L’Istituto di pena secondo Borraccetti Il Mattino di Padova, 7 febbraio 2011 Vittorio Borraccetti, magistrato, è stato pubblico ministero a Padova dal 1979 al 1993, dove è stato titolare di indagini importanti come quella su Tangentopoli e sul terrorismo rosso e nero. Quindi è stato procuratore aggiunto alla Direzione nazionale antimafia e, infine, procuratore a Venezia. Dallo scorso anno, è membro del Consiglio superiore della Magistratura. L’abbiamo intervistato per avere la sua opinione sullo stato delle carceri, e su una figura che sta diventando sempre più importante, in questa situazione di degrado delle condizioni di vita all’interno degli istituti di pena, quella del Garante delle persone private della libertà personale. L’intervista è a cura di Acli, Antigone, Beati i costruttori di pace, Camera penale “Francesco de Castello”, Cgil Padova, Conferenza regionale volontariato giustizia, Fp Cgil Padova, Giuristi democratici, Magistratura democratica, Ristretti Orizzonti e Cooperativa AltraCittà. Una riflessione sul sovraffollamento “Nel sovraffollamento c’è un dato, che va sempre evidenziato, che è quella percentuale elevata di turn over dei detenuti, intorno al 30% di persone che stanno in carcere 3 - 4 giorni: questo è un dato che influisce pesantemente sulle condizioni degli istituti di pena. Il sovraffollamento significa pregiudizio di due aspetti, previsti in Costituzione, riguardanti la pena detentiva. Il primo, che in generale qualsiasi pena non può mai contrastare con la dignità della persona umana, aspetto che viene prima del secondo, costituito dalla finalità rieducativa. Prima di tutto c’è il dovere di rispettare la dignità della persona umana, quindi tutti i suoi diritti fondamentali escluso, ovviamente, quello alla libertà di movimento, limitazione nella quale si sostanzia la pena stessa. Quello che assolutamente va preteso, è il rispetto della dignità. Il sovraffollamento da una parte non consente il rispetto di quella dignità, dall’altra fa diventare estremamente difficile parlare di percorsi di rieducazione. Ho potuto constatare personalmente a Venezia, nel periodo in cui ero procuratore della Repubblica, che per alloggiare le persone arrestate in numero elevato per il reato di clandestinità, sostanzialmente si occupavano tutti gli spazi destinati alla socializzazione e, addirittura, si era arrivati al punto che l’Istituto penitenziario non aveva più nemmeno materassi per far dormire le persone. Questo vuol dire che qualsiasi discorso sulla finalità rieducativa, già difficile per la scarsità delle risorse disponibili, viene pregiudicato. Quindi il sovraffollamento pregiudica proprio gli aspetti costituzionali della pena”. Chi tutela il diritto alla dignità delle persone detenute “Innanzitutto, tocca ai magistrati e ai diversi organi che intervengono nel giudizio penale garantire i diritti. La giustizia penale ha queste caratteristiche, è repressione secondo il diritto, è applicazione della pena in modo equo laddove ci siano i presupposti per condannare. La giustizia penale non è vendetta, la ragione per cui esistono i giudici e si fanno i processi, anziché prendere la persona e metterla direttamente in prigione, è proprio questa, che caratterizza lo Stato di diritto: anche l’uso della forza nell’applicazione della privazione della libertà personale segue regole e rispetta principi. Poi noi abbiamo un ordinamento penitenziario che, nonostante tutte le modifiche in senso restrittivo che abbiamo vissuto negli ultimi anni, è ancora caratterizzato da un’idea di umanità del trattamento e dalla finalità rieducativa, con una previsione di istituti che mirano anche ad evitare la rigidità, la fissità della pena. E qui apro una parentesi, perché quando si sente parlare di certezza della pena, bisognerebbe sempre rispondere che certezza della pena è espressione accettabile se si vuol dire che vi deve essere certezza che, alla persona condannata per un delitto, verrà applicata la pena prevista dalla legge. Non è invece accettabile se si intende come fissità della pena. Proprio perché questa fissità contraddice l’insieme dei principi dell’ordinamento penale e soprattutto i principi fondamentali della Costituzione. L’ordinamento penitenziario chiama in causa il ruolo del magistrato di sorveglianza e del Tribunale di sorveglianza in funzione della tutela dei diritti e della libertà residua dei detenuti quindi, quando parliamo di tutela dei diritti, dobbiamo prima di tutto richiamare gli organi giudiziari destinati ad applicare la legge a questa funzione, anche se non è la sola perché ci sono altri diritti da tutelare, quelli delle vittime e quelli della collettività, ma è anche questa. Poi ci sono i compiti dei diversi organi della struttura penitenziaria, dal vertice del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria fino al delicato ed essenziale ruolo dei direttori degli istituti penitenziari, per ciò che attiene alla legalità all’interno delle carceri. Perché la legalità all’interno è costituita anche dal riconoscimento e dalla tutela dei diritti dei detenuti. Senza dimenticare il compito, altrettanto decisivo, delle persone più vicine ai detenuti, il personale di Polizia penitenziaria, gli educatori, gli assistenti sociali, gli altri operatori”. Il valore della figura del garante “Il senso della figura del garante, secondo me, è un può spostato verso la società, verso l’attenzione che la società dovrebbe avere nei confronti delle persone che espiano la pena. Senza questa attenzione, quella finalità rieducativa è una parola vuota, in concreto, se non si fanno politiche specifiche a livello locale per favorire, ad esempio, il rientro lavorativo di quelli che vengono messi in affidamento ai servizi sociali, è impossibile tradurre in fatti questa idea del recupero e della rieducazione, nel senso del recupero della propria vita secondo dei principi diversi da quelli che hanno orientato i comportamenti di prima. Ecco, il garante è una risposta sul versante di tutto quello che alla società, soprattutto alle comunità locali, è richiesto in rapporto a questa esigenza di dignità delle condizioni del detenuto e di recupero sociale; dall’altra parte, il garante è una figura che non è dentro le istituzioni, quindi ha in qualche modo una maggiore libertà di critica rispetto alle condizioni concrete in cui si trovano le persone che sono in espiazione di pena. Una figura che può interloquire