamente le trattative con i Paesi esteri da cui provengono i detenuti - a partire proprio da Romania, Tunisia, Marocco, Algeria, Albania, Nigeria - affinché scontino la pena nei penitenziari dei Paesi d’origine”. Verona: Garante dei detenuti; iniziative in occasione della Giornata della memoria Ristretti Orizzonti, 24 gennaio 2011 Giovedì 27 gennaio, in occasione della Giornata della Memoria, le persone detenute della Casa Circondariale di Montorio ricorderanno le vittime della Shoah e di altri genocidi con un serie di momenti di ascolto e riflessione. L’iniziativa è promossa dal direttore della Casa circondariale Antonio Fullone, dalla dirigente dell’area pedagogica Enrichetta Ribezzi e dal Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Verona Margherita Forestan, in collaborazione con il prof. Maurizio Ruzzenenti dell’associazione “Progetto Carcere 663” e il corpo insegnante del Ctp “Carducci”. La prima parte della giornata sarà dedicata al ricordo delle vittime con la proiezione del film “Kapò” di Gillo Pontercorvo e la lettura di alcuni brani scelti ed analizzati per l’occasione dalle persone detenute. Seguirà una conferenza - dibattito sul tema tenuta dal professor Roberto Bonente, membro dell’Istituto Veronese per la Storia della Resistenza. Un secondo momento sarà dedicato al ricordo di altri grandi genocidi della storia recente attraverso la proiezione di parte dei film “Hotel Rwanda” di Terry George, sul massacro della popolazione Tutsi e degli Hutu moderati in Ruanda; “S21. La macchina della morte dei Khmer Rossi” di Rithy Panh, sull’eccidio dei cambogiani vietnamiti e della minoranza Cham in Cambogia; “I Fiori di Kirkuk” di Fariborz Kamkari, sullo sterminio del popolo Curdo. Reggio Calabria: l’agente deve fare la scorta, la sala colloqui rimane chiusa Gazzetta del Sud, 24 gennaio 2011 Quanto sia importante la presenza dell’agente di polizia penitenziaria Tommaso Chirivì all’interno del carcere di via San Pietro lo stanno sperimentando i detenuti e i penalisti che li assistono. Da quando, per carenza di personale, l’agente addetto alla chiamata viene spesso e volentieri impiegato all’esterno nel servizio scorte, infatti, la sala colloqui rimane chiusa. Incredibile, ma vero, non c’è nessuno che lo sostituisca. Avvocati e detenuti, di conseguenza, devono rinunciare alla possibilità parlare con i loro assistiti. Magari sono costretti a rinviare uno scambio di vedute su questioni importanti come la firma di un atto, la scelta di un rito. E quando ci sono di mezzo termini di scadenza il rinvio di un colloquio può diventare un ostacolo insormontabile. Una situazione paradossale che, secondo i penalisti reggini, lede il diritto di difesa. Il problema si è palesato in tutta la sua gravità nell’ultimo periodo quando sono cresciute in modo esponenziale le scorte assicurate dal corpo di Polizia penitenziaria. Situazione critica per l’alto numero di processi con imputati detenuti che hanno il sacrosanto diritto di essere presenti in udienza e che devono, quindi, essere accompagnati nelle varie sedi giudiziarie della Corte d’appello. Per assicurare il servizio scorte ci vuole un numero adeguato di agenti. Così, vengono lasciati sforniti di personale alcuni uffici, in particolare l’ufficio colloqui avvocati. Tra i destinati a infoltire le file per assicurare il servizio scorte c’è anche l’agente Chirivì, addetto a stare all’interno della sala e chiamare i detenuti dopo aver controllato la regolarità delle nomine. Quando è utilizzato all’esterno, l’agente chiude a chiave la sala e buonanotte ai colloqui. I penalisti si rivolgono alla direttrice Carmela Longo che può solo manifestare il suo rammarico. Lei ha fatto presente il problema nelle sedi opportune ma non ha ricevuto risposte adeguate. Di