Giustizia: Uil-Pa; troppi tagli, le scelte del Governo rendono ingestibili le carceri Adnkronos, 11 gennaio 2011 Nella mattinata odierna il Segretario Generale della Uil Pa Penitenziari, Eugenio Sarno, ha inoltrato una lettera al Presidente del Consiglio nella quale si formulano osservazioni critiche rispetto agli stanziamenti economici disposti in favore del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap). Sarno dopo aver ricordato che nel 2010, nelle carceri italiane, si sono verificati 66 suicidi, 1.134 tentati suicidi, 5.603 atti di autolesionismo, 3.462 aggressioni in danno di persone e i 13 detenuti evasi ha giudicato inerte l’attività del Governo rispetto “al dramma penitenziario” . “Il dramma penitenziario è un grave problema umanitario, sanitario e di ordine pubblico di cui il Governo dovrebbe, tangibilmente, farsi carico. Perché, nonostante gli impegni annunciati nulla muta. Tutto peggiora. Finanche il numero dei bambini-detenuti al seguito delle madri aumenta. È impossibile scorgere il seppur minimo segnale di soluzione, verso quella che è un’autentica barbarie. In questo quadro desolante e angoscioso - si legge nella nota inviata anche al Sottosegretario Letta ed ai ministri Alfano e Tremonti - non si può non essere seriamente preoccupati per il futuro del nostro sistema penitenziario. Ad alimentare la nostra motivata preoccupazione concorre anche la consapevolezza degli effetti che provocheranno i tagli lineari agli stanziamenti economici per il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Di fatto i fondi stanziati per il 2011 causeranno, in assenza di integrazioni, la paralisi e l’ingestibilità degli istituti penitenziari, a prescindere dalla capacità di chi è chiamato ad amministrarli”. Il Segretario Generale della Uil Pa Penitenziari, inoltre, ha elencato nel dettaglio quelle che si ritengono le situazioni più deficitarie che avrebbero come conseguenza diretta la paralisi e l’ingestibilità del sistema penitenziario. Vitto detenuti - La media nazionale, in base ai vari contratti di appalto, determina che per garantire il vitto (colazione, pranzo e cena) alla popolazione detenuta occorrono 4,15 € al giorno pro-capite . Stimando una presenza di 68mila detenuti, occorrerebbero circa 106 milioni di euro. Al Dap, invece, sono stati assegnati 85,3milioni (da cui occorre detrarre circa 6milioni necessari per gli interventi di manutenzione ed acquisto di materiali per le pulizie delle cucine). Ne consegue che, a finanziamenti inalterati, i contratti di appalto non saranno rispettati e la quota procapite per il vitto giornaliero (colazione, pranzo e cena) scenderebbe a 3,18 € ….. Canoni acqua, luce, gas, ecc. - Il fabbisogno per pagare le utenze telefoniche, gli approvvigionamenti idrici, di gas ecc. è stimato in circa 88 milioni di euro. Assegnati : 45,5 milioni. Manutenzione Fabbricati - Il competente Ufficio del DAP ha stimato in 25milioni di euro il fabbisogno per interventi di manutenzione straordinaria ed ordinaria ai fabbricati, limitando le stime solo alle situazioni più urgenti. Risultano assegnati 9,1 milioni. Spese trasporto detenuti - L’ammontare del fabbisogno per le spese trasporto detenuti (carburante, noleggi, pedaggi autostradali, biglietti aerei, etc.) in modo da garantire la celebrazione dei processi, i trasferimenti e quant’altro è stimabile (per difetto) intorno ai 20milioni di euro. Sono stati assegnati 13milioni. Missioni personale polizia penitenziaria - Dalle proiezioni effettuate sui servizi svolti nel decorso 2010, per garantire il pagamento delle indennità di missione al personale di polizia penitenziaria (operante precipuamente nell’ambito del servizio Traduzioni e Piantonamenti o nella sorveglianza dei detenuti sottoposti al regime di 41-bis ) occorrono non meno di 20milioni . Assegnati : 9,2 milioni ( con la precisazione che circa 6milioni serviranno a coprire le indennità non ancora pagate per il 2010). “Pur nella parzialità - conclude Sarno - delle voci prese in considerazione, speriamo di aver contribuito a delineare quale infelice e critica realtà si profili per il sistema penitenziario a seguito delle scelte effettuate dal Governo”. Lettere: il governo pensi alle carceri… di Martina Vecce (responsabile sicurezza e legalità Pd Livorno) Il Tirreno, 11 gennaio 2011 La tragica ed improvvisa fine di un giovane ventottenne nel carcere di Livorno lascia sempre l’amaro in bocca, a maggior ragione se il decesso avviene all’interno di una struttura carceraria. Le Sughere, ormai dolorosamente note per le condizioni umane precarie sia per i lavoratori che vi operano all’interno sia per i detenuti, hanno prodotto la loro ennesima vittima. Le nostre più sentite condoglianze vanno alla famiglia di Yuri, un ragazzo che non doveva morire in carcere ma che dopo aver scontato la sua pena sarebbe dovuto essere reintegrato. Ci auguriamo, inoltre, che sulla sua morte non restino ombre e incertezze. Alcuni consiglieri del Pd avevano già denunciato la situazione all’interno del carcere livornese, il Pdl nel novembre scorso si era preso l’impegno sulle pagine del Tirreno di portare questo problema all’attenzione del governo, promessa ovviamente restata disattesa. è arrivato il momento che il governo investa sulla sicurezza e sulla vivibilità delle carceri ed anche per quel che riguarda Livorno, invece di tagliare risani una situazione insostenibile! Lettere: l’impegno dell’Avoc di Bologna per le famiglie dei detenuti di Francesco Piazzi (volontario Avoc) Ristretti Orizzonti, 11 gennaio 2011 Nell’ambito delle attività di volontariato svolte nel carcere bolognese della “Dozza” dall’Avoc (Associazione Volontari Carcere), rivestono particolare rilievo le iniziative indirizzate a proteggere i congiunti dei detenuti. L’attenzione al dramma di queste famiglie sfortunate - vittime innocenti di un sistema detentivo che nulla prevede per tutelarne l’unità, alleviarne il dramma umano, garantirne nei casi più disperati la mera sussistenza materiale - si concretizza in iniziative a vari livelli d’impegno. Si cerca di alleggerire con giochi e piccoli doni la tensione dei bambini che attendono di incontrare il genitore nelle squallide sale adibite ai colloqui. Si cerca di sostenere i parenti del detenuto col conforto della parola, fornendo loro indicazioni utili per orientarsi, in particolare nella fase iniziale dell’arresto quando, smarriti e impotenti, non sanno come mettersi in contatto col congiunto. Soprattutto ci s’impegna con interventi utili a mantenere vivo il legame tra i coniugi, un legame reso fragile dalla separazione. A questo scopo si cerca, ad esempio, di rifornire i carcerati più indigenti di piccole somme per effettuare le rare telefonate mensili ammesse dall’ordinamento, si distribuiscono le penne, la carta, i francobolli. In particolare l’Associazione favorisce, nella ormai tradizionale festa della famiglia, una modalità più umana e dignitosa d’incontro tra il carcerato e i suoi cari. Si tratta di un’iniziativa, condotta in collaborazione con la Direzione della “Dozza”, che vede riuniti attorno ai tavoli, come in un ristorante o nel parterre di un caffè, i detenuti insieme con i famigliari. Ai partecipanti sono offerti, a spese dell’AVoC, cibi e bevande; ai bambini, anche giocattoli e momenti di intrattenimento. E tutto questo, in un’atmosfera di colloquialità serena e distesa, di relativa normalità. Una normalità, che è già di per sé una condizione eccezionale per i detenuti e i loro parenti, soprattutto per i bambini, che di normalità, appunto, hanno un disperato bisogno. In questa “festa” si respira un’aria talora persino lieta, e comunque ben diversa da quella greve e carica di tensione della sala colloqui, dove ogni riservatezza e intimità sono bandite