Giustizia: relazione del Dap sul lavoro in carcere; numeri positivi ma realtà drammatica DI Tilde Napoleone www.linkontro.info, 17 gennaio 2011 Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) ha presentato la sua relazione annuale al Parlamento sullo svolgimento di attività lavorative o corsi di formazione professionale da parte dei detenuti. I numeri che sono stati presentati dal Dipartimento evidenziano un leggero incremento dei detenuti che lavorano e un impegno maggiore da parte delle amministrazioni a favorire la nascita di nuove opportunità, ma ci dicono anche che la situazione del lavoro in carcere in Italia è drammatica. Infatti, rispetto alla quantità di detenuti presenti, coloro che lavorano o che sono comunque impegnati in qualche attività costituiscono una percentuale davvero irrisoria. In quei numeri, inoltre, il Dipartimento include quei così detti lavoratori che prestano attività poco retribuite, assolutamente non spendibili in futuro sul mercato del lavoro, alle dipendenze dell’amministrazione: si tratta di lavori dai nomi obsoleti - scopino, spesino, scrivano, ecc. Come si legge nella relazione, per far fronte alla crisi economica, questi “lavoratori” sono costretti a lavorare solo due o tre ore al giorno con uno stipendio (detto mercede) che garantisce loro solo la sopravvivenza. Rispetto quindi a quanto la legge dice in merito al fatto che il lavoro in carcere è un obbligo per i condannati - e che quindi le amministrazioni pubbliche hanno il dovere di fare tutto il possibile per garantirlo - la situazione in Italia è ancora ben lontana dai “desiderata” della legge. Inoltre il panorama è disarticolato e frammentato, perché composto da amministrazioni attive e illuminate e da altre silenti e passive. Manca un piano nazionale che unifichi le esperienze e stimoli le amministrazioni e gli istituti che non agiscono. I segnali, di cui parla il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, di un maggiore coinvolgimento in alcune realtà, nelle politiche del lavoro in carcere, di comunità, enti locali, associazioni di categoria, ci rassicurano sul fatto che qualcosa si muove ma non ci parlano di un movimento davvero significativo. Quello che segue è un sunto della relazione del Dap. Nel 2010 il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria si è posto come obiettivo l’incremento e la razionalizzazione delle attività professionali all’interno degli istituti di pena, prestando maggiore attenzione a quelle realtà produttive che presentavano stretti legami con le realtà economiche e produttive del territorio circostante. Per questo motivo ha cercato di sensibilizzare i provveditorati regionali a prendere contatti con enti locali, associazioni di categoria, imprenditori. Rispetto alle attività lavorative complessive, i dati fino al 30/06/2010 mostrano un leggero incremento del numero totale dei detenuti lavoranti: 14.116, pari al 20, 68% dei presenti, rispetto ai 13.308 dell’anno scorso, pari al 21,07% dei presenti. Nonostante questo incremento, è diminuita la percentuale dei detenuti lavoranti sul totale dei presenti. Infatti, a fronte di un consistente aumento della popolazione detenuta, non è aumentata la percentuale dei detenuti lavoranti. È inoltre diminuito il budget assegnato per gli stipendi dei detenuti che lavorano, alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, nella pulizia degli spazi, la cucina, la manutenzione degli istituti. Dai 71.400.000,00 euro assegnati per questa voce di spesa nel 2006, nel 2010 si è passati a 54.215.128,00 (cifra comunque superiore rispetto a quella del 2009). I detenuti che hanno lavorato in questi settori non sono diminuiti di numero, ma gli istituti hanno dovuto ridurre le ore di lavoro a disposizione dei singoli. Per quanto riguarda le così dette “lavorazioni industriali”, sono aumentati i detenuti che lavorano in questo settore perché sono aumentate le commesse per la realizzazione degli accessori necessari all’allestimento di nuove sezioni detentive. I detenuti impegnati in questo tipo di attività, sempre alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, erano 612 a giugno 2010 (quasi il doppio rispetto a giugno 2007). Per quanto riguarda i detenuti che lavorano per le ditte esterne, grazie alla legge Smuraglia, che garantisce sgravi fiscali alle imprese e alle cooperative che assumono detenuti o persone in esecuzione penale, il numero di detenuti assunti da imprese e cooperative è leggermente aumentato rispetto al 2009 (2.058 rispetto ai 1798). Particolarmente significative sono le esperienze in atto presso gli istituti di Padova, Milano Bollate, Torino, Monza e Massa dove è forte la presenza di imprenditori che hanno assunto detenuti per attività all’interno e all’esterno degli istituti. Per quanto riguarda l’occupazione femminile, l’amministrazione ha siglato un protocollo di intesa con quattro cooperative sociali, presso gli istituti di Lecce, Trani, Vercelli, Torino, Milano San Vittore e Milano Bollate, a cui è seguita la nascita di un marchio “Sigillo”, inteso come attestazione etica di un progetto imprenditoriale. Altro settore fortemente in fase di sviluppo è quello agricolo: orticoltura biologica, frutticoltura in serra, allevamento di conigli, floricoltura, itticoltura, apicoltura. Il numero di detenuti che lavorano presso le aziende agricole è passato dai 436 del 30.06.2099 ai 477 del 2010. Giustizia: 37% dei detenuti sono stranieri, marocchini e rumeni i più numerosi Agi, 17 gennaio 2011 I detenuti stranieri in Italia toccano quota 25.000 (il 37% dei 68 mila detenuti), di cui il 35% proviene dai Paesi balcanici. Il dato è emerso, a Campobasso, all’apertura della prima Conferenza internazionale sulla sicurezza adriatica. Nei 208 istituti carcerari italiani, 7.158 reclusi provengono da Albania, Bosnia Erzegovina, Croazia, Grecia, Montenegro, Romania, Serbia, Slovenia e Bulgaria: 6.720 sono uomini e 438 donne. I detenuti di nazionalità rumena sono 3.494, pari al 14% dell’intera popolazione carceraria, 2.880 gli albanesi, 271 i bulgari. Il più alto numero di detenute straniere è quello delle rumene, ben 280. La ‘comunità in assoluto più numerosa è quella dei marocchini, con 5.279 unità, seguita dai rumeni e dai tunisini (3.105 detenuti) e dagli albanesi. L’aumento della popolazione carceraria proveniente dai Balcani è strettamente correlata alle strutture criminali che negli ultimi anni si sono insediate stabilmente in Italia e la cui capacità delinquenziale rappresenta un ulteriore pericolo per la collettività. Nella Conferenza di Campobasso, cui hanno partecipato, tra gli altri, il sostituto procuratore della Direzione nazionale antimafia, Francesco Mandoi, e il sottosegretario alla Giustizia Giacomo Caliendo, sono state rimarcate particolarmente le attività illegali dei clan albanesi (prostituzione, armi e droga), perfettamente integrati con le mafie del Sud d’Italia, e quelle legate ai gruppi rumeni (traffico di esseri umani, rapine e omicidi). “Il tema è complesso - ha spiegato Caliendo - perché oltre alla repressione e alla condanna dei reati, cosa che peraltro in Italia funziona, il nostro impegno deve estendersi alle politiche di cooperazione con quei Paesi con una economia ancora arretrata e da cui provengono grandi masse di migranti. Favorire lo sviluppo economico in quei territori è fondamentale”. Giustizia: il VI forum nazionale salute mentale, contro i manicomi criminali Dire, 17 gennaio 2011 Si è tenuto nel weekend al Castello aragonese di Aversa il VI Forum Nazionale Salute Mentale che propone una serie di interventi, riflessioni e confronti, in programma fino a domani nella cittadina casertana. Al centro del dibattito quest’anno l’Ospedale psichiatrico