un’altra questione legata ai colloqui si era di recente occupata anche la Camera Penale: ci sono solo 4 salette e sono poche per il numero dei detenuti nel carcere di Reggio. Capita di frequente che qualche avvocato veda trascorrere l’orario dei colloqui, dalle 9 alle 14.30, senza possibilità di incontrare il proprio assistito. Mercoledì i penalisti hanno trovato la sala chiusa: “Mi è stato detto - racconta l’avvocato Giacomo Iaria - che non era possibile procedere al colloquio perché la saletta non poteva essere aperta mancando l’agente Chirivì impegnato a fare servizio di scorta in Tribunale”. Iaria ci ha riprovato venerdì insieme con i colleghi Antonino Priolo e Gregorio Cacciola giunto da Palmi: “Alle 11 - spiega - sono stato invitato a uscire perché Chirivì doveva andare a fare servizio scorta. Crediamo che siamo in presenza di una lesione del diritto di difesa. Il colloquio con il detenuto, oltre a rivestire importanza di natura psicologica, diviene necessario nel momento della formazione della strategia difensiva. Io avevo necessità di far firmare degli atti di conferimento di procura speciale per accedere a un rito alternativo. Avevo necessità di illustrare le ragioni di questa scelta processuale al mio assistito. Ciò mi è stato impedito”. Modena: Sappe; nella Casa Lavoro di Saliceta trovato un telefono cellulare Ansa, 24 gennaio 2011 In una perquisizione straordinaria nella casa di lavoro di Saliceta San Giuliano a Modena stamani alle 4, gli agenti della polizia penitenziaria hanno rinvenuto, all’interno di una cella, un telefono cellulare perfettamente funzionante, dotato di scheda sim e carica batterie. Ne dà notizia Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe, sindacato autonomo polizia penitenziaria, secondo cui nello stesso istituto, ieri sera un internato che stava rientrando dalla licenza ha tentato di far entrare nella struttura detentiva un coltello di oltre dodici centimetri e 170 euro, il tutto nascosto nelle suole delle scarpe. Dobbiamo ricordare - scrive Durante - che in tutte le strutture detentive è vietato tenere i soldi che al momento dell’ingresso vengono depositati su un conto corrente, gestito dall’Amministrazione penitenziaria. Sono frequentissimi gli episodi di detenuti e internati che tentano di far entrare nelle strutture penitenziarie oggetti non consentiti, tra i quali, soprattutto, i telefoni cellulari. Sarebbe quindi opportuno procedere alla schermatura degli istituti, ovvero dotare la polizia penitenziaria di appositi rilevatori di telefoni cellulari. A Saliceta, poi - conclude il Sappe - alle difficoltà già esistenti si aggiungono direttive che definire improprie è poco. Infatti, il dirigente ha disposto che le perquisizioni degli internati possono essere fatte solo con il metal detector, tranne i casi di fondato sospetto. Con il metal dector, però, non è possibile rilevare molti degli oggetti non consentiti, come i soldi. A Saliceta ci sono 61 internati presenti e 23 in licenza, gli agenti di polizia penitenziaria sono circa 40; per il Sappe ne mancano almeno 20. Pordenone: gli studenti intervistano i detenuti del castello Messaggero Veneto, 24 gennaio 2011 Due ore in carcere a Pordenone, per capire come funziona la vita dietro le sbarre: la classe quinta C del liceo Leopardi - Majorana ha intervistato cinque detenuti. Un’indagine su sogni, bisogni e sostenibilità della pena nel Castello di piazza della Motta. I 24 liceali vogliono creare un dossier e fare tirocinio sociale. “Nella casa circondariale di Pordenone la nostra “mission” è il dialogo e la ricerca - hanno detto i ragazzi, accompagnati in carcere dai docenti Silvano Scarpat e Sara Piazza e dalla dirigente Teresa Tassan Viol -. Vogliamo smontare le barriere umane e capire come si vive la