con le amministrazioni locali in relazione a situazioni concrete, una figura che verso l’opinione pubblica nel suo complesso può svolgere anche un’azione di orientamento, di riflessione per cosi dire culturale, di formazione. Noi, comunque, non dobbiamo rinunciare a chiedere che si identifichino e si risolvano le inadempienze istituzionali - per esempio dobbiamo continuare a chiedere che in carcere ci si vada solo in casi estremi, quando non esiste altro tipo di sanzione che sia capace di tutelare l’interesse leso - dobbiamo continuare con la critica all’idea che la pena sia il carcere. Ci piacerebbe arrivare a un tempo in cui non c’è bisogno del garante perché le istituzioni sono in grado di adempiere ai loro doveri in relazione a chi sta in carcere, e perché il numero dei detenuti consente una attenzione per ogni storia, per ogni esperienza personale e consente anche di dare delle opportunità di recupero. Però, se la realtà è diversa il garante serve, come un soggetto che in qualche modo si prende istituzionalmente cura di tutelare la condizione delle persone private della libertà, che si mette dalla loro parte istituzionalmente, anche se ciò non significa che dà ragione al detenuto, ma che ne assume il punto di vista”. Giustizia: la legge svuota carceri è un flop; 744 gli scarcerati, su 7mila potenziali beneficiari La Nuova Sardegna, 7 febbraio 2011 L’hanno battezzata “legge svuota carceri”, ma a uscire dalle galere sono davvero in pochi: 744 su 7mila detenuti che in tutta Italia avrebbero potuto tornare a casa con un anno d’anticipo. In Sardegna escono solo 42 reclusi; 276 quelli che hanno sperato fino all’ultimo. Un flop, la legge 199 del 26 novembre scorso. Entrata in vigore il 16 dicembre, è già “una legge da rivedere”, dice Silvestro Ladu, presidente della commissione regionale per i Diritti civili e le politiche comunitarie. “È una legge che non ha dato i risultati sperati - spiega - , anche se è sempre meglio una legge come questa piuttosto che l’indulto”. Disattesi comunque, tutti i migliori propositi sottolineati nel corso del dibattito parlamentare preliminare all’adozione del provvedimento normativo, “Disposizione relative all’esecuzione presso il domicilio delle pene detentive non superiori ad un anno”. “Una legge di cui stranamente si parla poco” attacca Ladu, già medico al penitenziario nuorese di Badu ‘e Carros. Penitenziario che ora apre i cancelli soltanto a quattro detenuti, mentre a Cagliari, Buoncammino, il carcere più affollato dell’isola, sono in undici a lasciare le celle. A San Sebastiano, Sassari, come pure nella casa circondariale di Oristano, il provvedimento libera appena 4 posti letto, sia nell’uno sia nell’altro caso. Nessuna uscita anticipata, invece, né a Iglesias né a Lanusei. La legge 199/2010 “bacia” due detenuti ad Alghero, altrettanti a Macomer e a Tempio. Quattro escono da Mamone, altrettanti da Is Arenas. A chiudere con la colonia penale di Isili è uno solo. “Eppure - spiega ancora Silvestro Ladu - il numero dei procedimenti attivati a favore dei detenuti che si trovavano nelle condizioni di fruire della misura prevista dalla legge 199, in tutta la Sardegna erano 276”. Qualcosa, evidentemente, non ha funzionato. Tant’è vero che il problema del sovraffollamento delle carceri resta immutato. “Ci vuole ben altro di fronte a un surplus di 25mila detenuti rispetto ai posti letto regolamentari” ha dichiarato nei giorni scorsi Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, associazione che si batte per i diritti nelle carceri. La Sardegna, su questo versante, è tutto sommato un’isola felice (in questo momento). Mentre la capienza dei dodici istituti di pena isolani è ferma a 1957 posti, i detenuti reclusi sono poco meno di 2300. Il 40% dei quali extracomunitari. Ecco perché la “legge svuota carceri” è già un clamoroso flop. “La legge - spiega ancora Ladu - dispone che la pena detentiva (non superiore a 12 mesi) sia eseguita presso l’abitazione del condannato o altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza, denominato domicilio”. Requisito minimo che in pochi possiedono, fermo restando che sono esclusi dal beneficio i condannati per omicidio, terrorismo e violenza sessuale. “Ecco perché, in attesa dell’attuazione del piano straordinario penitenziario e della misura alternativa alla detenzione, è opportuna una rivisitazione della legge. Bisogna renderla più fruibile ed efficace” ribadisce il presidente della commissione regionale per i Diritti civili e le politiche comunitarie. Primo firmatario, Silvestro Ladu, della legge approvata martedì sera dal consiglio a Cagliari, che istituisce il garante regionale per i detenuti. Una nuova figura (a Nuoro esiste già da qualche anno il Garante voluto dal Comune, primo nell’isola) che dovrà presto fare i conti con le eterne emergenze che affliggono il pianeta carcere. A cominciare dalle troppe cautele che stanno pesando sulla legge 199/2010. Giustizia: i desaparecidos del sistema carcerario italiano Live Sicilia, 7 febbraio 2011 Carmelo Castro aveva 19 anni quando è morto nel carcere catanese di Piazza Lanza, il 28 marzo del 2009, a distanza di 4 giorni dal suo arresto per una rapina in una tabaccheria. Ma la madre del ragazzo, Graziella La Venia, al suicidio per “asfissia da impiccamento” non ha mai creduto. La donna ieri ha incontrato i giornalisti insieme al suo avvocato e al presidente dell’Associazione Antigone. Colpiscono come un pugno allo stomaco le fotografie, quasi sempre uguali, di questi ragazzi morti in carcere, i segni del pestaggio sul corpo. Massacrati in qualche cella, chissà dove, in luoghi dove lo Stato garantisce per la loro vita. Cosa dovrebbe essere più sicuro di una prigione, di una cella di sicurezza? Cominciano a essere tanti, troppi, perché questa scia di sangue sia da considerare una disgrazia, un fatto accidentale. In carcere si muore e sono i più deboli, i più giovani, gli incensurati a soccombere. Carmelo Castro aveva 19 anni era incensurato. Accusato di aver fatto il palo in una rapina a una tabaccheria. Graziella è una delle tanti madri che è morta con suo figlio, la sua vita dedicata a cercare il motivo, come se ci fosse un motivo. Queste madri, e ne ho ascoltate molte, hanno lo stesso sguardo, la stessa determinazione delle Madri di Plaza de Mayo. Non si arresteranno di fronte a nulla. Per loro l’orologio si è fermato con la scomparsa dei loro figli. La pena di