giudiziario (Opg), tema prioritario per il forum che si batte fin dalla sua nascita, nel 2003, per il suo superamento. “Sono stati anni difficili per la salute mentale - sostiene Giovanna Del Giudice, portavoce del forum - a causa del forte attacco alla legge 180, determinando un ritorno al passato in alcuni casi, ma lo scandalo degli OPG deve essere definitivamente cancellato. Occorre chiudere i manicomi criminali e porre fine all’assurdità e alla violenza che si consumano al loro interno. Se queste strutture permangono è anche per il ruolo svolto dai Dipartimenti di salute mentale, che si trovano ad affrontare oggi una nuova sfida rispetto al modello organizzativo. Bisogna ripartire dal paradigma dell’agire terapeutico, delle culture alla base dell’imputabilità, del differente sguardo sull’altro, della fine della medicina penitenziaria e della presa in carico da parte del sistema sanitario regionale, dalla piena tutela della salute nelle carceri. Malgrado nuovi strumenti legislativi che consentirebbero il contrasto dell’internamento degli Opg, si assiste stranamente a un aumento delle presenze, in numero stabile negli ultimi venti anni. Intanto si continua a mettere strettamente in relazione la pericolosità sociale con la malattia mentale”. Sono oltre 1300 gli internati presenti nei sei Opg italiani, persone richiuse, nella maggior parte dei casi, per reati minori che si trovano a scontare “un ergastolo bianco”, e a vivere in condizioni di coercizione e degrado, con un aumento significativo del numero di suicidi e degli atti di autolesionismo. “Una chiara violazione dei diritti umani le condizioni in cui vivono gli internati” denuncia indignato Patrizio Gonnella, presidente nazionale di Antigone. “Nell’ospedale di Aversa, dove oggi si trovano circa 300 internati, l’ultimo letto di contenzione è scomparso nel 2008 - sottolinea Tiziana Celani, direttore del Dipartimento di Salute Mentale dell’Asl ex Caserta 2 - Bisogna entrare nel processo di superamento mettendo insieme, come stiamo facendo oggi, tutti gli attori coinvolti, dai Dipartimenti, alle Regioni, ai Ministeri, allo stesso terzo settore. A partire dalle dimissioni dei pazienti e dall’attivazione di percorsi di reinserimento sociale”. Se tutti sono d’accordo sulla necessità di un superamento sostanziale degli Opg, molti si chiedono come si possa realizzarlo. Il processo per chiudere gli ospedali giudiziari - secondo gli organizzatori del forum - necessita di politiche nazionali e regionali, con cui torni ad essere prioritaria la tutela dei diritti dei detenuti e dei malati mentali, ma anche di risorse economiche e umane. È con il Dpcm del primo aprile 2008 che comincia questo percorso. “Il superamento degli Opg - Giuseppe Nese, dell’Osservatorio regionale sulla sanità finanziaria per la Campania, fa il punto sull’applicazione del decreto - coincide con la ristrutturazione dell’offerta dei servizi di salute mentale del territorio, che sposta la responsabilità sanitaria in capo ai Dipartimenti di Salute Mentale, e realizza, ove possibile, le dimissioni dell’internato, nel quadro più generale della regionalizzazione degli ospedali. Ma la legge non viene applicata ovunque allo stesso modo: abbiamo davanti un cammino graduale”. Giustizia: detenuto muore per sospette torture; in Kuwait ministro si dimette… in Italia… www.linkontro.info, 17 gennaio 2011 Il ministro dell’Interno del Kuwait, Sheikh Jaber al-Khaled al-Sabah, si è dimesso dal suo incarico dopo la conferma della morte di un detenuto, Mohamed al-Mutairi, a causa di sospette torture subite in carcere. Lo riferisce il sito web del quotidiano Gulf News, precisando che poco prima delle dimissioni di al-Khaled al-Sabah, il ministero dell’Interno ha emesso un comunicato in cui si ammetteva che al-Mutariri non era morto per cause naturali, smentendo la prima ricostruzione della vicenda, secondo cui l’uomo era morto per un infarto. “Ho presentato le dimissioni in linea con l’obbligo che ho di assumermi la piena responsabilità rispetto a quanto ho promesso mercoledì”, si legge in una nota di al-Khaled al-Sabah. “Non posso accettare di guidare un ministero che attacca i cittadini kuwaitiani”, ha aggiunto. Nei giorni scorsi al-Khaled al-Sabah è stato duramente attaccato da alcuni parlamentari sciiti del Blocco d’Azione Popolare (Bap) che hanno indicato il ministro come responsabile di quanto accaduto. Alcuni medici dell’ospedale dove al-Mutairi era stato ricoverato, a seguito delle violenze subite, hanno confermato che l’uomo aveva diverse ferite e lividi sul corpo e che i suoi piedi erano stati legati. Al-Mutairi era stato arrestato sabato scorso per traffico di alcol, dopo avere tentato la fuga dagli agenti e provato ad accoltellare alcuni di loro. E in Italia? Se i numerosi casi di morti sospette in carcere registrati in Italia - Stefano Cucchi, Marcello Lonzi, Carmelo Castro solo per citarne alcuni - e attualmente al vaglio della magistratura dovessero chiudersi con la condanna dei rappresentati dello Stato, sarebbero in grado i ministri dell’Interno e della Giustizia Maroni e Alfano di trarne le dovute conseguenze, come ha fatto il loro collega del Kuwait? Difficile, se non impossibile. Eppure noi siamo l’Italia - la culla della cultura giuridica e la patria di Cesare Beccaria - e quello è il Kuwait - emirato in cui ha il diritto di voto non più del 10 per cento della popolazione. Giustizia: considerazioni sul fine della pena… e sulle marachelle di mio figlio di Carmine Tomeo www.agoravox.it, 17 gennaio 2011 Nel principio costituzionale secondo il quale le pene “devono tendere alla rieducazione del condannato”, mi pare sia contenuto l’unico scopo della stessa pena. Si potrebbe considerare l’ipotesi di un fine pena che coincida con la rieducazione del condannato? Prima di correre il rischio di provocare qualche equivoco che possa disturbare la comprensione di questo pezzo, da parte di chi avrà la pazienza di continuare questa lettura, devo dire che mio figlio, alla sua età di poco più di due anni, non ha condanne penali e pertanto non sta scontando alcuna pena detentiva. Eppure, proprio da lui mi è balzata alla mente un’osservazione in merito alle condanne penali ed al discorso del fine pena. Qualche giorno fa mio figlio ne combina una delle sue. Ci mancherebbe che non facesse alla sua età. Ma insomma, non è che l’educazione data dal genitore può cominciare dopo l’infanzia e quindi alle marachelle qualche volta segue una punizione, che non mi piace mai dare, mi rattrista ed infatti dura in genere il tempo di un “papàaaaa…” detto con occhietti da cerbiatto, come si dice. Ma, a parte le mie debolezze, l’altro giorno, dicevo, mio figlio ne combina una delle sue, butta a terra la pappa della sorellina di sette mesi, così, per giocare e io lo mando in camera sua. Lui non piange, non dice niente, si avvia mortificato verso la sua camera e si mette supino sul letto. Quando passo per il corridoio per prendere straccio e scopettone per pulire, lo vedo allungato, con la testa sul cuscino e gli occhi aperti, come se stesse ripensando alla sua marachella. Entro nella sua stanza, mi avvicino e lui chiude gli occhi, forse finge di dormire. Esco dalla cameretta e lui rimane lì, in silenzio e occhi chiusi. Mi rendo conto che ha capito di aver fatto una cosa che non doveva e così torno da lui e gli chiedo “Si butta la pappa della sorellina?”, e lui “No”, “Lo fai più?”, “No”, “Però adesso chi pulisce?”, “Io”. Certo, non è che ha fatto il Cenerentolo, ma solo il gesto di raccogliere la pappa da terra. Da qui la riflessione. Io l’ho mandato a letto per dargli una punizione per la sua marachella, ma per quanto tempo sarebbe dovuta durare? Tutto il pomeriggio o mezz’ora? Io