Giustizia: 3 detenuti suicidi in meno di 24 ore; nelle carceri di Sulmona, Prato e Caltagirone Ristretti Orizzonti, 21 gennaio 2011 20 gennaio - Caltagirone (Ct). Si è suicidato in carcere, a Caltagirone, dopo aver tentato di uccidere la convivente romena di 35 anni. Per Salvatore Camelia di 39 anni, non c'è stato nulla da fare: l'uomo si è tolto la vita in una cella della Casa circondariale di contrada Noce, impiccandosi, con un lenzuolo, alla grata della finestra. Inutili i primi soccorsi degli agenti dell'istituto penitenziario e i successivi interventi di rianimazione di Camelia, il cui corpo è giunto privo di vita all'ospedale “Gravina” di Caltagirone. Si è conclusa così, con un tragico epilogo, la vicenda iniziata con il tentato omicidio della straniera per l'indomita gelosia di Camelia e il successivo arresto dell'aggressore. Secondo le prime ricostruzioni dei carabinieri di Mineo, che avevano eseguito il provvedimento restrittivo, l'uomo aveva aggredito e ferito la vittima con un coltello. Dopo l'arresto, Camelia era stato accompagnato nel carcere calatino. L'accusato sarebbe stato interrogato dalla competente autorità giudiziaria, che gli avrebbe contestato i reati di tentato omicidio e lesioni. La sua morte improvvisa, alla quale seguiranno i necessari accertamenti di medicina legale, potrebbe accreditare la “pista” dell'iniziale movente passionale del tentato omicidio. 20 gennaio - Prato. Antonino Montalto, detenuto 22enne di origini siciliane si impicca in cella. In questo momento non abbiamo altri particolari sulla vicenda. 19 gennaio - Sulmona (Aq). Un detenuto egiziano di 66 anni, Mahmoud Tawfic, proveniente dalla libertà vigilata e tornato in carcere da due mesi, si è suicidato nel carcere di Sulmona. Il detenuto era affetto da tempo da una forte depressione che aveva minato il suo equilibrio psichico. Furti, rapine ed estorsioni che l’avevano costretto trascorrere molti anni dietro le sbarre. Ad agosto aveva ottenuto la libertà dopo aver finito di scontare la sua pena. Ma la lunga detenzione gli aveva procurato forti contraccolpi a livello psichico. Uscito dal carcere, ha cercato di rifarsi una vita trasferendosi a Roma ma nella capitale si sarebbe macchiato di nuovi reati tanto che lo scorso mese di dicembre è tornato nel carcere di Sulmona, questa volta da internato. Infatti, proprio in seguito al comportamento assunto una volta uscito dal carcere, il giudice lo ha ritenuto socialmente pericoloso, condannandolo all’ulteriore pena della Casa di Lavoro. Giustizia: il dramma delle pene accessorie… l’ex detenuto diventato ex cittadino di Paolo Persichetti Liberazione, 21 gennaio 2011 Si può morire di carcere pur avendo scontato per intero la propria condanna? Si che si può. Mahmoud Tawfic, egiziano di 66 anni, si è suicidato nella tarda serata di mercoledì nella sua cella del “reparto internati” del carcere di Sulmona, tristemente noto alle cronache per la lunga scia di suicidi e morti avvenute all’interno delle sue mura. Il reparto internati non è un carcere, o meglio, non dovrebbe esserlo anche se di fatto lo è, per giunta nella sua condizione peggiore. In Casa lavoro finiscono quegli ex detenuti che una volta terminata di scontare la pena devono sottostare ad una delle tante “pene accessorie”, così vengono definite dal nostro codice penale ereditato dal sistema delle sanzioni congeniato dal regime mussoliniano. La pena accessoria è una sanzione supplementare che segue quella penale e decreta la morte civile dell’ex detenuto, che si trasforma così in ex cittadino. Ve ne sono di tipi diversi: la libertà vigilata e la sorveglianza speciale, che comportano pesanti limitazioni alla libertà personale e restrizioni di natura civile e amministrativa. Per esempio: il divieto di avere la patente di guida, l’obbligo di dimora, il divieto di frequentare luoghi ritenuti equivoci dalle forze di polizia o persone pregiudicate, il divieto di uscita nelle ore notturne, eccetera. La peggiore di tutti però è la Casa lavoro perché si viene nuovamente rinchiusi in strutture carcerarie, anche se non si è più “detenuti” ma “internati” ad indicare uno status di restrizione non più penale ma amministrativo. Uno status sempre più ambiguo perché ormai è la magistratura di sorveglianza che gestisce queste situazioni. La Casa lavoro nel gergo carcerario viene chiamata “ergastolo bianco”. Perché si sa quando si entra ma non quando si esce. La decisione finale è legata alla cessata pericolosità sociale decretata dal magistrato di sorveglianza sulla scorta dei rapporti di polizia e delle relazioni trattamentali. In Casa lavoro, contrariamente a quanto indica il nome, non si lavora affatto. Si sta chiusi e basta, peggio che in carcere. Teoricamente si dovrebbe lavorare per forza, perché il lavoro, si sa, “riabilita e redime”. Ma nelle Case lavoro di oggi si schiatta e basta. A Sulmona ci sono 200 internati per 75 posti. Brande a castello in celle di appena 9 metri. E poi niente, senza nemmeno un fine pena da attendere. La permanenza può durare mesi oppure anni. Dipende da tanti fattori che l’internato non conosce. Se sei straniero, come Mahmoud Tawfic, e sei pure anziano, e magari la Casa lavoro ti è piombata addosso dopo che eri stato scarcerato e avevi riassaporato la libertà, rischi di finire in depressione. Come sembra si avvenuto a Tawfic, tornato in cella lo scorso dicembre dopo essere uscito dal carcere nell’agosto del 2010 al termine di una lunga pena. Pare avesse tentato di rifarsi una vita a Roma. Pochi mesi e le cose sono andate male. Decretato pericoloso socialmente si è ritrovato internato e così ha deciso di farla finita. Per fuggire l’inferno ha legato un lenzuolo alla grata e si è appeso. Erano quasi le 20 quando i suoi compagni hanno lanciato l’allarme. I tentativi di rianimarlo sono stati vani. La procura ha disposto per oggi l’esame autoptico per accertare la cause della morte. Nel corso del 2010 si sono uccisi tre internati: il 7 gennaio è stata la volta di Antonio Tammaro di 28 anni; il 3 aprile è toccato a Romano Iaria di 54 anni. Raffaele Panariello di 31 anni si è tolto la vita il 24 agosto. Un quarto, Domenico Cardarelli, di 39 anni, si è spento per “cause naturali”; l’8 aprile. In altre 14 situazioni vi sono stati dei tentativi di suicidio da parte di internati, sventati dall’intervento della polizia penitenziaria. Complessivamente nel 2011 sono già morte, per suicidio o infarto, 9 persone detenute. In tutto il 2010 ci sono stati 66 suicidi, 1.134 tentati suicidi, 5.603 atti di autolesionismo. Il carcere della morte continua. Giustizia: Alfano; su detenzione e recupero sociale serve cooperazione dell’Ue Ansa, 21 gennaio 2011 “Serve una fattiva cooperazione europea in materia di detenzione, soprattutto nel campo del recupero sociale dei reclusi”. L’auspicio è stato espresso dal ministro della Giustizia Angelino Alfano, che nel suo intervento alla riunione informale Gai a Budapest, si è soffermato anche sui diritti degli indagati, la protezione dei soggetti vulnerabili e l’assistenza alle vittime, ‘punti essenziali nella costruzione dello spazio di Giustizia europeo, per i quali è necessario agire con una forte presenza dell’Italia nelle istituzioni Ue”. “In quest’ottica rientra anche la tutela dei diritti dei detenuti e il loro reinserimento sociale, aspetti tenuti in debito conto nel nostro Paese” ha aggiunto il Guardasigilli, che proprio per questo auspica una concreta cooperazione europea in materia di