e dove non di rado i figli più piccoli rifiutano di incontrare il genitore. E il sentimento di abbandono e solitudine derivante da questa comunicazione spezzata - forse più ancora che il “ristretto orizzonte” spaziale del carcere - preclude la possibilità di una vera riabilitazione del detenuto e spiega l’alta percentuale di suicidi nelle prigioni. A un livello più impegnativo, sul piano economico e organizzativo, si collocano le attività dell’AVoC volte a offrire l’ospitalità alle famiglie dei carcerati e ai carcerati stessi. Attualmente sono disponibili a spese dell’Associazione - che si limita a chiedere agli ospiti un contributo simbolico volontario - quattro appartamenti: due, destinati ad accogliere per brevi periodi le famiglie in visita e i detenuti in permesso; due che ospitano, per alcuni mesi, ex detenuti (attualmente, due donne) in vista del loro reinserimento sociale. L’impegno dei volontari nei vari ambiti operativi (organizzazione dei turni di ospitalità, accoglienza, pulizia locali, cambio biancheria, controllo degli appartamenti a fine ospitalità, ecc.) è ripagato dai riconoscimenti positivi dei detenuti e delle loro famiglie. In prospettiva l’AVoC intende avviare in collaborazione con la Provincia un progetto volto ad alleviare le condizioni di miseria estrema - al limite della fame - in cui spesso versano i famigliari privati del capofamiglia in carcere, che era l’unica fonte di reddito. La drammaticità e l’estensione di una tale emergenza impone una capacità organizzativa eccezionale oltre che mezzi e risorse certamente sproporzionati alle deboli forze di un’associazione di volontari per lo più anziani. Ma fino ad ora la gravità dei problemi non ha costituito per l’Associazione un motivo per arrendersi, bensì un incentivo a cercare con passione e impegno alcune - sia pure parziali e sempre inadeguate - soluzioni possibili. Basilicata: la Regione scrive ad Alfano; difficoltà operative dei dipendenti penitenziari Asca, 11 gennaio 2011 Le difficoltà operative degli agenti e del personale amministrativo del carcere di Potenza e degli altri istituti penitenziari lucani sono state al centro di un incontro tra il vicepresidente della Giunta regionale della Basilicata, Agatino Mancusi, e il segretario provinciale della Uil Penitenziaria, Donato Sabia. Nel corso dell’incontro è emerso che nel carcere di Potenza e in molti altri istituti penitenziari lucani, sono assenti gli standard minimi di sicurezza e che gli agenti e il personale amministrativo, sono quotidianamente costretti ad affrontare enormi difficoltà. Le sigle sindacali, è stato spiegato, rivendicano l’aumento del personale, la ristrutturazione degli edifici e il rispetto dei diritti dei lavoratori. A Potenza, ad esempio, sono ospitati mediamente un centinaio di reclusi in più, rispetto alla capienza ordinaria. Molti sono gli stranieri, i tossicodipendenti e i malati psichici. Per questi motivi i dipendenti, costretti a anche a turni di dodici ore consecutive e in condizioni di notevole difficoltà, hanno chiesto l’intervento della Regione. Il sovraffollamento carcerario in Basilicata - ha osservato Mancusi - è ormai divenuto un problema serio che si riverbera inevitabilmente anche sulle condizioni operative degli agenti e del personale amministrativo. Un’edilizia penitenziaria ormai vetusta, il notevole incremento della popolazione detenuta di origine extracomunitaria, un notevole incremento della presenza di soggetti portatori di diverse patologie, rendono non più rinviabile una riflessione sul potenziamento dell’attuale sistema carcerario lucano. Per questi motivi - ha assicurato Mancusi - la Regione Basilicata invierà una nota ufficiale al ministro della Giustizia Angelino Alfano, chiedendo un intervento immediato per le criticità più impellenti. Puglia: De Leonardis (Udc); emergenza carceri è una mina vagante Agenparl, 11 gennaio 2011 “I numeri diffusi dalla Uil - Penitenziari relativi alla drammatica situazione all’interno delle case circondariali di Foggia e Lucera rappresentano una intollerabile sconfitta, che amplifica a dismisura l’emergenza legalità in Capitanata”. Giannicola De Leonardis, consigliere regionale Udc e presidente della settima commissione Affari Istituzionali, interviene nuovamente su una questione “che offende e calpesta la dignità delle persone, e rende addirittura paradossale l’aggettivo civile accanto al sostantivo ‘società’, quale dovrebbe essere la nostra che ritiene accettabile un esubero di 317 presenze, un indice di affollamento del 78%, 2 suicidi e 8 tentativi di suicidio, 55 atti di autolesionismo, 5 aggressioni di detenuti ai danni di poliziotti penitenziari, 59 scioperi della fame indetti da detenuti solo nell’ultimo anno e nella struttura foggiana”, sottolinea (i dati registrati a Lucera, per la cronaca, sono altrettanto inquietanti: 98 presenze in esubero, indice di affollamento del 62%, un suicidio e 3 tentati suicidi, 9 atti di autolesionismo, un’aggressione ai danni degli agenti di polizia penitenziaria e 5 scioperi della fame). Per De Leonardis “è il combinato disposto di una politica di tagli scriteriati e generalizzati, in particolare in un comparto delicatissimo come la giustizia, e di una latente disattenzione da parte del Governo nazionale verso il Sud, sempre in attesa di fantomatici Piani e sempre e solo alle prese con continue emergenze. La situazione del carcere di Foggia, in particolare, è allarmante anche per la grave carenza di organico del personale di polizia e per l’elevato numero di detenuti sottoposti a regime di alta sicurezza: una situazione che merita immediate risposte a ogni livello, e che non mi stancherò di denunciare” conclude. Saluzzo (Cn): muore detenuti di 32 anni, per “cause naturali” Ristretti Orizzonti, 11 gennaio 2011 Domenica sera intorno alle 22.30 un detenuto tunisino di 32 anni, Brahim Macher, è deceduto nella cella che condivideva con un altro carcerato all’interno della casa di reclusione saluzzese, la seconda più grande del Piemonte. Il giovane, che avrebbe compiuto 33 anni a novembre, era ristretto in regime ordinario. Un arresto cardio-circolatorio l’ha colpito senza lasciargli scampo, vani anche i tentativi di rianimazione praticati dall’equipe del 118 intervenuta all’interno della struttura carceraria. Livorno: si muore di carcere… Yuri, Marcello, le Sughere, le bombolette di gas www.senzasoste.it, 11 gennaio 2011 E così, stando a quello che si sa fino a oggi, sul corpo di Yuri Attinà “dopo un esame accurato non sono emersi segni di percosse o violenza”. Lo ha riferito ieri il consulente di parte nominato dalla famiglia dopo l’autopsia, effettuata dal medico legale Luigi Papi. Rimangono i dubbi espressi dai familiari che riferiscono di aver potuto vedere il corpo del ragazzo fino al busto, e di avere riscontrato macchie violacee sul collo e sulla schiena. Rimangono gli ulteriori dubbi espressi dagli stessi familiari e da chi lo conosceva come un ragazzo forte e robusto, per nulla sofferente di problemi cardiaci. In assenza di nuovi elementi (si prospettano ulteriori analisi per stabilire con maggior precisione la natura del decesso) questa, al momento, rimane la verità ufficiale. L’autopsia non ha rilevato le cause della morte improvvisa di Yuri, ed è stata ventilata l’ipotesi di un decesso dovuto all’inalazione di gas dalle bombolette da campeggio in dotazione ai detenuti per scaldare il cibo: una pratica assai diffusa all’interno delle carceri italiane e delle Sughere in particolare per ottenere un temporaneo effetto di “sballo”. Ma di questo parleremo dopo. Urgono in primo luogo alcune considerazioni. Pestaggio o meno, il decesso di Yuri rimane, a prescindere, una morte di Stato. Lo Stato aveva in consegna il suo giovane corpo e Yuri aveva lo stesso diritto alla salute che spetta ai cittadini “liberi” e, secondo gli stessi codici che vorrebbero dare una parvenza di umanità a quella discarica sociale che sono le carceri italiane, una volta scontata la pena sarebbe dovuto uscire dal carcere sulle sue gambe così come era entrato. Ma sappiamo bene a quali disumane procedure sono sottoposte le persone detenute, che tra permessi dei magistrati di sorveglianza, strutture sanitarie penitenziarie inesistenti o insufficienti e inefficienti, vedono pregiudicati gli interventi sia ordinari che d’urgenza dietro le sbarre. Risuonano sinistramente tragiche le parole della sorella di Yuri pronunciate davanti alle telecamere, durante l’affollato presidio svoltosi ieri davanti al carcere delle Sughere: “Non penso che i tossicodipendenti debbano finire in carcere, ci sarebbe piuttosto bisogno di strutture alternative. Però pensavamo che la permanenza in carcere gli avrebbe fatto bene, almeno sarebbe rimasto per un po’ lontano dalle sostanze...”