l’ho fatta durare il tempo che lui capisse che quella cosa non avrebbe dovuto farla. Mi rendo conto che si tratta di un metodo che non può essere trasposto pari pari alla giustizia ordinaria, che da una parte si tratta di marachelle e dall’altra di reati, che la pappa buttata per terra non è paragonabile ad una rapina a mano armata. Ma tra la mia funzione di genitore e quella dello Stato forse l’accostamento educativo può essere fatto. La mia punizione a mio figlio e la punizione che lo Stato infligge a chi commette reato, hanno, al netto di tutte le differenze evidenti, lo scopo di educare. Nel principio costituzionale secondo il quale le pene “devono tendere alla rieducazione del condannato”, mi pare sia contenuto l’unico scopo della stessa pena. Si potrebbe considerare l’ipotesi di un fine pena che coincida con la rieducazione del condannato? Mi rendo conto che si possa correre il rischio di subordinare la condanna ad un eccesso di discrezionalità di un giudice, né mi permetto la presunzione di un approccio filosofico al diritto penale. Non ho competenze dal punto di vista procedurale e tanto meno ho sufficienti basi per filosofare. Parlo da cittadino. E da cittadino qualsiasi, che ha il diritto a vedersi tutelata la propria incolumità dallo stesso Stato che ha il dovere di rieducare un condannato. Bene, da cittadino e guardando anche egoisticamente alla mia incolumità, mi sentirei molto più garantito se un detenuto finisse di scontare la sua pena dopo quella rieducazione richiamata nella Costituzione, anziché se un condannato scontasse tutti i suoi vent’anni per un omicidio senza che lo Stato abbia assolto al proprio dovere rieducativo. Se fosse considerata in questo senso la certezza della pena? Forse sarebbe molto più efficace e non avrebbe quell’approccio vendicativo oggi troppe volte riconoscibile in certi discorsi politici che, mentre dicono di interpretare le paure ed i sentimenti della ggente (con due g), in realtà le paure le creano ed i sentimenti, spesso d’odio, li provocano. Ma la scelta di poter considerare il fine pena legato alla rieducazione del detenuto, oltre le probabilmente tante implicazioni per me difficilmente immaginabili, costringerebbe lo Stato ad adottare pene alternative al carcere, e nell’assolvere al suo dovere rieducativo del condannato, a rinunciare, oltre che alla pena dell’ergastolo, anche alla bramosia di coercizione che lo porta ad esempio a costruire sempre più carceri. Ma questa è un’altra storia. O forse no. Giustizia: Osapp; il Dap consenta ai detenuti tunisini di contattare i propri cari Comunicato Osapp, 17 gennaio 2011 “Alla luce degli ultimi fatti corre l’obbligo all’Amministrazione penitenziaria di tutelare le proprie istituzioni ed i propri detenuti, e nel far questo anche quello di poter fornire tutti i mezzi necessari affinché possano i reclusi mettersi in contatto con le famiglie di appartenenza, che si trovino dentro o fuori il Paese italiano” - lo sostiene, in una nota indirizzata al Ministro della Giustizia Alfano, il segretario di uno dei maggiori sindacati di rappresentanza della Polizia Penitenziaria, Leo Beneduci dell’Osapp, dopo gli incidenti che stanno infiammando la Tunisia. “Su 67.973 mila reclusi presenti nelle carceri italiane 3.122 sono di nazionalità tunisina i tumulti avvenuti in questi giorni nello stato africano si aggiungono al rischio quindi di poter gestire al meglio già una situazione a limite del suo standard”. “Oltre al fattore umano - fa notare Beneduci - siano anche preoccupati delle ripercussioni che a distanza di kilometri potranno riflettersi sul nostro sistema penitenziario”. “Il rovesciamento che si è verificato è chiaro come metta in allarme chi, nel nostro Paese, è costretto a scontare la pena ma non può far nulla per i propri parenti in Tunisia. Sappiamo, anche per diretta esperienza, che nelle nostre carceri non è difficile organizzarsi in gruppi e che il malumore di pochi possa scatenarsi in facile violenza per senso di emulazione o di rivendicazione”. “L’Amministrazione penitenziaria ha solo una via - conclude l’Osapp - se non vuole trovarsi ad affrontare un’ulteriore emergenza al proprio interno: consentire ai detenuti di nazionalità tunisina di entrare in contatto con i propri parenti attraverso gli strumenti diplomatici nonché, in deroga all’ordinamento penitenziario, consentendo agli stessi di telefonare al proprio Paese di origine”. Giustizia: lo straniero condannato da un tribunale estero può scontare la pena in Italia La Repubblica, 17 gennaio 2011 Un cittadino extracomunitario può scontare la pena emessa da un tribunale estero anche in Italia, purché si dimostri che il detenuto abbia un radicamento reale e non estemporaneo nel nostro Paese. Lo ha stabilito la terza sezione della corte d’appello di Genova che ha respinto la richiesta di estradizione da parte del tribunale francese di Montpellier di una donna di origini ecuadoriane di 31 anni. La donna, Cielo Ines Beltran, colombiana di 31 anni difesa dall’avvocato Mario Iavicoli, era stata arrestata a ottobre con un mandato di arresto europeo dopo la condanna a nove mesi e 13 giorni per traffico di droga. Il tribunale francese ne aveva chiesto l’estradizione, ma la donna si era opposta, sostenendo di avere un lavoro in Italia e anche una famiglia. I giudici italiani hanno dato ragione alla donna, applicando una sentenza della Corte costituzionale che prevede che i cittadini comunitari possono scontare la pena anche in territorio italiano, se dimostrano di avere un radicamento reale e ritenendo che la sentenza sia applicabile anche ai cittadini extracomunitari. Lettere: nuovo carcere a Venezia, sono altre le priorità di Maria Teresa Menotto (Presidente Associazione Il granello di senape) Il Gazzettino, 17 gennaio 2011 Da giorni nei quotidiani locali si dibatte sulla possibilità/necessità di costruire un nuovo carcere in città. Ciò che mi induce ad intervenire è il fatto che la discussione si è sviluppata finora solo sul problema della localizzazione più o meno opportuna di un nuovo penitenziario, senza mai neppure provare a mettere in discussione l’assunto da cui la decisione del Commissario per il piano carcerario scaturisce. Pur non avendo competenze professionali specifiche, desidero esprimere alcune perplessità partendo dalla mia esperienza di volontaria e dal mio impegno negli istituti della città ed in particolare a S. Maria Maggiore. Innanzitutto una premessa: intervenire su questi temi è sempre delicato e complesso. Per questo sono convinta che più che di piani emergenziali ci sia la necessità di un ripensamento generale per rivedere in modo razionale ed intelligente l’utilizzo delle carceri come extrema ratio, operando scelte di politica criminale che indichino i casi in cui questa soluzione sia davvero necessaria. Ritengo quindi urgente rivedere seriamente le norme che da alcuni anni a questa parte hanno maggiormente determinato la crescita del sovraffollamento. La legge sulle droghe Fini - Giovanardi che ha avuto un impatto enorme sul sistema penitenziario e penale e le cui conseguenze sono state una forte riduzione di richieste di invio al programma terapeutico e una maggiore recidività. La ex Cirielli, che ha inventato la disciplina del “recidivo reiterato” e la più recente legge che istituisce il reato di clandestinità e che ha accresciuto la popolazione carceraria senza di contro garantire nessuna maggiore sicurezza. È necessario riflettere sullo stato di emergenza dettato dal sovraffollamento, tenendo conto che neppure la recente legge 199, da subito superficialmente definita dalla stampa “svuota carceri”, è servita e servirà a modificare tale situazione. Le clausole e le limitazioni relative al