morte in Italia esiste anche se è stata abolita. Il Parlamento se ne deve occupare al più presto per introdurre delle misure che garantiscano la vita e l’incolumità dei detenuti nelle nostre prigioni. Racconta Graziella La Venia, mamma di Carmelo Castro: “Sono la mamma di Carmelo Castro, mi chiamo La Venia Graziella e vorrei raccontare la storia di mio figlio, voglio sapere cosa gli è successo perché in quattro giorni sono venuti a prenderlo a casa, se lo sono portati e non me l’hanno restituito più! Il 24 marzo sono venuti i Carabinieri a prenderlo a casa, se lo sono portati nella caserma, nel pomeriggio mi hanno detto: “Signora stia tranquilla, suo figlio ha fatto una ragazzata, tra un po’ ritorna a casa” mi mandano a casa, poi arriva una telefonata dove mi dicono: “Carmelo non ha voluto collaborare, si trova qui a Piazza Lanza”, è stato accusato come palo di una rapina di una tabaccheria, mio figlio si vede nella tabaccheria che entra, compra le sigarette, prende il resto e se ne va. Il 26 vado a Piazza Lanza per vedere mio figlio, per portargli la biancheria e non me lo fanno vedere, mi dicono che è in isolamento. Il 28, verso le 15 mi arriva una telefonata da Piazza Lanza dove mi dicono: “Carmelo ha tentato il suicidio, si trova in ospedale”. Corro in ospedale e mi dicono che Carmelo non c’era, si trovava in un altro ospedale e mi dicono di attendere che dovevano telefonare per vedere dove era. Invece poi al pronto soccorso si trovava una persona che forse ha visto e ha sentito e ha detto a mio marito, se cercate quel ragazzo l’hanno portato dal carcere, è in casa mortuaria, così ho saputo che mio figlio era morto. E io chiedo di sapere cosa è successo veramente a mio figlio, quello si trovava per conto suo al pronto soccorso, non so se era qualcuno di loro, non so perché non conoscendo nessuno sono entrata in ospedale, ho chiesto “È stato portato mio figlio, dove si trova?” quella delle informazioni mi dice “Signora qui non c’è nessun Castro Carmelo, forse si trova in un altro ospedale, attenda un attimo che faccio una telefonata” e io dico “Mi hanno detto che si trova qui”, allora forse quella persona ha sentito e di fianco dice a mio marito, se è quel ragazzo che hanno portato dal carcere pochi minuti fa, è nella casa mortuaria, poi non ho capito più niente, poi siamo corsi nella casa mortuaria dove non ce lo volevano far vedere, poi… non lo conosco, non lo so chi è. Non ci sono registrazioni in cui dicono loro che si è impiccato con un lenzuolo, il lenzuolo non si trova, la cella non è stata perquisita, sequestrata, buio totale c’è, silenzio! Il letto più basso di lui, come fa un ragazzo di 1,75 metri a impiccarsi da un letto di 1,70? E l’avvocato della famiglia Castro osserva: “Come può una persona che muore impiccandosi presentare delle ipostasi, cioè addensamenti di sangue alla schiena, e non agli arti inferiori? E ancora come può chi sta per suicidarsi consumare un pasto abbondante come risulta dall’autopsia e tra l’altro in un contesto in cui non si capisce quando sia stato distribuito il vitto ai detenuti? Perché un detenuto suicida viene trasportato in ospedale a bordo di un’auto di servizio e non in ambulanza?” Giustizia: Fp - Cgil; il bisogno di dire la verità sul mondo delle carceri Comunicato stampa, 7 febbraio 2011 Non si ha memoria, nella storia repubblicana, di un periodo più nero per il sistema penitenziario. Gli ultimi anni hanno oscurato persino il travagliato scorcio del dopoguerra, quando almeno gli episodi critici e cruenti erano accompagnati da una forte volontà di rinascita. La tragedia attuale sconta invece una evidente schizofrenia: alla criticità della situazione fanno da controcanto le dichiarazioni dei responsabili dell’Amministrazione, a partire dal Ministro, che descrivono una ripresa delle iniziative che nessuno degli addetti ai lavori riesce seriamente ad intravedere. E così si susseguono le dichiarazioni sullo stato di emergenza che lasciano il tempo che trovano, le enunciazioni di buoni propositi conseguenti agli annunci sugli effetti miracolistici che avrebbe dovuto avere la legge sulla detenzione domiciliare per l’ultimo anno di pena. La realtà è molto diversa: la legge 199 ha fino ad ora prodotto la scarcerazione di appena qualche centinaio di detenuti e non è servita a frenare il crescente sovraffollamento, siamo infatti alla soglia dei 68.000 detenuti; la stessa norma vincola l’assunzione dei promessi duemila agenti, che nel frattempo sono diventati 1800, alla compatibilità con le disponibilità di cui alla legge finanziaria 2010. Il provvedimento inoltre grava sul lavoro degli educatori e degli assistenti sociali la cui carenza di organico è nota, e per i quali non è previsto alcun incremento. Il blocco del turn - over stabilito dalla finanziaria non potrà che aggravare questa situazione. Negli istituti sono stati preannunciati ulteriori tagli sui capitoli che garantivano, con il lavoro domestico dei detenuti, le condizioni igieniche e di decoro. Il tanto strombazzato piano - carceri, che essenzialmente si fondava sulla creazione di nuovi posti detentivi con l’ampliamento dei reparti di alcuni istituti, non si sa che fine abbia fatto. Si sa della ristrutturazione solo di alcuni reparti, mentre proseguono le inchieste giudiziarie sulla legittimità di appalti affidati con procedure anomale alle cricche di vario genere. La situazione del personale che a vario titolo opera nelle carceri risulta sempre più avvilente e mortificante. I Dirigenti Penitenziari e di servizio sociale, responsabili delle strutture e dei servizi, non sono mai stati ascoltati e protestano per essere stati abbandonati in una situazione confusa e senza - diritti, con uno statuto professionale che, a seconda delle convenienze, viene assimilato a quella degli omologhi della Polizia di stato o a quella dei dirigenti ministeriali. Pari comportamento di indifferenza è stato mostrato dall’Amministrazione verso il personale che opera nelle carceri, anche a causa di un Contratto integrativo firmato dalla minoranza delle OO.SS che disprezza e svilisce la professionalità dei lavoratori. È chiaro che in tali condizioni le dichiarazioni autocelebrative del Ministro Alfano e del Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria sono pura propaganda e risultano offensive per chi presta la propria attività istituzionale nel mondo carcerario espletando il mandato della Carta Costituzionale. È