Giustizia: cambiare il carcere perché i detenuti non siano vittime della disperazione di Marco Solimano (Garante dei diritti dei detenuti di Livorno) Il Tirreno, 15 gennaio 2011 A distanza di alcuni giorni sento il bisogno di condividere alcune riflessioni sulla tragica morte di Yuri Attinà, all’interno del carcere di Livorno. Non appena informato dell’accaduto mi sono immediatamente recato, in qualità di Garante dei detenuti, nell’istituto di pena per cercare di comprendere il contesto e i modi che hanno portato a questo evento drammatico. L’esame autoptico e le ricerche tossicologiche ci daranno certezza sulle cause del decesso. Ma una cosa mi sento di affermare: Yuri è stato vittima della solitudine, della disperazione, triturato da un meccanismo che rischia di non lasciare scampo alle fragilità ed alle debolezze. Un sovraffollamento inaccettabile che lede diritti e dignità, personale interno ridotto ai minimi termini che non consente alcun percorso riabilitativo, un degrado strutturale che rende ancora più difficile l’esistenza quotidiana e che favorisce percorsi di ulteriore marginalizzazione ed auto marginalizzazione. Il carcere come luogo dell’assenza. Ma con questa realtà bisogna confrontarsi, investire energie, progetto, sapere. Quando accade un evento drammatico è giusto accendere i riflettori, interrogarsi, denunciare. Ma il tempo successivo ci riconsegna il silenzio, il vuoto, il differimento di memoria. Eppure i detenuti che popolano quel luogo continuano a vivere giorno dopo giorno il tempo della pena in una situazione difficile e durissima. Dunque il miglioramento delle condizioni di vita all’interno, l’implementazione delle attività e della presenza del territorio, la costruzione di una cultura inclusiva sono questioni dalle quali non è possibile prescindere. L’intollerabile sovraffollamento degli Istituti non decresce solo perché lo chiediamo: bisogna opporsi con forza a politiche governative che queste condizioni hanno determinato, ma bisogna avere anche la capacità, in questa condizione di emergenza, di costruire un progetto ed un percorso condiviso che abbia credibilità e radici solide. Porre il tema della decarcerizzazione e del differimento della pena in attività socialmente utili, soprattutto per persone che hanno commesso reati correlati all’uso di stupefacenti, incentivare il lavoro all’esterno o le attività di volontariato nel territorio, presuppone la presenza di un tessuto comunitario pronto e consapevole. Dunque è giusto indignarsi di fronte a situazioni tragiche e drammatiche, ma è altrettanto importante interrogarsi se ciascuno ha fatto sino in fondo la propria parte. Io me lo chiedo spesso quando nella solitudine e nel degrado qualcuno muore di overdose, quando incrociamo lo sguardo degli uomini e delle donne ospiti dei centri di accoglienza, quando non si riesce a trovare soluzioni e risposte a bisogni e domande impellenti, quando si rimane senza fiato di fronte alla terribile pesantezza delle condizioni all’interno del carcere. È doveroso che ciascuno si assuma le proprie responsabilità fino in fondo ed offra il proprio contributo fattivo a che alcune condizioni si possano modificare. Il Garante, nell’ambito delle seppur modeste potestà, farà fino in fondo la sua parte. Giustizia: una morte dopo l’altra nel manicomio di Aversa di Dario Stefano Dell’Aquila (Antigone Campania) La Repubblica, 15 gennaio 2011 Il 5 gennaio un ragazzo di 32 anni si è tolto la vita nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa, una terra di mezzo che ha la forma del carcere e la sostanza del manicomio. Il suo nome era Massimo, originario della provincia di Roma. Sofferente psichico, era entrato nel circuito penale a seguito di una denuncia per maltrattamenti familiari. Sottoposto a quella che tecnicamente si chiama “misura di sicurezza provvisoria” ha fatto il suo ingresso da vivo nell’Opg di Aversa a luglio dello scorso anno. Si è tolto la vita, nel primo pomeriggio, senza che nessuno se ne accorgesse, in un luogo teoricamente sottoposto a un doppio regime, sanitario e penitenziario. Sulla vicenda la Procura di Santa Maria Capua Vetere ha aperto un fascicolo con l’ipotesi di omicidio colposo, il che significa, almeno, che ci saranno indagini approfondite per comprendere la dinamica di questa morte. Ma non è delle responsabilità penali che voglio dire, bensì di quelle istituzionali. La storia di Massimo merita qualche parola in più. Proveniente da un contesto familiare difficile, sofferente di un disagio psichico e consumatore di sostanze, condizione che i tecnici definiscono di “doppia diagnosi”, Massimo è stato denunciato dalla mamma, perché era diventato aggressivo e lei ne aveva timore. Vorrei rendere con sobrietà le parole della madre che mi ha telefonato per raccontarmi con parole semplici cose molto dolorose. Vorrei saper raccontare di una madre alla quale non è stato detto come il figlio era morto, ma che ha ricevuto solo la comunicazione della notizia del decesso. Solo con l’aiuto della volontaria che la segue e grazie a Internet ha avuto modo di scoprire il risvolto doppiamente tragico della vicenda. Vorrei saper raccontare di una donna, vedova, che vive solo della sua pensione sociale e dell’aiuto che le danno i volontari della sua parrocchia, che candidamente mi dice “pensavo che era un ospedale, che ne sapevo che era un manicomio”. Così come non poteva sapere che il figlio sarebbe finito a duecento chilometri di distanza, che per andarlo a trovare ogni settimana, se non ti danno un aiuto, spendi tutti i soldi della pensione. Ma “io mio figlio sono andato a trovarlo a dicembre”, mi ha detto, “non è vero che l’ho abbandonato come hanno detto”. Ancora ieri era alla ricerca di un aiuto dai servizi sociali del suo Comune, perché anche per il solo rientro della salma le sono stati chiesti milleduecento euro. Ma questa storia non è figlia del caso, né di un destino cinico e baro. Perché questo è il diciottesimo uomo che muore, nel giro di pochi anni in questa struttura. Morti e suicidi sui quali abbiamo sempre cercato che cadesse un implacabile velo di silenzio. Pagando il dazio di essere considerati ideologici e, alla meglio, velleitari idealisti, per anni abbiamo raccontato cosa era quel posto, cosa erano i manicomi giudiziari in Italia e in Campania. Sembrava che tutto fosse destinato all’attenzione di pochi animi sensibili. E invece, a seguito delle denunce e delle segnalazioni, il Comitato per la prevenzione della tortura, organismo del Consiglio di Europa, si è recato in visita ispettiva nell’Opg di Aversa. E a leggere il loro rapporto abbiamo trovato l’autorevole riscontro alle nostre parole. Struttura sudicia, abuso dei mezzi di contenzione, assenza di trattamenti terapeutici, condizioni inumane e degradanti, isolamento prolungato, condizioni igieniche indecenti. Quando il rapporto, redatto nel 2008, fu reso pubblico lo scorso anno si disse che ora la situazione era cambiata. Va dato merito alla commissione parlamentare di inchiesta sul sistema sanitario, presieduta da Ignazio Marino, che ha effettuato visite ispettive nel manicomio giudiziario, accompagnato dai Nas, e che ha rilevato condizioni delle celle e dei reparti definiti, letteralmente, “disumani”. Questa disumanità continua a generare vittime, nei miei personali conti, almeno tre negli ultimi sei mesi, senza che nessuno ne risponda. Questo fine settimana il Forum salute