. Non staremo qui a ribadire ancora una volta il degrado in cui versa il sistema penitenziario italiano. I numeri sono conosciuti, e da qualche tempo anche i quotidiani e i mass media nazionali sembrano essersene accorti, proprio sulla scorta dai casi più famosi e “presentabili” di detenuti deceduti nelle carceri italiane. Lo stesso Tirreno di Livorno, in genere refrattario ad approfondire tematiche scomode e controcorrente, nei giorni immediatamente seguenti alla morte di Yuri ha reso pubblici i dati che riguardano il famigerato carcere di Livorno: segno anche questo che la misura è colma. Le Sughere contiene una popolazione carceraria con il 64% di persone in più rispetto alla sua effettiva capienza, è il secondo carcere in Italia come numero di tentati suicidi, e vanta il triste record di 20 morti in 10 anni, molti dei quali attribuiti alle famigerate bombolette del gas. Già, le bombolette. In carcere esistono pochi modi per passare il tempo. Uno di questi è la cucina, per cui la possibilità di cuocere i cibi è essenziale. L’amministrazione penitenziaria mette a disposizione piccole cucine da campeggio, con cui i detenuti fanno tutto, dal caffè ai piatti più complicati. Da sempre le bombolette del gas distribuite ai detenuti vengono usate anche per altri scopi: l’inalazione del gas provoca sonnolenza e uno stordimento simile alle droghe leggere, e molti detenuti ne approfittano per sballarsi e non pensare. Nulla di diverso da quanto, in maniera legale, viene propinato in maniera massiccia dalla stessa amministrazione penitenziaria: è veramente difficile che chi sia “dentro” non faccia uso di “gocce”, ovvero di dosi massicce di psicofarmaci somministrate a chi ne faccia semplice richiesta. Con conseguenze nefaste a livelli di dipendenza accentuata, con danni alla psiche e al sistema nervoso. Da parte dell’amministrazione penitenziaria la somministrazione di psicofarmaci e la tolleranza per l’uso del gas ha dunque una palese motivazione: torna comodo stordire i detenuti, meno propensi in questo modo a dare problemi e a scomodare le guardie, soprattutto in periodo di crisi e di taglio al personale di sorveglianza. Catania: detenuto morì in cella a 19 anni, la Procura ha riaperto il caso di Alfio Sciacca Corriere della Sera, 11 gennaio 2011 La morte in cella di Carmelo Castro non è un caso chiuso. La Procura di Catania ha deciso di riaprire le indagini come aveva più volte chiesto la madre, Grazia La Venia, che non ha mai creduto all’ipotesi del suicidio. Con lei si sono schierate le associazioni “Antigone” e “A buon diritto” che recentemente hanno presentato un esposto alla Procura nel quale vengono passate in rassegna le troppe incongruenze della ricostruzione ufficiale. La più lampante è quella relativa all’altezza del letto a castello al quale si sarebbe impiccato Castro. “Nelle celle del carcere di Piazza Lanza - sostengono le due associazioni che si battono per i diritti dei detenuti- i letti a castello hanno un’altezza che varia fino ad un massimo di un metro e settanta mentre il giovane era alto 1,75”. E poi non si capisce perché l’inchiesta sia stata chiusa in modo frettoloso. “Perché - si chiede nell’esposto - non venne sequestrata la cella e il lenzuolo al quale si sarebbe impiccato Castro, né interrogato il personale del carcere e i detenuti delle celle vicine”. In contemporanea il garante siciliano per il diritti dei detenuti, il senatore Salvo Fleres, ha annunciato una nuova interrogazione al ministro della giustizia sostenendo che “la magistratura ha il dovere di chiarire i troppi punti oscuri di questa vicenda”. Tutti ciò ha indotto la Procura a riaprire le indagini. Al momento sul tavolo del procuratore aggiunto Giuseppe Toscano c’è un fascicolo atti relativi che nei prossimi giorni verrà affidato a due sostituti che dovranno rivalutare le carte della prima inchiesta e nuovi spunti investigativi. Sarà presa in considerazione anche l’esplicita richiesta dell’associazione Antigone di riesumare il cadavere per verificare, per quel che è possibile, se sono ancora riscontrabili segni di violenza. La madre e la sorella di Castro sostengono di averlo sentito gridare mentre era nella caserma dei carabinieri di Paternò, prima che venisse trasferito in carcere. Ma ai fini dell’accertamento della verità sulla causa della morte è molto più importante capire cosa sia avvenuto dopo. Carmelo Castro, 19 anni, incensurato, venne trovato cadavere alle 12,20 del 28 marzo 2009 nella cella numero 9 della sezione “Nicito” del carcere catanese di Piazza Lanza dove era entrato quattro giorni prima per aver fatto il palo in una rapina. A lungo interrogato dai carabinieri aveva raccontato di vessazioni e pestaggi ad opera di esponenti della stessa banda con la quale aveva fatto la rapina che non lo volevano far uscire dal giro. “Da tempo vivo in una condizione di assoluta paura - fece mettere a verbale - poiché a seguito dell’arresto di Vincenzo Pellegriti, detto “u chiovu”, molti dei soggetti pericolosi che lo stesso serviva hanno iniziato a pensare a me come il suo naturale successore. Tale scelta da parte di questi individui forse è stata dettata dal fatto che i medesimi vedevano nel sottoscritto un ragazzo che era rientrato dalla Germania e che quindi non aveva particolari legami con alcuno e contestualmente non era particolarmente in vista alle forze dell’ordine”. E soprattutto: “Il mio stato di soggezione ad altri soggetti del gruppo deriva dal fatto che gli stessi mi hanno spesso picchiato. Ricordo, in particolare, che meno di un mese fa gli stessi mi fratturarono il naso perché mi rifiutavo di aiutarli in alcune scorribande ed altri reati che gli stessi avevano progettato di compiere”. Ecco perché il legale della famiglia chiede con insistenza di sapere chi c’era nelle celle vicine a quella di Castro (che era recluso in regime di massima sorveglianza) e se è stato qualche detenuto a distribuire il pasto che ha consumato poco prima di morire. “A parte la stranezza di una persona che prima di suicidarsi consuma un pasto abbondante come risulta dall’autopsia - osserva l’avvocato Vito Pirrone - non ci è stato ancora detto se fu un detenuto e chi a somministrare il vitto quel giorno”. E ancora: “Sul cadavere sono state riscontrate strane ipostasi, cioè accumuli di sangue, sulla schiena e non agli arti inferiori come dovrebbe essere nel caso di morte per impiccagione”. Per non dire delle troppe anomalie nei soccorsi e della decisione, nonostante il medico avesse avviato le manovre di rianimazione, di trasferirlo in ospedale a bordo di una comune auto di servizio e non in ambulanza. Tutti dubbi che dovrà fugare la nuova inchiesta per quanto possibile orma a quasi due anni dai fatti. Firenze: delegazione