domicilio e al lavoro la renderanno fruibile da poche migliaia di detenuti e non potrà essere utilizzata proprio dalle categorie più deboli come gli immigrati e i tossici (il 22% dei detenuti per lo più giovani) che hanno difficoltà ad essere ri - accolti dalle famiglie. E a Venezia serve davvero una nuova struttura oggi, dopo che solo tre anni fa è stata chiusa la Sat, ex Casa di lavoro della Giudecca perché non c’erano i fondi per la messa a norma di alcune parti? Credo di no! Ritengo siano altre le priorità su cui impegnare i fondi a disposizione del Ministero. Come espresso dal Sindacato autonomo di Polizia Penitenziaria (Sappe), per ora unico ad esprimere contrarietà a tale disegno, ritengo anch’io che i 45 milioni di euro, tanto dovrebbe costare la nuova struttura, debbano essere utilizzati piuttosto in progetti per aiutare il trattamento ed il reinserimento, per dare alle persone detenute maggiori possibilità di lavoro esterno ed interno e piuttosto per la riqualificazione dell’ex Casa di lavoro. Nella costruzione di un nuovo carcere vedo un segno di ripiegamento, di difesa e chiusura della nostra comunità ma anche il rischio del condizionamento di ogni iniziativa, del congelamento di ogni investimento di tipo diverso. Nella mia esperienza di carcere e dall’incontro con il travaglio dei detenuti e delle loro famiglie, con la sofferenza delle vittime e le difficoltà degli operatori emergono inquietanti questi interrogativi: il carcere è davvero l’unico elemento efficace per una tutela adeguata della giustizia? serve alla riabilitazione e al recupero dei detenuti? risponde veramente al bisogno delle vittime e al bisogno di difesa dei cittadini? Lettere: un nuovo carcere non é la soluzione per Venezia di Franco Fois (Associazione Veneto Radicale) Il Gazzettino, 17 gennaio 2011 La discussione sulla costruzione di un nuovo carcere a Venezia continua a restare focalizzata solamente sulla scelta del sito, completamente assente dal dibattito l’utilità o meno di un nuovo carcere. Un nuovo istituto non è la strada per risolvere i problemi del vecchio istituto di Santa Maria Maggiore, non risolverebbe infatti né il problema del sovraffollamento, come qualcuno sostiene per giustificare l’opera, né quello delle pesanti carenze di organico tra gli agenti di custodia. I tempi non brevi per la realizzazione avrebbero come ricaduta il totale azzeramento degli interventi per risolvere l’insostenibile situazione degli istituti veneziani con l’alibi della “prossima” apertura del nuovo carcere. Con il rischio che alla fine il tutto resti un’opera incompiuta proprio a causa delle carenze negli organici su cui non si sta certo intervenendo. Senza personale non si apre un nuovo carcere. Da anni noi Radicali denunciamo il problema dell’invivibiltà, per detenuti ed operatori, delle carceri e dello stato di illegalità in cui versa il sistema penitenziario, illegalità riconosciuta dallo stesso ministro della Giustizia. L’unica strada percorribile per il rientro nella legalità, come sottolineato anche dai sindacati di polizia penitenziaria in questi giorni, è quella di una revisione del sistema di pena attraverso la depenalizzazione e un maggior uso delle pene alternative. Sulla messa in “ordine” degli attuali istituti veneziani, su un maggior ricorso alle pene alternative e sul potenziamento delle opportunità di lavoro e reinserimento dei detenuti l’amministrazione comunale dovrebbe centrare il dibattito, partendo dalla richiesta, al posto di un nuovo carcere, della ristrutturazione dell’istituto a custodia attenuato (Sat) alla Giudecca. Istituto chiuso nel 2008, temporaneamente si disse, ma per il quale il ministero non ha mai stanziato i fondi per la messa a norma. Proprio sul Sat della Giudecca il senatore radicale Marco Perduca nel settembre 2009 rivolse un’interpellanza al ministro di giustizia ed attende ancora risposta. La domanda che prioritariamente l’amministrazione comunale veneziana deve porre a se stessa e al governo, quindi, non è dove costruire il carcere ma perché. Sicilia: i prezzi del “sopravvitto” sono fuori dalla norma, allertato Mister prezzi Agi, 17 gennaio 2011 “Mister prezzi effettui una verifica sui prezzi praticati dagli spacci interni alle strutture penitenziarie”. Lo chiede il garante per la tutela dei diritti dei detenuti, Salvo Fleres, in una nota inviata al garante per la sorveglianza dei prezzi dopo le “continue lamentele che giungono da quasi tutte le strutture penitenziarie della Sicilia, circa i prezzi praticati dagli spacci presenti all’interno delle medesime strutture”. “I detenuti - dice Fleres - sono costretti a sopperire alle carenze nelle forniture acquistando molti prodotti, alimentari e non, attraverso gli spacci, oltre tutti quei generi che solo attraverso tale mezzo possono possedere. Mi auguro - conclude Fleres - che questa vicenda possa risolversi tenendo conto del fatto che i detenuti non possono rivolgersi ad altre per acquistare i prodotti ed è dunque auspicabile che si tenga conto di questo ulteriore dato nella fissazione dei prezzi”. Perugia: suicidio in cella, l’autopsia conferma una “morte tossica” La Nazione, 17 gennaio 2011 Si è svolta ieri mattina nei locali dell’obitorio dell’ex Silvestrini l’autopsia di Michele Massaro, il detenuto tarantino morto mercoledì sera in una cella del carcere di Capanne. L’esame svolto dal medico legale Sergio Pantuso Scalise ha confermato le prime ipotesi a proposito di una morte tossica, in quanto la vittima è deceduta dopo avere inalato del gas da una bomboletta che aveva per cucinare. Sono comunque ancora in corso accertamenti da parte della polizia penitenziaria e della questura per valutare l’ipotesi di un incidente legato all’uso del gas stesso per stordirsi e quella del suicidio. Difficile da comprendere attraverso l’esame autoptico. Il detenuto (23 anni) stava scontando un cumulo di pena legato a diverse condanne per reati contro il patrimonio. Sarebbe dovuto uscire dal carcere nel 2018. Bologna: esplode bomboletta del gas in cella, due detenuti gravemente ustionati Ansa, 17 gennaio 2011 Due detenuti italiani, di 37 e 28 anni, sono rimasti ustionati per l’esplosione di una bomboletta di gas che avevano nella loro cella, nel carcere bolognese della Dozza. È accaduto ieri sera, verso le 21.15. Le condizioni più gravi sono quelle del ventottenne, trasportato in “codice 3” all’ospedale Maggiore e poi trasferito al Centro grandi ustionati di Parma, mentre è stato giudicato dai sanitari in “codice 2”, cioè con ustioni di media gravità, l’altro detenuto, ricoverato al Maggiore. A quanto si è appreso da fonti penitenziarie, si sarebbe trattato di un episodio accidentale. “Da tempo - ha ribadito il segretario generale aggiunto del Sappe, Giovanni Battista Durante - chiediamo una modifica del regolamento penitenziario per vietare l’uso delle bombolette, visto che l’amministrazione fornisce il vitto ai detenuti e che questi, spesso, usano il gas per compiere gesti di auto ed eterolesionismo, compreso il suicidio per inalazione”. Bologna: pomeriggio ad alta tensione alla Dozza, agente aggredito da un detenuto Ansa, 17 gennaio 2011 “Un agente di Polizia Penitenziaria accorso per sedare una colluttazione tra detenuti in una cella è stato da questi aggredito con pugni ed è stato costretto a ricorrere alle cure sanitarie con prognosi di 10 giorni” A darne comunicazione il Coordinatore Provinciale della Uil-Pa Penitenziari di Bologna, Domenico Maldarizzi. “Alla Dozza ormai, per la cronica carenza d’organico la sicurezza, come del resto in tutti gli Istituti dell’Emilia Romagna” - continua Maldarizzi - “è garantita solo dal grande spirito di sacrificio dei pochi Agenti rimasti che, ormai, devono far