carcerazione. Intervisteremo anche il cappellano don Piergiorgio Rigolo e un secondino”. La liceale Elisa Molinaro ha cominciato il volontariato con il gruppo “Carcere e comunità”: ne va fiera. Il progetto carceri ha distribuito 400 questionari in città, per dare la terza dimensione all’inchiesta: quella di chi sta fuori dal carcere. “Temi caldi sotto la lente saranno il sovraffollamento, i suicidi in carcere, il reinserimento sociale - hanno anticipato i ragazzi della quinta C -. Per allargare la ricerca, abbiamo invitato lo scrittore Pino Roveredo nel liceo: ci parlerà della sua esperienza di detenuto”. In tutto, 40 ore di tirocinio in massima sicurezza con l’entusiasmo di varcare un confine. “Un’esperienza forte a doppia valenza - ha spiegato Silvano Scarpat. È inserito nell’area di progetto per l’esame di Stato 2011 e vale per creare reti di relazioni con gli ospiti della casa circondariale. L’affondo sulla storia del castello di Pordenone, la psicologia, il diritto sono nel piano di studio e con il valore aggiunto del dialogo diretto in cella”. Palermo: all’Ipm Malaspina convegno conclusivo del progetto “In e out” www.siciliainformazioni.com, 24 gennaio 2011 Il convegno conclusivo del Progetto In & Out, promosso negli Istituti penali minorili della Sicilia dall’associazione Euro in collaborazione con l’Ansa, si svolgerà venerdì prossimo 28 gennaio a Palermo, a partire delle ore 9.30, presso l’Aula Baviera del complesso Malaspina. Il progetto, finanziato con fondi dell’Assessorato Regionale della Famiglia e delle Politiche sociali in partenariato con il Centro Giustizia Minorile per la Sicilia e con Anfe, ha previsto nel triennio 2008/2011 la realizzazione di interventi di inclusione sociale in favore dei giovani detenuti dei quattro Istituti Penali per i Minorenni di Palermo, Catania, Caltanissetta ed Acireale. In particolare è stato l’unico in Europa a prevedere oltre ad interventi strutturali e ad azioni di miglioramento degli Ipm (campi sportivi, una cucina didattica, la costruzione di un’aula polifunzionale, il rifacimento integrale di un teatro e la valorizzazione del giardino storico di Villa Palagonia) un’attività di orientamento e counseling formativo professionale. In particolare sono state attivate 200 borse lavoro in favore dei reclusi all’interno e all’esterno delle strutture penitenziarie, laboratori artistici e culturali, attività sportive e un giornale realizzato dai detenuti sul portale Ansa Legalità. Nel corso del convegno, durante il quale verrà presentato anche il nuovo Progetto Percorsi di Legalità finanziato dal Pon sicurezza, interverranno tra gli altri, il dirigente del Cgm per la Sicilia Michele Di Martino e i vertici della magistratura minorile, l’assessore alla Famiglia al Lavoro e alle Politiche Sociali Andrea Pirano, il prefetto di Palermo Giuseppe Caruso, il responsabile dell’autorità di gestione del Pon Sicurezza Nicola Izzo, il vice capo di gabinetto del ministero della Giustizia Sergio Barbiera, il Pm della Dda di Palermo Gaetano Paci. Chiuderà i lavori Nicola Testone, consulente del Ministro della Giustizia, Angelino Alfano. Saluzzo (Cn): studenti ospiti in carcere per lo spettacolo “Non calpestare i fiori” www.targatocn.it, 24 gennaio 2011 Dal 24 al 27 gennaio le porte della Casa di Reclusione”Rodolfo Morandi” di Saluzzo si apriranno nuovamente per ospitare i ragazzi delle scuole medie e superiori del territorio per assistere allo spettacolo teatrale “Non calpestare i fiori”. Dopo il debutto di settembre che ha ospitato mille spettatori e raccolto larghi consensi ed apprezzamenti, gli attori - detenuti si ripresentano in una settimana di repliche per gli studenti del Liceo Socio - Psico Pedagogico “De Amicis” di Cuneo, della Scuola Media di Villafalletto e