del Pdl in visita al carcere di Sollicciano Adnkronos, 11 gennaio 2011 Il senatore Pdl Achille Totaro si è recato oggi in visita al carcere di Sollicciano di Firenze insieme al consigliere comunale Pdl Stefano Alessandri. “Sicuramente sono molteplici - si legge in una dichiarazione di Totaro - le questioni da affrontare partendo dalle condizioni strutturali precarie dell’istituto. Oltre a ciò, vi è una grave carenza di organico della polizia penitenziaria, problema non presente in ugual maniera nel resto dell’Italia e per cui occorrerebbe una razionalizzazione a livello nazionale. Inoltre vi è l’annoso problema del sovraffollamento, gravato dalla massiccia presenza di stranieri, i quali si trovano in carcere non a causa della legge sulla clandestinità ma per reati commessi sul territorio nazionale”. Il problema del sovraffollamento, sottolinea Totaro, è “leggermente diminuito grazie alla legge approvata in Parlamento per cui per i detenuti che devono scontare residui di pena di qualche anno si può procedere agli arresti domiciliari. Altresì gravosa è la questione della mancanza di spazi ospedalieri adibiti al ricovero dei detenuti i quali, posti nelle normali corsie, hanno bisogno di sorveglianza con dispendio quindi di energie e di risorse da parte della polizia penitenziaria”. Totaro ha dichiarato che presenterà un’interrogazione parlamentare per sottoporre i problemi evidenziati dalla visita a Sollicciano all’attenzione del Governo. Il senatore del Pdl ha anche annunciato che organizzerà un incontro tra un sottosegretario alla Giustizia e la polizia penitenziaria. Il consigliere comunale Stefano Alessandri si interesserà della vicenda del funzionamento della telecardiologia che è stata ufficialmente inaugurata nel novembre del 2009 e non è mai entrata in funzione. Lanciano: detenuto aggredisce poliziotto, nei giorni scorsi due ristretti feriti a morsi Adnkronos, 11 gennaio 2011 Nel pomeriggio di ieri, un detenuto ristretto nel carcere di Lanciano sottoposto a regime particolare di cui all’art. 14 bis dell’Ordinamento penitenziario per tentata evasione in uno degli istituti romani, esperto di arti marziali, già denunciato in precedenza per minacce, al rientro dall’ora d’aria ha proditoriamente ed improvvisamente sferrato una tremenda gomitata al volto del Sovrintendente di Polizia Penitenziaria addetto alla Sorveglianza generale dell’Istituto. Una situazione di alta tensione, l’ennesima, rispetto alla quale è stato necessario l’intervento di altro personale di Polizia dell’Istituto per riportare la calma nel Reparto detentivo. “Quanto avvenuto ieri a Lanciano è di una gravità assoluta ed inaccettabile” commenta Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, il primo e più rappresentativo dei Baschi Azzurri. “Per prima cosa voglio esprimere la solidarietà mia personale e del Sappe al Collega proditoriamente ed improvvisamente colpito con violenza dal detenuto e che nonostante tutto è riuscito a contenere l’aggressività del detenuto. Questo nuovo grave fatto accaduto a Lanciano è l’ennesimo segnale, in ordine di tempo, delle criticità del penitenziario di Villa Stanazzo. Non più tardi di qualche giorno fa, nell’Istituto di pena frentano due detenuti sono stati ricoverati in ospedale in quanto al primo è stato staccato con un morso da un altro detenuto una falange del dito, al secondo, nello stesso giorno, è stato staccato con un morso un pezzo di orecchio. È davvero troppo. Dove sono le istituzioni? Cosa pensano di fare per tutelare gli agenti di Lanciano? La drammatica situazione penitenziaria oggi è contenuta principalmente dal senso di responsabilità del Corpo di Polizia Penitenziaria; ma queste sono condizioni di sfiancamento e logoramento che durano ormai da molti mesi. Ma quanto si pensa possano resistere gli uomini e donne della Polizia Penitenziaria che sono costrette a trascurare le proprie famiglie per garantire turni massacranti con straordinari nemmeno pagati? Quanto stress psico-fisico si pensa possa sopportare una persona in divisa costretta a convivere con situazioni sanitarie da terzo Mondo, esposta a malattie infettive che si ritenevano ormai debellate in Italia, ma che sono largamente diffuse in carcere, attenta a scongiurare suicidi, a schivare ma spesso anche a subire (come avvenuto ieri pomeriggio a Lanciano, sovraffollato da oltre 350 detenuti presenti nonostante una capienza regolamentare di 180 posti letto) violente aggressioni da parte dei detenuti?”. Catania: al via un progetto di reinserimento sociale, domani la presentazione ufficiale Redattore Sociale, 11 gennaio 2011 Il direttore del carcere di Catania, Rosario Tortorella: “Per la prima volta lavoreremo in sinergia con le imprese”. In Sicilia le carceri hanno una situazione di sovraffollamento con 2.400 detenuti di troppo. “Formazione e lavoro: nuove prospettive di vita” è il titolo del progetto finalizzato al reinserimento sociale dei detenuti che sarà presentato domani mattina nell’auditorium de La Città del Sole, cooperativa sociale capofila di un gruppo di imprese e consorzi che lo ha ideato e avviato. L’obiettivo del progetto risulta improntato ad individuare problematiche, esigenze, attitudini dei detenuti per poterli poi selezionare e procedere all’orientamento al lavoro. Successivamente i detenuti potranno seguire cinque corsi per imparare un mestiere. I corsi, da 150 ore ciascuno, si svolgeranno tre nel carcere di piazza Lanza a Catania e due in quello di Giarre. All’attività formativa seguirà un periodo di work experience di 480 ore. Il progetto, finanziato dal Fondo sociale europeo attraverso l’assessorato regionale alla famiglia, ha preso il via il 30 settembre scorso con la compartecipazione delle direzioni penitenziarie interessate, un elemento innovativo rispetto alla prassi generalmente seguita per il finanziamento di attività formative in carcere nella regione. Tutta l’attività si svolge poi sotto la supervisione del Nucleo regionale permanente Fondo sociale europeo per la Sicilia, organismo di coordinamento del Provveditorato regionale per l’amministrazione penitenziaria (Prap) per la Sicilia, che dipende dal Ministero della Giustizia e coordina i lavori gestiti da partenariati tra enti privati e carceri, e viene condotto di concerto con le stesse direzioni penitenziarie. “Con questo progetto - sottolinea Rosario Tortorella, direttore del carcere di Catania - per la prima volta nel carcere di piazza Lanza l’attività di formazione professionale pratica sarà condotta in sinergia con le imprese. Proprio con le aziende sarà realizzata infatti la fase di work experience che seguirà l’attività didattica teorica”. “Si tratta di un’autentica svolta per favorire il reinserimento dei detenuti - dice l’ideatore Nino Novello de La Città del Sole, ideatore e direttore del progetto -. In maggio organizzeremo un seminario sui temi del reinserimento sociale che rappresenterà anche l’occasione per fare il punto della situazione sul progetto e per presentare alla stampa altri risultati. Il bilancio finale si farà poi nel convegno conclusivo, nel settembre del 2012, che ci piacerebbe organizzare all’interno del carcere di piazza Lanza”. All’incontro di domani interverranno tra gli altri, il provveditore dell’amministrazione penitenziaria Orazio Faramo e i direttori delle carceri di Catania e Giarre, Rosario Tortorella e Aldo Tiralongo. Ci saranno inoltre i rappresentanti de La Città del Sole, cooperativa sociale capofila del gruppo di imprese e consorzi che partecipa al progetto: Staff Relation, cooperativa specializzata nelle nuove tecnologie, la Stamperia Regionale Braille diretta da Pino Nobile e due consorzi specializzati nell’inserimento lavorativo di persone svantaggiate: Lavoro solidale, presieduto