fronte ad una presenza media di 1150 detenuti quando ne dovrebbero vigilare al max 500”. “Per quanto ci riguarda” - afferma il Coordinatore Uil Penitenziari - “non abbiamo mai mancato di rilevare e denunciare le gravi criticità che investono alcuni istituti emiliani. Vi sono diverse situazioni complesse e pericolose derivanti dagli aspetti di sovraffollamento, promiscuità e spessore criminale. Bologna su tutte.” “Occorrono - spiega Domenico Maldarizzi - urgentemente investimenti in mezzi, organici e risorse perché si possa ridare fiato al sistema e contribuire fattivamente a raggiungere gli obiettivi di trattamento e sicurezza.” A Bologna vi è una gravissima carenza d’organico di Polizia Penitenziaria di circa 200 uomini come da Decreto Fassino del 2001, tra l’altro mai condiviso dalle Organizzazioni Sindacali perché insufficienti. Le risposte da parte del Prap e dell’Amministrazione Centrale a questo stato di cose è stato di continuare a distaccare gente per esigenze varie dell’amministrazione. Intanto a Bologna ogni Poliziotto deve vigilare dagli 80 ai 300 detenuti! Il personale, - conclude Maldarizzi - si adopera per gestire le emergenze e le criticità ma non potrà certo reggere a lungo lavorando ogni giorno per 8/9 ore di media e con l’organico pesantemente ridotto. Catanzaro: intervista ad Angela Paravati, direttrice della Casa circondariale www.catanzaroinforma.it, 17 gennaio 2011 Una situazione allarmante quella delle carceri italiane. La denuncia è arrivata dal segretario generale della Uil-Pa Penitenziari, Eugenio Sarno, secondo il quale il sovraffollamento, i suicidi, lo sciopero della fame e la carenza di organico della polizia penitenziaria, sono solo alcuni dei problemi delle carceri italiane. I dati sull’affollamento descrivono una vera e propria emergenza, con 68.121 detenuti, al posto dei 44.576 previsti. Una condizione che si riflette anche nella nostra Regione che, con la presenza di 1.446 detenuti in più rispetto alla capacità ricettiva massima degli istituti di pena calabresi rilevata al 31 dicembre, è la fotografia più nitida dell’universo carcere e dell’anno che si è lasciato alle spalle. Nei penitenziari calabresi il 31 dicembre del 2010 erano detenute 3.316 persone di cui 3.253 uomini e 63 donne. La media dell’indice di sovraffollamento regionale si è attestata al 77,3% che pone la Calabria al terzo posto delle regioni con il più alto tasso di sovraffollamento penitenziario. Diretto da Angela Paravati, la casa circondariale di Catanzaro ospita in media seicento ristretti, un numero sicuramente elevato ma che non è rapportabile ad altre realtà di alcune regioni dove la percentuale di sovraffollamento è di gran lunga maggiore. Quali sono le criticità che si vivono quotidianamente all’interno dell’Istituto? “Non vi è alcun dubbio che la situazione oggi è complessa e caratterizzata da varie criticità, non tutte peraltro interne al sistema. Il carcere di Catanzaro è un grosso penitenziario con detenuti appartenenti a circuiti diversi, a culture diverse, a nazionalità diverse e tutti con la loro storia, i propri disagi, le loro aspettative che vengono gestite solo grazie all’impegno della polizia penitenziaria e di tutti gli operatori che proprio in questa circostanza stanno dimostrando le loro capacità e la loro professionalità. Infatti nonostante le difficoltà si sta cercando di mantenere adeguate condizioni di vita all’interno del penitenziario e di creare una rete con il territorio affinché il tempo della detenzione possa diventare il tempo della costruzione di un nuovo progetto di vita”. C’è carenza di organico tra gli agenti della Polizia Penitenziaria? “Non vi è carenza di personale rispetto alla pianta organica stabilita con decreto ministeriale nel 2001, ma certo il personale di polizia penitenziaria allo stato in servizio, non è adeguato numericamente alle mutate esigenze del carcere di Siano e ciò anche in relazione ai numerosi compiti oggi attribuiti alla Polizia Penitenziaria”. Crede che la mancanza di un Provveditore in pianta st abile pregiudica l’organizzazione delle attività giornaliere degli istituti penitenziari? “Sicuramente la mancata nomina di un Provveditore per la Calabria ha delle ripercussioni su tutte le strutture del distretto anche se l’attuale Provveditore reggente assicura una presenza costante e pone in essere ogni azione per la risoluzione di tutte le problematiche”. Il nuovo Piano Carceri che prevede, tra le altre cose, anche l’introduzione di pene alternative alla detenzione, può essere una soluzione al problema del sovraffollamento? “Il carcere è una realtà complessa e la riduzione di 100 detenuti non risolverebbe tutte le criticità che si frappongono ed ostacolano la piena attuazione del principio costituzionale sulla funzione della pena”. Il padiglione in costruzione all’interno dell’istituto, che prevede la sistemazione di ulteriori 300 detenuti, è o può essere una soluzione al problema del sovraffollamento? “Il nuovo padiglione in via di ultimazione, potrebbe anche essere già attivo nel 2011, ma certo la sua apertura è subordinata all’incremento delle unità di personale”. Lecce: medico del carcere rifiutò di visitare i detenuti, sospeso per assenteismo La Repubblica, 17 gennaio 2011 Sospeso dalle sue funzioni all’interno del carcere leccese di Borgo San Nicola per due mesi. È il provvedimento che ha colpito Saverio Schinzari medico 61enne, in servizio da 11 anni, all’interno della casa circondariale, accusato d’interruzione di pubblico servizio in nove casi, di cui solo 4 giustificati. Il sostituto procuratore Giuseppe Capoccia, che da settembre ha aperto un’indagine a 360 gradi su Borgo San Nicola in seguito agli esposti di alcuni detenuti non solo per problemi sanitari, aveva chiesto per il medico la sospensione definitiva dal servizio per omissione di atti d’ufficio, ma il giudice per le indagini preliminari Giovanni Gallo ha rigettato il ricorso. L’appello al tribunale del riesame si è concluso con una derubricazione del capo d’imputazione e per una sospensione parziale, ma il legale di Schinzari, Maria Lucia Nicolardi è già pronta per ricorrere in Cassazione. “Il mio cliente” spiega l’avvocato “non ha mai lasciato il carcere durante le ore di servizio, se si è rifiutato in alcuni casi di sottoporre i detenuti a visita medica è stato per tutelarsi, visto che non c’era l’assistenza di un infermiere. Nell’ottobre del 2009 è stato aggredito da un detenuto con una lametta, lo spavento gli causò un affaticamento cardiaco. Per questo è in piedi un giudizio, l’udienza si terrà nella seconda metà di marzo”. Ma Schinzari non sarebbe l’unico. Anche per un altro medico il pm ha richiesto la sospensione dal servizio, rigettata dal gip. Genova: ex direttore carcere condannato per falso e corruzione, assolto violenza sessuale Ansa, 17 gennaio 2011 È stato condannato, con rito abbreviato, a due anni e mezzo di reclusione l’ex direttore del carcere di Pontedecimo, Giuseppe Comparone, di 61 anni, che era stato accusato di violenza sessuale nei confronti di una detenuta marocchina (aggravata dall’abuso di autorità), di concussione, calunnia e falso ideologico. Il gup Silvia Carpanini ha ritenuto sussistente il reato di corruzione al posto della concussione e lo ha assolto dai reati di violenza sessuale e di istigazione alla calunnia. La condanna, quindi, riguarda i reati di corruzione e falso. Il pm Ranieri Vittorio Miniati aveva chiesto sei anni di reclusione. Comparone era difeso dagli avvocati Stefano Savi e Mario Iavicoli mentre la detenuta marocchina era assistita come parte civile dall’avvocato Gianfranco Pagano. L’inchiesta era partita nel 2009 dopo la denuncia della detenuta marocchina. La donna aveva raccontato