mentale si riunirà in due giorni di studi e seminari, per individuare strategie per il superamento di questo orrore manicomiale. Ciò è senz’altro indispensabile, ma nell’esatta misura in cui desideriamo un futuro diverso, dobbiamo essere in grado di guardare al presente di vittime e di morti che ci chiedono giustizia. Umbria: Bernardini (Pd); sovraffollamento e suicidi in aumento nelle carceri Agenparl, 15 gennaio 2011 Il problema del sovraffollamento e della violenza nelle carceri italiane è sempre più drammatico. Solo nelle case circondariali umbre il tasso supera il 47%. Della questione se n’è occupato il sito internet Umbria24, dove sono apparsi, nell’articolo scritto da Daniele Bovi, i dati forniti dalla Uil-Pa Penitenziari e relativi alla difficile situazione che stanno attraversano gli istituti penitenziari. “Infatti, solo nel 2010 ci sono stati: un suicidio, 19 tentati suicidi, 258 atti di autolesionismo, 13 aggressioni agli uomini e alle donne della polizia penitenziaria e 125 detenuti in sciopero della fame, - dichiara l’On. Rita Bernardini (Pd), nella sua interrogazione destinata al Ministro della Giustizia - in particolare, nel solo carcere di Capanne, si sono verificati ben 146 atti di autolesionismo”. La deputata dell’opposizione chiede al Ministro Alfano se non intende avviare, negli ambiti di rispettiva competenza, un’indagine ispettiva presso gli istituti di pena umbri, in particolare presso il carcere di Capanne. Umbria: Stufara (Prc-Fds); urgente l’istituzione di una figura di garanzia per le carceri Ansa, 15 gennaio 2011 Il capogruppo regionale del Prc-Fds, Damiano Stufara, dopo il suicidio del giovane detenuto del carcere di Capanne, ha definito insostenibile la condizione della reclusione in Italia, chiedendo al consiglio regionale dell’Umbria l’urgente nomina di un Garante dei detenuti. “Il suicidio del giovane detenuto nel carcere di Capanne di Perugia è solo l’ultimo episodio che, al pari delle morti bianche, riassume tragicamente il profondo deterioramento del sistema di tutela dei diritti della persona nel nostro paese”, ha detto Stufara in un comunicato. “Occorre che il Consiglio regionale dell’Umbria proceda alla nomina del Garante dei detenuti”, con il ruolo di monitorarne le condizioni di reclusione. “L’istituzione della figura del Garante - spiega Stufara - consentirebbe non solo alla regione di monitorare costantemente le condizioni di reclusione, ma rappresenterebbe soprattutto una risorsa per tutte le persone private della libertà per promuovere i propri diritti, recuperando in questo modo anche un rapporto positivo con le istituzioni pubbliche. La nomina del Garante, già sollecitata nel giugno scorso e a tutt’oggi non ancora avvenuta, rappresenta dunque un atto tanto elementare quanto necessario, se realmente si vuol tentare di evitare tragedie come quella dello scorso mercoledì sera a Capanne” Stufara non ha invece condiviso quanto richiesto dal Sindacato autonomo di polizia penitenziaria (Sappe) circa la sottrazione ai detenuti delle le bombolette di gas onde impedirne l’utilizzo a fini di aggressione o di autolesionismo. Il consigliere ha piuttosto invitato a “costruire quei percorsi di sostegno, recupero e di riabilitazione sociale e civile dei detenuti che non sono solo un preciso diritto di coloro che si trovano privati della propria libertà, ma anche e soprattutto la garanzia perché non vi siano più né aggressioni, né morti di carcere”. Umbria: Zaffini (Fli); Stufara chieda conto alla sua maggioranza dei fondi tagliati Agenparl, 15 gennaio 2011 “Anziché invocare l’inutile figura del garante dei detenuti, l’ex assessore di Rifondazione dovrebbe chiedere conto alla sua maggioranza dei fondi tagliati dalla Regione per la sanità penitenziaria che hanno causato il dimezzamento del personale infermieristico e ridotto incisivamente le ore di servizio dei medici psichiatri”. Così il consigliere regionale dell’Umbria di Fli, Franco Zaffini su quanto rilevato dal capogruppo regionale Prc-Fds, Stufara che in una nota a commento della situazione nelle carceri italiane, seguita al suicidio di un giovane detenuto nel carcere di Capanne, aveva sollecitato la nomina del garante dei detenuti umbri. “Quando si verificano fatti così gravi, come il suicidio di un detenuto - continua Zaffini - gli esponenti di certa politica ideologica si scagliano contro chi, nel fare il proprio lavoro, un lavoro duro e logorante come quello dell’agente penitenziario, cerca di arginare come può carenze strutturali del sistema detentivo le cui competenze sono ripartite tra il dipartimento centrale e l’amministrazione regionale”. Zaffini sostiene che dalle informazioni in suo possesso, nel caso specifico dell’ultimo suicidio, si trattava di un soggetto segnalato per gravi problemi psichiatrici, bisognoso di assistenza medica. “La proposta dei sindacati di sottrarre ai detenuti i fornelli a gas - dice Zaffini - rappresenta il tentativo di scongiurare altri episodi del genere a tutela della vita stessa di chi deve scontare una pena per il reato commesso, colpevolizzare gli agenti in servizio, invece, è strumentale oltre profondamente ingiusto”. “Esiste un’emergenza carceri - afferma ancora Zaffini - che è sotto gli occhi di tutti, con problemi gravissimi di organico e conseguente sovraccarico di lavoro e turnazione, carenza di strutture specifiche come, gli Opg (ospedali psichiatrici giudiziari) in cui risulta quasi impossibile inviare i detenuti problematici per mancanza di posti; e poi ancora scarsa presenza di personale specializzato per far fronte ai problemi connessi agli stati di tossicodipendenza. In questo contesto - conclude Zaffini - c’è ancora chi, pur di difendere ‘alla ciecà coloro che comunque hanno commesso ha un reato, getta discredito su tutte quelle persone oneste che, per poco più di mille euro, mantengono le proprie famiglie costretti a lavorare in condizioni limite e proibitive”. Calabria: Giordano (Idv); Alfano intervenga contro sovraffollamento carceri Ansa, 15 gennaio 2011 “I dati allarmanti sulla situazione carceraria in Calabria sono sotto gli occhi di tutti”. Lo afferma il consigliere regionale dell’Italia dei valori, Giuseppe Giordano. “Le organizzazioni sindacali - aggiunge - denunciano ormai da tempo l’insostenibilità della capacità ricettiva delle strutture carcerarie calabresi che riguardano una popolazione di 3.316 persone a fronte di una capienza regolamentare di 1.885, con una media dell’indice di sovraffollamento regionale al 77,3% che pone la Calabria al terzo posto delle regioni con il più alto tasso di sovraffollamento penitenziario. Concordiamo con i rappresentanti sindacali, nella loro analisi e sulle richieste che quotidianamente avanzano al ministro Alfano. In passato - precisa Giordano - avevamo denunciato la situazione del costruendo carcere di Arghillà, degli sprechi perpetrati e sulla mancata previsione di un suo completamento nell’attuale piano carceri e rimarcavamo l’importanza di intervenire anche sulle strutture esistenti ormai in stato di degrado e di abbandono, ma il governo mostra poca attenzione. Eppure negli ultimi anni, grazie al duro lavoro del compianto provveditore regionale Paolo Quattrone, il sistema penitenziario aveva compiuto passi importanti. Gli sforzi, per l’immobilismo del Governo, sono stati vanificati. Particolarmente grave è la situazione degli uffici di esecuzione penale esterna di Reggio