arrivato il momento di smascherare questa politica vuota che ha perso di vista le finalità rieducative della pena di cui all’art. 27 della Costituzione e di denunciare il dramma che quotidianamente si consuma nelle carceri italiane. La Fp - Cgil si farà promotrice di azioni dimostrative e momenti di incontro che culmineranno in una proposta volta a migliorare le condizioni di lavoro del personale e le condizioni di vita dei detenuti. Fp - Cgil Nazionale Comparto Funzioni Centrali Ministero Giustizia Giustizia: Uil - Pa; carceri a rischio paralisi, in una deriva di violenza Comunicato stampa, 7 febbraio 2011 Se non fosse che a connotare la quotidianità penitenziaria c’è una deriva di violenza e di morte, ci saremmo già rassegnati all’insensibilità e all’inerzia del Ministro Alfano e dell’intero Governo, non escludendo la stessa Amministrazione Penitenziaria, rispetto alla drammatica emergenza in cui sta affogando il sistema carcere italiano. Parole dure quelle pronunciate da Eugenio Sarno, Segretario Generale della Uil Pa Penitenziari, questa mattina nell’aprire la riunione dell’Ufficio di Segreteria. Non è solo il sovrappopolamento delle strutture, che pur ha il suo peso nel degrado generale, a preoccuparci, quanto l’irrefrenabile deriva di violenza e morte che percorre gli istituti penitenziari della penisola. Tra risse, aggressioni, suicidi e tentati suicidi il personale della polizia penitenziaria davvero non sa più a che santo votarsi. Nella più completa solitudine, nel più infamante abbandono e senza uomini, risorse e mezzi gli operatori penitenziari cercano di porre riparo, come possono, al dramma penitenziario. Ogni giorno in qualche carcere d’Italia vi sono detenuti che si autolesionano (con rischi di contagio da Hiv), si azzuffano (ultima maxi rissa con feriti a Verona, venerdì scorso), che aggrediscono e feriscono agenti (22 i poliziotti penitenziari feriti da detenuti in questo 2011), che si suicidano (5 dall’inizio dell’anno) o che tentano l’estrema evasione dalla propria vita (16 i tentati suicidi da gennaio ad oggi). A proposito di tentati suicidi a Teramo, dal 1 al 5 febbraio, si sono registrati ben 4 tentati suicidi, tutti sventati dalla polizia penitenziaria. Venerdì 4 febbraio a tentarlo sono stati due compagni di cella, in rapida successione. Al fallito tentativo del primo, per l’intervento della polizia penitenziaria racconta Sarno - è seguito il tentativo di impiccagione del secondo che pensava di cogliere impreparati gli agenti intenti a salvare il suo compagno. Il giorno prima, sempre a Teramo, un detenuto non voleva essere tradotto ed ha ingerito candeggina ed il 1 febbraio un altro detenuto aveva tentato di impiccarsi?”. La Uil-Pa Penitenziari punta l’indice anche sulle evidenti e croniche deficienze organiche del sistema penitenziario italiano: Sono anni che ci raccontano la favola delle 2000 assunzioni straordinarie in polizia penitenziaria. La verità è che le prossime 760 unità che si assumeranno a marzo non hanno nulla di straordinario, ma sono semplicemente le unità che, per legge, coprono (molto parzialmente) il turn over. Da tempo abbiamo chiesto al Ministro e al Dap di ridefinire le piante organiche e nelle more di rivedere la gestione del personale. Mentre nelle frontiere penitenziarie si combatte contro la violenza e ci si affanna ad impedire la morte, nei palazzi del potere romano si ingrossano le fila degli agenti penitenziari chiamati a non ben definiti compiti. In questo scenario di colpevole e consapevole sperpero di risorse umane il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha precise responsabilità. Anche per questo tutte le OO.SS. della polizia penitenziaria della Lombardia hanno deciso di proseguire la protesta organizzando sit-in di protesta in ogni luogo che sarà visitato da un rappresentante del Dap. Ma altre proteste sono state già indette in Sicilia , in Emilia Romagna ed in altre realtà territoriali”. Il Segretario della Uil-Pa Penitenziari torna a chiedere, quindi, maggiori finanziamenti per il sistema penitenziario. Per noi era stato sin troppo facile prevedere che le norme sulla detenzione domiciliare dell’ultimo anno non avrebbero per nulla inciso sul sovrappopolamento. Cos mentre i detenuti aumentano, i fondi diminuiscono. Non ci sono i soldi per pagare le bollette di luce, acqua e gas. Non ci sono i soldi per pagare le missioni e gli straordinari agli agenti. Non ci sono soldi per garantire il trasporto dei detenuti. Cos a breve rischiano di saltare centinaia di processi. Non ci sono, ed è tutto dire, i soldi nemmeno per garantire un vitto dignitoso ai detenuti. Qualcuno vorrà spiegarci come si fa, con poco più di tre euro a testa, a garantire colazione, pranzo e cena ? Per questo esortiamo ancora una volta Berlusconi, Alfano e Tremonti a rivedere i tagli e garantire i finanziamenti idonei atti ad impedire la completa paralisi del sistema penitenziario italiano, con le conseguenze che ci comporterà”. Eugenio Sarno Segretario Generale della Uil Pa Penitenziari Giustizia: Bonino (Radicali); dialogo su carceri non significa ingresso in maggioranza Adnkronos, 7 febbraio 2011 “Ma per favore!” Emma Bonino, interpellata dall’Adnkronos, esclude l’ipotesi di un ingresso del Partito radicale nella maggioranza di governo, attraverso l’indicazione di un nuovo ministro della Giustizia. “Che si discuta con il governo di un provvedimento sulle carceri, se finalmente si decideranno a farlo - spiega - è una cosa normale. Ma questo non c’entra nulla con la fiducia al governo, con l’ingresso nella maggioranza e con tutte le altre cose che si sentono dire in questi giorni”. Giustizia: pietà per il detenuto Bernardo Provenzano? Live Sicilia, 7 febbraio 2011 Bernardo Provenzano sta male, ha diritto alla salute e deve essere curato. Una banale verità che in un Paese incattivito e senza bussola diventa oggetto di critica e viene messa in discussione. Il carcere “costituzionale” - sull’onda lunga della voglia di forca e di vendetta, mai più di giustizia - è una chimera. Vige ormai un regime carcerario materiale di soprusi e angherie. Vale per Binnu vale per l’ultimo innocente dietro le sbarre. Eppure, il tramonto fisico del capo di Cosa nostra ci pone interrogativi interessanti, utili a segnare i nostri confini di civiltà, le frontiere dello spirito del tempo. È lecito provare pietà per un crudele e disumano assassino morente? È giusto chiederla, la