Giustizia: prorogato lo stato di emergenza delle carceri, critici Sindacati e Associazioni Redattore Sociale, 12 gennaio 2011 Ieri la decisione del Consiglio dei ministri. Capece: “Dei 47 nuovi padiglioni promessi non ne è stato costruito neanche uno. Promessi 2 mila nuovi agenti, ne sono stati assunti 56”. Antigone: “Il governo affronti il problema carcerario nel suo complesso” È stato prorogato lo stato di emergenza sulle carceri, scaduto il 31 dicembre 2010. La decisione è stata presa nella serata di ieri dal Consiglio dei ministri. La misura, entrata in vigore il 13 gennaio 2010, era stata introdotta per affrontare le drammatiche condizioni di sovraffollamento delle carceri italiane. Una misura che per ora non ha dato i frutti sperati: “Dei 47 nuovi padiglioni promessi dal piano carceri (la cui costruzione avrebbe dovuto essere agevolata dallo stato di emergenza, ndr) non ne è stato costruito neanche uno. Erano stati promessi 2mila nuovi agenti, ne sono stati assunti 56. Ma 800 sono andati in pensione” spiega Donato Capece, segretario del Sappe, Sindacato autonomo di polizia penitenziaria. Per Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone, la proroga dello stato di emergenza dovrebbe diventare un’occasione per cambiare strategia: “Mi auguro che il governo affronti il problema carcerario nel suo complesso”, commenta. Secondo Gonnella la soluzione non va cercata solo nella costruzione di nuove carceri, ma anche in misure volte a limitare i flussi di entrata. Per esempio, cambiando alcune leggi che producono eccessiva carcerazione e, sul lungo termine, lavorare sulla prevenzione, attraverso i temi dell’educazione, del lavoro, dell’immigrazione. Lo stato di emergenza avrebbe dovuto facilitare la realizzazione del piano carceri, pensato per risolvere il sovraffollamento attraverso la creazione di nuovi posti letto negli istituti penitenziari. Al 31 dicembre 2009, secondo i dati del ministero della Giustizia, i detenuti presenti nella carceri italiane erano 64.791, contro i 45.022 posti disponibili. Al 31 dicembre 2010, dopo un anno di stato di emergenza, i detenuti sono circa 3mila in più. (Giulia Genovesi) Giustizia: sono 14mila i detenuti che lavorano, il 20% della popolazione carceraria Ansa, 12 gennaio 2011 Sono 14.116 i detenuti che svolgono un lavoro e rappresentano il 20,68% della popolazione carceraria. Se in numeri assoluti si può parlare di un leggero incremento rispetto al 2009 (13.408), c’è invece una diminuzione della percentuale dei detenuti lavoranti sul totale dei presenti (era 21,07 nel 2009): il che vuol dire che al consistente aumento della popolazione carceraria non è corrisposto un analogo incremento di chi è impegnato in un’attività lavorativa. E il budget “largamente insufficiente” assegnato per la remunerazione dei detenuti ha condizionato in particolare le attività necessarie per la gestione quotidiana delle carceri (servizi di pulizia, cucina, manutenzione ordinaria) “incidendo negativamente sulla qualità della vita all’interno dei penitenziari”. Il quadro emerge dalla relazione che il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Ministero della Giustizia ha inviato al Parlamento. Al netto dei rimborsi dovuti all’Inail e all’Agenzia delle Entrate il budget è stato pari a 49.965.319 nel 2010 e se il numero dei detenuti addetti a queste attività - che rappresentano una fonte di sostentamento per la maggioranza della popolazione detenuta - è rimasto sostanzialmente lo stesso rispetto al 2009 (10.645) lo si deve soltanto al fatto che le direzioni degli istituti per mantenere un sufficiente livello occupazionale hanno ridotto l’orario di lavoro pro capite e effettuano la turnazione sulle posizioni lavorative. Rispetto alle lavorazioni industriali è aumentato il numero degli addetti (612), grazie alle “numerose commesse” concesse per la realizzazione delle suppellettili necessarie all’arredamento delle nuove sezioni detentive di prossima apertura. Mentre i detenuti assunti da imprese e cooperative, che godono così dei benefici fiscali e contributivi previsti dalla legge Smuraglia, sono 2058 (erano 1.798 nel 2009). Particolarmente significative le esperienze in atto a Padova, Milano Bollate, Torino, Monza e Massa dove ‘è forte la presenza di imprenditori che hanno assunto un significativo numero di detenuti per attività lavorative organizzate all’interno degli istituti”. L’esperienza di Napoli Secondigliano, dove è stato realizzato un impianto per il trattamento dei rifiuti solidi, sarà estesa presto a Roma Rebibbia, dove si sta procedendo alla formazione di un gruppo di detenuti. E l’intenzione è estendere l’attività in istituti della Toscana, delle Marche e dell’Abruzzo. Iniziative sono state assunte anche nel settore delle bonifiche agrarie: le attività avviate spaziano dall’orticoltura biologica alla frutticoltura in serra, dall’allevamento dei conigli alla fioricoltura, all’itticoltura e all’apicoltura. Giustizia: Radio Carcere, in 5 regioni 93 detenuti ai domiciliari con la “svuota-carceri” Ansa, 12 gennaio 2011 “In 5 regioni prese come campione, sono solo 93 le persone detenute che hanno ottenuto il beneficio previsto dalla legge cosiddetta “svuota carceri”, che consente di scontare l’ultimo anno di pena ai domiciliari”. È quanto emerge da un monitoraggio realizzato ieri dalla rubrica Radio Carcere, a cura di Riccardo Arena, in onda su Radio Radicale. “Sono state prese in considerazione 5 regioni” - spiega Arena - ovvero: Lombardia, Emilia Romagna, Toscana, Lazio e Campania e abbiamo ascoltato i dati che ci sono stati riferiti dai competenti magistrati di sorveglianza. Il dato che è emerso è a dir poco sconcertante. Mentre infatti il Governo ha affermato che in un anno beneficeranno di questo beneficio 8 mila detenuti, noi abbiamo verificato che in circa un mese solo 93 detenuti hanno ottenuto i domiciliari, una goccia nel mare”. In particolare” - precisa Arena - “in Lombardia si sono registrate 12 concessioni dei domiciliari, in Emilia Romagna 2, in Toscana 15, nel circondario di Roma, che comprende ben cinque carceri, sono state concesse 30 detenzioni domiciliari e nel circondario di Napoli 34. Totale” - sottolinea Arena - “93 detenzioni domiciliari concesse in poco meno di un mese dall’entrata in vigore della legge “Svuota Carceri”. Tengo a precisare” - conclude Arena - che nei prossimi mesi faremo con Radio Carcere su Radio Radicale dei nuovi monitoraggi a campione e vedremo se la situazione sarà migliorata o meno, anche se questi primi dati non promettono per nulla bene”. Giustizia: Filippi (Lega); sì all’Albania nell’Ue, ma si riprenda i suoi detenuti Il Velino, 12 gennaio 2011 “L’Italia è impegnata a contribuire al “riconoscimento all’Albania dello status di paese candidato all’adesione all’Ue, ma Tirana deve dare subito avvio, una volta ratificato dal nostro Parlamento l’accordo del 2008, a quello del 2002 sul trasferimento delle persone condannate, firmato dall’ allora nostro ministro Castelli”. Lo ha dichiarato il vicepresidente della commissione Esteri del Senato, Alberto Filippi (Lega) all’indomani dell’incontro in commissione con il ministro degli esteri albanese Edmond Haxhinasto che, ha reso noto Filippi, “ha mostrato, in merito all’accordo, una rapida soluzione della ratifica”. “L’Albania - ha detto Filippi - ha sicuramente intrapreso un percorso democratico che avrà attenzione da parte di Bruxelles; inoltre sulla lotta all’immigrazione clandestina ha azzerato i flussi verso il nostro Paese”. Filippi, che per due volte si è recato in Albania, ricorda come in incontri con l’allora ministro degli esteri Meta, “ho fatto presente al ministro albanese la necessità di dare subito attuazione al trasferimento dei detenuti albanesi dall’Italia al loro paese. Da qui anche la costruzione di carceri in Albania con i nostri aiuti. “Era presente a questo incontro - ricorda il senatore Filippi - il sindaco della città di Lezha, Victor Tusha il quale mi ha chiesto di inaugurare una scuola, cosa che ho fatto con molto piacere”. “Io spero che il nostro Parlamento - ha aggiunto Filippi - ratifichi subito l’accordo del 2008 in funzione di quello del 2002 sui detenuti albanesi nel nostro paese che, ricordo, sono il più alto numero. Ma l’Italia deve fare accordi come quello con l’Albania, anche con altri paesi come quelli dell’ area del Maghreb