di essere stata indotta ad avere rapporti sessuali con Comparone. L’extracomunitaria godeva del beneficio del lavoro esterno. Secondo l’accusa sarebbero stati tre gli episodi di violenza sessuale. L’accusa di calunnia riguardava il fatto secondo il quale l’ex direttore avrebbe indotto la donna ad accusare falsamente un ispettore della polizia penitenziaria. L’ex direttore del carcere, che adesso è in pensione, ha sempre negato ogni addebito. Piacenza: duro bilancio del Garante dei detenuti “il carcere, una Casa che sta marcendo” di Patrizia Soffientini Libertà, 17 gennaio 2011 Un anno in ascolto dei carcerati, in una “casa che si va disgregando” e dove la speranza della riabilitazione affoga nell’ozio forzato. E alla fine ti rimane un enorme senso di frustrazione, di dolente impotenza. Non è il bilancio che il garante del carcere, Alberto Gromi, sperava quando ha accettato l’incarico iniziato il 19 febbraio scorso, pur intuendone gli spigoli vivi. Ma è un bilancio reale, semplice e duro come una pietra. Il professore da qualche settimana ha consegnato la sua prima relazione al Comune, verrà discussa dai consiglieri. E pur conservando riservatezza sui contenuti specifici, Gromi accetta di toccare alcuni temi. Nei giorni scorsi il problema del freddo ha acceso un riflettore su questa “città proibita”. Gromi, incontrando l’ex allieva e oggi parlamentare, Paola De Micheli, ha anche ragionato sull’opportunità dell’ampliamento previsto nel piano - carceri (200 nuovi posti) accettabile unicamente se sarà collegata al risanamento dell’attuale edificio. Garante, qual è oggi la condizione di questo istituto? “È come una casa che si sta disgregando e tu la lasci marcire. Non c’è mai, mai, un intervento di manutenzione. Due caldaie su quattro non funzionano e quando anche le altre due cesseranno di funzionare cosa succede? C’è sovraffollamento, strutture fatiscenti, quando hanno fatto le docce in dieci non c’è più acqua calda per gli altri. Un disagio che vale per i detenuti e per gli agenti accasermati. C’è una palazzina all’ingresso per i detenuti semiliberi, mai usata perché pare che piova già dentro. C’è una serra che non può funzionare, un campo di calcio ridotto malissimo, se si cade ci si fa male. Perché non riusciamo a sistemarlo? La risposta è sempre la stessa. Non ci sono soldi. Se non ci fosse stato il contributo della Fondazione che ha acquistato condizionatori per sei sezioni su otto, così da conservare il cibo portato dalle famiglie, non c’era neppure quella possibilità. In questi mesi non ho visto muoversi niente. È la frustrazione suprema di fronte al totale immobilismo”. Però c’è una vicinanza civica al carcere che una volta non appariva così evidente. “La realtà bellissima è quella dei volontari che tentano di alleviare queste situazioni e c’è la Caritas. La legge prevede che ai detenuti siano dati vestiti, coperte, ma non ci sono soldi e la Caritas interviene. Funziona benissimo “Oltre il Muro” e i volontari che operano nella scuola e fanno fronte alla mancanza di organico, specie dopo che è stata tolta una classe e le promesse della dirigenza scolastica non sono state mantenute”. La struttura è messa male, parliamo un po’ degli uomini che la abitano. Cosa chiedono? “Rivendicano un diritto al lavoro. Con forza. All’interno del carcere c’è chi lavora a rotazione in cucina, chi fa le pulizie, ma questo comporta solo cinquanta posti su oltre quattrocento persone. Geocart dà lavoro esterno e Cooperativa Futura interno, con pochissime commesse. Non si vuole assolutamente rubare lavoro da fuori, ci sono disoccupati che hanno diritto di lavorare, ma esistono molte aziende che avrebbero tutto l’interesse sotto il profilo economico a esternalizzare qui dei lavori fatti professionalmente. Il carcere di Padova ha commesse di grandi aziende, dentro il carcere si assemblea e il lavoro va fuori per le rifiniture. C’è anche un laboratorio di falegnameria abbandonato a Piacenza. Con l’organico molto ridotto è però un problema scortare i detenuti dalla cella al capannone. Ora è arrivato un nuovo comandante molto bravo, che ascolta i detenuti, in un confronto con i sindacati degli agenti si troverebbero soluzioni organizzative se arrivassero commesse di lavoro”. Lei da febbraio scorso quante persone ha incontrato dietro le sbarre? “Il mio ruolo prevede una presenza un giorno alla settimana. Nell’arco di questi mesi ho incontrato 120 detenuti, alcuni anche diverse volte. Molti vogliono parlare dei figli. Ho visto tante ex mogli che, pur separate, si occupano ancora del loro compagno. C’è chi porta i bambini piccoli, ma bisognerebbe individuare uno spazio per colloqui riservati a loro, non nella sala comune. È anche prevista un’area verde, iniziata e mai conclusa dentro il carcere. I casi più difficili si verificano quando i figli diventano adolescenti e cominciano a insultare il genitore”. Com’è la condizione degli stranieri? “Ancora più debole. Ci sono casi impossibili da risolvere con l’attuale normativa, ma incredibili, come quelli delle mamme nigeriane che telefonano ai figli in Nigeria. Sono costrette a spendere 15 euro per pochi minuti, quindi possono telefonare ogni tre o quattro mesi quando ci sono tessere che a dieci euro ti fanno parlare per un’ora in Africa”. È un quadro che lascia pochi spiragli. “In me domina un sentimento di impotenza. E non è vero che tutti i detenuti si professano innocenti, la più parte di loro sa cosa ha fatto, ritiene giusto pagare, ma chiede una speranza per quando uscirà. Questi detenuti primo o poi usciranno, se escono arrabbiati e pieni di rancore è una ferita per tutta la società”. Piacenza: detenuto straniero si conficca un ferro in fronte Libertà, 17 gennaio 2011 Detenuto nella casa circondariale delle Novate a distanza di un paio di giorni si ferisce nuovamente. Ieri mattina si è conficcato in testa un pezzo di ferro che ha ricavato dagli arredi della sua cella. Sono stati momenti di apprensione per quanto accaduto e immediatamente il ferito è stato soccorso dai sanitari dell’infermeria della casa circondariale. Il fatto è avvenuto intorno alle 10 del mattino, la persona che si è provocata le ferite in quel momento si trovava nella sua cella. È stato chiamato il 118 e sul posto è accorsa un’autoambulanza, i sanitari hanno adagiato il ferito su una barella e lo hanno trasportato d’urgenza all’ospedale Guglielmo da Saliceto. Fortunatamente le condizioni del detenuto non hanno suscitato preoccupazione. Da quanto si è appreso, il protagonista dell’episodio è un detenuto di origini straniere con problemi psichici che un paio di giorni prima era stato purtroppo protagonista di un altro simile episodio. Nella precedente circostanza infatti si era conficcato in testa due viti e anche allora era dovuto ricorrere alle cure dei sanitari, fortunatamente anche quella volta le ferite che si era provocato non erano state gravi. Ieri mattina una scorta di diversi agenti della polizia penitenziaria ha seguito l’autoambulanza con il ferito fino al polichirugico e gli stessi agenti sono rimasti all’ospedale con il detenuto per l’intera giornata. Firenze: Sappe; catturato detenuto fuggito da ospedale Bagno a Ripoli Adnkronos, 17 gennaio 2011 La polizia penitenziaria ha catturato un detenuto fuggito l’11 gennaio scorso dall’ospedale S.M. Annunziata di Bagno a Ripoli (Firenze). Ne dà notizia il Sappe, sindacato di polizia penitenziaria. “Esprimo le più vive felicitazioni del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe il primo e più rappresentativo dei Baschi Azzurri, al Personale di Polizia Penitenziaria del Nucleo Provinciale Traduzioni e Piantonamenti di Firenze che ha ieri catturato il detenuto evaso dagli arresti ospedalieri (senza