da Salvo Falletta e Arnia, di cui è presidente Gaetano Milazzo. In Sicilia le carceri hanno una situazione di sovraffollamento con 2.400 detenuti di troppo. Nell’Isola, infatti, secondo i dati della Uil del 31 dicembre scorso, ci sono 7.782 detenuti (7.597 uomini, 205 donne) e pochi poliziotti penitenziari: uno ogni cento detenuti. Proprio per questo il 23 Gennaio a Messina, i sindacati hanno organizzato una manifestazione. Il carcere di Piazza Armerina è la struttura più affolla della regione, la terza in ordine nazionale. Seguono subito dopo quello di Castelvetrano(Tp) e Termini Imprese (Pa). (set) A conferenza stampa anche Provveditore amministrazione penitenziaria Ci sarà anche Orazio Faramo, Provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria per la Sicilia e dirigente generale, alla conferenza stampa per illustrare il progetto “Formazione e lavoro: nuove prospettive di vita” che sarà presentato alla stampa domani, mercoledì 12 gennaio alle ore 10 nell’Auditorium (di via Brancati 14 a Catania) de La Città del Sole. Si tratta di un innovativo progetto, che, finanziato dal Fondo sociale europeo attraverso l’Assessorato regionale alla Famiglia, ha preso il via il 30 settembre scorso con la compartecipazione delle Direzioni penitenziarie. I detenuti potranno seguire cinque corsi (tre nel carcere di piazza Lanza a Catania e due in quello di Giarre) da 150 ore ciascuno per imparare un mestiere. E all’attività formativa seguirà un periodo di work experience di 480 ore. Alla conferenza stampa interverranno inoltre i direttori della carceri di Catania e Giarre, Rosario Tortorella e Aldo Tiralongo e Nino Novello, ideatore e direttore del progetto, rappresentante de La Città del Sole. Questa cooperativa sociale è la capofila del gruppo di imprese e consorzi che sta lavorando al progetto e di cui fanno parte Staff Relation, cooperativa specializzata nelle nuove tecnologie, la Stamperia Regionale Braille diretta da Pino Nobile e due consorzi specializzati nell’inserimento lavorativo di persone svantaggiate, ossia Lavoro solidale, presieduto da Salvo Falletta e Arnia, di cui è presidente Gaetano Milazzo. Ancona: due volontarie in carcere sospese dal servizio, chiedono di sapere le motivazioni Redattore Sociale, 11 gennaio 2011 La decisione è stata comunicata loro il 5 gennaio, ma solo oggi è arrivata la lettera in cui l’amministrazione penitenziaria spiega il motivo della decisione: “Si parla di un increscioso episodio accaduto... Ci piacerebbe conoscerlo per poterci difendere”. Due volontarie marchigiane che prestavano servizio nel carcere di Ancona sono state sospese dal servizio. La decisione è stata comunicata loro telefonicamente il 5 gennaio, ma solo questa mattina è arrivata alle due donne la lettera in cui l’amministrazione penitenziaria spiega il motivo della decisione. “Nella lettera si parla di un increscioso episodio avvenuto all’esterno delle mura del carcere”, spiega Anna Pia Saccomandi, una delle due volontarie sospese, attiva nel volontariato penitenziario da dieci anni e segretario generale della Conferenza nazionale volontariato e giustizia (Cnvg). “Ci piacerebbe sapere di quale episodio si tratti per poterci difendere - aggiunge. Chiederemo un appuntamento con l’amministrazione penitenziaria, vorremmo chiarire la situazione e difenderci”. L’altra volontaria sospesa è Daniela Marchili, presidente della Conferenza volontariato e giustizia Marche e coordinatrice del gruppo Caritas nel penitenziario di Ancona. “Può succedere che si verifichino dei problemi con l’amministrazione penitenziaria, ma non sono questi i modi di intervenire - commenta Elisabetta Laganà, presidente della Conferenza nazionale volontariato giustizia. Prima di arrivare a una decisione così drastica, come la sospensione, ci vorrebbe un confronto tra le parti”. Amareggiate le volontarie: “Ci hanno sempre detto che rappresentavamo una risorsa - aggiunge Anna Pia Saccomandi. Anche se avessimo commesso un errore, non si può agire in questo modo. Siamo stupite”. Le due donne operano all’interno di un gruppo di una quindicina di volontari e quest’estate hanno partecipato alla mobilitazione nazionale indetta dal Cnvg contro il sovraffollamento. Entrambe hanno alle spalle anni di esperienza: “Mio marito ed io siamo stati direttori della Caritas dal 2000 al 2005 - spiega Anna Pia Saccomandi. In occasione del Giubileo del 2000 abbiamo raccolto l’invito di Giovanni Paolo II a impegnarci in ambito penitenziario. E dal 2003 entro in carcere come volontaria”. La solidarietà di Marcello Pesarini (consigliere regionale Prc-Se Marche) Alla notizia che mi ha raggiunto oggi dell’interruzione della vostra attività presso la casa circondariale di Ancona imposto dall’autorità giudiziaria, ho sentito il peso del potere e nello stesso momento la sua debolezza ed incapacità. Per me il carcere, con tutte le sue varianti di semilibertà, alloggi domiciliari e le parentele che coinvolge, è una delle discariche nelle quali l’uomo moderno tenta di nascondere le difficoltà che ha a costruire rapporti degni di questo nome con coloro che, per sempre o per un po’, sono ai margini della società del benessere. Qualunque possa essere l’atto, il gesto, l’affermazione che vi possa incolpare di comportamento lesivo alla figura delle istituzioni (suppongo, ci provo) penso che le stesse istituzioni dovrebbero ringraziarvi di avere sollevato un problema che sicuramente c’è e tentare di accogliere i vostri suggerimenti. Io ho svolto compiti simili al vostro, tutt’ora collaboro con voi perché ascolto, quando ci riesco, la voce che viene dai detenuti e dai loro cari. Vi auguro che un po’ della serenità che avete sempre espresso raggiunga la istituzioni tutte e riaprano un discorso momentaneamente e sbadatamente interrotto. Urbania (Pu): nasce il coordinamento nazionale di Teatro e Carcere Ristretti Orizzonti, 11 gennaio 2011 Importante incontro a Urbania sabato 15 gennaio in occasione del Convegno intitolato “Immaginazione contro emarginazione”. Alle ore 16.30 nella sala Paolo Volponi si riuniranno diverse compagnie teatrali accomunate da una caratteristica, quella di svolgere una parte della loro attività all’interno delle carceri. L’incontro costituisce infatti il momento fondativo di un progetto inedito, nato dal desiderio di condividere le difficoltà, scambiarsi le esperienze, creare obiettivi comuni e tanto altro per realtà separate e disseminate su tutto il territorio italiano, alcune delle quali hanno avuto l’idea di costruire delle relazioni. L’attività del teatro nei luoghi della reclusione esiste da quasi trenta anni in Italia e tutti gli operatori e gli esperti riconoscono la validità e l’efficacia di tali esperienze nel contribuire a risolvere le diverse problematiche relative ai motivi della reclusione e alle sue conseguenze negative. Uno tra questi è stato Claudio Meldolesi, scomparso nel 2009, per anni docente di Drammaturgia al Dams di Bologna e forte sostenitore del teatro nei luoghi del disagio. Per Meldolesi il Teatro in carcere è simbolo dell’ “Immaginazione contro l’emarginazione”, dove “l’immaginazione induce a valorizzare un meccanismo teatrale dell’interazione sociale, quello di scoprirsi scoprendo gli altri, ancora più importante laddove il comportamento coatto è fondato su obblighi e rimozioni, che inducono a introiettare lo stato di emarginazione”. L’attuale idea di costituzione del Coordinamento nazionale, si è concretizzata nel 2009, in occasione della Decima edizione del convegno su “I teatri delle diversità” a Cartoceto ed ha avuto operativamente seguito a Milano il 7 novembre 2010 nell’ambito dell’Edge Festival, organizzato dal Centro Europeo Teatro e Carcere. In prospettiva dell’incontro di Urbania l’adesione si è ampliata