e dell’ Africa settentrionale. Penso alla tensione altissima che c’è ora in Tunisia e in Algeria dove molti giovani e non possono essere invogliati a fuggire verso le nostre coste. Non possiamo permetterci più il sovraffollamento delle nostre carceri e ne tantomeno di indulti, la strada maestra sono gli accordi bilaterali in cui il detenuto debba scontare la pena nel proprio paese d’origine”. A tal proposito Filippi ha preannunciato un ordine del giorno in occasione del provvedimento di ratifica in Parlamento al fine di impegnare il governo italiano all’ accordo del 2002 con l’Albania da estendere poi con altri paesi. Giustizia: il caso Battisti, l’ergastolo e i poteri del Quirinale di Franco Corleone Il Manifesto, 12 gennaio 2011 C’era una volta Cesare Battisti, l’esponente dell’irredentismo trentino impiccato dagli austriaci il 12 luglio 1916. Oggi, a causa di una irriverente omonimia, la memoria del martire è cancellata a vantaggio di un protagonista minore della lotta armata. Anche questo esito è conseguenza certamente non voluta dell’orgia di parole sopra tono, delle speculazioni interessate, delle minacce altisonanti. In un paese serio, la sua classe politica avrebbe reagito diversamente alla decisione del Presidente Lula di negare l’estradizione per un cittadino italiano condannato all’ergastolo per la responsabilità diretta o morale di quattro omicidi compiuti nel 1978. L’utilizzo di termini come “schiaffo all’Italia” o di “insulto alla giustizia” o addirittura di “attacco alla democrazia” sono il segno caratteristico di un paese dalla tenuta nervosa fragile e dalla tendenza vittimistica e isterica. L’Italia avrebbe dovuto cogliere l’occasione offerta dal Brasile per fare i conti più che con la storia del terrorismo, delle leggi speciali, insomma con il passato, quanto meno con il suo presente. La gran parte della stampa ha dato una pessima prova di disinformazione abbandonandosi alla più vieta propaganda: il complotto giudaico massonico questa volta è stato sostituito dalla protervia di un paese “inferiore”: senza che nessun giornale “indipendente” abbia ritenuto di fornire in maniera completa le ragioni del rifiuto di accedere alla richiesta di estradizione da parte del governo brasiliano e poi di Lula. Cosicché la decisione brasiliana appare un segno di stravaganza, quasi un dispetto. E invece vale la pena di capire perché un grande paese è disposto a mettere a rischio i rapporti economici e strategici con un partner importante: se non è un capriccio vi devono essere motivi che ci devono interrogare. Mauro Palma e Alessandro Margara (Manifesto, 31/12 e 7/1) hanno messo in luce i due punti che suscitano la contrarietà del Brasile: il fatto che l’Italia conservi la pena dell’ergastolo e la mancata ratifica del protocollo addizionale alla convenzione contro la tortura (che prevede un meccanismo ispettivo sovranazionale e l’istituzione di una autorità garante dei diritti dei detenuti). Sono davvero questioni così irrilevanti da non meritare un confronto? Antonio Cassese, acuto giurista e paladino dei diritti umani, è incorso in un errore grave sostenendo che per la pena dell’ergastolo esistono forme di detenzione alternativa, delle quali Battisti potrebbe usufruire. Non è così, in quanto i suoi reati rientrano fra quelli previsti dall’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario, che non consentono la liberazione condizionale. Ciò dimostra, se mai ce ne fosse stato bisogno, che in Italia l’ergastolo non è una finzione giuridica, come si vorrebbe far credere, anzi è una realtà pregnante (perfino in aumento negli ultimi anni). Con la stessa logica con cui l’Italia si rifiuta di consegnare un prigioniero ad un paese che prevede la pena di morte poiché estranea al suo ordinamento, così il Brasile si comporta per l’ergastolo. Questo caso non si può risolvere in una bulimia di proclami, di ritorsioni e di boicottaggi più esilaranti che gravi. Deve invece essere una occasione per affrontare i nodi che sono emersi e che si vogliono nascondere sotto la coperta della lotta al terrorismo. Oltre ad esprimere delusione e rammarico, il presidente Napolitano potrebbe compiere degli atti concreti di sua esclusiva competenza per rimuovere gli equivoci: ad esempio, annunciare la commutazione dell’ergastolo di Battisti in una reclusione congrua e invitare il Parlamento ad adempiere a quegli obblighi internazionale che le associazioni che si occupano di carcere, giustizia e diritti chiedono da anni. Allora la richiesta di estradizione avrebbe maggiore forza e legittimità sostanziale. Questa è la vera questione su cui l’opposizione dovrebbe incalzare il governo, senza farsi sedurre dall’urlo del topo di Frattini e La Russa e infilarsi in polemiche giuste, ma minori, sulla scarsa credibilità internazionale dell’Italia. L’ammonimento ai giovani di Aldo Moro a proposito dell’ergastolo, “Ricordatevi che la pena non è la passionale e smodata vendetta dei privati”, è un monumento del pensiero giuridico umanistico da cui non si dovrebbe prescindere mai. Lettere: “svuota-carceri”; Ordine Assistenti Sociali Scrive ad Alfano e ai Vertici del Dap www.cnoas.it, 12 gennaio 2011 Le obiezioni degli assistenti sociali alla nuova legge. Quali le ricadute sugli Uepe? L’Ordine il 20 dicembre scrive al Ministro Alfano per esprimere con fermezza, a nome degli assistenti sociali impegnati nel Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, il proprio disaccordo su quanto previsto dalla recente legge 26.11.2010, n. 199, relativamente agli interventi degli Uffici per l’esecuzione penale esterna e ai compiti degli assistenti sociali. L’Ordine professionale degli assistenti sociali ritiene doveroso esprimere con fermezza, a nome degli assistenti sociali impegnati nel Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, il proprio disaccordo su quanto previsto, relativamente agli interventi degli Uffici per l’esecuzione penale esterna e ai compiti degli assistenti sociali dalla legge 26.11.2010, n. 199 “Disposizioni relative all’esecuzione presso il domicilio delle pene detentive non superiori ad un anno”. È senza dubbio condivisibile, in termini generali, la ratio che mira ad una decarcerizzazione delle pene brevi, così come è da valutare positivamente la volontà di ampliare il ricorso a misure domiciliari. È noto, infatti, come la pena scontata all’esterno degli Istituti penitenziari consenta un più concreto e positivo reinserimento della persona condannata nel contesto sociale, come dimostrano le più basse percentuali di recidiva, rispetto a chi, invece, sconta tutta la condanna in stato detentivo. Si condividono anche le preoccupazioni espresse e i segnali di allarme lanciati da molti sulle attuali, drammatiche, condizioni degli Istituti penitenziari italiani in cui, a fronte di una capienza di poco più di 44.000 posti, sono “stipate” quasi 70.000 persone. Gli assistenti sociali, infatti, lavorano nel contesto penitenziario da più di 35 anni, a fianco degli educatori, degli agenti di polizia penitenziaria, degli esperti, dei volontari, verificano giornalmente come il sovraffollamento, ma anche la problematicità di un contesto che si caratterizza sempre più come mero “contenitore” degli effetti di un disagio sociale ormai debordante, abbiano determinato condizioni di invivibilità tali da non consentire un adeguato rispetto della dignità della persona. Questo premesso, tuttavia, l’Ordine deve anche considerare e richiamare l’attenzione, di quanti in indirizzo, sulle ricadute che il provvedimento approvato avrà sugli Uepe. Tutto ciò ribadendo ancora una volta quanto è stato più volte evidenziato sulle condizioni di grande difficoltà e disagio attraversate dal servizio sociale della Giustizia, nel contesto della profonda crisi che sta interessando tutto il sistema della esecuzione penale che si ripercuote, con effetti devastanti, sugli uffici periferici, sempre più privati del livello minimo necessario di risorse. In questo scenario, il nuovo provvedimento normativo rischia oggi di trasformarsi in un fattore che può da un lato introdurre elementi di ulteriore complessità nell’organizzazione degli Uepe, dall’altro rendere più confuso il senso del mandato istituzionale proprio di tali Uffici. Per questo motivo l’Ordine, nel giugno 2010, aveva espresso la propria preoccupata valutazione durante l’iter