per gli allievi dell’Istituto Superiore “Arimondi Eula” di Savigliano. Molti insegnanti della Provincia, impegnati quotidianamente nell’educare i propri giovani alla legalità e alla cittadinanza, hanno richiesto la possibilità di creare momenti di confronto con la realtà carceraria come occasione di dialogo e di crescita. Lo spettacolo, con la regia di Grazia Isoardi della Compagnia Voci Erranti, è il frutto di un anno di laboratorio teatrale con un gruppo di venti detenuti che si sono confrontati con i principi della Costituzione Italiana, argomento poco conosciuto anche dagli stessi italiani ed occasione di confronto con le culture straniere. Come dichiarato dalla regista “si tratta di un tema insolito ed anche paradossale per un gruppo di persone che sono andate contro tali principi e che non hanno saputo riconoscere l’importanza e il valore del vivere civile in un Paese democratico”. Lo spettacolo diventa occasione di cultura per i partecipanti e di riflessione per il pubblico, un modo per ricordare quanto la Costituzione sia il bel giardino di tutti, i cui fiori sono patrimonio da difendere ed amare. Alle rappresentazioni sarà presente la saluzzese Paola Sibille che porterà agli studenti la propria testimonianza di donna che ha lottato per la libertà e la democrazia. È un’iniziativa resa possibile grazie alla volontà del Direttore Dottor Giorgio Leggieri, del responsabile dell’Area Educativa Davide Sannazzaro, del Comandante Benedetto Novena e della Compagnia di San Paolo di Torino. Immigrazione: a Benevento piccoli comuni accolgono 34 eritrei liberati dalle carceri libiche Redattore Sociale, 24 gennaio 2011 Progetto di Connecting People: dare opportunità di integrazione a rifugiati in piccoli comuni italiani. A San Lupo, 800 abitanti in provincia di Benevento, tirocini di lavoro per un piccolo gruppo di rifugiati “pescati” dall’Unhcr Sono 34 i rifugiati scappati dall’Eritrea e passati per le carceri libiche: alcuni di loro ci sono rimasti rinchiusi anche per tre anni, poi sono arrivati in Italia grazie a un programma dell’Unchr, l’Alto Commissariato Onu per i rifugiati. Ora provano a costruirsi una vita nuova, e soprattutto indipendente, a San Lupo, piccolo paese campano che ospita il progetto “Piccoli comuni, grande solidarietà”, gestito dal consorzio Connecting People in collaborazione con il consorzio di cooperative sociali Amistrade di Benevento. “Si tratta - spiega Mourad Aissa, origine tunisina, in Italia dal 2001, oggi direttore del centro di San Lupo - di un progetto di resettlement, cioè di reinserimento, organizzato dalla Comunità europea insieme al ministero dell’Interno: per colpire le organizzazioni criminali che organizzano il traffico di esseri umani, una delegazione è andata a selezionare direttamente in Libia i rifugiati da destinare al reinserimento”. Una volta scelti, i 34 eritrei sono stati ospitati per un periodo nel Cara di Salina Grande, vicino Trapani, nell’attesa che a San Lupo (800 abitanti in provincia di Benevento) fosse tutto pronto: oggi abitano finalmente - tutti e 34 - in una struttura particolare messa a disposizione dal Comune del paesino campano. Si tratta di un’ex scuola, dove sono state attrezzate 11 stanze personali, più degli spazi in comune, come la lavanderia, la sala con la tv e la ludoteca per le sei bimbe che si trovano nel centro. “Due di loro neonate”, racconta Aissa, tunisino di 36 anni, arrivato in Italia dieci anni fa con una laurea in Fisica e Chimica. Strutturato sul lungo periodo, il progetto è partito lo scorso aprile e dura due anni. Gli ospiti del centro devono imparare l’italiano, individuare un personale percorso di vita, capire e scegliere quello che vogliono fare, e poi cominciare a entrare nel mondo del lavoro, “un passaggio - osserva