Calabria, Catanzaro Vibo e Crotone in atto retti da dirigenti part-time che curano l’ordinaria amministrazione. Cosa aspetta il ministro Alfano - afferma Giordano - a mettere in atto gli interventi più urgenti in materia di personale sia sul lato amministrativo, sia sul fronte degli agenti penitenziari. E ancora, prendendo atto dell’impegno del Presidente del Consiglio regionale in un recente incontro con il sindacato, chiediamo che oltre alla lettera di sensibilizzazione da inviare al Ministro, si possa dedicare uno specifico spazio all’interno di una seduta consiliare dedicato ai problemi sollevati dalle organizzazioni sindacali e sollecitare la Giunta, per come richiesto in sede di Conferenza regionale volontariato giustizia della Calabria affinché si istituisca al più presto la figura del garante dei diritti dei detenuti. Perugia: suicidio in cella, oggi l’autopsia sul corpo di Michele Massaro La Nazione, 15 gennaio 2011 Vuole sgomberare il campo da ogni dubbio il pubblico ministero Sergio Sottani riguardo il decesso di Michele Massaro, il detenuto morto mercoledì nella cella “1” del reparto circondariale del carcere di Capanne, al terzo piano. Per questo motivo ha incaricato il medico legale Sergio Pantuso Scalise di effettuare l’autopsia del giovane, vittima di un suicidio con una bomboletta di gas propano solitamente utilizzata per cucinare. L’esame è in programma per stamani all’obitorio dell’ex Silvestrini. Il corpo del giovane, 23 anni originario della provincia di Taranto, è stato notato da un agente di custodia mentre riaccompagnava in cella il compagno napoletano di Michele. Quest’ultimo era ancora sul letto, con un sacchetto di plastica calato sulla testa. Sono ancora in corso accertamenti da parte della polizia penitenziaria e della questura che stanno valutando l’ipotesi di un incidente legato all’uso del gas stesso per stordirsi e quella del suicidio. Il detenuto stava scontando un cumulo di pena legato a diverse condanne. Sarebbe dovuto uscire dal carcere - secondo quanto si è appreso - nel 2018. Quando ha inalato il gas il detenuto era solo in cella, è stato subito soccorso dal personale di sorveglianza e dai medici del 118 ma ogni tentativo è risultato inutile poiché è morto poco dopo. Il Sappe, Sindacato autonomo di polizia penitenziaria, si è interrogato sull’utilizzo delle bombolette utilizzate dai detenuti per cucinare e riscaldare cibi, “oggetti spesso utilizzati come armi contro i poliziotti o come veicolo suicidario. Riteniamo che sia giunto il momento di rivedere il regolamento penitenziario visto che l’amministrazione fornisce il vitto a tutti i detenuti”. Il Sappe ha anche ricordato che nel carcere di Perugia il 31 dicembre scorso erano rinchiusi 519 detenuti a fronte di 352 posti letto. Caserta: Osapp; 100 poliziotti addetti alle traduzioni, ma si occupano di 1.050 carcerati Il Mattino, 15 gennaio 2011 Cento i poliziotti addetti alle traduzioni, ma si occupano di 1.050 carcerati ristretti nella casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere, nel carcere di Carinola e Arienzo. “Siamo sotto organico - spiega Vanacore, responsabile provinciale dell’Osapp, organizzazione sindacale autonoma della penitenziaria - e in questo momento il servizio provinciale Casertano è dotato di un unico bus per il prelievo dei detenuti dal carcere fino in tribunale e per le traduzioni in altre carceri”. Stando a quanto dichiarato dal segretario nazionale dell’Osapp Pasquale Montesano in media c’è un solo agente a guardia di circa 70 prigionieri e “ben 850 detenuti sono reclusi per crimini gravissimi”. “Una volta è successo che un detenuto è scappato perché la struttura che l’ospitava non era adeguata, un’altra volta ancora è accaduto che il bus blindato si è fermato perché guasto. Al suo interno c’era il detenuto. E ci sono anche bus che gocciolano quando scende la pioggia e noi ci bagniamo tutti”. Si strofina le mani quando parla e spalanca gli occhi quasi a sottolineare l’importanza di ciò che dice. È Lorenzo Vanacore, poliziotto della penitenziaria addetto al servizio traduzioni e piantonamento dei detenuti. In carcere da libero e per lavoro, Lorenzo Vanacore è uno dei cento agenti che ogni giorno si occupano delle traduzioni di detenuti rinchiusi nelle strutture carcerarie del Casertano. Un lavoro che richiede prestazioni lavorative di ventiquattro ore con turni che sforano le otto ore sindacali. In tutto sono 100 i poliziotti addetti alle traduzioni, ma si occupano di 1050 carcerati ristretti nella casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere, nel carcere di Carinola e Arienzo. “Siamo sotto organico - spiega Vanacore, responsabile provinciale dell’Osapp, organizzazione sindacale autonoma della penitenziaria - e in questo momento il servizio provinciale Casertano è dotato di un unico bus per il prelievo dei detenuti dal carcere fino in tribunale e per le traduzioni in altre carceri”. Tre giorni fa, racconta Vanacore, è successo anche che il bus blindato si è fermato in tribunale e non è più ripartito: “Sono venuti in soccorso i colleghi di Salerno per spostare il detenuto”. Nei mesi successivi all’estate scorsa, un recluso ricoverato nel reparto psichiatrico è evaso dal nosocomio di Aversa aggredendo un poliziotto: “Certo, poi è stato ritrovato - racconta - ma ciò è accaduto perché non esistono strutture adeguate per ricoverare i detenuti. Da circa sette anni è chiuso il reparto detentivo dell’ospedale di Caserta situato al quinto piano del San Sebastiano”. Si tratta di un piccolo dipartimento medico e infermieristico con celle, adattato alle esigenze del sistema carcerario. Chiuso per ristrutturazione nel 2004, non è mai stato riutilizzato. Diversa la situazione carceraria nella casa circondariale sammaritana. Lì, dove sono rinchiusi i più pericolosi e sanguinari boss del clan dei Casalesi, dei Belforte di Marcianise e del gruppo di Giuseppe Setola. Stando a quanto dichiarato dal segretario nazionale dell’Osapp, Pasquale Montesano, in media c’è un solo agente a guardia di circa 70 prigionieri. “Ben 850 detenuti sono reclusi per crimini gravissimi - spiega Montesano - eppure il carcere è recitato con una rete che sembra quella di un pollaio, è al minimo delle norme di sicurezza e qualche tempo fa denunciammo anche la presenza dello Stir a circa 300 metri di distanza dalle mura della casa circondariale che emana olezzi nauseabondi”. Uno sversatoio di rifiuti che in questi giorni sta accogliendo anche l’immondizia da Napoli grazie a un accordo con la provincia di Caserta. A Carinola ce ne sono circa 400 di detenuti e sono tutti sottoposti al regime di alta sicurezza, di I livello (detenuti ex 41 bis), II (parenti di boss e affiliati più stretti) e III livello (per 416 bis). “Siamo in una situazione di non ritorno - spiega Pasquale Montesano - dal mese di dicembre del 2009 i poliziotti del nucleo traduzioni non percepiscono il denaro per le missioni”. Eppure il nucleo di Caserta che si occupa di trasferimenti e piantonamenti è il quarto in Italia - dopo Milano, Napoli e Roma - per numero di traduzioni e per pericolosità dei soggetti trasportati. Da oltre un anno l’Osapp sta inviando fax ed email al prefetto di Caserta, al Ministero della Giustizia, al Prap e a Dap, senza ricevere mai risposta. “Il problema della carenza di organico e delle strutture fatiscenti e non adeguate va affrontato con una discussione nei comitati di ordine e