di approvazione dell’attuale legge, rispetto ai cui contenuti (ancorché nella versione del disegno di legge meno negativi per il servizio sociale) si erano richieste modifiche con lo scopo di evitare ricadute negative sul piano dell’operatività degli Uepe ai quali, si ricordava, da sempre è stata destinata una parte del tutto residuale delle risorse dell’Amministrazione penitenziaria. Si paventava che le nuove misure previste, in assenza di adeguati incrementi delle risorse umane, economiche e strumentali, potessero determinare un ulteriore aggravio che non avrebbe potuto essere sostenuto dagli uffici periferici, se non a rischio della paralisi istituzionale dei servizi e degli operatori che il legislatore del 1975 aveva chiamato a dare applicazione all’articolo 27 della Costituzione. Tali segnalazioni e preoccupazioni, provenienti da chi rappresenta gli assistenti sociali e ne tutela il mandato professionale e la coerenza di questo con il mandato istituzionale, nel quadro di un obiettivo di rispetto della dignità e dei diritti delle persone detenute, così come dell’efficacia ed efficienza del servizio reso, non sono state evidentemente ritenute meritevoli di alcuna considerazione. Ciò può essere affermato a fronte non solo di una conferma, nel testo appena entrato in vigore, di tutti i punti di maggiore criticità allora segnalati, ma anche per l’inserimento di elementi ulteriori che vanno ad incidere in modo del tutto negativo sulla qualità e sull’efficacia dell’intervento istituzionale degli Uepe e, ancor più, su quello tecnico-professionale degli assistenti sociali. In termini generali il provvedimento adottato sembra porsi come prevalente finalità quella di ridurre il sovraffollamento degli istituti penitenziari, in relazione ad una situazione che è ormai al di là di ogni possibilità di garantire un livello minimo di dignità alle persone detenute, così come a chi vi opera. Va detto, tuttavia, che le modalità previste, così come i requisiti escludenti introdotti in relazione ad un’ampia tipologia di reati, inducono una negativa previsione circa la effettiva efficacia di tale normativa. Tale considerazione critica si estende anche all’automatismo previsto per la concessione della detenzione domiciliare, in assenza di ipotesi progettuali e di valutazioni che attengano a possibilità e obiettivi di reinserimento sociale della persona in esecuzione pena. Al riguardo, va ricordato che coloro che vi saranno ammessi, pur avendo una condanna (o un residuo pena) di un anno, non hanno prima potuto beneficiare di misure alternative più ampie, essendo privi dei requisiti richiesti per le altre alternative di pena, nella forma di necessari supporti e reti di protezione socio lavorativa e familiare. Non si sono evidentemente considerate le difficoltà di chi accederà alla detenzione domiciliare, vivendo una condizione di estremo disagio, che non è solo “penale”, andando ad inserirsi in un panorama dei servizi dell’Amministrazione, ma anche degli enti locali e del cosiddetto terzo settore, che si connota per una drastica riduzione di risorse e strumenti di intervento. Ma l’Ordine degli assistenti sociali non può esimersi dal richiamare l’attenzione dei vertici politici e amministrativi del Ministero della Giustizia sugli aspetti della legge che più evidente, e negativa, ricaduta avranno sul livello organizzativo degli uffici e sugli interventi tecnico-professionali degli assistenti sociali. Sul piano organizzativo gli aspetti di maggiore criticità derivano dall’aumento del carico di lavoro che, inevitabilmente, ricadrà sugli uffici, con l’introduzione di interventi ai quali, si è stabilito, deve essere data priorità su tutti gli altri. Tale incremento del lavoro va ad inserirsi in una realtà che è già di grave sofferenza, come si rileva da alcuni dati oggettivi: il personale di servizio sociale effettivamente in servizio negli uffici periferici è numericamente inferiore rispetto a quanto previsto dalle piante organiche; dal raffronto fra i dati sul carico medio per assistente sociale, rilevati al 30.06.2006 e al 31.03.2010, emerge che nella quasi totalità delle realtà regionali i carichi di lavoro del 2010 sono di poco inferiori rispetto a quelli del 2006; a ciò si associa la riduzione delle risorse finanziarie e strumentali destinate agli Uepe e una realtà dei territori, in cui tali uffici si collocano, che è sempre meno ricettiva nei confronti dell’esecuzione pena, per il depauperamento delle risorse locali. Sul piano tecnico-professionale, nel testo normativo si sono introdotti strumenti e procedure che niente hanno a che fare con interventi coerenti con un mandato e una metodologia professionale che, fino a poco tempo fa, erano stati ritenuti come i più adeguati a rispondere a finalità di reinserimento e recupero alla società di quanti si trovavano in espiazione pena, con un vantaggio sia per la persona interessata, sia per la collettività tutta, nell’ottica di un maggiore livello di benessere derivante da maggiore inclusione e coesione sociale. Appare difficile comprendere i motivi che hanno indotto ad attribuire al personale di servizio sociale un compito, quale l’accertamento dell’idoneità del domicilio, che non necessita di competenze tecnico-professionali specifiche, soprattutto alla luce del fatto che lo strumento a tale scopo elaborato (“scheda per l’accertamento dell’idoneità di domicilio”), richiede una mera rilevazione di dati, compito che potrebbe essere assolto da altri operatori, che già svolgono tali funzioni in altri ambiti. Non può, inoltre, tacersi il fatto che tale attività meramente “esecutiva”, da eseguirsi in via prioritaria, distoglierà le già scarse risorse degli Uepe da compiti che sono parte integrante del mandato istituzionale, con effetti negativi sui procedimenti di sorveglianza, sull’attività di osservazione e trattamento penitenziario e di sostegno ai detenuti in particolare per il ristabilimento di rapporti familiari, la cui urgenza era stata sottolineata nella nota diramata dal capo del Dipartimento, dr. F. Ionta, appena nel luglio scorso. Ma ciò che ancor più desta perplessità è che la misura introdotta, per le modalità previste sia nella fase istruttoria, sia nel corso della sua esecuzione, presenta una natura “ibrida”, volendo coniugare aspetti che la qualificano da un lato come un mero strumento di deflazione penitenziaria (l’elevato livello di automatismo e la concessione che si basa sulla sola esistenza di un domicilio e di una disponibilità dei familiari e/o di altri ad accogliere il detenuto), ad altri che sono propri delle misure alternative propriamente intese, in particolare, l’affiancamento di un operatore quale l’assistente sociale, con compiti di sostegno e controllo. Ma l’assenza di qualsiasi ipotesi progettuale svuota di significato l’intervento dell’assistente sociale, a meno che non lo si voglia “svilire” intendendolo come mero strumento di controllo fiscale. Con la detenzione domiciliare introdotta dalla legge 199/2010 il legislatore, evidentemente mosso da una primaria e impellente necessità deflativa, senza essere al contempo veramente attento alle condizioni e ai requisiti che sostanziano l’esecuzione penale in senso risocializzante, ha disegnato una misura che, proprio per voler contemperare caratteri e obiettivi incompatibili, perde di efficacia per entrambi gli aspetti. Alla luce di tali considerazioni, senza voler entrare nel merito di scelte operate a livello politico-legislativo ma con la sola preoccupazione di tutelare e valorizzare il contributo professionale degli assistenti sociali della Giustizia, questo Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Assistenti Sociali non crede possibile che si voglia e si possa accettare la vanificazione del patrimonio di competenze e di buone pratiche professionali che hanno consentito al servizio sociale di contribuire alla implementazione del dettato costituzionale che sancisce la finalità rieducativa della pena, di arrivare a costituire il perno di un processo di territorializzazione dell’esecuzione penale e di tutela dei principi di inclusione e giustizia sociale, né che si intenda annullare un processo di crescita culturale che vede la pena anche come opportunità di riabilitazione e non solo come espiazione, e richiama la responsabilità educativa, e non solo punitiva, dello