il direttore del centro - molto delicato, anche considerando che è un periodo difficile, complicato dalla crisi economica”. Per aiutarli, sono partiti una serie di tirocini formativi in alcune aziende locali: per il momento, si tratta di una falegnameria mobilificio, una ditta che fa impianti elettrici, un albergo, un supermercato in fase di apertura. Nella prima fase del progetto la popolazione locale e i neo arrivati hanno cominciato a conoscersi e ad entrare in contatto, con alcuni eventi organizzati per facilitare la socializzazione (come un picnic fuori porta il 25 aprile). Dopo i primi corsi di italiano, c’è stato bisogno di valutare competenze e aspirazioni, e cercare di farle combaciare con quello che concretamente offre il mercato del lavoro locale: ora però il progetto entra nel vivo, con l’avvio di alcuni tirocini formativi da cui si spera partiranno prima o poi dei contratti di lavoro. Su questo fronte è arrivato l’aiuto del comune e dalla Camera di commercio di Benevento. “La caratteristica del progetto - spiega Aissa - è quella di cercare di andare oltre l’accoglienza, puntando invece al raggiungimento della piena autonomia di vita di queste persone: questo vuol dire che speriamo di arrivare a metterle nella condizione di avere una vita pienamente autonoma, quindi con un lavoro con cui mantenersi, magari prendersi una casa in affitto e tutto il resto”. Aissa si dilunga nello spiegare che obiettivo prioritario è quello di “superare la mentalità assistenzialista, rendere davvero autonome queste persone facendo sviluppare loro un progetto di vita individuale, mettendole in condizione anche di fare delle scelte per il loro futuro”. Certo non sono mancate le difficoltà: “Innanzi tutto quella di far capire a queste persone che dovevano costruirsi un percorso individuale e distaccarsi dall’ottica collettiva a cui si sono abituati negli anni di vita insieme. Poi è servito uno sforzo per collegare aspirazioni, sogni e possibilità effettivamente disponibili, specie in questo periodo di crisi”. Possibilità che valgono per tutti, anche per chi nel frattempo aspetta un bambino: “La ludoteca presto si trasformerà in asilo nido: l’arrivo di un bebè non deve impedire alle donne di cercarsi un lavoro e diventare autonome”. Panama: quattro ragazzi muoiono in incendio nel carcere minorile Ansa, 24 gennaio 2011 Quattro adolescenti, ricoverati in ospedale dopo essere stati gravemente ustionati in un incendio in un centro di detenzione minorile a Panama, sono morti. L’ultimo decesso è avvenuto intorno 12 di oggi. Tre altri giovani sono ancora in cura per le ustioni all’ospedale San Tomas e sono in condizioni gravi. I ragazzi lamentavano di non ricevere acqua da oltre 8 giorni a causa di problemi nella distribuzione di acqua potabile che affliggono la capitale panamense. Più di 8 giorni senza potersi lavare né bere. Una delle celle ha preso fuoco e i detenuti hanno supplicato gli agenti di custodia di aiutarli, i quali non solo non hanno fatto nulla ma si sono fatti beffe della sofferenza dei ragazzi. Il fatto ha provocato reazioni discordanti. Da un lato la polizia ha cercato di difendersi e di dare spiegazioni per quanto è accaduto, dall’altro i cittadini si sono divisi tra chi chiede la testa degli agenti di custodia e chi invece ne giustifica le azioni. Iran: pena morte; impiccati tre detenuti condannati per stupro Ansa, 24 gennaio 2011 Tre uomini condannati a morte per violenza carnale su un ragazzo sono stati impiccati stamane nel carcere di Evin, a Teheran, secondo quanto riferisce l’agenzia Isna. Queste esecuzioni portano a sei il numero delle persone giustiziate oggi in Iran, tra le quali due uomini arrestati nelle manifestazioni anti - governative dell’estate del 2009 e accusati di cooperazione