detenzione, “come tra l’altro già recepito nel programma di Stoccolma”. “La linea vincente - ha concluso il ministro Alfano - è, quindi, una sinergia equilibrata che agevoli lo scambio delle best practices europee nel settore della detenzione, della reintegrazione sociale dei detenuti e della riduzione della recidiva”. Giustizia: Alfano; il piano di edilizia penitenziaria sarà completato entro il 2012 Redattore Sociale, 21 gennaio 2011 Videomessaggio del ministro della Giustizia inviato in occasione del convegno nazionale del Sappe. Il ministro: “Governato il sovraffollamento grazie alla polizia penitenziaria. Ricambieremo investendo in formazione e assumendo, entro il 2011, 1.800 nuovi agenti. “Se siamo riusciti a governare la più grave situazione di sovraffollamento carcerario della storia del paese è stato grazie ai sacrifici degli agenti di polizia penitenziaria”. Lo ha detto il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, in un videomessaggio inviato in occasione del convegno nazionale del Sappe-sindacato autonomo di polizia penitenziaria, in corso a Milano. “Vogliamo ricambiare questi sforzi e lo faremo investendo in formazione e assumendo, entro il 2011, 1800 nuovi agenti” ha dichiarato Alfano, aggiungendo che quello annunciato “sarà il più grande blocco di assunzioni da quando esiste il Sindacato di polizia”. “Entro il 2012, poi, verrà completato il piano straordinario di edilizia penitenziaria, che servirà a rendere più capienti gli istituti e più civile la detenzione - ha proseguito il ministro, che tra le decisioni poste in essere per arginare il problema del sovraffollamento ha ricordato che - il Governo ha di recente recepito un accordo quadro europeo (del 27 novembre 2008, ndr) che non rende più necessario il consenso del detenuto per essere trasferito nel suo paese d’origine” Giustizia: Sappe; rassicurazioni da Alfano, a giugno ruspe al lavoro per nuove carceri Redattore Sociale, 21 gennaio 2011 Aperto a Milano il convegno nazionale del Sappe. Pagano (Dap Lombardia). “A San Vittore il 40% dei detenuti entra ed esce nel giro di sette giorni. Ci vorrebbero istituti leggeri per questo tipo di reclusi”. Aperto da pochi minuti a Milano il convegno nazionale del Sappe, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria dal titolo “Professione poliziotto penitenziario: il trattamento è sicurezza”. Poco prima dell’inizio dei lavori, il segretario generale del Sappe, Donato Capece, ha dichiarato: “Ieri il ministro Alfano mi ha assicurato che a giugno partiranno le ruspe per la costruzione di nuove carceri: entro fine 2012 ci saranno 2.200 posti in più. Questo è l’impegno politico del ministro” per arginare il problema del sovraffollamento, che colpisce anche le carceri lombarde, in particolare San Vittore a Milano e Canton Mombello a Brescia. In questi due istituti “la situazione è più grave perché sono strutture vecchie - dice a margine Luigi Pagano, provveditore del Dap Lombardia, che in merito alla proposta del Sappe di creare un carcere invisibile sul territorio (vedi lancio nel notiziario di ieri, ndr) - commenta: a San Vittore il 40% dei detenuti entra ed esce nel giro di sette giorni. Ci vorrebbero istituti leggeri per questo tipo di reclusi, pensando a un sistema penitenziario differenziato”. In attesa della ristrutturazione del sistema carcerario e delle promesse nuove carceri, Pagano traccia un primo bilancio della cosiddetta legge svuota-carceri, entrata in vigore a metà dicembre: “In Lombardia sono usciti 51 detenuti - dice il provveditore: altre centinaia di domande sono in giacenza presso gli uffici dei magistrati di sorveglianza”. Intanto, il sovraffollamento è pesante: “In regione ci sono circa 9.350 detenuti, qualche migliaio in più rispetto alla capienza regolamentare - aggiunge Pagano -. Nel 2011 apriremo tre nuovi padiglioni a Crema, Pavia e Voghera, per un totale di 600 posti in più e avviare la ristrutturazione di due padiglioni a San Vittore, attualmente chiusi”. Giustizia: restituire il voto ai detenuti; la Corte di Strasburgo bacchetta l’Italia di Patrizio Gonnella www.linkontro.info, 21 gennaio 2011 Negare il diritto di voto a chi è stato penalmente condannato costituisce una violazione dei diritti umani. Lo scorso martedì la Corte europea ha intimato all’Italia di rivedere la propria legislazione in materia di diritto di voto alle persone detenute. Il caso è quello di Franco Scoppola, classe 1940, condannato all’ergastolo per avere ucciso la moglie. L’articolo 28 del codice penale prevede che chiunque sia condannato a pene superiori a cinque anni incorra nella pena accessoria della interdizione dei pubblici uffici, la quale lo priva la persona condannata del diritto di elettorato o di eleggibilità nonché di ogni altro diritto politico. Il successivo articolo 29 prevede che la condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a tre anni includa l’interdizione dai pubblici uffici - e la conseguente perdita del diritto di votare - per la durata di anni cinque. Secondo i giudici di Strasburgo - che hanno ripreso una giurisprudenza consolidata formatasi in una lunga diatriba con il governo inglese - le norme italiane confliggono con l’articolo 3 del protocollo numero 1 della Convenzione europea del 1950 che sancisce il diritto universale di partecipare a libere elezioni. La Grande Camera, che ha preso questa decisione storica, era presieduta da Françoise Tulkens (belga). Nel collegio c’era anche l’italiano Vladimiro Zagrebelsky. Secondo la Corte negare il diritto di voto durante la detenzione o dopo la fine della pena costituisce “un’automatica e indiscriminata restrizione di un diritto di vitale importanza sancito dalla Convenzione europea”. Non è stato previsto un risarcimento economico a favore del ricorrente in quanto si è ritenuto già di grande impatto l’indicazione rivolta alle autorità italiane di modificare la legge. Nel 2004 la Corte aveva iniziato un lungo braccio di ferro con l’Inghilterra. La Corte di Strasburgo affermò che non ci potessero essere ragioni di sicurezza per vietare il diritto di voto. Il divieto legittima una funzione retributiva e vendicativa della pena. La Corte richiamò l’articolo 10 del Patto sui diritti civili e politici delle Nazioni Unite del 196 secondo cui “il regime penitenziario deve comportare un trattamento dei detenuti che abbia per fine essenziale la loro rieducazione e la loro riabilitazione sociale”. La partecipazione alla vita politica è uno dei cardini del reinserimento sociale di un detenuto. Precedentemente la Corte suprema canadese nella decisione Sauvé v the Attorney General of Canada, aveva affermato “l’incostituzionalità di una disposizione che privava del diritto di voto ogni persona detenuta in quanto il diritto di voto è fondamentale per la democrazia”. Per quanto riguarda il governo inglese, la nuova maggioranza conservatrice guidata da David Cameron ha annunciato a fine 2010 - dopo sei anni di guerra giudiziaria con Strasburgo - che malgrado la propria contrarietà, consentirà ai detenuti condannati a una pena inferiore ai quattro anni di votare alle elezioni politiche e europee modificando la legge in vigore risalente al 1870. Sono pochi e solo dell’est i paesi europei che vietano il voto ai detenuti. In Italia ora si dovrà aprire un dibattito politico e legislativo per evitare il contenzioso con Strasburgo. Si può ragionevolmente ritenere che se ha ceduto l’Inghilterra cederà anche l’Italia. D’altronde nell’ultima bozza di