Stato. Nell’augurare serene festività si porgono distinti saluti. La Presidente dell’Ordine Franca Dente Lettere: subito più organici per il carcere di Lucca di Raffaella Mariani (deputata Pd) Il Tirreno, 12 gennaio 2011 Sovraffollamento, carenza di personale, strutture cadenti: poco prima di Natale ho incontrato il direttore del carcere di Lucca e di nuovo abbiamo affrontato i temi cronici del sistema penitenziario che rendono la situazione del San Giorgio una delle più difficili in Toscana. I numeri parlano da soli: a fronte di una capienza poco superiore al centinaio di detenuti, la casa circondariale lucchese ne ospita quasi il doppio. Molti sono tossicodipendenti o stranieri, circa la metà è in attesa di uno dei tre gradi di giudizio. Gli spazi che occupa, quelli di un antico convento, hanno bisogno di urgenti interventi strutturali. E la carenza di personale, dagli agenti di polizia penitenziaria fino agli operatori, impedisce di garantire la sicurezza e le condizioni dettate dalla Costituzione, che prevede espressamente la funzione rieducativa della pena. Il governo Berlusconi ha dato una chiara impronta alla sua politica in questo senso, varando leggi, come quelle sull’immigrazione e sulla tossicodipendenza, che hanno aggravato un disagio già forte. E propone come soluzione la costruzione di nuovi carceri, che richiederebbe peraltro fondi ingenti, impossibili da reperire, a mio avviso, in un momento di grave crisi come questo. Ma il carcere non deve essere isola di segregazione in cui confinare chi ha causato danni alla società. Un’idea del genere rischia di produrre pesanti ripercussioni, con i costi gravissimi in termini di convivenza e sicurezza, legati al reinserimento di persone che non abbiano avuto la possibilità di accedere ad un cammino di rieducazione e di acquisire le competenze indispensabili a portare a buon fine un percorso di recupero. Per questo il Pd ha sottolineato più volte nell’ambito della discussione delle manovre finanziarie la necessità di adeguare organici ormai palesemente sottodimensionati. Un’ulteriore risposta dei democratici è arrivata con la proposta di legge presentata dall’onorevole Paolo Corsini (Pd), che anch’io ho sottoscritto. In essa si chiede l’istituzione del Garante Nazionale dei Diritti dei Detenuti: una figura che operi, in modo indipendente e autorevole, la necessaria mediazione tra società civile e istituzioni penitenziarie, fornendo supporto e attuando un monitoraggio delle condizioni delle persone limitate nella libertà, la cui attività avrebbe, a mio avviso, importanti effetti positivi per la collettività e la sicurezza di tutti i cittadini. Lettere: giusto che un condannato paghi, ma carcerazione garantisca delle cure corrette Alto Adige, 12 gennaio 2011 L’Oms definisce la salute come uno “stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non semplice assenza di malattia”. È una definizione consapevole che nell’uomo psiche e soma giocano ciascuno una parte essenziale. Se è corretta l’equazione “mens sana in corpore sano”, si può pure ritenere il contrario e cioè che il corpo funziona bene solo se è sana la mens. È allora evidente come sia impossibile che un carcerato, privato del benessere psichico, si senta in buona salute. Evitando un facile buonismo, penso personalmente che la carcerazione motivata e la certezza della pena rimangono un punto fermo ma, in uno stato di diritto, credo pure che ai malati in carcere debba essere garantita la salute fisica e quindi, quando necessario, un iter diagnostico e cure adeguate, cosa che spesso non avviene per difficoltà oggettive. Insomma, il carcerato è giusto che paghi per i reati commessi, ma la prigione non deve togliergli la possibilità di venire curato come si deve. Ricordiamoci che la detenzione deve essere sì un castigo, ma anche consentire, scontata la pena, un reinserimento sociale. Se però il carcerato vive in condizioni di perenne emergenza, e se l’assistenza medica è precaria quando ne ha bisogno, trarrà inevitabilmente l’impressione che la società che lui ha offeso delinquendo, si comporta anch’essa in modo illecito privandolo persino del diritto di cura, e difficilmente crederà nell’aiuto della stessa società quando esce. La realtà è molto difficile in quasi tutti i 206 istituti penitenziari predisposti per non più di 43.000 detenuti e che ne ospitano invece quasi 70.000, con conseguenti mancanza di spazio, di intimità e di igiene, e prevaricazioni di ogni genere nelle celle. Questo concorre anche all’alto numero di suicidi che nel 2009 sono stati più di 70 (46 del 2008). D’altra parte gli agenti nelle carceri sono meno di 40.000 e la pianta organica è fissa. Medici, infermieri, psicologi, assistenti sociali sono anch’essi in numero insufficiente. Bene dunque al Piano Carceri varato dal Consiglio dei Ministri che prevede nuove prigioni o padiglioni, 2000 nuovi agenti penitenziari ma, come medico, non riesco a trovare dati circa l’aumento del personale sanitario e il miglioramento complessivo dell’assistenza medica dei reclusi. Mi piacerebbe tanto, anche in questo ambito, che i politici di qualsiasi colore usassero di più il passato prossimo (“abbiamo fatto”) che l’immancabile futuro (“faremo”) o il “continuous tense” degli inglesi (“stiamo per fare”). Siamo un Paese sempre in recupero di cose mai fatte, capace al massimo di guardare all’oggi e mai al domani. Del dopodomani neanche parlarne. Lettera firmata Calabria: Giordano (Idv); da tempo denunciamo il degrado delle carceri calabresi www.newz.it, 12 gennaio 2011 “I dati allarmanti sulla situazione carceraria in Calabria sono sotto gli occhi di tutti”. È quanto dichiara il consigliere regionale dell’Italia dei Valori, Giuseppe Giordano. “Le organizzazioni sindacali -continua Giordano- denunciano ormai da tempo l’insostenibilità della capacità ricettiva delle strutture carcerarie calabresi che riguardano una popolazione di 3316 persone, a fronte di una capienza regolamentare di 1885, con una media dell’indice di sovraffollamento regionale al 77,3%, che pone la Calabria al terzo posto delle regioni con il più alto tasso di sovraffollamento penitenziario. Concordiamo con i rappresentanti sindacali, con la loro analisi e con le richieste che quotidianamente avanzano al ministro Alfano. In passato - precisa Giordano - avevamo denunciato la situazione del costruendo carcere di Arghillà, gli sprechi perpetrati e la mancata previsione di un suo completamento nell’attuale Piano carceri e rimarcavamo l’importanza di intervenire anche sulle strutture esistenti ormai in stato di degrado e di abbandono, ma il governo ha mostratto e mostra tuttora poca attenzione. Eppure, negli ultimi anni, grazie al duro lavoro del compianto Provveditore Regionale Paolo Quattrone, il sistema penitenziario calabrese aveva compiuto passi importanti, perché molte strutture penitenziarie erano state adeguate agli standard di abitabilità previsti dal nuovo Regolamento di Esecuzione dell’Ordinamento Penitenziario (dpr 230/2000), registrandosi un costante e consistente incremento delle opportunità lavorative intramurali per i detenuti; inoltre, era stata realizzata un’attenta allocazione della popolazione detenuta attraverso una ridefinizione dei circuiti detentivi di alta sicurezza e media sicurezza, con una particolare attenzione alle donne ed ai disagiati psichici, realizzando anche un apposito reparto di osservazione psichiatrica presso la Casa Circondariale di Reggio Calabria”. A ciò si aggiunga una razionalizzazione della sanità penitenziaria tale da garantire adeguata assistenza alla popolazione detenuta, nell’ambito del circuito sanitario regionale, per quasi tutte le patologie, grazie anche all’implementazione di attrezzature e ad un fattivo rapporto di collaborazione con le Aziende Sanitarie Locali. Giordano ricorda ancora le intese e gli accordi operativi siglati tra le strutture penitenziarie calabresi e le Istituzioni territoriali (Regione, Comuni, Province), nonché con le istituzioni scolastiche ed universitarie, con quelle ecclesiastiche e con associazioni di volontariato e del terzo settore, consentendo di realizzare specifiche iniziative, creando sinergie ed interazioni al fine di attuare nel migliore dei modi il dettato costituzionale in materia di esecuzione penale ordinaria dei fabbricati. “Ebbene, questi sforzi -spiega il consigliere