sicurezza in prefettura - conclude Montesano - da troppo tempo è stato sottovalutato, ma si deve pensare che solo con un sistema carcerario sicuro i cittadini possono essere più sicuri”. Montesano ha spiegato che la prossima settimana l’Osapp chiederà che la polizia penitenziaria venga gestita dal Ministero dell’Interno e non da quello della Giustizia. Palermo: Cgil; all’Ucciardone condizioni igieniche inaccettabili, 2 sezioni vanno chiuse La Sicilia, 15 gennaio 2011 Muri che cadono a pezzi, soffitti coperti dalla muffa, ambienti maleodoranti, docce che non funzionano, servizi igienici in tilt. Muri che cadono a pezzi, soffitti coperti dalla muffa, ambienti maleodoranti, docce che non funzionano, servizi igienici in tilt. Sono apparse così, dopo un’ispezione, le sezioni sesta e settima del carcere Ucciardone dove si trovano cinquecento detenuti in attesa di scontare la pena e una ventina di agenti. A lanciare l’allarme sulle condizioni ambientali al limite del collasso della struttura, è Rosario Di Prima, segretario regionale Cgil della Polizia Penitenziaria, che ha scritto, tra gli altri, al capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria di Roma, Franco Ionta, per chiedere che le due sezioni siano chiuse e che i detenuti siano trasferiti in altri carceri. “L’ambiente - attacca il sindacalista - è invivibile. La muffa ha invaso tutte le pareti formando dei murales naturali e un odore nauseabondo. I detenuti non possono fare le docce, si rischiano problemi sanitari che potrebbero avere ripercussioni anche fuori dal carcere”. Da tempo, infatti, il sindacato sostiene che l’Ucciardone, antica struttura borbonica, dovrebbe esser chiuso e trasformato in un museo da restituire alla collettività. “Il penitenziario - continua Di Prima - è obsoleto, i detenuti rischiano di morire per la muffa, non è garantito nemmeno il diritto all’igiene, in queste condizioni non è umano scontare le pene né pensare di saldare il proprio debito con la società. Questa struttura è stata costruita su una falda acquifera e ha sempre avuto problemi. Ora, con la chiusura dei servizi, c’è il rischio che la situazione degeneri”. Sul caso è stato anche presentato un esposto alla Procura della Repubblica da parte del parlamentare Rita Bernardini, che ha anche fatto una serie di interrogazioni. “Ad intervenire - continua il sindacalista - dovrebbe essere anche l’Asp, che non può restare indifferente di fronte a questo dramma”. Nei giorni scorsi, la Cgil ha anche rinunciato a presentare una propria lista nell’elezione per i rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza. “In condizioni come queste - si legge nella missiva - non vi sono le condizioni minime di sicurezza, salubrità e igiene nei luoghi di lavoro, tali da giustificare la presenza di nostri candidati nelle liste”. Una risposta estrema che, promette il sindacato, “costringerà la Cgil a porre azioni di protesta oltre che richiedere l’intervento delle istituzioni di controllo”. Venezia: Sappe; no a nuova carceri, riattivare la ex Casa di Lavoro della Giudecca Il Gazzettino, 15 gennaio 2011 Altre carceri per Venezia non servono. Basta riattivare la ex Casa del Lavoro della Giudecca oggi chiusa per ristrutturazione che con i suoi cento posti rappresenta una valvola di sfogo concreta al sovraffollamento di Santa Maria Maggiore, permettendo di applicare il dettato costituzionale del recupero sociale del condannato attraverso l’insegnamento e la pratica di un mestiere nei laboratori formativi. L’ipotesi Montiron? Assolutamento no. Nel dibattito sulla realizzazione di una nuova struttura detentiva in laguna entra a gamba tesa il Sappe, il Sindacato autonomo di polizia penitenziaria, e lo fa con una lettera inviata al sindaco e a tutti i capigruppo consiliari comunali firmata da Filomeno Porcelluzzi e da Michele Di Noia per la segreteria provinciale. “L’unico riscontro finora lo abbiamo ottenuto dal Pd e proprio oggi (ndr. ieri) - spiega Porcelluzzi - ci stiamo recando a Cà Farsetti per un incontro. Ci sembra giusto se non doveroso che si ascolti anche l’opinione di chi in prigione ci lavora prima di prendere decisioni di tale portata. Perché nessuno ha mai pensato di interpellare i rappresentanti del corpo di polizia penitenziaria?”. Né a Campalto né a Favaro. Per il Sappe la strada della realizzazione di una casa circondariale lontana dal centro storico non va proprio imboccata. “È così. Da una parte - risponde Porcelluzzi - non ci sono soldi per nuove assunzioni di personale, per la formazione, per pagare lo straordinario o la benzina dei mezzi in dotazione. In compenso però lo Stato ha 45 milioni da “buttare”. Ed è chiaro che l’alternativa su cui si sta realmente puntando è Forte Pepe perché ci fa pensare che in quella “palude” da bonificare più appetitoso sia il business dei costruttori”. “Lo ripetiamo - conclude Porcelluzzi - di milioni ne bastano davvero molti di meno per soluzioni più efficaci e per di più nel breve termine. Al sindaco Orsoni chiediamo di avere il coraggio di battersi per la riqualificazione della Casa del lavoro con la prospettiva di impegnare i detenuti in progetti di utilità pubblica come la sistemazione di calli e parchi o la pulizia dei canali e delle spiagge. Gli chiediamo inoltre di non condannare all’esilio forzato i giovani di vent’anni che prestano servizio nella polizia penitenziaria, confinandoli in una “discarica”. Relegato al Montiron il reparto non avrebbe più nessun legame con la città, si priverebbe un sestiere di Venezia della presenza storica di un presidio di polizia, annullando una base navale che in un prossimo futuro potrebbe avere un ruolo operativo più articolato in ambito lagunare”. Pordenone: chiuso un altro anno di emergenza… aspettando il nuovo carcere Messaggero Veneto, 15 gennaio 2011 Più detenuti di quelli che dovrebbe accogliere (84 al posto di 68) e meno agenti di quelli che servirebbero (46 invece di 59). Il castello di Pordenone chiude un 2010 ancora in emergenza anche se i picchi di sovraffollamento sono diminuiti e con essi gli eventi critici: meno di una decina i casi di sciopero della fame e autolesionismo. Tra le nuove grane, invece, la riduzione dei fondi. Il 2010. A margine dell’incontro per ricevere i televisori raccolti dalla San Vincenzo, il direttore Alberto Quagliotto ha tracciato un bilancio di un nuovo anno di emergenza. “La situazione tutto sommato è stata meno critica dell’anno precedente - ha spiegato -. La media è stata di 84 ospiti, non si sono raggiunti i picchi del 2009”. Il problema non è al primo piano dove si trovano i detenuti a divieto d’incontro (in carcere soprattutto per reati sessuali), ma al piano terra dove si trovano quelli rinchiusi per reati comuni: droga, furti e reati contro il patrimonio sono i più frequenti. “La nostra situazione - commenta Quagliotto - è comunque meno grave di molte altre strutture”. L’indice di sovraffollamento si attesta sul 62 per cento. Meno eventi critici. La minor concentrazione di persone per cella ha ridotto la ricorrenza di eventi critici nei quali rientrano scioperi della fame e episodi di autolesionismo. Il carcere fortunatamente non annovera suicidi. Il clima che la direzione ha costruito, grazie alla stretta collaborazione di agenti, educatori e delle associazioni di volontariato, ha favorito la riduzione di situazioni di tensione. Aspettando il nuovo carcere. Dire quando Pordenone potrà avere finalmente