scorta) l’11 gennaio dal reparto di Malattie Infettive”, dice Donato Capece, segretario generale del Sappe. Como: black-out al Bassone, detenuti e agenti al freddo e al buio per un giorno La Provincia di Como, 17 gennaio 2011 In tilt la centralina elettrica, carcere isolato per 24 ore. E i detenuti inscenano la protesta della “battitura”. Il clangore delle gavette battute sulle sbarre delle celle ha riempito i corridoi del Bassone, nella notte tra lunedì e martedì. Colpa di un black out improvviso che ha mandato in tilt il carcere, causando - tra l’altro - il blocco delle caldaie e l’abbassamento improvviso delle temperature interne alla casa circondariale, già alle prese con problemi di riscaldamento. Ci si mettono anche i guai tecnici a incrementare i problemi all’interno di un carcere dove sovraffollamento, carenza di agenti di polizia penitenziaria, fondi agli sgoccioli stanno creando proteste, disagi e tensioni. Tutto è cominciato lunedì attorno alle 20 quando un guasto ha fatto saltare l’interruttore generale, quello che distribuisce la corrente elettrica in tutta la struttura. Gli agenti della polizia penitenziaria si sono subito attivati per cercare di risolvere il problema, riuscendo a contattare una ditta intervenuta rapidamente al Bassone. Nel frattempo sono entrati in funzione i gruppi elettrogeni del carcere, che hanno garantito i servizi essenziali: l’illuminazione esterna, quella delle scale, degli altri e delle sezioni, il funzionamento delle porte carraie automatizzate, ma che ha lasciato senza corrente elettrica tutto il resto, a cominciare dal locale caldaie. Anche se intervenuta rapidamente, la ditta incaricata di risolvere il guasto ha potuto lavorare solo dalla mattina successiva per la risoluzione del guaio. Le conseguenze sono state pesanti: saltati i colloqui tra detenuti e parenti, a causa del black out infatti è stato impossibile attivare il metal detector e le stanze dei colloqui sono rimaste al buio; freddo in tutte le sezioni e nelle celle; isolati i telefoni, i fax e tutte le apparecchiature elettroniche, con difficoltà non di poco conto per il palazzo di giustizia a mettersi in contatto con la casa circondariale, anche per le scarcerazioni di giornata. Il guasto è stato riparato solo dopo le 18, a poco meno di ventiquattr’ore dall’inizio dell’emergenza. Tempi record, assicurano gli addetti i lavori, ma sufficiente per far alzare ulteriormente il livello di esasperazione all’interno di un carcere che - come moltissimi altri istituti di detenzione - vive una situazione ai limiti. A cominciare dagli agenti della polizia penitenziaria, che a fine mese saranno a Milano per una manifestazione regionale davanti alla Prefettura. Oristano: sacerdote arrestato con accusa prostituzione, caso a tribunale riesame Ansa, 17 gennaio 2011 Il Tribunale del riesame si è riservato di decidere sulla richiesta di scarcerazione presentata dai difensori di don Giovanni Usai, il sacerdote di 67 anni agli arresti domiciliari da poco meno di tre settimane con l’accusa di violenza sessuale e favoreggiamento della prostituzione, reati che avrebbe commesso nell’ambito della sua attività di direttore della Comunità di recupero per detenuti, Il Samaritano di Arborea. A sostegno della richiesta di scarcerazione, gli avvocati Anna Maria Uras e Francesco Pilloni hanno presentato una memoria difensiva che ripercorre tutte le fasi della vicenda. Due in sostanza le argomentazioni chiave. La prima riguarda l’ attendibilità dei testimoni di accusa, già messa pesantemente in dubbio dallo stesso don Giovanni il 31 dicembre scorso in sede di interrogatorio di garanzia davanti al giudice per le indagini preliminari. Mauro Pusceddu, quando aveva respinto tutte le accuse proclamandosi innocente e vittima di una montatura. In ogni caso, secondo i difensori, non ci sarebbe più alcun motivo valido per tenere il sacerdote agli arresti domiciliari perché non esiste nè pericolo di fuga nè pericolo o possibilità di inquinamento delle prove. Dopo aver ascoltato anche le conclusioni dell’accusa, che ha chiesto il rigetto della richiesta di scarcerazione, il Tribunale del riesame si è riservato la decisione, che arriverà tra di pochi giorni. Bologna: club alpino cura attività per giovani detenuti Dire, 17 gennaio 2011 È stata siglata a Bologna la convenzione tra il Cai (Club alpino italiano) Emilia Romagna e il Centro di Giustizia Minorile per l’Emilia - Romagna, per consentire la partecipazione alle attività proposte dal Cai dei minori in carico al Centro, ospitati sia in carcere che nelle strutture territoriali di comunità o case famiglia. L’accordo si estende a tutto il 2011 e vede coinvolte le 19 sezioni regionali nel promuovere diverse iniziative. Sono previsti proiezioni e filmati di viaggi ed escursioni in montagna, con il coinvolgimento dei giovani nella manutenzione sentieri con le squadre di volontari delle sezioni, fino all’impegno un giorno a settimana nei diversi circoli per riordinare la biblioteca o inserire dati nei sistemi operativi. “Crediamo sia un grande riconoscimento ai valori del Cai e da parte nostra un contributo per alleviare le disavventure dei giovani, e dare loro un futuro interesse”, ha detto Paolo Borciani, presidente del Cai Emilia Romagna, firmatario dell’accordo insieme a Giuseppe Centomani, direttore del Centro Giustizia Minorile. L’intesa rientra nelle azioni del Centro volte al potenziamento delle occasioni di integrazione sociale dei giovani sottoposti a procedimento penale e trova nel Cai “un interlocutore ideale in particolare per il suo ruolo nell’educazione alla tutela e al rispetto dell’ambiente - si legge in una nota - nella formazione legata alla convivenza civile, nell’educazione motoria e sportiva e nell’avvicinamento dei giovani ai territori e alla conservazione dell’ambiente”. Rovereto (Tn): i dipinti dei detenuti in mostra al Mart Il Trentino, 17 gennaio 2011 I detenuti del carcere di Rovereto diventano artisti e espongono le loro opere al Mart. Sarà inaugurata martedì “Liberamente al Mart”, la mostra di ceramiche e dipinti realizzati nella Casa circondariale di via Prati. Per sei mesi, dal giugno scorso, 52 detenuti hanno partecipato al progetto “Formazione ceramica” della Fondazione “Contessa Lena Thun onlus” di Bolzano e a quello “Espressione pittorica” della sezione didattica del museo roveretano. I detenuti hanno appreso la teoria e la pratica delle due forme d’arte. Hanno avuto l’opportunità di stimolare la loro creatività e la manualità e, realizzando il loro lavoro, hanno raggiunto l’autostima personale. Proprio la valorizzazione culturale e emotiva della persona era uno degli obiettivi del percorso. I carcerati hanno seguito con interesse i corsi, che si inseriscono nel quadro delle attività svolte dalla casa Circondariale sul territorio. Hanno progettato, realizzato e decorato pregevoli opere ceramiche e, lavorando a stretto contatto con due artisti trentini, Matteo Boato e Claudio Menegazzi, hanno creato delle opere pittoriche. I loro lavori saranno esposti al Mart da martedì al 30 gennaio, dalle 10 alle 18. Bolzano: il teatro di Daniela Scarlatti; porto sul palco la vita dei carcerati Alto Adige, 17 gennaio 2011 Meranese di nascita, una cascata di riccioli rossi (che a volte porta dritti), e un curriculum non indifferente alle spalle. Daniela Scarlatti è la protagonista di “Giorni scontati”, una commedia agrodolce scritta insieme a Antonella Fattori, che debutterà in prima regionale al Teatro Puccini di Merano, martedì 18 gennaio. In scena le due autrici sono affiancate da Giusy Frallonardo e Lia Zinno, dirette da Luca De Bei. Dopo avere mosso i primi passi presso il Teatro Stabile di Bolzano, la Scarlatti negli anni ‘80 