regionale- grazie all’immobilismo del Governo, sono stati vanificati. Il sovraffollamento delle carceri calabresi ha di fatto collassato il sistema penitenziario. La scomparsa del Provveditore Quattrone, poi, ha interrotto il lavoro di rinnovamento avviato. Mancano dirigenti in settori nevralgici come i trattamenti, la contabilità, la formazione. Particolarmente grave è la situazione degli uffici di esecuzione penale esterna di Reggio Calabria - Catanzaro - Vibo e Crotone, in atto retti da dirigenti part-time che curano l’ordinaria amministrazione. Cosa aspetta il ministro Alfano a mettere in atto gli interventi più urgenti in materia di personale, sia sul lato amministrativo, sia sul fronte degli agenti penitenziari, essendo ormai poco speranzosi in un intervento sugli edifici carcerari. Interventi che limiterebbero i disagi che si sono creati. E ancora, prendendo atto dell’impegno del presidente del Consiglio regionale in un recente incontro con il sindacato, chiediamo che, oltre alla lettera di sensibilizzazione da inviare al Ministro Alfano, si possa dedicare uno specifico spazio all’interno di una seduta consiliare dedicato ai problemi sollevati dalle organizzazioni sindacali e sollecitare la Giunta, per come richiesto in sede di Conferenza regionale del volontariato nella giustizia della Calabria perché si istituisca al più presto la figura del garante dei diritti dei detenuti”. Livorno: Yuri Attinà è stato ucciso probabilmente dal gas, trovate tracce nel corpo Il Tirreno, 12 gennaio 2011 Tracce di gas nel corpo di Yuri Attinà, il giovane di 28 anni morto in carcere la scorsa settimana. È quanto emerge dalle prime indiscrezioni emerse dall’autopsia eseguita sabato mattina dal medico legale, Luigi Papi. I risultati ufficiali devono ancora arrivare, ma in base a quanto emerso il giovane avrebbe assunto una notevole quantità di gas prima di morire. Lo conferma anche il fatto che accanto al suo corpo è stata trovata una bomboletta (tipo quelle da campeggio) che vengono date in dotazione alle celle per preparare il caffè. Yuri era alle Sughere, al settimo padiglione, in cella con due compagni. Nei prossimi giorni, arriveranno anche gli esiti delle verifiche tossicologiche. “Yuri fumava il gas in cella - dice la nipote, Valentina - invece il direttore dell’istituto detentivo ci aveva assicurato che era impossibile perché “i controlli sono scrupolosi”. Inoltre ci risulta che Yuri aveva assunto gas anche mentre era detenuto a Pisa, due anni fa circa. Non capisco come mai alle Sughere lui avesse ancora a disposizione il fornellino”. La ragazza parla a nome dei familiari e chiede giustizia per Yuri, in particolare chiarezza sulla modalità dei soccorsi. “Ci hanno detto che è morto subito e che i soccorsi sono stati immediati. Invece c’è chi dice che l’ambulanza sia arrivata molto dopo. Io non so come stiano le cose e non voglio certo cercare colpe che non esistono. La responsabilità di questa storia è di Yuri, che l’ha pagata anche cara. Ma se c’è qualcuno che ha sbagliato è giusto che paghi”. Venezia: indagini sul suicidio in carcere. Il Comandante: ho la coscienza a posto Corriere Veneto, 12 gennaio 2011 “Sono amareggiata”. È l’unico commento che si riesce a strappare a Irene latinucci, la direttrice del carcere di Venezia indagata dalla procura lagunare per omissione d’atti d’ufficio nell’inchiesta aperta dal pm Francesca Crupi dopo il suicidio in cella di un 22enne tunisino lo scorso 22 settembre. “Mi sento la coscienza a posto”, dice invece Ezio Antonio Giacalone, comandante degli agenti di Polizia penitenziaria operativi a Santa Maria Maggiore. Di certo la notizia ha preso di sorpresa entrambi, che ancora non erano stati informati dal pm dell’iscrizione sul registro degli indagati. Iannucci non è nemmeno mai stata ascoltata né dal magistrato, né dalla polizia giudiziaria incaricata dell’indagine, a differenza di Giacalone, che peraltro quel 22 settembre non c’era nemmeno. Quel che è certo è che entrambi in questa fase, in attesa di notizie ufficiali, rifiutano seccamente di commentare le accuse. Prudente è anche Marco Zanchi, l’avvocato difensore del detenuto che quella mattina si impiccò con un lenzuolo dopo aver aspettato l’uscita dei sei compagni di cella. “Aspettiamo gli sviluppi, noi siamo pronti a costituirci parte civile, questa è la volontà della famiglia”, dice dopo aver appreso la notizia. Giacalone accetta però di raccontare che cosa voglia dire amministrare il carcere di Venezia oggi, con 360 detenuti rispetto ai 111 per i quali sarebbe progettato e ai 240 che potrebbe contenere al massimo. “Di fronte a questi numeri, si può fare solo un ragionamento: questo carcere è quasi ingestibile, siamo in emergenza continua - spiega - basti pensare che a volte la notte ci sono 708 agenti per 360 detenuti”. Poco senso ha dunque la domanda di quanti agenti manchino per mettere le cose a posto. Di certo quelli attuali sono pochi, ne servirebbero almeno una cinquantina in più. “Anche perché da quei 160 io ne devo togliere 25 della base navale, che si occupano esclusivamente dello spostamento in barca dei detenuti, 21 del nucleo traduzioni, che si occupano degli arrivi di detenuti all’aeroporto Marco Polo e che spesso devo integrare perché non bastano - continua Giacalone - inoltre alcuni li devo mettere anche in amministrazione, perché ci sono solamente due funzionari ministeriali”. Un altro dato ci tengono a sottolineare gli addetti ai lavori: in un anno a Santa Maria Maggiore entrano oltre 1.200 detenuti, ma di questi sono addirittura 700 quelli che restano in cella meno di tre giorni. Vengono processati e poi liberati. Proprio per questo l’ex procuratore capo Vittorio Borraccetti alcuni mesi fa aveva chiesto a pm e politica un rigoroso rispetto della legge che prevede la custodia nelle camere di sicurezza (e non in carcere) dei detenuti in attesa di processo per direttissima. In difesa di latinucci e Giacalone arriva infine il Sappe (Sindacato autonomo polizia penitenziaria). “Non accetto che la professionalità, lo zelo e l’umanità con i quali la polizia penitenziaria svolge il proprio difficile lavoro vengano associati ai terribili vocaboli di violenza, indifferenza, cinismo e omertà”, afferma il segretario Donato Capece. “Abbiamo tutti il massimo rispetto umano e cristiano per il dolore dei familiari dei detenuti deceduti in carcere. Ma non possiamo accettare -prosegue - una falsa rappresentazione delle carceri italiane come luogo fuori dalle regole democratiche e dal rispetto dei diritti umani in cui quotidianamente e sistematicamente avverrebbero violenze in danno dei detenuti e ogni decesso è quindi sospetto”. Catania: il Provveditore Faramo; sensibilizzare opinione pubblica su reinserimento Cnr Media, 12 gennaio 2011 “Il nostro auspicio è che questo progetto possa servire anche a sensibilizzare l’opinione pubblica sul problema del reinserimento sociale dei detenuti”. Lo ha detto Orazio Faramo, dirigente generale del Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria chiudendo la conferenza stampa organizzata nell’Auditorium de La Città del Sole per presentare il progetto “Formazione e lavoro, nuove prospettive di vita”. Si tratta di un innovativo progetto, che, finanziato dal Fondo sociale europeo attraverso l’Assessorato regionale alla Famiglia, ha l’obiettivo di insegnare un mestiere ai detenuti e ha preso il via il 30 settembre scorso con la compartecipazione delle Direzioni penitenziarie. A illustrarlo è stato il suo ideatore e direttore, Nino Novello, spiegando che i detenuti, dopo le fasi di ricerca e di orientamento, potranno seguire cinque corsi teorico-pratici (tre nel carcere di piazza Lanza a Catania e due in quello di Giarre) da 150 ore. La fase successiva sarà un esteso periodo di work experience (480 ore) che sarà realizzato, per la prima volta in Sicilia, anche nelle delle imprese. Flavia Cocuzza, referente del progetto della Casa circondariale di Giarre, dove si trovano detenuti tossicodipendenti, quindi con un doppio gap, ha poi sottolineato come il corso valorizzi l’elemento più importante del trattamento del detenuto: il lavoro. “Fondamentale .