e molti saranno i rappresentanti delle compagnie che interverranno; altri hanno dichiarato di essere interessati al progetto: 42 le compagnie in tutto. Alle 14.30, sempre del 15 gennaio, è la volta della tavola rotonda intitolata Il Teatro negli Istituti di pena femminili coordinata da Laura Mariani, docente di Storia dell’attore al DAMS di Bologna. Il dibattito si presenta interessante e senz’altro nuovo, infatti le donne rappresentano una minoranza negli Istituti penitenziari, circa 3000 e costituiscono il 4,35% della popolazione dei reclusi; solo negli ultimi anni l’attenzione si è focalizzata su questa realtà. “La donna detenuta” spiega Vania Pucci della Compagnia Giallo Mare Minimal Teatro di Empoli, che interverrà nel dibattito, “si trova spesso a vivere la detenzione in un contesto maschile, in un’ istituzione fatta da uomini per uomini che non tiene in debita considerazione tutte quelle problematiche peculiari dell’universo femminile, quali, ad esempio, la maternità o la particolarità della insofferenza della donna a dover interrompere o sospendere i legami con la casa e la famiglia. Dunque, nella struttura penitenziaria si accentuano e si aggravano quei fenomeni di emarginazione e discriminazione a cui sono soggette le donne anche nella società esterna”. Interverranno inoltre Giorgia Palombi e Alessandra di Castri del Maniphesta Teatro che opera nel carcere femminile della città di Pozzuoli. Non mancherà Donatella Massimilla il cui teatro, fondato da donne nel 1989, approda nella sezione femminile di San Vittore fondando il Centro Europeo Teatro e Carcere divenuto poi un riferimento per numerose carceri nazionali ed europee. A chiudere la conversazione saranno Barbara Attanasio e Silvia Bartoli che hanno condiviso alcune esperienze coordinate dal Teatro Aenigma, dirette da Vito Minoia all’interno della Casa Circondariale di Pesaro, partecipando alle produzioni della Compagnia Lo Spacco (ultimo allestimento liberamente ispirato a Lettere dal carcere di Antonio Gramsci). Grazie ad un continuo lavoro e ad un profondo desiderio di ritrovare un senso nella dura realtà vissuta, sono riuscite ad affermare la loro identità di attrici e autrici. Chiude Barbara una sua testimonianza scritta per il volume “Recito dunque so(g)no” (un’indagine condotta da Emilio Pozzi e Vito Minoia) “il teatro è di per sé un’esperienza importante, lo è ancor di più all’interno del carcere! È l’opportunità di essere, sognare, conoscere e conoscersi per ciò che si è e non per ciò che si è fatto! Con il teatro ho perso molto ma ho anche ritrovato molto più di quello che avevo perduto”. Seguirà una proiezione pomeridiana di un brano in video dello spettacolo “Annibale non l’ha mai fatto” ultima produzione di Tam Teatrocarcere di Padova di Andrea Pennacchi e Maria Cinzia Zanellato, vicenda del leggendario cartaginese narrata da Farid, migrante algerino, testimone interno della materia umana su cui poggia la Storia. Alle 22.00, Donatella Massimilla presenta “Princese a San Vittore”, un nuovo capitolo di narrazione teatrale del Cetec che debutterà a san Vittore e all’ Edge Festival 2011. Lo studio, preparato appositamente per l’incontro “Immaginazione contro Emarginazione, è un frammento di un Diario di bordo fatto di memorie del Laboratorio teatrale Alice iniziato nella sezione femminile di San Vittore venti anni fa. Una presenza storica di quel gruppo, Fernanda Poirè, torna “fuor” a raccontare la Mala milanese, l’avventura del teatro in carcere a San Vittore, insieme a compagni di strada e artisti diventati parte della sua bios-grafia. Una storia di Princese, di donne segnate dalla droga, donne immigrate, madri di famiglie mafiose...donne che attraverso il teatro e la musica si ri-conoscono. L’intenso programma generale dei due giorni del Convegno prevede altri importanti eventi, visionabili nel sito www.teatroaenigma.it. Per informazioni sulle modalità di iscrizione al Convegno: mail aenigma@uniurb.it tel./fax 0721.893035. I biglietti per gli spettacoli saranno in vendita al botteghino nelle stesse serate di programmazione. Immigrazione: la Caritas veneziana contro decreto flussi, timore di “guerra tra poveri” di Alessandra Mangiarotti Corriere della Sera, 11 gennaio 2011 Il Veneto dice “no” al nuovo decreto flussi. È il Veneto dell’accoglienza che per molti ha la voce e il volto del direttore della Caritas veneziana: “In una situazione economica pesante - dice don Dino Pistolato - il via libera all’ingresso di centomila stranieri rischia di appesantire una situazione già difficile e di aprire un conflitto etnico se non umano”. Il Veneto dice “no” al nuovo decreto flussi. Non il Veneto alla Gentilini. Non il Veneto delle piccole imprese in crisi. E nemmeno quello della Cgil trevigiana che in più occasioni ha frenato sui nuovi ingressi. Ma il Veneto dell’accoglienza che per molti ha la voce e il volto del direttore della Caritas veneziana: “No al nuovo decreto flussi perché in una situazione economica pesante per tutti - mette in guardia don Dino Pistolato - il via libera all’ingresso di centomila stranieri rischia di appesantire una situazione già difficile, se non addirittura di aprire un conflitto etnico e umano insieme”. “Guerra tra i poveri”, la chiama don Pistolato. Dove i poveri sono gli immigrati ma anche i nuovi poveri italiani: “Padri separati, famiglie delle fasce medie che non riescono a pagare l’affitto o la rata del mutuo - dice. Fino a due anni fa gli italiani che chiedevano aiuto ai nostri sportelli erano il 30-35% oggi sono saliti al 50-55%. I corsi di formazione per badanti sono ormai frequentati più da italiani che stranieri. Da Porto Marghera fino al basso Trevigiano la mancanza di lavoro sta mettendo in difficoltà sempre più famiglie”. n Veneto degli 80 mila disoccupati non sa ancora quanti dei 98 mila immigrati previsti dal nuovo decreto flussi arriveranno sul suo territorio. Le prime stime parlano di 10-12.000 che andrebbero ad aggiungersi ai quasi 500 mila già presenti in regione (400 mila i regolari). “Gli stranieri rappresentano già il 10% della popolazione, in alcune aree anche il 14%. Ma oggi non ci sono più le condizioni per nuovi arrivi. Le industrie chiedono nuova forza lavoro? Non mi risulta. Le imprese agricole? Non mi risulta. Mi risulta invece che la situazione nei dormitori e nelle mense sia diventata insostenibile, che là dove manca lavoro ci siano già i primi segnali di conflitto”. Aggiunge don Pistolato: “Noi abbiamo fatto dell’accoglienza la nostra missione, ma l’accoglienza deve essere adeguata. E in questo momento non lo è, non lo può essere. C’è il pericolo di creare nuove marginalità e nuovi conflitti. Per questo dico che è sbagliato aprire a nuovi flussi, la scelta è quantomeno azzardata”. Almeno per il Veneto. “Sicuramente per il Veneto. Queste scelte devo essere “federaliste”, devono essere fatte tenendo conto delle esigenze del territorio. E nella nostra regione basta dare un occhio a quanti giovani figurano nelle liste di collocamento per capire che le esigenze sono altre”. Eppure, quando due anni fa la Cgil chiese il blocco dei flussi, la Caritas storse il naso: “Allora si voleva difendere uno stato di benessere, oggi siamo quasi a una fase di sopravvivenza”. Di “segnale da prendere molto sul serio” parla l’assessore veneziano Gianfranco Bettin: “Proprio per il fatto che l’appello arriva da chi ha fatto dell’accoglienza la propria missione forse è il caso di ragionarci su. Si tratta di tradurre la provocazione nei diversi contesti”. Svizzera: la Commissione contro la tortura critica le carceri di Berna e Vallese Associated Press, 11 gennaio 2011 Condizioni di detenzione inaccettabili in alcune carceri dei cantoni di Berna e Vallese: è quanto denunciano i due primi