si è trasferita a Roma. Ha recitato accanto ad attori come Antonio Salines, Augusto Zucchi, Walter Manfrè, Rocco Papaleo, Mascia Musy, alternando teatro e televisione, soprattutto fiction (tra cui “Il vizio di vivere” diretta da Dino Risi, “Scomparsi” di Bonivento, “Vivere”, “Il maresciallo Rocca”, e ancora “Carabinieri”, “Don Matteo” accanto a Terence Hill, “Un posto al sole” e “Distretto di polizia” solo per citarne alcuni). Nel cinema, tra gli altri, ha recitato in “Teneramente” di Pierluigi Verga, “Mai più come prima” di Giacomo Campiotti, “Incontri di primavera” di Anna Brasi, “Per sempre” di Alessandro Di Robilant. “Questo “Giorni scontati” è un lavoro bellissimo che commuove, ma fa anche sorridere - ci dice l’attrice dalla sua casa romana. Il progetto è nato a seguito di alcuni colloqui avuti con il garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni e del vice capo del Dap, Emilio di Somma, hanno deciso di patrocinare questo progetto. In Italia non si parla mai delle carceri, e soprattutto quelle femminili, al contrario di quello che succede, ad esempio, negli Stati Uniti, dove sul tema delle carceri, e nelle carceri, sono stati girati tanti film. L’unico esempio italiano che mi viene in mente è un vecchissimo film con la Magnani e la Masina”. Com’è strutturata la commedia? “Il carcere mette a stretto contatto quattro detenute molto diverse tra loro: Viviana è rinchiusa da tempo e di lei non si sa nulla, Rosa è una ladruncola passionale che entra ed esce, Mariapia una imprenditrice corrotta per la prima volta in cella e Lucia, omicida per un raptus di follia. Questo testo lo abbiamo scritto nel 1997, ma purtroppo è ancora molto attuale: la corruzione esiste ancora, come esistono ancora le condizioni claustrofobiche nelle quali le detenute devono vivere e convivere, in spazi ristretti, e private della cosa più preziosa: la libertà”. Questo lavoro lo avete portato anche nel carcere maschile di Rebibbia: la reazione dei detenuti? “Erano tutti molto commossi, c’era una bella atmosfera. Adesso due di loro lavorano come tecnici con noi. Comunque questo è un lavoro teatrale vero e proprio, per il pubblico. Ed è proprio questa la nostra intenzione: fare conoscere all’esterno le condizioni di vita dei carcerati. Che, mi creda, sono molto dure. Fermo restando che è giusto che scontino la pena per cui sono stati condannati, ovviamente”. Recitare di nuovo nella sua città davanti ad amici e parenti, è diverso che recitare davanti a un pubblico anonimo? “Sicuramente sarò emozionata. Ci saranno i miei genitori, mio fratello, diversi cugini e tanti amici. Appena posso, torno volentieri a Merano e ho mantenuto tutte le mie vecchie amicizie”. Questa con il Teatro Stabile di Bolzano è solo una collaborazione sporadica? “Per ora purtroppo sì, ma spero proprio in futuro di collaborare con il Teatro Stabile e con Marco Bernardi. Avevamo un progetto insieme, qualche tempo fa, ma poi non se è fatto niente”. Il debutto è stato a Rebibbia “Giorni scontati” - in programma il 18 gennaio al Teatro Puccini di Merano - è una commedia agrodolce scritta da Antonella Fattori e dall’autrice e attrice meranese Daniela Scarlatti che porta alla ribalta un problema scottante, ma sommerso, della nostra società: la vita nelle carceri. Uno spettacolo nuovo prodotto dall’Associazione Molise Spettacoli, che ha debuttato lo scorso 16 dicembre a Roma nel teatro del carcere maschile di Rebibbia. La prevendita dei biglietti si svolge in tutte le librerie Athesia dell’Alto Adige e presso il circuito Athesia Ticket, on line dal sito www.showtime - ticket.com; il giorno dello spettacolo presso la Cassa del Teatro Puccini a partire dalle 17.00. Bergamo: il carcere apre le porte al teatro, in via Gleno la storia di Pinocchio L’Eco di Bergamo, 17 gennaio 2011 “Vi ringrazio perché ci avete dimostrato che fuori non siamo dimenticati”. A parlare è un detenuto del carcere di via Gleno che, visibilmente commosso, ha voluto prendere la parola alla conclusione dello spettacolo che si è svolto domenica pomeriggio 16 gennaio nella casa circondariale di via Gleno. La storia di Pinocchio raccontata in forma di musical non solo ha fatto trascorre un paio di ore serene ai detenuti, ma ha suscitato in alcuni di loro profonde emozioni. Lo spettacolo “Pinocchio e poi…” è stato messo in scena della compagnia Teatro Sì dell’oratorio del Seminarino in Città Alta, un gruppo nato per iniziativa di don Gianluca Brescianini e costituito da oltre 50 attori di età compresa tra i tre e gli oltre sessanta anni. “Al di là del messaggio educativo contenuto del testo, queste iniziative di incontro con l’esterno, permettono di comprendere, diversamente dall’opinione pubblica, che il carcere può essere veramente un momento rieducativo” ha chiarito Antonino Porcino, direttore della casa circondariale, ricordando che durante tutto l’anno sono molte le iniziative di apertura del carcere verso la realtà esterna. Tunisia: il nuovo premier Ghannouchi annuncia “saranno liberati tutti i detenuti politici” Aki, 17 gennaio 2011 Il nuovo governo di unità nazionale tunisino, presentato dal premier Mohammed Ghannouchi, libererà tutti i detenuti politici rinchiusi nelle carceri tunisine. Lo ha annunciato Ghannouchi, citato dalla tv di Stato tunisina. Allerta Algeria a frontiera comune È allerta alla frontiera algero-tunisina, dove polizia e guardie doganali hanno rafforzato i controlli per evitare che i contrabbandieri approfittino del momento di caos. In pochi giorni, riporta El Watan, sono state sequestrate 40 tonnellate di prodotti di ogni genere: olio, zucchero, datteri, alcol, sigarette ma anche 60 mila litri di carburante e medicinali. Inoltre, somme colossali di denaro sono state introdotte in Algeria. Dodici veicoli e camion sono stati sequestrati dalla dogana algerina e almeno dieci persone, precisa il quotidiano, sono state arrestate. Si teme anche che alcuni dei detenuti evasi nei giorni scorsi dai carceri tunisini possano tentare di entrare in Algeria. Anche 100 algerini tra evasi dal carcere di Kasserine Le guardie di frontiera tunisine che operano lungo il confine con l’Algeria sono state messe in stato d’allerta per la possibile fuga di un gruppo di criminali algerini verso il proprio paese. Secondo quanto riferisce l’inviato della tv satellitare al-Arabiya, c’erano anche 100 algerini tra i mille detenuti del carcere di Kasserine evasi ieri. Si tratta di un gruppo di criminali comuni che potrebbe quindi tentare la fuga verso il proprio paese. Secondo alcuni testimoni locali l’evasione dal carcere di Kasserine è stata possibile grazie all’intervento dei parenti dei detenuti che, approfittando della scarsa vigilanza, sarebbero riusciti a penetrare nel centro di detenzione e ad aprire le porte delle celle. L’episodio è avvenuto ieri mattina, quando è circolata la notizia dell’incendio avvenuto nel carcere di Monastir, dove hanno perso la vita 57 detenuti. I parenti dei detenuti di Kasserine hanno dato vita ad una manifestazione spontanea davanti al carcere per chiedere la scarcerazione dei loro congiunti, riuscendo poi ad entrare con la forza nel centro di detenzione. Svizzera: tre detenuti fuggono da carcere Baden Adnkronos, 17 gennaio 2011 Tre uomini sono evasi nella notte dal carcere distrettuale di Baden, nel Canton Argovia. Un impiegato del penitenziario ha constatato la loro fuga stamane verso le 07.10, ha indicato la polizia cantonale argoviese. È quanto riporta il Ticino online. Le forze dell’ordine stanno ricercando un rumeno di 24 anni, un kosovaro di 22 e un moldavo di 28. Tutti e tre si trovavano in detenzione per reati contro il patrimonio. I tre prigionieri sono sfuggiti a piedi nudi, ha precisato ancora la polizia.