una struttura rispondente al fabbisogno del territorio (provinciale ma anche regionale visto che il nuovo carcere dovrà assorbire anche le eccedenze delle altre province) non si può ancora dire. “L’importante - evidenzia il direttore - è che il percorso ormai sia segnato”. Dopo la sottoscrizione della bozza di accordo di programma da parte di Comune e Provincia, la Regione si è impegnata a sottoscrivere l’accordo con il Ministero entro febbraio, accordo che identifica nel sito di via Castelfranco in Comina quello condiviso per la costruzione del nuovo carcere. Polizia penitenziaria. E nel capitolo emergenza rientra come sempre l’organico ridotto della polizia penitenziaria. “Dovrebbe essere formato da 59 figure tra agenti e ispettori - spiega il comandante Attilio Napolitano -, ma siamo ancora lontani da questo numero. Da quando sono qui (ndr quattro anni) non sono arrivate nuove unità”. Attualmente gli uomini in servizio sono 46, ma solo sulla carta: quelli in attività non superano mai la quarantina. Meno fondi. Un’altra delle criticità con cui la casa circondariale deve misurarsi è la riduzione di fondi: sia quella ministeriale, che cala inesorabile su tutti i penitenziari, sia quella regionale. La mancanza di queste risorse ha per esempio interrotto un progetto rivolto agli educatori (e realizzato dal Sert di Gemona). “Speriamo che il problema - auspica il direttore - possa essere superato”. Roma: delegazione dei Radicali in visita al reparto trans di Rebibbia Adnkronos, 15 gennaio 2010 Una delegazione di Radicali, composta da Rita Bernardini, deputata radicale del Pd e Presidente dell’Associazione radicale Certi Diritti, Giuseppe Rossodivita, consigliere regionale radicale del Lazio, Leila Deianis, presidente dell’Associazione Libellula e Sergio Rovasio, segretario dell’Associazione radicale Certi Diritti, si sono recati in visita nel Carcere romano di Rebibbia, accompagnati dal Direttore, Carmelo Cantone. Ne dà notizia una nota dei Radicali. In particolare, la visita è stata fatta nel reparto delle persone transessuali all’interno del quale sono rinchiuse 25 persone, quasi tutte straniere. “La condizione delle persone transessuali nel carcere - denunciano i Radicali - è del tutto incompatibile rispetto ai bisogni e all’assistenza medica specialistica di cui necessitano. Tra i problemi piu’ gravi vi è quello del sovraffollamento e della mancanza di attività lavorativa. In tutto il reparto vi sono solo due persone lavoratrici e l’assistenza sanitaria specialistica, come per tutta la popolazione detenuta in Italia, è del tutto inadeguata”. In tutta Italia le persone transessuali detenute sono 168 distribuite in 17 carceri italiane, ricordano i Radicali. La maggior parte delle persone transessuali detenute si trovano nelle carceri di Napoli, Roma, Firenze e Belluno. Quasi tutte, spiega ancora la nota, sono persone extra-comunitarie e molte si trovano in regime detentivo per violazione della legge sull’immigrazione. Vi sono molte persone transessuali in condizioni di forte disagio. L’Associazione Radicale Certi Diritti si impegna a fare visita a tutti e 17 i reparti distribuiti in Italia. Piu’ in generale, denunciano ancora i Radicali, “nel solo carcere di Rebibbia quest’anno sono stati fatti ingenti tagli ai fondi destinati dall’Amministrazione Penitenziaria ai detenuti lavoratori per un importo complessivo di 650.000 Euro. Tra i più gravi problemi riscontrati nel carcere di Rebibbia, che ha nel Reparto Nuovo Complesso 1.670 detenuti, con una capienza di 1.200, vi è quello dei gravi tagli fatti alla manutenzione delle strutture che sono per tutto l’anno pari a 50.000 Euro. Come termine di paragone basti pensare che il Palazzo del Consiglio Regionale del Lazio, di via della Pisana a Roma, ha una destinazione per la manutenzione di un importo di oltre 8 milioni e mezzo di euro ogni anno”. Aversa (Ce): superare gli Opg… tante voci contro l’assurdità dei manicomi criminali Redattore Sociale, 15 gennaio 2011 VI Forum Nazionale Salute Mentale. Sono oltre 1300 gli internati presenti nei sei Opg italiani, persone richiuse, nella maggior parte dei casi, per reati minori che si trovano a scontare “un ergastolo bianco” e a vivere in condizioni di coercizione e degrado. Si è aperto oggi al Castello aragonese di Aversa il VI Forum Nazionale Salute Mentale che propone una serie di interventi, riflessioni e confronti, in programma fino a domani nella cittadina casertana. Al centro del dibattito quest’anno l’Ospedale psichiatrico giudiziario (Opg), tema prioritario per il forum che si batte fin dalla sua nascita, nel 2003, per il suo superamento. “Sono stati anni difficili per la salute mentale - sostiene Giovanna Del Giudice, portavoce del forum - a causa del forte attacco alla legge 180, determinando un ritorno al passato in alcuni casi, ma lo scandalo degli Opg deve essere definitivamente cancellato. Occorre chiudere i manicomi criminali e porre fine all’assurdità e alla violenza che si consumano al loro interno. Se queste strutture permangono è anche per il ruolo svolto dai Dipartimenti di salute mentale, che si trovano ad affrontare oggi una nuova sfida rispetto al modello organizzativo. Bisogna ripartire dal paradigma dell’agire terapeutico, delle culture alla base dell’imputabilità, del differente sguardo sull’altro, della fine della medicina penitenziaria e della presa in carico da parte del sistema sanitario regionale, dalla piena tutela della salute nelle carceri. Malgrado nuovi strumenti legislativi che consentirebbero il contrasto dell’internamento degli Opg, si assiste stranamente a un aumento delle presenze, in numero stabile negli ultimi venti anni. Intanto si continua a mettere strettamente in relazione la pericolosità sociale con la malattia mentale”. Sono oltre 1.300 gli internati presenti nei sei Opg italiani, persone richiuse, nella maggior parte dei casi, per reati minori che si trovano a scontare “un ergastolo bianco”, e a vivere in condizioni di coercizione e degrado, con un aumento significativo del numero di suicidi e degli atti di autolesionismo. “Una chiara violazione dei diritti umani le condizioni in cui vivono gli internati” denuncia indignato Patrizio Gonnella, presidente nazionale di Antigone. “Nell’ospedale di Aversa, dove oggi si trovano circa 300 internati, l’ultimo letto di contenzione è scomparso nel 2008 - sottolinea Tiziana Celani, direttore del Dipartimento di Salute Mentale dell’Asl ex Caserta 2 - Bisogna entrare nel processo di superamento mettendo insieme, come stiamo facendo oggi, tutti gli attori coinvolti, dai Dipartimenti, alle Regioni, ai Ministeri, allo stesso terzo settore. A partire dalle dimissioni dei pazienti e dall’attivazione di percorsi di reinserimento sociale”. Se tutti sono d’accordo sulla necessità di un superamento sostanziale degli Opg, molti si chiedono come si possa realizzarlo. Il processo per chiudere gli ospedali giudiziari - secondo gli organizzatori del forum - necessita di politiche nazionali e regionali, con cui torni ad essere prioritaria la tutela dei diritti dei detenuti e dei malati mentali, ma anche di risorse economiche e umane. È con il Dpcm del primo aprile 2008 che comincia questo percorso. “Il superamento degli Opg - Giuseppe Nese, dell’Osservatorio regionale sulla sanità finanziaria per la Campania, fa il punto sull’applicazione del decreto - coincide con la ristrutturazione dell’offerta dei servizi