rapporti pubblicati oggi dalla Commissione nazionale per la prevenzione della tortura (Cnpt), istituita un anno fa dal Consiglio federale, sulla base delle visite effettuate nei mesi di maggio e giugno. Nel canton Berna i due rapporti prendono di mira il carcere femminile di Hindelbank, unico nel suo genere nella Svizzera tedesca. Nel canton Vallese sono criticate le guardine del posto di polizia di Briga e il carcere per la detenzione preventiva nella stessa località, come pure la prigione per i detenuti in attesa di espulsione situata a Granges, presso Sierre. In una nota, il presidente della Cnpt Jean-Pierre Restellini si rallegra del “dialogo costruttivo” con i cantoni interessati. La Cnpt è stata istituita, con il compito di visitare le carceri elvetiche, il primo gennaio 2010, per decisione delle Camere federali, a seguito della ratifica da parte della Svizzera del Protocollo facoltativo alla Convenzione dell’ONU contro la tortura, entrato in vigore il 22 giugno 2006. La commissione è composta di dodici esperti nel campo della medicina, del diritto, del perseguimento penale e dell’esecuzione delle pene, nominati per quattro anni dal Consiglio federale. Gli esperti effettuano sopralluoghi periodici negli “istituti di privazione della libertà”. Record di detenuti nelle carceri dei Cantoni latini Il 1° settembre 2010, le persone detenute in stabilimenti di privazione della libertà in Svizzera erano 6181, la cifra più alta registrata dal 1999. Rispetto al 2009, il tasso di occupazione medio a livello nazionale è aumentato di 1,5 punti percentuali, raggiungendo il 92,5 per cento. I Cantoni latini si distinguono per un vero e proprio sovraffollamento delle carceri: con un tasso di occupazione del 105 per cento, la loro situazione continua a deteriorarsi. Il 31 per cento della popolazione carceraria era in detenzione preventiva, il 61 per cento sottoposto all’esecuzione di pene e misure, il 6 per cento a misure coercitive ai sensi della legge sugli stranieri e il 2 per cento era detenuto per altri motivi. Dal 2004 la quota di detenuti di nazionalità straniera resta stabile e rappresenta, allo stato attuale, il 72 per cento dell’insieme delle persone in stabilimenti penali. Algeria: Lega per i Diritti Umani; prigioni piene in tutto il Paese Ansa, 11 gennaio 2011 “Non abbiamo ancora cifre esatte sul numero degli arresti effettuati durante le proteste dei giorni scorsi, ma le prigioni sono piene in tutta l’Algeria”. Lo ha detto, Nourredine Benissad, vice presidente della Lega algerina per i diritti umani, che ha annunciato la presenza in diversi tribunali di Algeri e di altre 6 regioni, di 20 avvocati volontari pronti a difendere i giovani manifestanti. L’obiettivo, ha detto Benissad, citato dal quotidiano Algerie News, è garantire un’assistenza giudiziaria ai detenuti. Secondo il ministro dell’interno, sono 1.100 i manifestanti arrestati, tra cui molti minorenni. Stati Uniti: la prigione di Guantanamo nove anni dopo, le promesse mancate da Erica Balduzzi www.dirittodicritica.com, 11 gennaio 2011 “Un mostro giuridico che ha causato la violazione dei diritti umani nei confronti di chi vi è detenuto e che rischia di non portare giustizia nemmeno alle vittime dell’11 settembre, per le quali indirettamente è stato costruito”: è questo il parere di Riccardo Noury, portavoce della sezione italiana di Amnesty International, sul carcere di Guantanamo, aperto l’11 gennaio di nove anni fa. Un anniversario reso più amaro dal fatto che non dovrebbe essere nemmeno festeggiato: il 21 gennaio del 2009 il presidente statunitense Barack Obama aveva infatti promesso la chiusura del carcere entro un anno. Di anni ne sono già passati quasi due e non solo Guantanamo è ancora aperto, ma continuano ad esservi detenuti 174 prigionieri. La maggior parte di essi, perlopiù yemeniti, sono nel carcere da almeno otto anni, senza una precisa incriminazione e senza essere mai stati portati a processo. “La categoria in cui ricadono - spiega Noury a Diritto di Critica - è piuttosto incerta: per loro è stata creata la definizione di combattenti nemici illegali, che però non ha nulla di giuridico. Si trovano quindi in una condizione di detenzione illegale”. E se il diritto internazionale prevede che i prigionieri siano portati a processo in tempi rapidi, che conoscano le accuse mosse nei loro confronti e che siano giudicati da commissioni federali, è inutile dire che niente di tutto ciò è avvenuto a Guantanamo. Al contrario: dei circa 800 detenuti rinchiusi nel centro nei periodi di massima capienza (2002-2003), solo 5 prigionieri fino ad oggi sono stati portati a processo, per di più da commissioni militari istituite nel carcere stesso anziché da corti federali sul territorio statunitense. Si tratta di David Hicks (australiano), Salim Ahmed Hamdan e Ali Hamza al-Bahul (yemeniti), Ibrahim al-Qasi (sudanese) e Omar Khadr (canadese). Di essi, soltanto Ali Hamza al-Bahul è stato condannato all’ergastolo, mentre gli altri hanno avuto dovuto scontare pene ridotte. Un sesto processo a carico di un cittadino della Tanzania, Ahmed Ghaliani, dovrebbe concludersi il prossimo 25 gennaio. E gli altri? “Nel 2005 sono iniziati i rilasci. - spiega ancora Noury - Inoltre dopo la promessa di Obama era stata istituita un’apposita task force per valutare la posizione dei singoli detenuti nel carcere: era stato rilevato che 36 di loro avrebbero dovuto essere giudicati, 48 restare a Guantanamo senza accusa né processo, mentre gli altri potevano essere rilasciati. I dati però non coincidono con la situazione reale - aggiunge - dato che i prigionieri sono ancora 174 e la situazione non accenna a cambiare in tempi brevi”. Il problema dei processi preoccupa le organizzazioni umanitarie come Amnesty. Guantanamo è stato trasformato da base militare a carcere nel 2001, per venire incontro all’esigenza americana di avere un luogo dove detenere a tempo indeterminato persone sospettate di essere legate al terrorismo internazionale e quindi pericolose per la sicurezza: il fatto di non trovarsi sul territorio federale e quindi di non essere sottoposto alla giurisdizione dei tribunali statunitensi ha rappresentato un ulteriore vantaggio nella costruzione del luogo di detenzione. Prova ne è il fatto che i sei processi finora aperti sono in mano a commissioni di tipo militare, istituite cioè sul territorio stesso di Guantanamo: si tratterebbe di organi giudiziari molto iniqui con un diritto di difesa fortemente limitato. “Se si dovesse riuscire a processare tutti i detenuti in corti federali anziché militari - spiega ancora Noury - c’è l’enorme possibilità che le prove a loro carico vengano giudicate non valide, perché estorte sotto tortura o in condizioni di interrogatorio contrarie alle norme internazionali”. Ad aggravare la situazione c’è il fatto che la maggior parte dei detenuti siano stati catturati con operazioni ‘a strascicò nei territori del Pakistan e Afghanistan, grazie non alle forze armate americane, bensì a tribù o servizi locali che poi hanno ceduto i prigionieri agli americani in cambio di denaro. “Una situazione - commenta Noury - che ha portato alla cattura di moltissimi innocenti. Per questo le prove e le condanne andrebbero verificate con processi equi e regolari”. Le probabilità che ciò avvenga, e soprattutto che avvenga alla svelta, sono però minime. In sede di approvazione della finanziaria 2011 è stato infatti detto chiaramente che mancano i soldi sia per trasferire i detenuti di Guantanamo negli Usa che per processarli in territorio americano, sebbene già un anno fa il procuratore generale statunitense avesse annunciato che 5 detenuti - che si trovano tuttora ancora a Guantanamo - sarebbero stati portati a New York per essere giudicati da un