pietà? Oppure ogni accenno di umana compassione dovrebbe essere bandito per una regola non scritta di esclusione, poiché parliamo di un soggetto che si è macchiato di crimini atroci? Esiste il sentimento dei familiari delle vittime che sono stati scempiati dall’opera nera di Binnu. Nessuno Stato di diritto può accogliere il desiderio di vendetta. Però è legittimo odiare Provenzano, per i colpi da lui ricevuti direttamente e sul piano personale. Ed è logico che quest’odio bruci come in un falò e contagi l’opinione pubblica. Come è altrettanto legittimo avere compassione di un vecchio che morirà in carcere, per le sue colpe, per avere scelto la pena con la sua condotta di vita. Il senso di giustizia non esclude la pietà. La civiltà vuole che ognuno scelga, misurandosi col metro di se stesso. Senza dovere subire crociate o anatemi per l’uso della libertà. Giustizia: garantire le cure sanitarie, anche se il detenuto si chiama Provenzano di Gianluca Perricone www.giustiziagiusta.info, 7 febbraio 2011 Davanti a simili condizioni di salute, crediamo che il cognome (ed il “curriculum”) di un detenuto non debba incidere sulle decisioni utili a salvaguardarne la vita. Neppure se in una cella sia detenuto (a 78 anni e con l’aggravante del 41 bis) uno dei più potenti mafiosi dell’ultimo secolo, arrestato nel 2006 dopo ben 46 anni di latitanza. Perché a Bernardo Provenzano - è di lui che stiamo parlando - una recente perizia medica disposta dal giudice di sorveglianza ha riscontrato una “sindrome parkinsoniana”; i medici hanno anche rilevato gli esiti di una recente ischemia cerebrale. Inoltre, a quello che si apprende dalla stampa, i medici del collegio hanno chiesto “che venga eseguita al più presto una scintigrafia e soprattutto una terapia, “radio o chemio”. Ci sono infatti alcuni valori che fanno pensare al ritorno del tumore alla prostata per cui Provenzano fu operato nel 2003, a Marsiglia. Tanto da far scrivere di una “prognosi non particolarmente favorevole a breve - medio termine (circa 2 - 3 anni)”. Come dire, questo è quanto resta da vivere a Provenzano, se curato in tempo”. Nella vicenda delle condizioni di salute del detenuto - Provenzano riportiamo quanto scritto l’altro giorno da Repubblica: “A guardare bene le carte in Corte d’appello si scopre che nel giugno 2009 era stata la seconda sezione del tribunale a chiedere il ricovero di Provenzano in un centro clinico, sulla base di una relazione del medico del carcere di Novara. Ma qualche giorno dopo, arrivò un invito del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria a riconsiderare il provvedimento. “La direzione di Novara tiene sotto controllo la situazione”, scrisse il direttore del Dap. I giudici ribadirono l’ordinanza. Il Dap inviò una nuova nota, assicurando cure ed esami. Al tribunale non restò che revocare il ricovero”. Su questa storia, e più in particolare sulla possibile incompatibilità del carcere duro con le complicate condizioni di salute del detenuto, l’aspetto per certi versi più inquietante lo abbiamo appreso leggendo Il Messaggero che ci ha informato da un commento ‘bipartisan’ del mondo politico: “la mossa - ha scritto il quotidiano romano - è stata commentata allo stesso modo da destra e da sinistra: non se ne parla neppure, se proprio soffre dietro le sbarre Provenzano si penta, collabori e beneficerà di quanto già la legge prevede”. Per certi versi, ci si consenta (il discorso vale per qualsiasi detenuto e non solo per l’ex capo di Cosa Nostra), questo teorema è raccapricciante perché, se è vero che una cura somministrata in tempo a Provenzano può consentirgli comunque di non vivere oltre i 2 - 3 anni, si riconosce evidentemente il grave stato di salute del recluso il quale ha diritto alle cure specifiche (e, come richiesto, ad un regime carcerario magari meno rigoroso) a prescindere dalle colpe (e dalle relative pene) da scontare: al di là del “pentimento” o della “collaborazione” dai quali deve essere distinta la cura della salute di chi è consapevole di essere destinato a terminare i propri giorni dietro le sbarre. Consapevolezza che, però, non può appunto essere separata dal diritto alle cure (e, quindi, dal diritto alla salvaguardia della salute) che per ogni recluso deve essere rispettato: anche se il detenuto si chiama Provenzano. Giustizia: Provenzano è gravemente malato? prima la verità, poi la pietà di Sonia Alfano (Idv) Il Fatto Quotidiano, 7 febbraio 2011 Da quando sono stata eletta al Parlamento europeo ho subito iniziato a visitare i reparti 41bis dei più importanti penitenziari italiani. Non per curiosità, ma perché sapevo bene che le carceri italiane sono molto popolate e che tanti detenuti si trovano reclusi in precarie condizioni di salute. Volevo rendermi conto di persona di come stavano le cose, specialmente nei raparti di cosiddetto isolamento. La legge ovviamente prevede che i detenuti vengano curati, giustamente, anche in cella. Per questo mi auguro che, nel rispetto delle regole e della dignità umana cui hanno diritto tutti e perfino i più feroci mafiosi, Bernardo Provenzano riceva in carcere tutte le cure di cui necessita. Ho letto le dichiarazioni di Angelo Provenzano, primogenito del boss, cui la cronaca palermitana di Repubblica ha dedicato ampio spazio: “Se l’esistenza di mio padre dà fastidio, qualcuno abbia il coraggio di chiedere la pena di morte, anche ad personam”. Dimentica, Provenzano junior, che le condanne a morte non fanno parte della nostra cultura, specialmente dei familiari delle vittime innocenti di mafia, neanche di quelle uccise dal suo genitore. Noi non sappiamo augurare la morte ad alcuno, pensi, nemmeno ai nostri carnefici; tanto meno sapremmo provocarla, volutamente o meno. Spero sia almeno cosciente di non poter dire lo stesso del padre. Ad Angelo Provenzano vorrei dire che se ha contezza del fatto che suo padre non stia ricevendo le cure necessarie, è giusto e doveroso denunciarlo nelle sedi più appropriate e con i toni più giusti. Non su un giornale. Sparare nel mucchio non serve a nulla. Come non serve a nulla irritarsi e lasciarsi andare a ragionamenti autoreferenziali e autoassolutori come quelli letti oggi sulle pagine di Repubblica. Lui non deve immedesimarsi nei familiari vittime di mafia, per favore; lui deve pensare solo a far si che suo padre, negli ultimi anni di vita, possa riscattare in parte una vita trascorsa nella violenza e nella morte. Sono