di salute mentale del territorio, che sposta la responsabilità sanitaria in capo ai Dipartimenti di Salute Mentale, e realizza, ove possibile, le dimissioni dell’internato, nel quadro più generale della regionalizzazione degli ospedali. Ma la legge non viene applicata ovunque allo stesso modo: abbiamo davanti un cammino graduale”. Assenti il ministro della Salute Ferruccio Fazio e il presidente della conferenza delle Regioni Vasco Errani, mentre era presente alla giornata di apertura della conferenza il senatore Ignazio Marino, presidente della Commissione d’inchiesta parlamentare sull’efficienza ed efficacia del Servizio Sanitario Nazionale. Nuoro: interrogazione alla Camera su condizioni della detenuta 74enne Grazia Marine Adnkronos, 15 gennaio 2011 Alla Camera la vicenda di Grazia Marine, la donna di 74 anni reclusa nel carcere di Nuoro di Badu ‘e Carros le cui condizioni di salute destano preoccupazione nei familiari che nei giorni scorsi si erano rivolti all’associazione Socialismo Diritti Riforme. Accogliendo la segnalazione della presidente Maria Grazia Caligaris, la deputata radicale Rita Bernardini, ha presentato un’interrogazione ai Ministri della Giustizia Angelino Alfano e della Salute Ferruccio Fazio. Nel documento la parlamentare sostiene che per una donna così anziana che ha sempre vissuto in condizioni decisamente poco agiate, forse sarebbe opportuno pensare a una pena attenuata almeno per garantirle il mantenimento della dignità”. Grazia Marine è detenuta a Nuoro per il sequestro di Silvia Melis. La donna, è stato riconosciuto dalle indagini, fu carceriera della ragazza rapita il 19 febbraio del 1997 a Tortolì (Nu), di fronte alla casa del padre. Fu liberata l’11 novembre del 1997 dopo 265 giorni di prigionia, con modalità che non furono mai chiare. Il padre Tito Melis, ingegnere, dichiarò di non aver mai pagato il riscatto, ma le indagini accertarono che l’uomo consegnò all’avvocato di Gavoi, Antonio Piras 1 miliardo di lire, che venne girato all’editore dell’Unione sarda Nicola Grauso, che lo consegnò ai banditi. Grazia Marine, arrestata il 29 maggio del 1999, ebbe un ruolo importante nella custodia della Melis. La custodì a Nuoro, nella prigione che la stessa Melis definì “Il buco nero”, raccontando agli inquirenti di sentire durante la prigionia rumori, voci, l’orologio di una chiesa che scandiva le ore, perfino il camion dell’immondezza e i colpi di tosse di un uomo. Fu confermato che l’uomo, Giovanni Antonio Porcu, era convivente della Marine, e che tossiva quando saliva le scale dell’appartamento dove la Melis era tenuta prigioniera. Si trattava di un appartamento a Nuoro, in via Trento, al 19, dove trascorse del tempo sotto la sorveglianza della Marine. Il tribunale di Lanusei condannò Grazia Marine a 25 anni e sei mesi, il figlio Antonio Maria Marini a 30 anni e Pasqualino Rubanu a 26 anni di carcere. Fu assolto invece Andrea Nieddu. La condizione in cui si trova Grazia Marine - ha spiegato Maria Grazia Caligaris, presidente di Sdr - non dipende dalla struttura in sé, né dalla gestione dell’Istituto di Pena o dal responsabile medico. È un documento tangibile invece dell’inadeguatezza del sistema carcerario quando si tratta di persone anziane e ammalate che inevitabilmente vivono una situazione di particolare disagio. Una donna - afferma la Caligaris - che si trova in precarie condizioni di salute per l’età avanzata e per le diverse e gravi patologie da cui è affetta deve poter scontare la pena in un ambiente umanamente accettabile. Occorre un atto di clemenza affinché la privazione della libertà non sia aggravata da un gratuito aggiuntivo disagio. L’ordinamento penitenziario, nel rispetto della Costituzione, non dimentica l’umanità della pena. Gorgona (Li): mare in tempesta, vigili fuoco portano viveri al carcere Ansa, 15 gennaio 2011 Il mare non permetteva l’attracco in sicurezza delle imbarcazioni della Capitaneria di porto e della polizia penitenziaria e così oggi sono stati i vigili del fuoco a permettere di ricevere risorse di vario genere all’isola di Gorgona (Livorno). La circostanza, come confermato dalla prefettura livornese, si era già riproposta durante le ultime vacanze di Natale. Le particolari condizioni del mare avevano reso proibitive le manovre di attracco nel porticciolo di Gorgona, dove si trova un istituto penitenziario, per le unità navali a disposizione della polizia penitenziaria e della guardia costiera. Oggi, con partenza alla mattina, il servizio di trasporto di viveri e gasolio (programmato e autorizzato da tempo dalla Prefettura) è stato effettuato da una motovedetta dei vigili del fuoco che ha caratteristiche tali da poter attraccare sull’isola con maggiore facilità e sicurezza. Tutte le operazioni si sono svolte senza problemi. Televisione: la trasmissione “I Fatti Vostri” (Rai Due) cerca detenuti a fine pena… Ristretti Orizzonti, 15 gennaio 2011 Chiediamo una gentile collaborazione per la rubrica concernente storie dalle carceri italiane, in onda settimanalmente nel nostro programma “I Fatti Vostri” in onda su Rai2. In particolare avremmo bisogno di ricevere segnalazioni su detenuti/e di prossima scarcerazione. Tali detenuti/e, preventivamente ed opportunamente informati, dovrebbero essere disponibili a rilasciare un’intervista il giorno della loro uscita dal carcere, per fare un bilancio della loro esperienza umana e carceraria con riferimento a quanto del cambiamento auspicabile possa essersi verificato nel corso della pena detentiva. Con riferimento soprattutto e principalmente ai percorsi trattamentali fondamentalmente messi in atto per la formazione lavorativa. In seguito saremmo lieti di ospitarlo/a nei nostri studi televisivi unitamente ad una persona cara che lui/lei ci indicherà. Attraverso un colloquio franco ed amichevole con il nostro conduttore Giancarlo Magalli si cercherà di evidenziare progetti ed aspettative future per un reale e positivo cambiamento di vita. Certi di una cortese e sollecita collaborazione, sentitamente porgiamo i nostri ringraziamenti. Marilù Simoneschi cell. 366.3098381 Immigrazione: Garante Lazio; due “ospiti” del Cie espulsi per errore in Algeria Agi, 15 gennaio 2011 Giurano di essere marocchini ma il consolato algerino li riconosce come propri cittadini e ne autorizza il rimpatrio. Salvo rispedirli in Italia, dopo 100 giorni di carcere, una volta capito l’errore. È l’incredibile, kafkiana disavventura - scoperta e denunciata dal Garante dei diritti dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni - toccata a due marocchini di 29 e 33 anni, ospiti dei Centri di identificazione ed espulsione di Gorizia e Ponte Galeria. La loro storia - accusa Marroni - testimonia “le difficoltà nell’applicazione dell’attuale legislazione sull’immigrazione, soprattutto per quanto riguarda le espulsioni forzate, e le procedure di riconoscimento, spesso effettuate con grave ritardo”. Secondo quanto ricostruito dai collaboratori del Garante, l’espulsione dei due in Algeria data 4 settembre 2010 e segue alcune settimane di permanenza nei Cie: li imbarcano su un aereo per Algeri incuranti del fatto che avessero più volte indicato la loro vera nazionalità ed una volta ad Algeri - raccontano i diretti interessati - li rinchiudono “in una cella senza finestre, con scarse possibilità di curare l’igiene personale, con pane secco e burro da mangiare”. Dopo poco più di tre mesi di “vessazioni