riforma del codice penale la Commissione presieduta da Giuliano Pisapia aveva proposto il superamento delle pene accessorie. Lo stesso Pisapia, nella sua veste precedente di deputato, aveva presentato proposte di riforma del codice penale al fine di assicurare il diritto di voto a chiunque fosse in stato di detenzione. In Italia, infine, stenta a essere poco assicurato nella pratica il diritto di voto a quei detenuti in custodia cautelare o condannati a pene brevi ai quali invece spetterebbe formalmente. Alle ultime politiche sono stati 1.368 i detenuti che hanno votato sui circa 17 mila aventi diritto, ossia meno del 10%. Il maggior numero di votanti fu registrato nelle carceri del Lazio: 353 (250 nelle quattro strutture della Capitale); seguirono Lombardia 172; Triveneto 127; Campania 108; Sardegna 107; Piemonte - Valle d’Aosta 86; Sicilia 76; Toscana 76; Calabria 64; Emilia Romagna 59; Puglia 38; Marche 33; Liguria 24; Abruzzo e Molise 23; Umbria18; Basilicata 4. La procedura è complicata e sconosciuta ai detenuti i quali devono presentare, entro il terzo giorno precedente la votazione, al sindaco del Comune nelle cui liste elettorali sono iscritti, una dichiarazione della propria volontà di esprimere il voto nel luogo in cui si trovano, con in calce l’attestazione del direttore del carcere comprovante la detenzione. Solo così può ottenere l’iscrizione in un apposito elenco speciale e ricevere la tessera elettorale. Il diritto in questo modo viene negato dalla burocrazia e non dalle leggi. Giustizia: Livio Ferrari; il sistema penitenziario ha fallito, è tempo di cambiare Redattore Sociale, 21 gennaio 2011 “Di giustizia e non di vendetta. L’incontro con esistente carcerate” è il nuovo libro di Livio Ferrari, garante dei detenuti di Rovigo ed esperto di problematiche penitenziarie, che racconta frammenti di vite ristrette, tocca nervi scoperti e lancia proposte. È una dura critica al sistema carcerario italiano definito “fallimentare” quella lanciata da Livio Ferrari, garante dei detenuti di Rovigo e una vita dedicata al volontariato carcerario, che ha dato alle stampe il suo secondo libro. Dopo “In carcere, scomodi”, ecco “Di giustizia e non di vendetta. L’incontro con esistenze carcerate” (edizioni Gruppo Abele): un libro per raccontare l’incontro a tutto tondo con la persona detenuta, per denunciare un sistema che “non considera persone i ristretti” e per lanciare delle proposte concrete. Ferrari, dopo un libro sul volontariato di giustizia ora una pubblicazione di respiro un pò più ampio… È un libro più complesso. Tocca anche la questione del volontariato, il suo ruolo sedativo, le sue contraddizioni ma anche la sua importanza. Parla delle storie di tante persone che ho incontrato, persone che ce l’hanno fatta, che hanno fallito, che ancora stanno camminando senza aver trovato una soluzione a tutto. Il libro offre delle riflessioni anche sul futuro di questa società e alla fine - avendo io un’idea abbastanza precisa del fallimento di questo sistema dal punto di vista giudiziario e, soprattutto, dell’esecuzione penale - lancia anche delle proposte. Proposte di che tipo? Una, ad esempio, per gli stranieri autori di reato. In questo momento noi li penalizziamo doppiamente: con la legge Bossi-Fini e con l’espulsione alla fine della pena. Molti di loro hanno già un percorso lungo nel nostro paese, hanno cementato dei rapporti, degli affetti, hanno una famiglia e dei figli e sono incappati in un errore di percorso, come molti italiani. Eppure, nonostante loro percorrano tutto quanto prevede l’ordinamento giudiziario, alla fine non hanno gli stessi benefici. Invece un’occasione nuova spetta anche a loro. La giustizia è un tema di grande attualità di questi tempi, se ne discute molto… Purtroppo se ne discute e basta. Il dramma è che non ci si muove dagli slogan, dalle ipotesi e purtroppo ogni giorno aumentano i morti, i suicidi e soprattutto di ragazzi giovani. Questo lascia esterrefatti perché quando succede che ventenni con davanti pochi mesi o un anno di carcere si tolgono la vita, uno è costretto a chiedersi cosa non funziona, non soltanto per quanto riguarda la pena comminata, ma anche l’esecuzione penale e le persone che in questo momento lavorano negli istituti penitenziari. Questi ultimi, sotto organico, sono un po’ alla frutta dal punto di vista della loro capacità umana di far fronte a una situazione di emergenza di questo tipo. Continuare così significa far saltare dal punto di vista psico-fisico anche le persone che lavorano nel carcere. A regioni e Ulss non frega niente dei detenuti Livio Ferrari, autore del libro “Di Giustizia e non di vendetta”, evidenzia le falle del sistema penitenziario e accusa: “Terribile il passaggio di competenze a regioni e Ulss”. E sull’accesso all’assistenza sociale mette in luce una magagna tutta veneta. Mentre nelle carceri italiane si continua a morire e ad ammalarsi, il garante dei detenuti di Rovigo Livio Ferrari (in edicola con il secondo libro “Di Giustizia e non di vendetta”, ed. Gruppo Abele) accusa: “Della salute dei detenuti non frega niente a nessuno”. E sul fronte dell’assistenza sociale avverte che le cose non vanno meglio, mettendo in luce una magagna tutta veneta. “Il passaggio della sanità del carcere dal ministero alle Ulss si è rivelato terribile - commenta. Il ministero almeno dava ausili, medicine e quant’altro anche con tutte le limitazioni che aveva. Invece adesso non si dà più niente. Le regioni e le Asl hanno tagliato tutto e continuano a tagliare. Non gliene frega assolutamente niente, questo va detto con forza: non è che non ce la fanno, non sono per niente interessati a coloro che sono in carcere”. Ferrari annuncia poi di aver riscontrato un meccanismo “inverosimile” che ostacola l’accesso dei detenuti all’assistenza sociale. “In qualità di garante ho inviato una lettera al Dap perché sto assistendo a una cosa assurda - spiega: in tutta Italia il cittadino che viene arrestato e perde la residenza nel luogo di origine, in base al Dpr dell’89 sull’anagrafe, ha diritto alla residenza nel luogo in cui sconta la pena, potendo dunque accedere all’assistenza sociale di quel comune. In Veneto, invece, la regione ha inviato una lettera ai comuni dicendo che questo non vale più: vale sì il Dpr, ma vale anche un articolo abrogativo secondo cui per quanto riguarda l’assistenza sociale tutto questo non è obbligatorio”. È dura l’accusa di Ferrari: “Nel Veneto leghista i cittadini in carcere non sono più cittadini come gli altri, italiani o stranieri che siano, ma sono cittadini di un altro pianeta”. Da un punto di vista pratico, in questa situazione i detenuti devono riuscire a recuperare l’ultimo domicilio per accedere all’assistenza e se, per caso, neanche lì sono riconosciuti devono risalire al comune di nascita. “Ciò ci fa capire quanto in basso siamo caduti a livello di diritti di queste persone che vengono sempre più dimenticate”. Giustizia: il reinserimento sociale degli ex detenuti? ci pensa lo spirito santo… di Sonia Orances Venerdì di Repubblica, 21 gennaio 2011 In Sicilia, un’agenzia riconducibile a un movimento religioso ha avuto dal governo quasi cinque milioni per aiutare chi esce dal carcere a trovare un lavoro. Ma c’è chi contesta la scelta. Il nuovo corso del reinserimento sociale dei detenuti passa dalla preghiera. E dai soldi pubblici della Cassa delle ammende, che raccoglie le multe comminate a seguito di una sentenza di condanna. Un fondo che dovrebbe