certa che Angelo Provenzano abbia a cuore la salute e la vita del padre, ma lui sa altrettanto bene che dovrebbe limitarsi ad un unico, accorato appello: chiedere al padre di collaborare con la giustizia, pentirsi di tutte le azioni criminali che hanno costellato la sua intera vita e raccontare ai magistrati tutto quello che sa e che vuole portare con sé in una tomba, convinto così di salvare un onore che non ha mai avuto. Perché il silenzio che porta avanti dal giorno del suo arresto è la testimonianza più chiara e lampante della sua convinzione di non avere nulla da farsi perdonare. Come fa il figlio a chiedere pietà, e con quei toni, mentre lo stesso super boss con il suo silenzio continua ad uccidere innocenti? Presentare un’istanza di scarcerazione dopo soli cinque anni di carcere equivale a dare uno schiaffo alle vittime: cinque anni di reclusione valgono le vite che Provenzano ha stroncato in oltre cinquant’anni di “carriera”? Quando mi sono recata al carcere di Novara ho voluto incontrare Provenzano di persona. Speravo, forse ingenuamente, che mi dicesse qualcosa, che mi lanciasse un segnale, che svelasse un minimo di volontà di parlare. L’ho guardato dritto negli occhi, senza mai abbassare lo sguardo, alla ricerca di una traccia di pentimento. Gli ho chiesto se stesse bene e se avesse bisogno di qualcosa. Lui, con gli occhi fieri e per niente afflitti, mi ha risposto di no, che stava bene così. A “pretendere”, ancora una volta, è il figlio di un uomo che in questo momento è ancora convinto che ammazzare magistrati, giornalisti, esponenti delle forze dell’ordine, imprenditori, contadini e innumerevoli cittadini innocenti fu cosa buona e giusta, mentre i figli delle vittime con grande dignità vivono il proprio calvario (giudiziario, sociale, personale) senza urlare, senza sbraitare, con la consapevolezza che sarà difficile poter dare un senso a questo incredibile massacro finché i figli dei carnefici passeranno per figli di vittime attraverso le colonne dei giornali. Dignità e compostezza sono cose che ci differenzieranno sempre. Angelo Provenzano convinca suo padre a parlare, a collaborare con la giustizia negli ultimi tre anni che, pare, gli rimangano; solo allora, forse, sarò disponibile a rivedere la mia posizione. Genova: il Sappe e altri Sindacati della Polizia Penitenziaria ascoltati dal Consiglio comunale Comunicato Sappe, 7 febbraio 2011 Il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, il primo e più rappresentativo di Categoria, era rappresentato da Roberto Martinelli, segretario generale aggiunto e commissario straordinario per la Liguria, e Domenico Tarantino, segretario locale del Sappe a Marassi. “Alla data del 31 gennaio scorso” ha rappresentato il Sappe “la Casa Circondariale di Genova Marassi ha registrato la presenza di 721 detenuti presenti (430 gli stranieri, per una percentuale complessiva del 60%) a fronte di una capienza massima ufficiale della struttura di 456 posti letto; in quella di Pontedecimo erano presenti 170 persone detenute (78 donne e 92 uomini, il 57% dei quali - 96 - stranieri ) rispetto alla capienza regolamentare complessiva di 96 posti letto. Particolarmente grave è la situazione relativa alle carenze organiche del Personale di Polizia Penitenziaria: mancano infatti, rispetto agli organici previsti, ben 157 appartenenti alla Polizia Penitenziaria a Marassi e 53 a Pontedecimo”. Per ora, non sembra avere prodotto gli effetti sperati la legge recentemente approvata sulla detenzione domiciliare, la legge 199 del novembre 2010 che consente di scontare ai domiciliari pene detentive non superiori a un anno, entrata in vigore il 16 dicembre scorso. “Bisogna certamente aspettare alcuni mesi per valutare appieno il risultato della legge” spiega Martinelli “ma, rispetto all’indulto che fece uscire complessivamente e quasi subito circa 650 persone detenute tra Marassi e Pontedecimo, con la nuova legge fino ad oggi sono usciti solamente 15 detenuti da Marassi e 3 da Pontedecimo. Le disposizioni previste dalla legge sono molto vincolanti e quindi restringono il numero dei detenuti cui è possibile applicare tale normativa, impedendone di fatto un’uscita più significativa ed un reale alleggerimento della popolazione reclusa”. La legge dispone che la pena detentiva (non superiore a 12 mesi) sia eseguita nell’abitazione del condannato o altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza, denominato domicilio. Ma tanti - spiega il Sappe - non possiedono questo requisito: basti pensate ai detenuti stranieri che oggi, tra Marassi e Pontedecimo, rappresentano il 60% della popolazione carceraria.” Tra gli interventi chiesti dal Sappe al Comune di Genova, un intervento presso il Ministro della Giustizia affinché il Governo disponga un’adeguata integrazione dell’organico del Personale di Polizia Penitenziaria in servizio negli Istituti penitenziari genovesi di Marassi e Pontedecimo e la predisposizione di progetti sperimentali volti a favorire il reinserimento socio - lavorativo di soggetti in espiazione di pena mediante la partecipazione responsabile e consapevole in progetti di recupero del patrimonio ambientale e lavori di pubblica utilità, come la pulizia dei parchi cittadini e delle spiagge. Martinelli sottolinea inoltre che è importante “favorire l’assegnazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica sovvenzionata e agevolata da concedere in locazione ai dipendenti della Polizia Penitenziaria, in quanto Personale impegnato e coinvolto della lotta alla criminalità organizzata, che presti servizio nell’ambito della provincia di Genova, e realizzare progetti formativi per i Baschi Azzurri finalizzati all’apprendimento delle lingue straniere e della patente europea di informatica.” Il Sappe ha infine proposto di conferire, in analogia a quanto già fatto dal Comune di Milano, la Cittadinanza Onoraria al Corpo di Polizia Penitenziaria di Marassi e Pontedecimo quale prestigioso riconoscimento per l’impegno portato avanti quotidianamente con professionalità nei grandi ed impegnativi Istituti di Genova, contribuendo a difendere la sicurezza sociale. È seguito un ampio dibattito nel corso del quale sono intervenuti i Consiglieri Guastavino, De Benedictis, Burlando, Bernabò Brea, Mannu, Campora, Rosasco, Gagliardi, Cappello, sen. Musso, Basso, Proto, Lo Grasso, Cecconi e Lecce e l’Assessore Scidone. Lettere: la tragedia dei quattro fratellini