e torture psicologiche” arriva l’ammissione: “ci siamo sbagliati”, dicono le autorità di polizia locali, e per i due giovani inizia il viaggio di ritorno. Ad attenderli, una stanza di “quella specie di carcere - accusa Marroni - che è il Cie di Ponte Galeria”. Dove sono di nuovo in attesa di essere identificati. “Mi chiedo - dice il Garante - come è stato possibile che un consolato abbia riconoscere queste persone come propri cittadini anche se non lo erano e perché sono stati necessari oltre tre mesi per accorgersi dello sbaglio. Forse è il caso che le autorità avviino un’indagine amministrativa per capire esattamente cos’è successo e cosa non ha funzionato nel meccanismo”. Tunisia: le carceri in rivolta, decine di detenuti morti ed evasioni di massa Ansa, 15 gennaio 2011 È stata la giornata della grande fuga dalle carceri in Tunisia, ma anche quella in cui decine di detenuti sono stati uccisi dalle fiamme a Monastir e dagli spari della polizia a Madhia. Un grande segno di caos per un Paese che, nonostante la situazione politica sia stata riportata nei binari costituzionali, non vede la fine della profonda crisi innescata dalla fine del regime di Ben Ali. Evasioni a migliaia ma anche detenuti in fuga uccisi si contano un po’ in tutto il Paese, da Monastir a Madhia, da Sfax a Kairouan, da Kasserine a Biserta fino a Kram, Cartagine e lo stesso centro di Tunisi. Da orrore le cronache che giungono da Monastir: anche a causa dell’incendio appiccato ai materassi di un dormitorio, dopo un assalto con trattori per sfondare i muri di recinzione, sarebbero morti decine di detenuti, una sessantina secondo alcune fonti. Nell’ospedale sono giunti i corpi devastati dalle fiamme, mentre grazie all’assalto compiuto nella notte, molti sono fuggiti. Un vero inferno, per questo centro sulla costa orientale: vi è stato anche un tentato assalto all’ospedale, difeso però da una barriera umana di quasi 2.000 cittadini. È questo l’altra faccia delle violenze che continuano da giorni nel Paese: anche su invito del premier Mohammad Ghannouci, la gente ha cominciato ad organizzarsi da sola per difendersi dalla bande di vandali e saccheggiatori che ormai attaccano non soltanto i centri commerciali o altri odiati simboli del potere economico della famiglia di Ben Ali, dalle concessionarie di auto alle innumerevoli ville sparse nei luoghi più belli della costa. Ma un altro dato emerso oggi con chiarezza è che a spingere per il caos sono stati anche uomini della vecchia guardia di Ben Ali, che hanno scientemente organizzato e incitato alle violenze e ai saccheggi, anche pagandoli, bande di giovani. Per aver dato ordini in tal senso è stato infatti arrestato il consigliere per la sicurezza del presidente fuggito ieri a Gedda, Ali Seriati. Ma uomini fedeli al vecchio regime, anche fra gli agenti di custodia, hanno favorito o organizzato le evasioni, mettendo in libertà i prigionieri e nuovi potenziali criminali. Le celle del carcere di Madhia, località turistica sulla costa, sarebbero state aperte proprie dal personale, e nella fuga cinque detenuti sono stati uccisi. Un altro segnale, questo, di come si sia aperto un nuovo fronte interno al Paese: non più quello che in questi giorni ha diviso i sostenitori e gli oppositori del vecchio regime, ma quello tra i fedeli di Ben Ali ed i fedeli alle istituzioni nelle stesse file delle forze dell’ordine, dopo che una chiara linea di demarcazione si era già evidenziata quando l’esercito non aveva voluto sparare sui manifestanti, e il capo di stato maggiore, Rashid Ammar, era stato silurato proprio per questo. Ora è stato reinsediato, ma l’esercito conterebbe solo poche decine di migliaia di soldati - secondo fonti dell’opposizione - contro i circa 200 mila agenti di polizia, cui si aggiungono quelli della guardia presidenziale. Almeno 42 i morti accertati tra i detenuti del carcere di Mahdia Sono almeno 42 i morti accertati, più 15 ustionati, tra i detenuti del carcere di Mahdia, nel nord-est della Tunisia, in seguito a un incendio che ha permesso un’evasione di massa. Le fiamme, probabilmente dolose, hanno avvolto il penitenziario della città 140 chilometri a sud di Tunisi e una trentina a nord di Monastir. Molti reclusi ne hanno approfittato per tentare la fuga ma alcuni sono periti tra le fiamme mentre i più sono stati abbattuti dai colpi di arma da fuoco sparati dalle guardie per fermarli. “Tutti gli altri”, stando a diversi testimoni oculari, sarebbero riusciti a fuggire. “È andato a fuoco l’intero complesso, i materassi, gli arredi, tutto quanto”, hanno raccontato. L’episodio si inquadra nel caos in cui è piombato il Paese nordafricano dopo la fuga all’estero del presidente Zine al-Abidine Ben Ali. Sono stati proclamati lo stato di emergenza e l’ampliamento del coprifuoco, il divieto di assembramenti superiori a tre persone e l’autorizzazione alle forze di sicurezza a sparare ad altezza d’uomo contro chiunque disobbedisca agli ordini: malgrado ciò, durante la notte e ancora in mattinata in tutta la Tunisia si sono registrati nuovi disordini e manifestazioni di protesta. Incendio anche nel carcere di Biserta, un morto È scoppiato un incendio anche nel carcere della città tunisina di Biserte. Secondo quanto ha reso noto un residente della zona alla tv araba al-Jazeera, le fiamme hanno avvolto il carcere della zona provocando la morte di almeno un detenuto. Sempre questa mattina sono stati date alle fiamme i centri di detenzione di Monastir e Mahdia per permettere l’evasione dei detenuti. Assalto alla prigione di Monastir con trattori, poi fiamme L’incendio alla prigione di Monastir, in Tunisia, è stato appiccato in seguito ad un assalto al carcere con trattori, probabilmente per liberare i detenuti. Secondo fonti locali i morti sono decine, ma non vi ‚ ancora possibilità di accertarlo con esattezza. L’assalto alla prigione ‚ stato compiuto la scorsa notte e, per sfondare i muri di recinzione, gli assalitori hanno utilizzato alcuni trattori. Vi sono stati scontri, poi molti detenuti sono riusciti a fuggire ed allo stabilimento sono state appiccate le fiamme. In precedenza era stato tentato di assalire l’ospedale della città ma una barriera umana formata da quasi duemila persone lo ha evitato. Nei pressi del nosocomio è stato incendiato il posto di polizia della Guardia nazionale. Alle fiamme è stato dato anche un appartamento di proprietà di un nipote di Ben Ali, nella zona del porto. Anche qui, però, gruppi di civili hanno impedito distruzioni e vandalismi. Le sparatorie hanno avuto termine alle prime luci del giorno. Maraventano (Lega): pericolo di sbarchi su nostre coste “La situazione in Tunisia è drammatica perché oltre ai moti e alle proteste continue anche dopo la fuga di Ben Alì, altre fughe, ben più gravi, stanno avvenendo dalle carceri del paese nordafricano e c’è il pericolo che questi detenuti attraversino il breve braccio di mare che li separa da noi e ce li ritroviamo fuori dalle nostre case”. Lo ha sostenuto la senatrice della Lega Nord e vicesindaco delle Pelagie Angela Maraventano, commentando quanto sta avvenendo nel paese nordafricano. “Con Ben Alì - ha continuato Maraventano - la situazione del fenomeno migratorio da quel paese era tenuto sotto controllo, ora non più. Ora, con il caos, tutto può accadere: detenuti e non, spinti dalla gravissima crisi politica ed economica non ci pensano due volte a fuggire verso l’Europa del sud, in