- ha aggiunto - è poi la work experience, per soggetti che non hanno mai sperimentato lavori veri e che non sono consapevoli delle proprie risorse”. Rosario Tortorella, direttore del Carcere catanese di piazza Lanza, dopo aver rimarcato che “tutte le fasi del progetto sono utili alla formazione del detenuto” si è soffermato in particolare su due corsi. Il primo è quello che prevede la formazione di operatori per realizzare libri in Braille e Large print - “che - ha detto - consente a una frangia di persone svantaggiate di aiutare un’altra frangia di svantaggiati “- e il secondo è quello per la realizzazione di tappeti tipici siciliani, “che valorizza la nostra tradizione”. Il Provveditore Faramo, concludendo l’incontro, ha sottolineato come questo progetto, incida sulla maturazione del detenuto consentendogli di acquisire competenze che non aveva prima di entrare in carcere . “E inoltre - ha aggiunto - lo sostiene, una volta uscito, nel suo ingresso nel mercato del lavoro, restituendolo alla società civile”. E questo, come ha spiegato Novello, anche attraverso un fondo per l’avviamento al lavoro, previsto dal progetto, che consentirà l’accesso al microcredito per la costituzione di piccole imprese artigiane e cooperative”. Le imprese che concorrono al progetto, oltre alla capofila La Città del Sole, sono la Stamperia Braille di Catania, rappresentata in conferenza stampa dal direttore Pino Nobile, i consorzi Il lavoro solidale, presieduto da Salvo Falletta, e Arnia, rappresentata dal vicepresidente Silvestro Scuto, e la Staff Relations, presieduto da Antonella Coppola. Era presente all’incontro con i giornalisti anche Giuseppe Giansiracusa, presidente della Lega delle Cooperative di Catania. Brescia: carceri sovraffollate, protestano gli agenti di Canton Mombello e Verziano Giornale di Brescia, 12 gennaio 2011 La situazione carceraria cittadina è disastrosa, non solo dal punto di vista dei detenuti, ma anche di chi vi lavora, cioè del personale della polizia penitenziaria e del comparto ministeri (nelle figure di educatori, assistenti e personale dell’amministrazione). Lo denunciano i lavoratori che, assieme ai colleghi di tutta la Lombardia, sono in stato di agitazione dal 20 dicembre. “Tra Canton Mombello e Verziano siamo oltre 300 - sottolinea Calogero Lo Presti, coordinatore regionale della polizia penitenziaria Cgil -. Io per mia fortuna lavoro a Verziano, dove la situazione è migliore rispetto a Canton Mombello”. Il carcere femminile ha una struttura migliore, “sono portate avanti con successo molte attività con i detenuti che, per questo, sono meno stressati, e così anche noi poliziotti riusciamo a lavorare meglio”. Ben diversa la situazione nell’istituto di detenzione di Spalti San Marco, una struttura vecchia e inadeguata: “Già nei primi anni Novanta ci avevano promesso di chiuderla - ricorda Lo Presti -. A quasi vent’anni di distanza, invece, non solo la struttura è ancora aperta, ma presenta un sovraffollamento insostenibile, che porta Canton Mombello a superare in percentuale perfino il carcere di Milano”. Oltre al sovraffollamento, i lavoratori denunciano una “pessima gestione del personale, degli orari, dei turni”, secondo il rappresentante sindacale, che assicura: “I detenuti sono al corrente delle nostre difficoltà, si può dire che abbiamo gli stessi problemi: lavorando male noi, loro vivono ancor peggio la loro condizione di privazione della libertà. In questo modo il carcere diventa una scuola del crimine, invece che un luogo di riabilitazione”. I lavoratori delle carceri bresciane e lombarde indirizzano la loro protesta al ministro dell’Interno Roberto Maroni, al quale hanno inviato una nota riassuntiva di tutte le problematiche che li affliggono: dalle carenze di organico alle assunzioni bloccate, dal sovraffollamento degli istituti ai mezzi di trasporto obsoleti, dai servizi di traduzione da riorganizzare ai mancati interventi di manutenzione. A ciò si aggiunge “la grave difficoltà di chi lavora all’Uepe, ufficio esecuzione penale esterna - aggiunge Donatella Cagno, della funzione pubblica Cgil di Brescia: per esempio, le persone che si occupano dell’accompagnamento all’esterno dei detenuti che hanno possibilità di lavorare, essendo sotto organico si trovano a dover gestire un monte ore esagerato; il tutto a scapito della sicurezza loro e dei cittadini”. Per rendere visibile la protesta e per sensibilizzare la cittadinanza, nelle carceri lombarde sono state affisse le bandiere dei sindacati confederali che, unitariamente, appoggiano la mobilitazione. Il 28 gennaio è previsto un presidio davanti alla Prefettura di Milano, sede del Governo nella Regione Lombardia, con riserva “di organizzare altre iniziative se le nostre richieste non saranno accolte dal ministero”, promette Calogero Lo Presti. Oristano: tornano al lavoro i detenuti archeologi, grazie a un nuovo finanziamento La Nuova Sardegna, 12 gennaio 2011 Nell’estate di due anni fa una squadra di archeologi e di operai affondò per la prima volta i badili in un terreno alla periferia del paese, riportando alla luce i ruderi dell’anfiteatro romano più grande della Sardegna dopo l’arena di Cagliari. Agli albori del 2011 il viaggio nella storia, interrottosi con la conclusione del cantiere Archeo, riprende con la seconda tornata di scavi finanziata dal Por ad Altiora. Anche in questa seconda esperienza la valorizzazione delle testimonianze storiche del territorio acquista un’importanza secondaria rispetto all’obiettivo dell’integrazione sociale di soggetti al centro di percorsi di recupero e dell’inserimento lavorativo di persone svantaggiate. L’iniziativa, infatti, è rivolta a otto detenuti della Casa circondariale di Oristano e a dieci disoccupati del posto, che da oggi e per i prossimi dieci mesi lavoreranno a rotazione nel cantiere sotto la supervisione di un team di professionisti. “L’intento è di creare affezione verso un’attività lavorativa e, indirettamente, di restituire un’identità personale e professionale a quanti vivono in stato di restrizione o comunque in situazione di disagio”, dicono dal Comune, che per dare gambe al progetto si è avvalso nuovamente della collaborazione della Direzione del carcere di Oristano, dell’Università di Sassari, della Soprintendenza archeologica di Cagliari, del Sil Patto territoriale di Oristano, delle cooperative onlus Il Seme e Il Samaritano, dell’Uepe (Ufficio esecuzione penale esterna) di Cagliari - sezione distaccata di Oristano. Il sodalizio si è rinnovato in occasione del terzo bando sulla legalità e ha bissato il successo delle prime due partecipazioni. Il finanziamento ottenuto di recente apre la strada a una terza tranche di scavi che sarà avviata a conclusione di quella appena cominciata. Oggi si svolgeranno in cantiere le prime lezioni di carattere pratico sulla conduzione degli scavi. Con la campagna del 2008 era stato possibile individuare le dimensioni originali dell’anfiteatro, che gli studiosi stimano misurasse 52,60 metri (asse maggiore) per 41,55 (asse minore) e dove sono state rinvenute diverse tombe bizantine e resti umani. Nuoro: dopo l’appello della madre ergastolano catanese trasferito a Livoro Agenparl, 12 gennaio 2011 Ha ottenuto un trasferimento temporaneo dal “Badu ‘ e Carros” di Nuoro al carcere “Le Sughere” di Livorno Alfio Freni, l’ergastolano catanese di 40 anni che chiede insistentemente, dopo 20 anni di detenzione, di avvicinarsi alla famiglia e che non effettua un colloquio con la madre da 2 anni. Sulla vicenda, dopo una drammatica lettera-denuncia dell’anziana donna alle massime autorità dello Stato, al Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, all’associazione “Socialismo Diritti Riforme” e al Garante dei Detenuti di Nuoro. Nella missiva aveva espresso preoccupazione per le condizioni del figlio che non può incontrare per motivi di salute e non avendo disponibilità economiche per affrontare un lungo e dispendioso viaggio. L’uomo, che per protesta nei confronti del Dap aveva effettuato uno sciopero della fame, aveva avuto diverse crisi subendo, secondo quanto affermato dalla madre, un trattamento “disumano nonostante fosse debilitato dalla prolungata astinenza dal cibo”. In venti anni di detenzione, Alfio Freni, padre di due figlie e nonno di un nipotino, ha girato numerosi carceri della penisola senza mai usufruire di un permesso. Ristretto a Bad’e Carros dal gennaio 2010, nel luglio scorso, dopo incomprensioni per ottenere la cella singola per motivi psichiatrici ed un computer per scrivere aveva chiesto il trasferimento. “È