rom morti nell’incendio in un campo nomadi dell'Associazione “A Roma, Insieme” Ristretti Orizzonti, 7 febbraio 2011 Quattro bambini vittime del silenzio e dell’indifferenza. “A Roma, Insieme”, associazione impegnata da vent’anni nella difesa dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza e in particolare nei confronti dei bambini detenuti con le madri, si associa al grido di dolore dei familiari e della comunità Rom e sollecita l’amministrazione comunale ad adottare tutte le misure necessarie affinché tali tragedie non abbiano più a verificarsi; e alle bambine e ai bambini sia data la certezza di vivere e crescere in una città amica. La civiltà di una città si misura dalla sua capacità di saper accogliere ed aiutare i più deboli e soli. Cagliari: assistenza ai detenuti, assemblea annuale di “Socialismo Diritti Riforme” Sardegna Oggi, 7 febbraio 2011 “Oltre 400 colloqui con i detenuti, frutto della presenza quotidiana costante durante l’intero anno nella Casa Circondariale di Buoncammino. In queste occasioni, che sono state particolarmente intense nei mesi estivi e nei periodi di festività, abbiamo intrattenuto rapporti costruttivi con gli educatori, con i quali registriamo ogni colloquio, con i Medici e gli Infermieri che operano all’interno dell’Istituto e con il personale di Polizia Penitenziaria”. Lo ha detto Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme” illustrando il consuntivo delle attività del sodalizio in occasione dell’annuale assemblea dei soci, la seconda da quando è nato. “I colloqui con i detenuti, accompagnati da un supporto ai loro familiari, ci hanno impegnati anche a Iglesias, ma l’associazione con i volontari ha rapporti intensi anche con diversi ristretti delle carceri di Sassari, Nuoro e Oristano nonché della Penisola. Nel 2010 - ha aggiunto - abbiamo potuto moltiplicare il nostro impegno nel sociale grazie al notevole incremento del numero degli iscritti passati dai 30 dell’anno scorso agli attuali 55 soci. Abbiamo in archivio oltre 170 schede di altrettanti detenute e detenuti che si sono rivolti a noi nell’arco di questo periodo. Tra le esperienze più emozionanti del 2010 c’è stato l’affidamento per 3 ore al giorno, per cinque giorni, di un detenuto, senza scorta, che, depresso e con gravi disturbi cardiocircolatori, aveva chiesto di poter fruire di qualche ora di libertà per motivi di salute. Un altrettanto momento di particolare commozione è stato incontrare a Buoncammino un detenuto lontano dall’isola per 24 anni. Intenso e particolarmente sentito il rapporto con le donne detenute. Anche nel 2010 abbiamo purtroppo registrato la presenza di un bimbo di 22 mesi nel carcere di Buoncammino”. Il riferimento dell’Associazione. “Sebbene il mondo dei cittadini privati della libertà costituisca il costante punto di riferimento dell’azione dell’Associazione, non sono state trascurate - ha detto ancora Caligaris - alcune problematiche inerenti la questione dei diritti dei cittadini e delle riforme. Ci siamo occupati dei malati di Sclerosi Laterale Amiotrofica. Abbiamo seguito i casi di alcuni Rifugiati nigeriani, di diversi cittadini alle prese con le super bollette di Abbanoa, degli invalidi civili privati della pensione con l’unico motivo di far risparmiare l’Inps”. Le iniziative. “Numerose le manifestazioni, distribuite nel corso dell’anno, realizzate con il contributo dei soci e delle Istituzioni. Complessivamente sono stati organizzati - ha evidenziato il segretario di SdR Gianni Massa che ha presentato il bilancio - 9 eventi. Il primo appuntamento dell’anno è stato l’incontro con Renato Curcio e la presentazione del libro di Annino Mele “Strabismi”. L’impegno dell’associazione è proseguito con “Un sorriso oltre le sbarre” dedicato alle detenute di Buoncammino. Abbiamo discusso del “Piano Casa” e abbiamo attivato diverse iniziative di solidarietà per i ristretti come la manifestazione “Mai più soli” con il sostegno dell’assessorato delle Politiche Sociali della provincia di Cagliari. È stato possibile consegnare 60 audiolibri con testi di Enrico Costa al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria della Sardegna per andare incontro alle problematiche dei detenuti ipovedenti. Sono stati inoltre presentati il libro di Natasha Dessalvi “Io ti aspetto” e successivamente in due distinti appuntamenti, in collaborazione con gli insegnanti della scuola che operano nel carcere di Bad’e Carros a Nuoro, i “Libri Farfalla” ideati dall’ergastolano Alessandro Bozza e realizzati dai detenuti in regime di Alta Sicurezza con le favole e le filastrocche per i bambini. Abbiamo iniziato l’anno con un’iniziativa di particolare rilievo per i cittadini. Con la borsa di lavoro “T.I.N.A. - Tutti Insieme No Alzheimer”, attraverso il progetto “Curare chi cura” per tre mesi i familiari di malati di Alzheimer potranno ricorrere gratuitamente a una psicologa. Si tratta appunto - ha concluso Massa - di aiutare chi deve farsi carico degli ammalati di demenza senile. A conclusione del dibattito è stato approvato il bilancio consuntivo all’unanimità e sono state decise le iniziative per il 2011”. San Stino (Ve): convenzione tra Comune e Tribunale per condannati a lavoro di pubblica utilità Il Gazzettino, 7 febbraio 2011 Lavori socialmente utili eseguiti da chi è condannato dal giudice e ha espresso la volontà di scontare la pena in questo modo. È la disponibilità del Comune di San Stino all’invito del tribunale ordinario di Venezia. Se la cosa andrà a buon fine, per il Comune si tratta del rinnovo della convenzione in quanto quella che era esistente è scaduta. Il lavoro di pubblica utilità non può essere inferiore ai dieci giorni, né superiore ai sei mesi. È di non più di 6 ore alla settimana e non viene retribuito. È svolto con tempi e modalità che non pregiudichino le esigenze di lavoro, studio, famiglia e salute della persona condannata alla pena. Il lavoro di pubblica utilità è indirizzato su prestazioni a sostegno di tossicodipendenti, persone affette da Hiv, portatori di handicap, malati, anziani, minori, ex detenuti, attività di protezione civile, tutela del patrimonio ambientale, culturale, manutenzione di beni del demanio pubblico e con prestazioni inerenti alla professionalità specifica della persona destinataria della condanna. La convenzione tra Comune e tribunale durerà tre anni. Potrà essere prorogata per altri due anni a condizione che valutazione della giunta