essere speso per i detenuti e le loro famiglie. Un tesoretto, che si aggira intorno ai 150 milioni di euro, ma che nessuno è mai riuscito a spendere, tanto da finire al centro, ogni anno (pure nel 2010), dei rilievi della Corte dei conti. All’epoca di Roberto Castelli mancava un regolamento, con Mastella fu elaborato un piano che non andò mai in porto. Con Angelino Alfano, nuove norme hanno di fatto scippato un bel po’ delle somme disponibili per dirottarle sull’edilizia penitenziaria. Solo quel che è rimasto è stato investito per le finalità originarie del fondo: poco più di 17 milioni di euro per venti progetti che hanno come capofila il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Quasi la metà della somma è andata a due soli progetti, entrambi nella Sicilia di Alfano. E il finanziamento più corposo è stato per l’Agenzia nazionale reinserimento al lavoro (Anrel), promossa dalla Fondazione “Monsignor Francesco di Vincenzo”, di Enna, finanziata con 4.804.000 euro e gestita dal Movimento del rinnovamento nello Spirito santo. Un soggetto che, sulla carta, prevede - tra l’altro - una banca dati con seimila soggetti, l’orientamento per 1500, l’avviamento al lavoro dipendente di altre 4.550, all’impresa di ulteriori 150 e in forma cooperativistica di 1.100. Di fatto, però, l’ultimo rapporto della onlus Antigone, attiva nelle carceri da tempo, definisce Anrel sconosciuta in ambito penitenziario: “Ad oggi ha al proprio attivo l’inserimento di soli dodici detenuti”. Il Movimento di rinnovamento dello spirito (che è radicato nelle parrocchie e si proclama molto vicino al Vaticano di Benedetto XVI) aveva già avviato un progetto finanziato dalla Curia e realizzato in terreni confiscati alla mafia e gestiti dalla Fondazione Don Sturzo. Per accedere ai fondi della Cassa, il Movimento cattolico ha fatto ricorso alla Fondazione di Vincenzo (entrambe le organizzazioni sono presiedute dall’ennese Salvatore Martinez), attorno alla quale si sono riuniti partner come il Comitato nazionale per il Microcredito guidato dall’onorevole pdl Mario Baccini, l’Agenzia per i beni confiscati, Caritas, Coldiretti, Acli e Prison Fellowship Italia. Quest’ultima sigla è la neonata costola italiana (al cui vertice c’è Marcella Reni, già direttrice del Movimento per il rinnovamento) dell’omonima associazione statunitense fondata da Charles W. Col-son, consigliere speciale di Richard Nixon, fulminato dalla fede evangelica dopo aver sperimentato il carcere con il Watergate, tanto da dedicarsi alla “redenzione dei detenuti vittime del peccato”, la cui riabilitazione può avvenire “solo attraverso la fede”, diventando uno dei riferimenti dei teocon dell’era di Gorge W. Bush. “Le pedagogie educative e rieducative di rinnovamento spirituale dell’umano... sono la missione carismatica che la Pf Italia si prefigge di realizzare” ha spiegato Martinez, battezzando la nascita dell’organizzazione. Che, però, risulta finanziata dallo Stato come un’agenzia per trovare lavoro ai detenuti. E che, come gli altri progetti finanziati, non è mai stata soggetta a un bando di gara. Giustizia: sotto processo per truffa Giuseppe Magni, il leghista di ferro che gestiva le carceri Il Giorno, 21 gennaio 2011 Per quattro anni - dal 2001 al 2005 - è stato consulente del Ministero di Giustizia e soprattutto uomo di fiducia dell’allora Guardasigilli, il lecchese Roberto Castelli. Leghista purosangue sin dalla fine degli anni Ottanta, imprenditore - prima aveva una delle tante trafilerie del territorio, poi ha chiuso e si è buttato nella commercializzazione di prodotti ittici - Giuseppe Magni è stato pure sindaco di Calco per due mandati. Si era candidato per un terzo mandato anche nelle ultime consultazioni, nella primavera scorsa, ma era stato battuto da Gilberto Fumagalli che peraltro gli era succeduto sulla poltrona più alta del Comune lecchese. È un politico navigato, Magni. Sul territorio è conosciuto da anni e ha fama di “duro”, che quell’aria da pistolero del west - sigaretta (quasi) perennemente in bocca e sguardo alla Clint Eastwood - contribuiscono a rafforzare. Era lui il braccio destro del ministro Castelli che, ha ricordato lo stesso Guardasigilli, veniva incaricato di seguire la situazione dei carceri italiani. Così il suo difensore, l’avvocato di Lecco Vito Zotti, ha commentato le dichiarazioni dell’ex ministro chiamato a deporre davanti al collegio giudicante. “Il mio è un giudizio positivo - ha spiegato il legale -. Abbiamo avuto conferma da parte dell’ex ministro Castelli della correttezza del comportamento di Magni nel momento in cui collaborava con il Ministero”. “Castelli ha ricordato Magni come uomo di sua fiducia e lo ha definito uomo pratico, in quanto imprenditore e quindi uomo su cui si poteva contare perché molto operativo”, ha aggiunto il legale lecchese. L’ex ministro ha pure ricordato che Magni era stato nominato pure segretario della “Dike Aedifica, la Spa creata per agevolare le pratiche burocratiche relative a nuovi carceri e alla ristrutturazione dei vecchi. “Castelli ha confermato che la Dike Aedifica non ha mai operato perché la Patrimonio Spa, che avrebbe dovuto vendere immobili di proprietà dello Stato - ha aggiunto lo stesso Zotti - non ha mai avuto la liquidità proprio perché non si era riusciti a vendere beni demaniali. Quindi, da avvocato difensore di Magni, aggiungo che mi sembra difficile che Magni potesse utilizzare del soldi che non c’erano”. Infine Zotti ha ricordato anche che “nella sua testimonianza Castelli ha confermato che in occasione di certi pranzi a cui aveva partecipato Colombo era noto per ingigantire un po’ le cose. Di sicuro utilizzerò la deposizione in sede dibattimentale”. Castelli: mai saputo di tangenti, avevo fiducia in Magni “Ho conosciuto Giuseppe Magni alla fine degli anni Ottanta, credo. Lui faceva parte della Giunta dell’Api e poi è diventato membro del partito”. Con queste parole è cominciata la deposizione di Roberto Castelli. L’ex ministro della Giustizia e ora viceministro delle Infrastrutture è stato chiamato a deporre nel processo a carico dell’imprenditore lecchese Pietro Colombo, accusato insieme ad altri quattro imputati di truffa. Secondo l’accusa Colombo avrebbe ricevuto fondi dell’Unione europea per 2 milioni di euro per le aree depresse mentre in realtà li avrebbe utilizzati per altre attività. Nelle intercettazioni però Colombo, già finito nei guai per la vicenda delle aste truccate al tribunale di Lecco (operazione “Cappio”), tira in ballo Giuseppe Magni, ex sindaco di Calco e all’epoca dei fatti segretario dell’allora ministro della Giustizia (dal 2001 al 2005). “Magni era un consulente che faceva da raccordo tra i funzionari del ministero e godeva della mia massima fiducia - ha detto Castelli in aula. In quel periodo c’era necessità di costruire nuove carceri e riammodernare le esistenti”. Il sostituto procuratore Rosa Valotta ha quindi chiesto all’ex Guardasigilli se avesse conosciuto anche Pietro Colombo. “Lo incontravo spesso al ristorante Il Pesce d’oro”, è stata la risposta. Ancora l’accusa: “Che rapporti intercorrevano tra il Magni e il Colombo?”