con i Mujaheddin del Popolo, la principale organizzazione armata di opposizione al regime. Dall’inizio dell’anno, secondo notizie di stampa, le impiccagioni sono state 52. I tre impiccati per violenza carnale si chiamavano Qavam Atakesh - Zadeh, Mostafa Karimi - Khanegha e Reza Dehghan. Essi sono stati riconosciuti colpevoli di avere violentato un ragazzo tre anni fa dopo averlo rapito. Iraq: scoperta un’altra “prigione degli orrori” 9Colonne, 24 gennaio 2011 Ancora detenuti vittime di violenze e abusi, costretti a vivere in condizioni miserabili per mesi, senza che gli venga riconosciuto il diritto alla difesa. Succede anche nel “nuovo Iraq”, come spiega oggi il Los Angeles Times, con un reportage che fa luce sui metodi utilizzati dagli uomini della forza speciale di sicurezza, un gruppo d’elite affiliato al primo ministro Nuri Al Maliki. Ma fino ad ora è stato impossibile indagare su quanto avviene nella struttura conosciuta come “Camp Honor”, gestita dalla Brigata Baghdad. Un ex funzionario degli Stati Uniti ed ex parlamentari iracheni che hanno visitato la prigione in passato, l’hanno descritta come un capannone prefabbricato di 36 cellule disseminate di escrementi umani, dove la maggior parte dei detenuti hanno segni evidenti delle percosse subite. Nonostante le truppe irachene specializzate nell’anti - terrorismo lavorino a stretto contatto con le forze speciali Usa, fonti diplomatiche affermano che questi corpi rispondono solo all’ufficio del primo ministro. In un dispaccio dello scorso anno dell’ambasciata americana nella capitale irachena si legge infatti che la Brigata Baghdad è stata “coinvolta nel sequestro di importanti esponenti politici, nonché di altri iracheni che hanno nulla a che fare con il terrorismo o le attività degli insorti”. Giappone: una vita da condannato a morte… da 42 anni attende il boia di Luciano Gulli Il Giornale, 24 gennaio 2011 Qualsiasi sia la colpa commessa da Iwao Hakamada - ma lui dice di essere innocente; e c’è il caso, piuttosto serio, che lo sia - i suoi giudici gliel’hanno già fatta scontare cento volte, impiccandolo a quella forca che gli venne garantita, per così dire, 42 anni fa. Da quel giorno, per come vanno le cose nel civilissimo e molto cerimonioso Giappone, Iwao Hakamada, ex pugile professionista, ha cominciato a impazzire, trasalendo a ogni passo che rimbomba nel corridoio del penitenziario in cui lo gettarono, all’alba del 1968. Una non vita con i pensieri allagati dal terrore, dalla visione orrorifica di un cappio e di una botola che si apre sotto i piedi. “Sono loro, vengono per me...”; “In genere c’è solo una guardia; stamattina invece sento i passi di due persone... eccoli, vengono a prendermi...”. Tutto questo, nel caso dello sventurato Iwao Hakamada, oggi 74enne, per 30 giorni al mese, 365 giorni l’anno, per anni 42. Già, perché nel civilissimo e molto cerimonioso Giappone, l’unica grande democrazia occidentale oltre agli Stati Uniti in cui si pratica ancora la pena di morte, i condannati non sanno quando verranno uccisi. Nel braccio della morte, i reclusi vengono avvisati con una sola ora d’anticipo, al mattino. Non ci sono cerimonie d’addio con i parenti, non ci sono ultimi desideri, né ultime cene, né fesserie cinematografiche tipo ultima sigaretta. Se ci tieni, ti concedono una fermata di qualche minuto davanti a un altare buddista, prima di procedere verso la botola... Ristretti in celle singole, impediti di comunicare con altri reclusi, chiusi in una cella di cinque metri quadrati scarsi, a parte i 45 minuti d’”aria”, ciascuno è libero di torturarsi psicologicamente con calma. Con molta calma. Anche i familiari più stretti dei condannati, nonché i loro avvocati, vengono informati dell’esecuzione a cose fatte. “È per evitare