particolare sulle coste italiane. Lampedusa, ma anche Pantelleria, Mazara, Pozzallo sono lì ad un tiro di schioppo e non possiamo permetterci un’altra invasione. Sembra di rivivere la stessa situazione dell’Albania negli anni 90 che poi ha aperto il fronte degli sbarchi”. Egitto: profughi eritrei, appello all’Ue per la liberazione Redattore Sociale, 15 gennaio 2011 Lanciato sulla rete da don Zerai, presidente dell’Agenzia Habeshia. Quasi un centinaio di firme tra cui quelle dei deputati Savino Pezzotta, Luigi Manconi, Livia Turco. Un appello all’Unione europea e alla comunità internazionale per chiedere la liberazione dei profughi eritrei ostaggio dei predoni nel Sinai e il loro reinsediamento in Europa è stato lanciato sulla rete da don Mosé Zerai, presidente dell’Agenzia Habeshia. Il sacerdote eritreo anche oggi è riuscito a contattare la ventina di ragazzi che ancora si trovano nelle mani dei trafficanti di Abu Khaled: per il momento si è riusciti a scongiurare il pericolo che venissero rivenduti ad altre bande di trafficanti. “Li hanno massacrati di botte. I carcerieri hanno fretta di sbarazzarsi di questo ultimo gruppo di persone - spiega don Mosé Zerai. Mentre ero al telefono con un ragazzo sentivo le parole del trafficante: Non allungare il discorso. Chiedi solo di mandare i soldi. E nel frattempo lo picchiava”. L’appello lanciato su internet conta quasi un centinaio di firme tra cui quelle dei deputati Savino Pezzotta, Luigi Manconi, Paola Binetti, Gennaro Malgieri, Benedetto Della Vedova, Livia Turco, Matteo Mencacci. “Chiediamo che si mobiliti tutta la Comunità internazionale, da un lato per combattere il traffico di esseri umani e dall’altro affinché sia garantita a queste persone la protezione internazionale di cui hanno bisogno e a cui hanno diritto”, si legge nel testo. La richiesta è quella di un progetto di reinsediamento e accoglienza dei profughi nel territorio dell’Unione Europea. All’appello seguiranno, nelle prossime settimane, una conferenza stampa e una fiaccolata. L’obiettivo è quello di richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica sul dramma dei profughi eritrei. “Speriamo che il Parlamento europeo possa mettere in campo un’azione più concreta rispetto al semplice richiamo e che si passi a un progetto di intervento più concreto”, spiega don Mosé. Anche in Israele resta alta l’attenzione sulla vicenda. SEcondo un rapporto diffuso dall’Ong “Physicians for human rights” attualmente nel paese ci sono circa 2mila rifugiati e richiedenti asilo (tra cui donne e bambini) detenuti nei campi. “Spesso devono attendere per lunghi periodi prima di poter incontrare un medico -si legge in un rapporto diffuso dall’organizzazione- inoltre spesso vengono negate visite specialistiche, percorsi di riabilitazione o la consulenza di uno psicologo”. Devono aspettare per settimane e spesso per mesi, prima di essere rilasciati “senza altro che un biglietto dell’autobus per le principali città”. Gran Bretagna: risarcimenti ai detenuti per oltre 4 milioni di euro nell’ultimo anno Ansa, 15 gennaio 2011 È di ben 4.165.222 euro la somma versata dal governo britannico, nell’ultimo anno, ai detenuti che, per un motivo o per un altro, hanno chiesto un risarcimento. Risarcimenti che vanno da slittamenti delle date di rilascio dovuti ad errori amministrativi (si possono chiedere fino a 120 euro per ogni giorno extra passato in carcere) ad aggressioni subite durante la permanenza dietro le sbarre. Lo scorso anno oltre 3mila detenuti hanno chiesto un risarcimento: c’è chi ha ottenuto meno di mille euro, ma anche chi è riuscito a venir risarcito con ben 100 mila euro, tutti soldi versati dai contribuenti. I nomi di questi detenuti, per motivi di privacy, non sono stati resi noti, ma la stampa britannica è riuscita a scoprire che tra questi c’è anche Ian Huntley, il 36enne condannato a scontare due ergastoli per l’omicidio di due bambine di 10 anni, Holly Wells e Jessica Chapman. Huntley, ne parlammo a suo tempo, nel marzo scorso era stato aggredito in carcere, sgozzato da altri detenuti. Le guardie erano intervenuti in tempo e Huntley era stato salvato: ora però ha chiesto ed ottenuto un risarcimento di ben 112 mila euro. Emma Boon del Taxpayers’ Alliance, è tra le persone che si è dichiarata contraria a questo tipo di risarcimenti: “È preoccupante che sempre più soldi dei contribuenti vengano spesi per questi motivi. Sfortunatamente la cultura del risarcimento sta crescendo, ma le prigioni dovrebbero fare di tutto per rispettare le regole ed impedire che errori o semplici sviste portino ad eventi del genere”. Francia: bella e spietata; direttore del carcere perde la testa (e il lavoro) per la detenuta Corriere della Sera, 15 gennaio 2011 L’avvenente e spietata galeotta seduce il direttore del carcere. Ai suoi colleghi che l’hanno fermato e gli hanno imposto il divieto assoluto di avvicinarsi al carcere, Florent Goncalves, l’ormai ex responsabile del penitenziario femminile di Versailles, ha dichiarato di aver trasgredito la legge solo per amore. Il quarantunenne, secondo un indagine interna, dal dicembre del 2009 fino all’ottobre del 2010 avrebbe avuto una relazione sessuale con Emma Arbabzadeh, ventunenne, in galera da circa cinque anni per aver adescato con l’inganno nel gennaio del 2006 un giovane ebreo che poi sarebbe stato torturato e ucciso dalla cosiddetta “banda dei barbari”. Goncalves, in cambio di favori sessuali, avrebbe donato alla ventunenne somme di denaro, ricariche telefoniche e altri oggetti interdetti ai detenuti. A scoprire la tresca sarebbero stati gli ispettori che hanno visitato il penitenziario lo scorso 22 novembre. Alcune detenute, probabilmente invidiose dei trattamenti di favore ottenuti da Emma, hanno raccontato degli strani regali fatti dal direttore alla loro collega. Subito è scattata l’indagine ed è emersa una realtà che nessuno all’interno del carcere immaginava. Emma non solo aveva sedotto il direttore, ma da tempo offriva favori sessuali anche a un secondino trentaseienne in cambio di doni e privilegi. A questo punto il direttore si è trovato con le spalle al muro. Denunciato e messo in stato di fermo, il quarantunenne ha vuotato il sacco martedì scorso: “Il direttore ha spiegato agli agenti di essersi innamorato della detenuta - ha dichiarato un fonte che lavora all’interno del carcere al quotidiano transalpino “Le Parisien”. Egli spera che la ragazza ottenga la libertà condizionata visto che ha già scontato metà della sua pena, per poter costruirsi assieme una nuova vita”. La ventunenne, che tra l’altro è stata denunciata per ricettazione, deve scontare ancora quattro anni di carcere. Le altre detenute la definiscono “una femme fatale” capace di tutto: “In un attimo ha fatto perdere la testa a quei due” ha confessato una galeotta agli ispettori. Un secondino del carcere ha dichiarato al sito di Europe 1 - Il comportamento del nostro direttore non era affatto normale. Egli era sempre con lei e i loro colloqui duravano anche due o tre ore”. Già qualche anno fa Emma aveva dimostrato tutta la sua perfidia e il suo cinismo. Nel gennaio 2006 era stata l’esca per la cattura di Ilan Halimi, giovane ebreo sequestrato e torturato da una gang razzista della banlieue parigina. Il ventitreenne, agonizzante, era stato ritrovato vicino alla stazione di Sainte-Genevieve-des-bois, nell’Essone e sarebbe morto durante il trasporto in ospedale.