. “Le posso solo dire - ha continuato Castelli - che Lecco è una piccola comunità e ci si conosce un po’ tutti. Non so però che tipo di rapporto intercorresse tra i due”. A questo punto, dopo aver delineato un quadro d’insieme, il pm è entrato nello specifico dei fatti in oggetto chiedendo all’ex ministro di raccontarli. “Alle fine di marzo 2005 - ha detto Castelli - mio suocero mi telefonò dicendomi che Colombo andava in giro a dire che Magni gli aveva chiesto soldi come contropartita per un aiuto. Così ho organizzato un incontro con Cesare Dolli, amico e vicino di casa, al ristorante “La Sosta” di Brivio. Cosa successe? Che Colombo mi disse che stava costruendo uno stabilimento in Sardegna con i contributi della Comunità europea e che si era rivolto a Magni per velocizzare la pratica. Aggiunse che Magni gli aveva risposto: “Normalmente noi chiediamo il 10% ma a te che sei un amico facciamo il 6%”. A questo punto ho denunciato la cosa, essendo io un ufficiale giudiziario”. Castelli ha pure ricordato poi che Magni era stato nominato segretario della Dike Aedifica, la Spa partecipata dallo Stato nata per velocizzare la procedura degli appalti carcerari. “La collaborazione col Magni si interruppe nella primavera 2005. Lui fu coinvolto in un’altra vicenda in cui uno studio legale milanese (Martinez-Novebaci, n.d.r.) cercasse di ottenere vantaggi spacciando il nome mio e di Magni (la cui abitazione era stata nel frattempo perquisita dagli inquirenti, n.d.r.). Siccome quello era un periodo difficile, l’allora Procuratore generale di Milano Blandini mi consigliò di interrompere i rapporti con Magni, Morris Ghezzi e il mio segretario particolare Simonetti”. Giustizia: sul caso Battisti l’Ue scarica l’Italia; non tocca a noi intervenire di Marco Zatterin La Stampa, 21 gennaio 2011 La Commissione Ue tira diritto e ribadisce che “non vi sono margini perché si occupi del caso di Cesare Battisti”. Non le basta la risoluzione con cui l’Europarlamento ha chiesto ieri all’esecutivo comunitario, e al Consiglio che rappresenta i ventisette paesi dell’Unione, di esercitare una pressione politica perché il Brasile consegni il pluricondannato omicida italiano. “L’estradizione è una competenza giudiziaria che riguarda esclusivamente i singoli stati”, ha spiegato il responsabile europeo per l’allargamento, Stefan Fule. “Condividiamo la pena delle vittime - ha assicurato il ceco -, ma non abbiamo facoltà di intervento”. Si è votato alle quattro pomeridiane in un emiciclo semivuoto, come da avviene a fine sessione quando a Strasburgo si arriva al capitolo dei diritti umani. C’era un’ottantina di deputati appena su 736, la metà italiani, un primato per il giovedì che i nostri faranno fatica a battere. Assenti alla conta i dipietristi dell’Idv, sebbene firmatari della mozione; “problemi di volo”, minimizzano al gruppo libdem. Fuori dall’aula i verdi europei, spariti i portoghesi oggetto di lobbying brasiliano sfrenato e i socialisti francesi. I comunisti hanno affidato a Marie-Christine Vergiat il solo voto contrario e attaccare i cugini d’oltralpe. “Non si vedono tanti italiani in genere il giovedì pomeriggio, non hanno l’abitudine di occuparsi di diritti umani”, ha stigmatizzato la francese del Front de gauche, polemizzando anche “sull’alto numero di colpevoli non giudicati nel vostro paese” e riaffermando il principio della non ingerenza nelle questioni bilaterali. L’hanno coperta di fischi, sino all’intervento della vicepresidente Roberta Angelilli (Pdl): “Non accetto lezioni, io ci sono sempre”. E mentre il presidente di turno cercava di ristabilire la calma, la coppia forzista Ronzulh - Matera sventolava le immagini sbiadite dei quattro morti in carico a Battisti e dava all’attimo una pennellata di basso impero. È finita 80 a uno, con due astenuti. Le intemperanze, comprese quelle nel dibattito sull’Iran hanno costretto la presidenza a pregare “i colleghi italiani di fare silenzio ora che il loro tema è finito”, sono un genere che quassù cade presto nella prescrizione della memoria. I messaggi e le emozioni restano, come quelli suscitate dai familiari delle vittime di Battisti che hanno incontrato gli eurodeputati e il presidente dell’assemblea, Buzek. Per Campagna, Sabbadin, Santoro e Torregiani non è stato un viaggio inutile. A casa portano la solidarietà politica di Strasburgo, un colpo in più per continuare la battaglia. Pesa però la posizione di Bruxelles. La Commissione è il guardiano dei Trattati, il che la porta ad affermare che “nel rifiutare l’estradizione il Brasile si muove effettivamente nell’abito dell’accordo con l’Italia”, il quale “consente margini di discrezionalità”. Certo, ha assicurato Fule, “non abbiamo dubbi sul fatto che l’Italia abbia sempre rispettato gli standard giudiziari che tutti si attendono”. È un modo per smontare l’alibi dell’ex presidente Lula, una magra consolazione. E dall’Italia arriva il commento soddisfatto del Guardasigilli Angelino Alfano: “Il voto riconosce sul piano giuridico la piena fondatezza della richiesta di estradizione avanzata dall’Italia”. Giustizia: Franco Corleone; per essere credibile su Battisti, l’Italia deve abolire l’ergastolo di Paolo Persichetti Liberazione, 21 gennaio 2011 Con le mozioni bipartisan votate lunedì in parlamento per riavere Battisti dal Brasile, l’Italia tenta di camuffare lo stato di confusione istituzionale in cui è precipitata dopo le rivelazioni sul sexigate che hanno investito il suo presidente del consiglio. Tuttavia non basterà a ridare lustro alla propria iniziativa diplomatica. La crisi di credibilità è verticale. In nome di quale il governo italiano continua a pretendere l’estradizione, con una ostinazione che rasenta l’aggressione verso la sovranità interna di un altro Paese, se à casa propria non è in grado di garantire l’uguaglianza di fronte alla legge? L’affare Battisti è diventato un argomento di propaganda su cui hanno investito i giustizialisti di destra e di sinistra. La stessa cosa accade in Brasile, dove la destra post-dittatura ne ha fatto un oggetto di revanche. Sullo sfondo sempre più dimenticati restano gli aspetti giuridici dell’intera vicenda. Non a caso. Ogni qualvolta i processi dell’emergenza sono stati esaminati sotto il loro profilo giuridico l’Italia ha sempre perso la partita delle estradizioni contro i militanti condannati per i fatti degli anni 70. Non ci sarà nessun ricorso all’Aja perché il Brasile è contrario. L’Ue ha spiegato alla Farnesina che le estradizioni sono un contenzioso bilaterale. Il trattato commerciale con Brasilia verrà comunque rispettato. In mano al governo di Roma non rimane altro che sperare in un golpe giudiziario che Peluzo e Mendes stanno congegnando. Singolare aspettativa per un centrodestra che non passa giorno senza denunciare in casa propria i complotti della magistratura. Ma indiscrezioni apparse nei giorni scorsi su alcuni media brasiliani fanno sapere che la maggioranza dei giudici del Stf (6 contro 3, mentre due si asterrebbero) non sembra condividere affatto la scelta, tutta personale, presa dal presidente della corte, Peluzo, di voler esaminare a febbraio la conformità della decisione presa da Lula. Peluzo, per altro, è in contraddizione con se Stesso perché quando era relatore, come gli altri 5 giudici che votarono per l’estradizione, aveva condizionato la consegna di Battisti alla commutazione dell’ergastolo. Richiesta che l’Italia si è sempre ben guardata dall’adempiere. E proprio da qui parte il ragionamento di Franco Corleone, già sottosegretario alla Giustizia nel primo governo Prodi e oggi garante dei detenuti per il comune di Firenze. “Si poteva fare qualcosa di più invece che lasciarsi andare a una reazione vittimistica e isterica”. Cosa? Spostare l’asse del dibattito dagli insulti a una riflessione sulla civiltà giuridica. Uno