evidente - sottolinea Maria Grazia Caligaris, presidente dell’Associazione che da diverso tempo segue la vicenda - che il responsabile del Dipartimento ha colto l’assoluta incompatibilità del detenuto con il carcere di Badu e Carros ma che ha ritenuto fondata la necessità di accogliere positivamente il principio della territoralizzazione della pena. L’auspicio è che dopo la temporanea presenza a Livorno, Alfio Freni possa essere assegnato ad un carcere vicino ai familiari in modo che anche l’anziana madre possa ogni tanto fargli visita. I continui rifiuti ad avvicinare i detenuti ai familiari non solo ignorano il principio costituzionale della rieducazione della pena ma sono controproducenti per il Dipartimento. Si esaspera infatti la convivenza all’interno degli istituti favorendo episodi di contestazione spesso con tragiche conseguenze. Sulla vicenda dell’ergastolano catanese, la parlamentare radicale Rita Bernardini aveva presentato un’interrogazione. Alghero: tenta di uccidere il compagno cella con un rudimentale seghetto Ansa, 12 gennaio 2011 Ha rischiato di finire in tragedia ieri sera, poco prima delle 21, una lite avvenuta all’interno di una cella dell’istituto di pena di Alghero tra due detenuti sardi, entrambi in carcere per scontare condanne per omicidio. Al termine di una violenta lite uno dei due contendenti, Francesco Orrù, di 50 anni, di Maracalagonis (Cagliari), avrebbe colpito il rivale, Gesuino Saba, di 55, di Bultei, con un seghetto rudimentale appuntito. Il ferito è stato immediatamente soccorso dagli agenti della polizia penitenziaria e accompagnato d’urgenza al pronto soccorso di Alghero. I medici lo hanno sottoposto a un intervento nel reparto di Chirurgia e solo a tarda notte l’uomo è stato riaccompagnato nell’infermeria del carcere. A Saba sono stati messi cinquanta punti di sutura e assegnati 15 giorni di prognosi. La lama lo ha raggiunto tre volte, ferendolo al torace e al collo: solo per pochi centimetri non gli ha reciso la giugulare. Orrù è stato invece rinchiuso in una cella di isolamento del carcere con l’accusa di tentativo d’omicidio, su disposizione del sostituto procuratore della Repubblica del Tribunale di Sassari. Il magistrato di turno ha disposto il sequestro del seghetto utilizzato per l’aggressione e anche della cella che dividevano Orrù e Saba fino a ieri sera. Napoli: morto il rapinatore 17enne ferito da un agente lo scorso 2 gennaio Agi, 12 gennaio 2011 È morto intorno alle 23 Antony Fontanarosa, il baby rapinatore rimasto ferito in maniera grave durante un colpo ad una tabaccheria di via Cirillo, a Napoli. L’episodio avvenne il 2 gennaio scorso. Con un complice, bloccato da un poliziotto che lo aveva ferito ad una gamba, il minorenne aveva tentato di rapinare l’esercizio commerciale. Dopo aver sparato al cane dei proprietari della tabaccheria, la vittima aveva chiesto i soldi dell’incasso. In quel momento tra i clienti si fece avanti un poliziotto che, dopo essersi qualificato, come hanno ricostruito gli investigatori successivamente, esplose due colpi di pistole ferendo ad una gamba il complice ed alla testa Antony Fontanarosa. Le sue condizioni erano apparse immediatamente gravi. Ricoverato nella rianimazione dell’ospedale Loreto Mare il ragazzo, dichiarato clinicamente morto qualche ora dopo, è deceduto stasera intorno alle 11. Rovereto (Tn): da martedì prossimo in mostra le ceramiche e i dipinti creati dai detenuti Il Trentino, 12 gennaio 2011 Martedì prossimo 18 gennaio, alle 11 al Mart di Rovereto, sarà inaugurata “Liberamente al Mart”, esposizione che si svolgerà fino al 30 gennaio 2011, e che sarà aperta tutti i giorni, dalle 10 alle 18. Saranno in mostra le ceramiche e i dipinti creati da 52 detenuti della Casa circondariale di Rovereto tra giugno e dicembre 2010. Le opere sono il risultato dei progetti “Formazione ceramica” ed “Espressione pittorica”, realizzati rispettivamente dalla Fondazione “Contessa Lene Thun onlus” di Bolzano e dalla Sezione didattica del Mart. All’inaugurazione sarà presente anche il conte Peter Thun, fondatore della Onlus. La fondazione e il museo hanno lavorato a stretto contatto con la Direzione Penitenziaria della struttura carceraria roveretana, e raggiungendo una serie di obiettivi: l’apprendimento teorico e pratico, la valorizzazione emotiva e culturale della persona, lo stimolo della creatività e della manualità. “L’educazione artistica - spiega Denise Bernabè, responsabile dell’Area Formazione della Didattica del Mart - è diventata strumento di crescita e della valorizzazione della persona attraverso interventi di tipo artistico-espressivo, in quanto percorsi indirizzati alla consapevolezza del detenuto, basato su vissuti positivi come quelli attivati da procedure di tipo artistico e dal contesto del lavoro in gruppo”. Valore aggiunto dell’esperienza è stata la preziosa opportunità di lavorare a stretto contatto con due artisti trentini, Matteo Boato e Claudio Menegazzi. Sotto la guida dei maestri ceramisti Giuseppe Marcadent e Maria Grazia Staffieri, e del loro assistente Wolfdietrich Wieser, i corsisti hanno realizzato delle opere ceramiche veramente pregevoli ed interessanti per progettazione, tecnica di esecuzione e decorazione. Un risultato evidente e concreto dell’impegno reale di queste persone a costruirsi un meritato migliore futuro. Durante i due percorsi artistici i corsisti hanno lavorato in un clima di reciproco rispetto ed attenzione. Rilevante è stato il raggiungimento dell’autostima personale che i partecipanti, realizzando il proprio lavoro, hanno conquistato. Gli utenti dei corsi hanno espresso gradimento, interesse e partecipazione, e le loro opere hanno raggiunto un buon livello qualitativo. Egitto: profughi eritrei, ennesimo SOS di un sacerdote di don Mussie Zerai La Stampa, 12 gennaio 2011 Il primo dicembre scorso avevamo parlato dell’emergenza dei profughi eritrei tenuti prigionieri sul Sinai e ricattati da trafficanti di esseri umani. Purtroppo il problema non è affatto stato risolto né affrontato ed ecco un nuovo appello firmato da don Mussie Zerai, esponente di una delle tante associazioni che si stanno - invano - interessando alla sorte di questi disperati. Una piccola finestra su un mondo inimmaginabile. Richiesta di aiuto urgente dal Sinai. Ore 10.36, arriva una telefonata dai ostaggi eritrei nel Sinai, raccontano le quattro donne che sta mattina hanno dovuto subire per l’ennesima volta violenze sessuali dal branco dei predoni, ripetutamente perché non pagano il riscatto richiesto dai trafficanti. Una delle donne incinte sta molto male, dopo che stata picchiata dai trafficanti. Tutto questo accadeva questa mattina, tutto questo sta accadendo mentre il mondo “civile” se ne sta a guardare, distratto da altre questioni, chi per indifferenza verso questo dramma, chi per non irritare governi di quella regione, sta di fatto che ce un sostanziale silenzio, nessuno sta facendo nulla per debellare questa piaga dei nostri giorni, non si vede nessun risultato, tranne la liberazione dei ostaggi che hanno pagato il riscatto. Ancora oggi il crimine degli schiavisti vince, grazie al silenzio complice dei potenti della Terra. Intollerabile l’inerzia dei governi della regione del Sinai, altrettanto vergognoso il silenzio della comunità internazionale di fronte al dramma di centinaia di profughi tenuti in catene dai predoni nel fazzoletto di terra più rovente del globo, non solo perché fa caldo, ma essendo un territorio sotto controllo di tutta la comunità internazionale per la questione Israelo - Palestinese. Ma la comunità internazionale sembra disposta a chiudere gli occhi su questo dramma di profughi che vengono spogliati di tutto, per fino della loro dignità umana, fino a perdere anche la vita stessa. Ci chiediamo dove sono finiti i difensori della vita umana? Dove sono i paladini dei diritti umani? Dove l’Europa culla della “Civiltà”? Ostaggi africani forse valgono meno di tanti altri per i quali tutti si mobilitano? L’Europa li respinge, si annunciano muri da costruire, ma nessuno si occupa della vita di questi disperati. Bussano alla coscienza di ciascuno di noi. Il silenzio dei mass media non nasconderà le grida disperate delle donne stuprate. Chiediamo un segno concreto di riscatto per liberare non più quelle persone, ma noi stessi, come mi diceva sta mattina uno di