che il condannato provi turbamento”, si giustificano i civilissimi e molto cerimoniosi funzionari del Ministero della Giustizia. Quando, all’inizio degli anni Ottanta, impiccarono il suo vicino di cella, Iwao Hakamada cominciò a dare i numeri. “Io non ho sorelle”, cominciò a dire al direttore del carcere rifiutandosi di vedere sua sorella Hideko, che non ha mai smesso, una volta al mese, di andare in pellegrinaggio al carcere di Tokio. Ultimamente gli hanno sentito esclamare: “Sto costruendo un castello”. “Mi rallegro. Magari riesci a finirlo in tempo...” gli ha mandato a dire Hideko, mandandogli idealmente una carezza. Iwao Hakamada è accusato di aver ucciso nel1966 il direttore di una fabbrica di miso (un condimento a base di soia molto diffuso nella cucina orientale) la moglie e i due figli della coppia. E di aver poi dato alle fiamme l’azienda dove era stato commesso il quadruplice omicidio nel tentativo di cancellare le tracce. Hakamada sembrava avere le carte in regola per fare il capro espiatorio. E la polizia si mise al lavoro. Saltò fuori un pantalone con alcune minuscole macchie di sangue e di benzina... Ma il fatto che non fosse della sua taglia non bastò a discolparlo. Duecentosettantasette ore durò l’interrogatorio dell’imputato: una media di 10 ore al giorno, senza bere, e senza potersi recare in bagno. Alla fine, quando gli dissero “firma”, Iwao pensò che l’incubo fosse finito. Sbagliato. Quella che gli avevano dato da firmare era una confessione. “Come abbiano fatto i miei colleghi a farsi abbagliare da quelle sedicenti prove ancora non capisco”, ha scritto recentemente, in un suo libro, uno dei tre giudici che firmarono la condanna a morte. Norimichi Kumamoto, si chiama quest’ultimo. Giudice oggi in pensione. “Il presidente della Corte disse: è colpevole. E tanto bastò. A me chiesero solo di redigere la sentenza. In calce, io scrissi che non ero d’accordo. Ma mi obbligarono a firmare. Due contro uno, e fu la condanna a morte”. Amnesty International ha chiesto la revisione del processo. Ma dicono che a Iwao Hakamada la cosa non interessi. Sono 42 anni che aspetta quei passi nel corridoio. Non c’è nessuno, in tutto il mondo, che si sia fatto tutto questo tempo in un braccio della morte. Lui chiede solo che le guardie arrivino, e che l’incubo sia finito. Stati Uniti: Amnesty; trattamento inumano per accusato di collaborazione con Wikileaks Ansa, 24 gennaio 2011 Amnesty International ha sollecitato le autorità statunitensi ad alleviare le dure condizioni di detenzione preventiva cui è sottoposto Bradley Manning, il soldato accusato di aver trasmesso informazioni a Wikileaks. Manning, 23 anni, è stato arrestato nel maggio 2010 e accusato di “trasferimento di informazioni riservate” e “diffusione di informazioni sulla difesa nazionale a una fonte non autorizzata”. Un mese prima, Wikileaks aveva diffuso immagini relative a un attacco Usa con elicotteri Apache, che aveva ucciso due dipendenti della Reuters in Iraq nel 2007. Dal luglio 2010, Manning è detenuto in una cella d’isolamento 23 ore su 24, privato di cuscini, lenzuola ed effetti personali. Rischia fino a 52 anni di carcere. La settimana scorsa, Amnesty International ha scritto al segretario alla Difesa Usa, Robert Gates, chiedendo una revisione delle restrizioni cui Manning è sottoposto. Secondo Susan Lee, direttrice del programma Americhe dell’organizzazione per i diritti umani, “le condizioni di detenzione di Manning sono inutilmente severe e si configurano come trattamento inumano. Manning non è stato condannato per alcun reato, ma le autorità militari statunitensi paiono usare ogni mezzo a loro disposizione per punirlo durante la detenzione. Questo contravviene al principio d’innocenza, che gli Usa sono tenuti a rispettare”.