degli ostacoli che hanno impedito l’estradizione è la permanenza dell’ergastolo nel nostro sistema penale. Il fatto che il Brasile non abbia questa pena dimostra l’abisso che c’è tra il Paese definito la culla del diritto e quello considerato terra di selvaggi. In realtà la bilancia è a tutto vantaggio del Brasile. Sono rimasto molto colpito dalle prime reazioni attribuite al presidente della Repubblica che parlavano di sorpresa, delusione, stupore. Perché l’Italia non sarebbe riuscita a farsi capire, come ha detto Napolitano? Forse perché ha cercato di confondere le carte sostenendo che l’obiezione sull’ergastolo era infondata perché non esiste, quando invece è vivo e vegeto. Nel giro di un decennio gli ergastoli sono addirittura raddoppiati in percentuale e numero assoluto. C’è anche la novità dell’ergastolo ostativo che impedisce a gran parte degli ergastolani di accedere alla liberazione condizionale, a meno che non collaborino. La mancata revisione del processo, la mancata commutazione dell’ergastolo, la mancata ratifica del protocollo aggiuntivo contro la tortura. Tutti appuntamenti d mancati che avrebbero fornita un’altra immagine della nostra giustizia. In realtà non si vuole trovare una soluzione, siamo di fronte ad un atteggiamento a somma zero: o tutto o niente. Vogliono Battisti con l’ergastolo e basta, per di più in condizioni tali che renderebbero ostativa qualsiasi misura trattamentale. Non ci sarebbe tribunale di sorveglianza capace di applicargli la Gozzini. In realtà l’Italia non si è fatta capire solo dal Brasile ma da molti altri Paesi. La lista di quelli che hanno negato le estradizioni è lunga. In Italia ci sono detenuti politici in carcere da oltre 30 anni… Affrontare il nodo dell’ergastolo è ormai l’unico modo per chiudere il residuo penale degli anni 70. Napolitano ha una possibilità, quella del messaggio alla camere che è anche la prima prerogativa dell’articolo 87 della costituzione, l’ultima è quella della grazia e della commutazione della pena. Approfittando di un caso ritenuto così straordinario potrebbe spiegare cosa l’Italia può fare per rendersi credibile. Sul tappeto c’è la questione della permanenza dell’ergastolo. L’altro è invitare il parlamento a ratificare il protocollo aggiuntivo della convenzione contro la tortura e nominare una autorità di controllo sulle carceri in un momento in cui c’è una situazione d’emergenza. In attesa di una riforma del sistema delle pene, il presidente potrebbe commutare l’ergastolo di Battisti dimostrando che non saremmo di fronte ad una pena ostativa ma a una sanzione che consente di accedere a un normale percorso trattamentale. Sulmona: il carcere di nuovo nella bufera. Protesta del Sappe “fabbrica della morte” Il Messaggero, 21 gennaio 2011 Nel “carcere dei suicidi” si continua a morire, nonostante gli sforzi della direzione di alleggerire il carico di detenuti, specie nel reparto internati, il più problematico. Lì dove era rinchiuso anche Mahmoud Tawfic, l’ultimo detenuto suicida. Oggi sarà eseguita l’autopsia sul sessantaquattrenne di origine egiziana. Si apre così un altro anno nero per la struttura penitenziaria che, anche lo scorso anno, “inaugurò” a gennaio la stagione dei sucidi in carcere. Sarà eseguita oggi dall’anatomopatologo Ildo Polidoro l’autopsia sul corpo di Mahmoud Tawfic, il sessantaquattrenne di origine egiziana sucida l’altra sera nel carcere di via Lamaccio a Sulmona. Si apre così un altro anno nero per la struttura penitenziaria che, anche lo scorso anno, “inaugurò” a gennaio la stagione dei sucidi in carcere. A quello di Amato Tammaro, ne seguì poi un altro a marzo e poi ancora quattordici tentativi sventati dagli agenti di polizia penitenziaria. Nel carcere dei suicidi si continua a morire, nonostante gli sforzi della direzione di alleggerire il carico di detenuti, specie nel reparto internati, il più problematico, lì dove era rinchiuso anche Mahmoud Tawfic. L’uomo, con precedenti per rapina, estorsione e lesioni, aveva finito di scontare una lunga pena nell’agosto scorso. Aveva tentato di rifarsi una vita a Roma, ma qui non si era adattato. Il giudice di sorveglianza lo aveva così reputato socialmente pericoloso e a dicembre scorso ne aveva disposto la restrizione nuovamente a Sulmona. In carcere la sua depressione si era aggravata: perché nella casa lavoro più grande d’Italia, il lavoro non c’è. Si trascorre il tempo in cella, aspettando l’ora d’aria e un po’ di spazio vitale. L’altra sera, così, Mahmoud Tawfic ha preso il lenzuolo, ne ha fatto un cappio e si è impiccato alla grata della sua cella. Inutile, questa volta, l’intervento dei poliziotti penitenziari che hanno tentato di rianimarlo. Ora sulla vicenda c’è un’inchiesta della magistratura ordinaria con un fascicolo aperto sul tavolo del procuratore Federico de Siervo e una interna al carcere disposta dal direttore Sergio Romice. Ma c’è poco da scoprire: i mali del carcere di via Lamaccio (sovraffollamento, carenza di personale, mancanza di una sufficiente assistenza sanitaria e psichiatrica) sono noti da tempo. L’ultima volta li aveva ricordati il 30 settembre scorso al ministro Angelino Alfano, il responsabile provinciale del Pd per i diritti e le garanzie Giulio Petrilli che aveva invitato il Guardasigilli a fare una visita in via Lamaccio. “Nessuna risposta è pervenuta e nessuna visita - commenta Petrilli - in questo carcere dove tutti gli orologi delle sezioni sono fermi, perché il detenuto deve capire che lì è un cimitero per vivi”. “La via più netta e radicale per eliminare tutti questi disagi sarebbe quella di un ripensamento complessivo della funzione della pena e, al suo interno, del ruolo del carcere, argomento rispetto al quale il primo Sindacato della Polizia Penitenziaria, il Sappe, è da tempo impegnato nonostante la colpevole indifferenza di vasti settori della politica nazionale” è quanto dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. Capece sottolinea che parlerà del dramma delle morti in carcere nel Convegno nazionale a Milano. Cagliari: Caligaris (Sdr); ddl Alfano inutile e dannoso, causa disillusioni tra i detenuti Adnkronos, 21 gennaio 2011 “Tutte le preoccupazioni e le perplessità della vigilia si sono rivelate fondate. Il Ddl svuota carceri per la complessità dei meccanismi d’attuazione sta creando tra i detenuti forti disillusioni con conseguenti crisi di sconforto. Insomma non è solo inutile e difficilmente applicabile ma in diversi casi risulta anche dannoso per gli equilibri degli Istituti penitenziari”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione Socialismo Diritti Riforme, rendendo noti alcuni particolari situazioni verificatesi nella Casa Circondariale di Cagliari. “In queste settimane i volontari dell’associazione - spiega Caligaris - sono costretti a colmare gravi carenze informative e supplire con i colloqui al disappunto e all’amarezza dei detenuti e dei loro familiari. Ciò che emerge è un quadro molto complesso con momenti di tensione che con difficoltà gli educatori e gli Agenti di Polizia Penitenziaria riescono a contenere”. “Da un lato i detenuti che devono finire di scontare la pena di un anno non comprendono perché non vengano mandati agli arresti domiciliari pur avendo a disposizione una casa. Molti - prosegue Caligarsi - considerano una cattiveria da parte dell’amministrazione negare la misura alternativa potendo essere accolti in una comunità religiosa. Altri ancora vivono con ansia l’attesa delle verifiche