loro, “Ormai siamo rassegnati a morire qui, ma voi che vivete nel mondo libero restate schiavi della vostra inerzia, del vostro silenzio, della vostra complicità passiva con questi criminali”. Io non mi stancherò di chiedere alla Comunità Internazionale, in particolare all’Europa di fare passi in avanti per combattere questo crimine contro l’umanità che si sta consumando alle porte dell’Europa, in territorio di paesi considerati alleati e amici dell’Europa. Serve un progetto concreto di accoglienza per i profughi, che oggi sono bloccati in Egitto e Libia, le condizioni disumane a cui vengono sottoposti centinaia di profughi, non solo dai trafficanti, ma anche dalla polizia nelle carceri egiziane e quelle libiche, sono ben conosciuti in Europa, serve una soluzione che dia sicurezza a chi fugge per cercare protezione, libertà e pace. Bisogna offrirgli la possibilità di arrivare in posti sicuri, dove sono garantiti i diritti umani e civili del profugo, del richiedente asilo politico, del rifugiato. Stati Uniti: in Oklahoma terza esecuzione con veleno usato per eutanasia animali Ansa, 12 gennaio 2011 Un uomo di 38 anni è stato messo a morte ieri in Oklahoma facendo uso di pentobarbital, un potente anestetico usato per l’eutanasia agli animali. Lo ha annunciato il penitenziario di Stato. Jeffrey Matthews era stato condannato alla pena capitale nel 1995 per aver ucciso l’anno prima un uomo di 77 anni durante una rapina nella sua abitazione. Lui si è sempre detto innocente e, secondo un suo comitato di sostegno, nessuna impronta, capello o tracce di dna a lui riconducibili sono stati trovati sul posto, né la moglie della vittima lo ha mai riconosciuto. Nel braccio della morte da 16 anni, Matthews era riuscito a far rimandare tre volte la sua esecuzione nel 2010, la terza volta perché contestava che un anestetico usato in veterinaria fosse usato al posto del Thiopental (pentotal), autorizzato dalla Corte suprema, ma di cui sono finite le scorte negli Usa. Matthews è il secondo condannato a essere messo a morte con l’uso di pentobarbital in Oklahoma dopo Billy Don Alverson il 6 gennaio, e il terzo in meno di un mese. Il 16 dicrembre scorso John David Duty, 58 anni, è stato il primo, in Oklahoma e negli Stati Uniti, a essere ucciso con una sostanza usata per eliminare gli animali. Cuba: italiano in carcere; sono innocente, ho firmato un documento sotto tortura La Nazione, 12 gennaio 2011 Da sei mesi è in carcere, a Cuba, accusato dell’omicidio di una ragazzina. Ma lui si dice innocente, e vuole dimostrare che a quel festino a base di sesso e droga, durante il quale morì, per l’abuso di stupefacenti, una prostituta minorenne, non ha mai partecipato. Di più: Simone Pini, 43 anni, fiorentino, il 14 maggio del 2010, giorno in cui, all’interno di un albergo, viene constatato il decesso di una 12enne, sarebbe stato in Italia. Lo potrebbero provare, oltre alle testimonianze dei familiari, tante cose normali fatte da Pini tra il 30 marzo, giorno del suo rientro a Roma, e il 24 maggio, quando è tornato a Bayamo, centro della provincia di Granma dove vive l’ex moglie cubana del fiorentino e il loro figlioletto. Cene con gli amici a Firenze; una ricarica sul conto Postepay; una visita oculistica all’ospedale di Careggi e un controllo stradale effettuato dai carabinieri a Campi Bisenzio. Tutto questo si scontra con le accuse, supportate da un documento, firmato dallo stesso Pini, in possesso della polizia cubana, che attesta un suo ingresso clandestino nell’isola caraibica. Per la polizia Pini era a Cuba, nonostante i visti d’ingresso sul passaporto dimostrino il contrario, e, sulla base di alcune testimonianze, avrebbe partecipato all’incontro a luci rosse in cui ci è scappata la tragedia. “Quella firma ci fu strappata con la tortura e le minacce anche di fucilarci”, si dispera Simone nell’ultima lettera dal carcere di Combinado del Este, a L’Avana, spedita a casa prima di Natale. “Rischio 20 anni di galera per non aver fatto niente”, ripete, mentre invoca il papà, pensionato di 83 anni, e il fratello maggiore, custode in una scuola, di aiutarlo a uscire dall’inferno. Pini è accusato di reati pesantissimi: concorso in omicidio, spaccio di sostanze stupefacenti, istigazione alla prostituzione minorile. In galera, oltre a Pini, sono finiti alcuni cubani e altri due italiani, il vicentino Luigi Sartorio e Angelo Malavasi, un imprenditore mantovano: pure loro, sempre secondo le accuse dell’autorità cubana, erano al festino del 14 maggio. Pini, ex ultrà viola, negli anni novanta scopre Cuba. I suoi viaggi si fanno sempre più frequenti: s’inventa un commercio tra l’Italia e i Caraibi, si sposa e fa un figlio. Poi il matrimonio va a rotoli, continua a vivere tra Firenze e Bayamo; ma, secondo il fratello Alessio, Simone, “si è fatto qualche nemico”. Nell’indagine sulla morte della baby prostituta, assicura, “ci è finito perché qualcuno ha fatto il suo nome”. Un equivoco, che dura da mesi. I familiari hanno le mani legate. Le autorità castriste non hanno fornito alcuna comunicazione; dall’Ambasciata italiana sono giunte solo poche informazioni, per di più ufficiose. L’avvocato che assiste il 43enne non può accedere al fascicolo dell’accusa: è segreto, così prevede il codice cubano. Intanto chiede soldi per il suo onorario, che i familiari hanno difficoltà a reperire. “Abbiamo già speso 5000 euro, e noi non abbiamo grosse possibilità”, spiega Alessio. La situazione è impantanata, il carcere cubano non è una passeggiata e Simone, sempre più depresso, scrive e chiede aiuto. Alessio si fa portavoce del suo appello. “Mio fratello non è uno stinco di santo - dice - ma sono sicuro che è innocente, visto che non era neppure a Cuba. Chiedo alla Farnesina e all’Ambasciata italiana di farsi più pressanti con le autorità cubane. Al sindaco Matteo Renzi invece chiedo che s’interessi di un fiorentino ingiustamente detenuto all’estero”. Messico: scontri in carcere nel nord, almeno 11 detenuti morti Ansa, 12 gennaio 2011 Almeno undici detenuti sono morti ieri durante scontri in un carcere della città di Gomez Palacio, nel nord del Messico. Lo hanno detto all’Afp le autorità giudiziarie dello stato di Durango. “Scontri sono scoppiati all’interno della prigione è ci sono stati 11 morti, tutti uomini”, ha affermato il vice procuratore dello stato, Alejandro Moreno, aggiungendo di non poter ancora chiarire il motivo degli scontri, né se si sia trattato di una rivolta o di violenze fra detenuti. Fonti penitenziarie hanno in seguito reso noto che si è trattato di una battaglia fra detenuti. La stessa prigione era stata al centro di uno scandalo il luglio scorso quando alcune guardie carcerarie erano state accusate di aver liberato dei prigionieri per permettere loro di intervenire in faide legate al narcotraffico. Secondo la procura dello stato di Durango, almeno tre massacri in città vicine, con un bilancio totale di 35 morti, erano stati commessi da detenuti del carcere di Gomez Palacio. Iran: ondata di esecuzioni a Teheran, 8 detenuti impiccati in un solo giorno Aki, 12 gennaio 2011 Nuova ondata di esecuzioni in Iran. Otto detenuti, uno dei quali accusato di stupro e sette di traffico di droga, sono stati impiccati nel carcere di Evin, a Teheran. Lo ha riferito l’agenzia d’informazione “Irna”, secondo cui tra i condannati figura Farzad Alizadeh, condannato per violenze sessuali su una giovane. Negli ultimi giorni si sono intensificate le impiccagioni nella Repubblica Islamica. Ciò è dovuto in particolare a un emendamento alla legge sul possesso di droga votato dal parlamento iraniano. La nuova direttiva prevede la pena di morte per il traffico di droga, anche sintetica, superiore ai 30 grammi. Dall’inizio dell’anno, almeno 20 persone sono salite sul patibolo in Iran. Svizzera: si suicida un detenuto di 57 anni, era in attesa di giudizio Ansa, 12 gennaio 2011 Un uomo di 57 anni che si trovava in detenzione preventiva ad Aarau è stato ritrovato impiccato questa mattina nella sua cella. Si tratta di un cittadino italiano che era in prigione da circa un mese perché sospettato di gravi atti di violenza contro la moglie. Il detenuto ha contattato ieri a più riprese il personale della prigione, ma nulla lasciava pensare che avesse l'intenzione di suicidarsi, scrive oggi in una nota l'ufficio per l'esecuzione delle pene del canton Argovia.