tribunale federale. Alle problematiche di natura economica si aggiunge anche una forte opposizione dell’opinione pubblica ad un eventuale rilascio dei detenuti innocenti in territorio americano. “Ma soprattutto - aggiunge Noury - non bisogna dimenticare che almeno venti detenuti di cui è stata dimostrata la non colpevolezza non possono rientrare nei loro paesi, perché rischierebbero la persecuzione: vengono da Cina, Libia, Russia, Siria, Tagikistan, Tunisia e Palestina. Prima di essere rilasciati dovrebbero essere ricollocati in altri stati europei, ma anche questo fronte è completamente fermo”. E finché queste due condizioni - il trasferimento dei detenuti su territorio americano e la protezione internazionale per chi non può tornare nel proprio paese- non saranno soddisfatte, la chiusura di Guantanamo rimane un miraggio lontano. L’unica nota positiva è il fatto che ormai Guantanamo non sia più impenetrabile come invece era i primi anni dalla sua apertura. Anzi, paradossalmente è diventato il centro detentivo di cui si conosce più rispetto alle altre carceri collegate direttamente o meno alla guerra al terrore. “I centri detentivi in Afghanistan, a Kandahar e Bagram, sono ancora operativi e gestiti dagli americani, - continua Noury - mentre quelli in Iraq istituiti dopo la caduta di Saddam sono passati quest’estate nelle mani degli iracheni e circa trentamila detenuti consegnati dalle forze statunitensi a quelle locali. Ma gli Stati Uniti avrebbero dovuto chiedere e ottenere garanzie sulla non tortura di queste persone, cosa che invece non è stata fatta”. Le condizioni dei prigionieri a Guantanamo invece paiono essere migliorate negli ultimi anni, forse proprio per merito della maggiore visibilità del centro e delle forti polemiche fioccate quando si era saputo delle torture a cui i detenuti erano sottoposti: gabbie al posto di normali celle, isolamenti prolungati, tecniche di interrogatorio cosiddette ‘rinforzatè (una delle quali era la minaccia di annegamento in caso di mancata collaborazione) e tutta una serie di pressioni e torture basate su ciò che Rumsfeld aveva definito “studio dei punti deboli dell’avversario”, ovvero avversari quasi esclusivamente di religione musulmana. Da qui, interrogatori con i cani (considerati nell’Islam animali impuri), obbligo di rimanere nudi durante le domande anche davanti al personale di sesso femminile o di tagliarsi la barba (segno di identità religiosa e di potere), a cui si aggiungevano la negazione di cibo, sonno e acqua o la musica ad altissimo volume per ore intere. “ Tutte tecniche che non lasciano segni fisici - spiega ancora Noury - ma che fiaccano la persona sul piano psicologico”. Alcuni detenuti sono tuttora in isolamento: anni e anni di condizioni detentive di questo tipo, soprattutto sommate alla mancanza di speranza di ottenere un processo per vedere dimostrata la propria innocenza, provocano danni fisici e psicologici notevoli. “Guantanamo - conclude Noury - non è servito a fare giustizia dopo l’11 settembre. Al contrario, ha soltanto abbassato gli standard internazionali in fatto di processi equi e torture”. Iran: 11 anni di carcere all’avvocato Nasrin Sotoudeh, impegnata in difesa diritti umani Corriere della Sera, 11 gennaio 2011 Nasrin Sotoudeh è una dei pochi avvocati rimasti a difendere i diritti umani in Iran. Ha rappresentato minorenni nel braccio della morte, attivisti studenteschi, curdi, del movimento operaio, donne della campagna “Un milione di firme” attive contro la discriminazione delle leggi iraniane, detenuti di religione bahai, prigionieri politici, e anche personaggi noti come il premio Nobel per la Pace Shirin Ebadi. Dopo aver passato gli ultimi quattro mesi in cella a Teheran - con lunghi periodi in isolamento - Nasrin Sotoudeh è stata condannata ieri a 11 anni di carcere. Lo ha reso noto il marito, Reza Khandan. Cinque anni per aver “minacciato la sicurezza nazionale”, uno per “propaganda contro il regime”, altri cinque per essere apparsa senza velo sul capo in un video. Quest’ultima accusa è spuntata, a sorpresa, nelle scorse settimane. Il filmato risale a due anni fa: seduta alla scrivania, capelli corti, occhiati, il corpo nascosto in un’ampia giacca nera, Nasrin ringrazia l’organizzazione di Bolzano “Human Rights International” per averle conferito il “premio diritti umani 2008”. Non aveva potuto ritirarlo di persona perché le era stato confiscato il passaporto, e perciò aveva inviato in Italia quel video, che un sostenitore ha poi diffuso su You Tube. Sulla scrivania si vede una statua della Giustizia, con la spada nella mano destra e una bilancia nella sinistra. La condanna di ieri le proibisce anche, per 20 anni, di lavorare come avvocato e di lasciare il Paese. Nasrin ha 47 anni, una figlia di 11 e un figlio di 3. “Donna-tigre dalla voce tenera”, “sempre calma, soprattutto nei casi più dolorosi, per poterli gestire con efficienza”: l’ha descritta così una giornalista iraniana che la intervistò qualche anno fa, quand’era “magra ed esile persino al quarto mese di gravidanza”. Per protesta contro l’isolamento, ha condotto ora un lungo sciopero della fame. n marito Reza, che di mestiere fa il grafico pubblicitario, dice che ha potuto vederla solo durante le udienze, e all’ultima “era così emaciata da essere quasi irriconoscibile”. Gli attivisti per i diritti umani affermano che Nasrin Sotoudeh è stata arrestata per il coraggio nello svolgere il suo lavoro. Parvin Ardalan, una delle fondatrici della “Campagna di un milione di firme”, sua amica ed ex cliente, spiega dalla Svezia che le autorità volevano che l’avvocatessa smettesse di concedere interviste ai media stranieri sui detenuti politici da lei rappresentati, arrestati dopo le contestate elezioni presidenziali del 2009. Le era stato anche ordinato di abbandonare la difesa della Ebadi (è accusata di evasione fiscale; e il principale foglio del regime ha scritto che collabora con l’intelligence straniera). Ebadi e Ardalan hanno lasciato l’Iran nel 2009, Sotoudeh è rimasta. “Questo verdetto ingiusto e duro mostra quanto la Repubblica Islamica abbia paura dei difensori dei diritti umani. Vogliono dissuadere chiunque dall’occuparsene”, ha detto la Ebadi. Almeno 15 avvocati e attivisti dei diritti umani sono stati incarcerati 0 spinti all’esilio dal 2009. H marito Reza presenterà appello. Intanto cerca di tenere alta l’attenzione sul caso. Di lui Nasrin ha detto: “Non si lamenta mai del mio lavoro e degli orari strani che faccio”. Lo ha definito un uomo “moderno” che “crede nella vera democrazia” e “un amico”. Rèza è stato avvertito (l’ultima volta ieri) che se non smette di parlare con i media verrà arrestato. Ma ha continuato a passare i messaggi della moglie alla stampa. L’ultimo, prima del verdetto, diceva: “Se uno deve andare all’inferno, meglio farlo a testa alta. Lasciate che mi condannino con una sentenza dura, mi farà onore”. Marocco: graziati 307 detenuti per anniversario della festa dell’indipendenza Aki, 11 gennaio 2011 Si celebra oggi in Marocco il 67esimo anniversario della festa dell’indipendenza. Secondo quanto riporta il giornale arabo al-Sharq al-Awsat, in occasione della festività il monarca Mohammed VI ha deciso di concedere la grazia a 307 detenuti. Altri detenuti, in particolare tra quelli condannati all’ergastolo, hanno visto ridurre la loro pena. Il Marocco celebra la data dell’11 gennaio 1944, anche se l’indipendenza è stata proclamata solo nel 1956. In quella data Mohammed V, nonno dell’attuale monarca, presentò una petizione alla comunità internazionale firmata da 66 dignitari marocchini per chiedere l’indipendenza del Marocco. Una copia fu inviata al governo francese e ai rappresentanti diplomatici di Stati Uniti e Gran Bretagna a Rabat.