delle condizioni della casa in cui potranno finire di scontare la pena. Molti extracomunitari e detenuti indigenti sono costretti a restare in carcere perché soli e senza dimora”. “La situazione non è molto diversa - afferma ancora la presidente di Sdr - per i familiari dei detenuti. In molti casi sono in oggettive difficoltà per la presenza di persone anziane e ammalate che non consente di accogliere il detenuto con limitazione della libertà personale. In altri casi i detenuti che potrebbero ottenere i domiciliari hanno gravi problemi di tossicodipendenza o psichiatrici e i familiari sono preoccupati di non poterli accogliere serenamente”. “Il provvedimento insomma incontra serie difficoltà ad essere applicato per i limiti di un sistema sociale che - lamenta Caligaris - non intende rimuovere le difficoltà ma semplicemente ignorarle. Se come tutti affermano il carcere è diventato prevalentemente l’ospizio dei diseredati e dei disperati, qualunque iniziativa per alleggerire le strutture deve prevedere un piano di sostegno socio-ambientale. Persone che sono rimaste per tanto tempo lontane da casa o che hanno creato problemi in famiglia non possono essere assegnate sic et simpliciter ai domiciliari”. “Questo provvedimento aumenta anche il rischio di azioni autolesioniste e di atti di ribellismo pericolosi. Insomma così si riducono di poco, e per poco, i detenuti dentro gli Istituti di Pena ma si aumentano di molto i problemi degli agenti di polizia penitenziaria, degli educatori, assistenti sociali, magistrati di sorveglianza e pubblici ministeri. Insomma tanto rumore - conclude Caligaris - per poco o nulla”. Pordenone: il nuovo carcere “spacca” la Regione, gli assessori della Lega votano contro Il Gazzettino, 21 gennaio 2011 Il nuovo carcere in Comina “spacca” la giunta regionale. Ieri pomeriggio, infatti, l’esecutivo diretto da Renzo Tondo si è diviso sul voto legato all’accoglimento del protocollo ministeriale che dovrà portare il carcere in Comina. I due assessori della Lega Nord, Federica Seganti e Claudio Violino hanno votato contro l’approvazione come del resto aveva annunciato il capogruppo Danilo Narduzzi. In ogni caso la delibera che è un atto di generalità è da ritenersi approvata anche se non è da escludere che politicamente questo voto possa avere altre ripercussioni politiche. L’approvazione del protocollo da un lato consente a Pordenone di restare ancorato (e in buona posizione) nella famosa lista legata all’emergenza carceri che prevede la realizzazione di una serie di nuove Case Circondariali da 450 posti compresa quella del capoluogo del Friuli Occidentale, dall’altro, però, non assicura né tempi, né modalità, né certezze. Come dire che sulla costruzione permangono tutte le incognite. È pur vero che se ieri la giunta regionale non avesse dato il via libera al protocollo, Pordenone sarebbe stato stralciato dalla lista. Il protocollo, come è noto, prevede la realizzazione della Casa circondariale in Comina. Una struttura standard da 450 posti che per la sua realizzazione avrà anche un contributo economico da parte di Comune, Provincia e Regione. In tutto circa 20 milioni di euro che andranno a sommarsi ai circa 30 - 35 necessari per la realizzazione. La contrarietà della Lega Nord alla costruzione nasce in particolare da due aspetti: il primo legato al fatto che secondo Narduzzi la Regione non avrebbe dovuto mettere un euro e dirottare invece i soldi per altre necessità più stringenti. Per la Lega, inoltre, il nuovo carcere poteva essere realizzato a San Vito dove si sarebbero spesi meno soldi. A questo si aggiunge anche un fatto politico e logistico sollevato da Narduzzi: la struttura pordenonese ospiterà il 70 per cento di carcerati stranieri e il sito individuato non è idoneo. “Ognuno si deve assumere le proprie responsabilità - ha tagliato corto il vicepresidente Luca Ciriani - se non avessimo votato quella delibera Pordenone avrebbe perso ogni speranza di avere un nuovo carcere sul quale, comunque, rimangono le incertezze sui tempi”. Udine: 82enne minaccia polizia, condannato a 7 mesi e 20 giorni di detenzione domiciliare Il Gazzettino, 21 gennaio 2011 Troppo anziano per andare in galera, sconterà in casa, in regime di detenzione domiciliare, la pena che gli è stata inflitta per resistenza e violenza a pubblico ufficiale: 7 mesi e 20 giorni. Protagonista della curiosa vicenda un 82enne udinese, Vilco Giovanni Croppo, arrestato mercoledì pomeriggio dagli agenti della Squadra Mobile della Questura di Udine, diretta da Massimiliano Ortolan, su disposizione della Procura del capoluogo friulano. Risalgono invece a due anni fa, esattamente all’11 febbraio 2009, i fatti che gli sono valsi la condanna. Quel giorno, infatti, una Volante intervenne in uno degli appartamenti di proprietà dell’anziano, che stava discutendo con un inquilino per questioni economiche. Alla vista degli agenti, nonostante all’epoca avesse già ottant’anni, con mossa fulminea l’anziano estrasse dalla cintura dei pantaloni un lungo coltello da macellaio e, brandendolo, affrontò gli operanti che, dopo una breve colluttazione, riuscirono a disarmarlo e assestarlo. Anche immobilizzato, Croppo continuò a proferire minacce di morte sia nei confronti degli agenti sia dell’inquilino. Voghera (Pv): detenuto suicida in carcere, la madre chiede i danni allo Stato La Provincia, 21 gennaio 2011 Chiusa definitivamente sul fronte penale, dopo la bocciatura dell’istanza dei familiari che si opponeva all’archiviazione delle indagini, la vicenda della morte in carcere di Marcello Russo, il pentito che si era tolto la vita a Voghera il 23 marzo 2009, si aprirà su quello civile. L’avvocato Sara Bressani, legale della mamma, lavora infatti a una richiesta di risarcimento danni nei confronti dell’amministrazione penitenziaria. La tesi è che non ci fu adeguata sorveglianza e si consentì a Russo di attuare i suoi propositi autolesionistici. Il 45enne di origini calabresi si suicidò infilando la testa in un sacchetto di cellophane stretto attorno a una bomboletta di gas, con l’erogatore aperto. Quella bomboletta, fa notare, fra l’altro, l’avvocato Bressani, fu restituita a Russo nonostante l’avesse utilizzata in un primo tentativo fallito di suicidio; solo quindici giorni più tardi, sarebbe riuscito nell’intento. A dare fiducia alla mamma di Marcello Russo e al suo legale, c’è un precedente significativo: è quello di Miguel Bosco, detenuto del carcere di Torre del Gallo a Pavia che si tolse la vita in circostanze del tutto analoghe a Russo. L’avvocato di parte civile, Fabrizio Gnocchi, intentò causa alla direzione delle carceri ed ebbe partita vinta. C’è poi un’altra considerazione: la tesi civilistica, dell’omessa vigilanza sul detenuto Russo e i suoi propositi autolesionistici, appare più facilmente dimostrabile rispetto a quella in sede penale, dove erano stati ipotizzati i reati di istigazione al suicidio e omicidio colposo. Il tragico evento del 23 marzo di due anni fa fu l’ultimo di una serie di gesti di autolesionismo da parte dell’ex “picciotto” della Sacra Corona Unita, che occupava una cella dell’ala del carcere di via Prati Nuovi riservata ai collaboratori di giustizia. Il 4 agosto 2008, si era procurato tagli al torace e all’addome; il 17 gennaio presentava un ematoma frontale e l’indomani fu medicato per ustioni alle dita. Insomma, secondo l’avvocato Bressani era più che evidente il suo intento e la sorveglianza su di lui doveva essere proprio per questo assai più curata. Catanzaro: dispersione scolastica, un dibattito nel carcere minorile Giornale di Calabria, 21 gennaio 2011 La dispersione scolastica continua ad essere un problema reale, soprattutto perché non vengono segnalati puntualmente i dati all’area della formazione; il ruolo fondamentale del servizio sociale è a rischio per volontà di pochi, manca la tanto auspicata sinergia degli interventi. Sono alcuni dei concetti emersi nel corso del 3* seminario “LeAli al Futuro”, svoltosi nell’auditorium del Minorile di Catanzaro ed abbinato al progetto “Percorsi di legalità”. Affidato dal Miur e dal Ministero della Giustizia all’Istituto comprensivo catanzarese “V. Vivaldi”, “LeAli al futuro” ha visto anche stavolta la presenza di un folto uditorio che ha prima ascoltato gli interventi dei relatori ponendo poi ai relatori alcuni interessanti quesiti. Coordinati da Massimo Martelli ed alla presenza del direttore del Centro Giustizia Minorile Calabria e Basilicata Angelo Meli, i lavori - spiega una nota - sono stati aperti dalla vice dirigente del “Vivaldi” Flora Mottola la quale, salutando a nome del preside Vitaliano Rotundo, ha evidenziato quanto “Le Ali al futuro” rappresenti un momento qualificante per un Istituto che si nutre di specificità. Francesco Cappuccio, responsabile del servizio tecnico de Centro di giustizia calabro-lucano, ha spiegato ai presenti il profilo di un servizio nato nel 1986 e che promuove le politiche sociali sul territorio per il recupero dei minori in sei aree di intervento: adolescenti, formazione, rapporti con istituzioni, programmazione e verifica, scuola e ricerca, rapporto con i media. Le tre sedi attuali, Catanzaro, Reggio e Potenza - è stato detto - garantiscono competenze capillari su un territorio obiettivamente vasto. Francesca Tedesco, coordinatrice delle attività di insegnamento dell’Ipm e della casa circondariale in seno al Ctp nonché referente di “LeAli al futuro”, ha spiegato che la presenza degli insegnanti all’interno delle carceri significa per i giovani ospiti opportunità e scelta. Questi giovani vanno aiutati non solo a leggere ed a scrivere, ma anche a ritrovare percorsi personali, visto che la scuola li ha già persi di vista una volta. Il “Vivaldi” è un fiore all’occhiello della città perché offre ai suoi insegnanti le opportunità giuste per agire. Ed il carcerato che si avvicina alla scuola se ne sente coinvolto ed attratto. “Le Ali al futuro” modula la scuola su percorsi critici di rieducazione, in modo da rendere spendibile il sapere, autentica opportunità che il giovane recluso può cogliere e sfruttare. Francesco Pellegrino, direttore dell’Istituto minorile di Catanzaro, ha ricordato che la struttura “garantisce ogni diritto del minore, costruendo un ambiente improntato alla dignità della persona. Tutto è amalgamato con la componente dell’umanità, mirando a ridurre al minimo la permanenza dei ragazzi, ed impiegandoli nelle varie attività”. “Un obiettivo - ha aggiunto - che già ci si prefisse nella prima riunione romana di “Le Ali al futuro”, alla presenza del ministro Gelmini. Tra queste attività l’istruzione è una delle principali. I ragazzi reclusi cercano punti di riferimento: ecco perché il genitore, il direttore, l’educatore devono avere il proprio ruolo, sforzandosi di parlare il linguaggio dei minori, senza pretendere che essi parlino il nostro”. Giuseppina Garreffa, direttrice dei Servizi sociali per minorenni di Reggio Calabria, ha parlato del valore ausiliario della propria attività nei confronti dell’autorità giudiziaria. “Questo lavoro, complesso e delicato - ha detto - è compiuto attraverso una serie di persone che si affiancano al minore da recuperare. Si attua così un servizio di ascolto, esattamente quello che è mancato al soggetto coinvolto in attività illecite. Molti di questi non possiedono il diploma di licenzia media inferiore, un fine ultimo da raggiungere sotto il profilo sostanziale”. Gli ha fatto eco Stefano Fazzello, vice-responsabile della struttura. “A Reggio - ha spiegato - si è fatto sistema, perlopiù tramite cooperative, consentendo a tanti ragazzi di orientarsi prima e poi di entrare o rientrare nel mondo del lavoro. A svolgere un ruolo fondamentale anche la sinergia pubblico-privato con qualche azienda che ha fatto superare le solite strumentalizzazioni. Questi ragazzi vogliono opportunità e basta poco per fare emergere quanto di buono hanno dentro”. L’ultima parola, preceduta da qualche interessante intervento da parte dei corsisti, l’ha avuta il direttore Meli. Lodando l’intraprendenza del dirigente Rotundo, il direttore del Centro di giustizia interregionale Calabria-Basilicata ha rilevato come “solo persone motivate riescano a interessare i giovani. Tuttavia nonostante il capillare e fondamentale valore del servizio sociale - ha detto - e qualcuno sta tentando di smantellare tale grande valore aggiunto della nostra società”. Nei prossimi giorni sarà stilato il calendario ufficiale degli incontri formativi previsti da “Le Ali al futuro” che continueranno a tenersi ogni giovedì, a cadenza quindicinale, fino al termine di giugno. Cinema: “Gli angeli del male”, la gangster story di Placido sulla vita di Vallanzasca Il Tempo, 21 gennaio 2011 Dopo “Romanzo criminale”, Michele Placido ci racconta i misfatti di un’altra banda persino più celebre e sanguinaria di quella romana della Magliana, quella milanese della Comasina e lo fa, questa volta, mettendo a tal segno l’accento sul suo capo, Renato Vallanzasca, da prendere lo spunto da un libro da lui stesso suggerito in uno di quei tanti carceri dove, condannato a vari ergastoli, è tuttora detenuto. Vallanzasca, dunque, dal principio alla fine, da quando, ragazzino, capitanava bande di piccoli ladruncoli, fino alla creazione di quella temibile banda che, dagli anni Settanta in poi, devastò Milano e tutta la Lombardia con assalti alle banche, rapine a mano armata, spietati versamenti di sangue non solo ai danni delle forze dell’ordine, ma anche al suo stesso interno o, in più momenti, in violenti confronti con organizzazioni rivali. Al centro, però, e in primo piano, sempre lui, il bandito che conquistava le donne, che, finito dietro alle sbarre, ne riusciva sempre ad evadere, con momenti anche privati, i rapporti con i genitori, con una ragazza da cui avrà un figlio, con un’altra che sposerà in carcere con una cerimonia tutta colori vistosi soprattutto ad uso di quella stampa sempre disposta a fargli eco. Un ritratto davvero a tutto tondo che alla Mostra di Venezia, dove il film è stato presentato l’estate scorsa, ha suscitato polemiche per l’interesse che dimostrava in favore di un personaggio con una lunga scia di sangue alle spalle. Placido, però, in linea con quel cinema americano sui gangster, da “Scarface” a “Dillinger”, ha scelto di non dare giudizi (un po’ come Scorsese in “Quei bravi ragazzi”) e tutte le sue attenzioni le ha rivolte a quella figura centrale di cui, ignorandone forse un po’ attorno le cornici, ha messo soprattutto in rilievo la determinazione e, in alcuni passaggi, anche la ferocia, rappresentandole con un dominio sempre più sicuro del cinema: ritmi affannati, immagini dure e violente, climi quasi sempre stravolti e esasperati: con poche pause. Sostiene l’impresa Kim Rossi Stuart, intento a modulare con sapienza - gestuale e mimica - tutte le gamme di un carattere selvaggio ed irruente cui il film fa riferimento per intero. Raccogliendone la sfida con saldi risultati.