comunale sia positiva in merito all’esito delle attività svolte. Gli incaricati del Comune a coordinare le attività dei condannati sono i responsabili dei servizi socio assistenziali e tecnici. Nuoro: “I detenuti si trattano con umanità”; attentato e minacce a ispettrice Polizia penitenziaria L’Unione Sarda, 7 febbraio 2011 Gli inquirenti scavano sull’attività della donna in servizio a Badu ‘e Carros. La perizia calligrafica potrebbe indirizzare le indagini. I l fuoco ha distrutto l’auto, ma non la lettera che gli attentatori hanno voluto si salvasse perché non ci fossero equivoci sul messaggio. Parole di minaccia, scritte a mano, vergate a penna sul foglio bianco abbandonato nel cortile: “I detenuti si trattano con una umanità”. Una firma che non lascia dubbi sul destinatario: una ispettrice della polizia penitenziaria in servizio a Badu ‘e Carros, sposata con un imprenditore titolare di due pizzerie a Siniscola e Torpè. L’intimidazione è avvenuta la notte scorsa, a Siniscola, dove la coppia vive da tempo. Sabato sera Edoardo Cabras, originario di Torpè dove ha una pizzeria d’asporto, ha parcheggiato la sua Mercedes grigia in via Olbia, nel giardino del ristorante di cui è titolare. All’una della notte è scattato l’allarme perché la sua berlina era avvolta dall’incendio. Per domare l’incendio sono intervenuti i vigili del fuoco. L’operazione di spegnimento non è stata proprio semplice, perché la benzina del serbatoio, che era pieno, alimentava in continuazione le fiamme appiccate dall’interno della berlina, dopo aver mandato in frantumi un finestrino. In via Olbia sono arrivate anche una pattuglia di carabinieri e agenti del commissariato, richiamate da quella lettera ritrovata poco dopo nel cortile. Mentre i vigili del fuoco erano impegnati a fermare il rogo, gli investigatori hanno iniziato a concentrarsi sul messaggio minaccioso. Modo inusuale scelto dagli attentatori per fugare ogni dubbio sull’incendio che ha ridotto la Mercedes a un rottame. La rivendicazione era scritta a mano con una grafia che potrebbe essere la firma dell’autore, sebbene per ora ignoto. Gli investigatori mantengono il più stretto riserbo su tutta la vicenda. Intanto, sono alle prese con un dubbio fondamentale, anche per indirizzare le indagini che, pur non escludendo la pista del depistaggio, si sono concentrata sull’attività di Antonietta Di Mauro, ispettrice a Badu ‘e Carros. La donna è stata interrogata a lungo dagli investigatori, ma sulle sue dichiarazioni, come su tutta la vicenda, il riserbo è assoluto. Potrebbe essere il punto di partenza per gli inquirenti nel tentativo di fare luce sulla vicenda, come una perizia calligrafica sulla frase scritta nel messaggio potrebbe ridurre la rosa dei sospetti. Roma: lezioni di musica per i giovani detenuti dell’Ipm, con sostegno della Provincia Adnkronos, 7 febbraio 2011 Portare la musica negli istituti penitenziari per minori attraverso un percorso formativo finalizzato al recupero e al reinserimento dei giovani detenuti. È questo l’obiettivo del progetto “Ricreazione”, che partirà domani dall’istituto penale di Casal del Marmo di Roma con un concerto inaugurale di Alberto Mennini, direttore artistico di “School of Rock” di Ostia, e che prevede un percorso di insegnamento musicale, parallelo a quello della scuola, rivolto ai minori che si trovano negli istituti penitenziari presenti su tutto il territorio nazionale. Ideato dalla cooperativa “Fieri Potest” e realizzato in collaborazione con il Ministero della Giustizia - Dipartimento Giustizia Minorile - Direzione Generale Attuazione Provvedimenti Giudiziari, si legge in una nota, il progetto “Ricreazione” ha ottenuto il sostegno e la partecipazione della Provincia di Roma, della Fondazione Roma Terzo Settore e della Cooperativa Operatori Sanitari Associati. Attraverso la musica si tenterà di costruire un argine alla moltiplicazione dei fenomeni di disagio e di devianza, spesso recidivi, tentando soprattutto di accrescere le possibilità dei giovani detenuti per accompagnarli nel processo completo di reintegrazione sociale. Nell’istituto penale di Casal del Marmo verrà allestita una sala prove dotata di tutti gli strumenti musicali che alla fine dei corsi verranno lasciati ai ragazzi per dare loro la possibilità di continuare a suonare. Il percorso formativo prevede corsi base di chitarra, basso, batteria, pianoforte e voce, per concludersi con il superamento di un esame finale. I corsi dureranno 5 mesi, con lezioni di 2 ore ciascuna, con cadenza di una volta alla settimana. Cuba: italiano in carcere, la Farnesina sta seguendo con attenzione il caso Ansa, 7 febbraio 2011 L’assicurazione arriva dal sottosegretario agli Esteri Alfredo Mantica che, mercoledì scorso, ha risposto così ad un’interrogazione presentata dalla deputata Daniela Sbrollini. Il caso del vicentino Luigi Sartorio, detenuto da sei mesi in un carcere di Cuba senza che ancora siano stati formulati capi di imputazione contro di lui, finisce di nuovo in Parlamento. Ed è sempre la parlamentare del Pd, dopo aver lanciato il mese scorso un appello al ministro Frattini, a far riaccendere nuovamente i riflettori sulla vicenda che vede coinvolto l’ottico vicentino e di cui si sta interessando anche il senatore leghista Alberto Filippi. Sartorio, finito in cella nell’ambito delle indagini sulla morte di una prostituta minorenne, continua a proclamare la sua innocenza e Sbrollini ribadisce: “Ha subito violenze e torture e per questo ha confessato il falso”. Perché Sartorio, come dichiara anche il suo avvocato, il giorno in cui sarebbe avvenuto l’omicidio si sarebbe in realtà trovato a Vicenza. La Farnesina, fa sapere il sottosegretario Mantica, “sta fornendo alla giustizia cubana tutti i documenti che attestano che Sartorio sarebbe stato in Italia nei giorni” in cui è morta la minorenne ed ha “sollecitato il trasferimento dei tre italiani al carcere La Condesa”, dove sono detenuti gli stranieri. Il ministero degli Esteri, ha però sottolineato Mantica, “segue con attenzione i casi di 1800 italiani detenuti nel mondo ma, si tratta comunque di fatti privati in cui lo Stato non può intervenire. Noi possiamo fornire assistenza ai familiari e verificare che le condizione del trattamento dei detenuti rispettino i diritti umani”. Diritti che, secondo Sbrollini, potrebbero essere stati violati: “Sartorio soffre di patologie che richiedono continui controlli medici. I suoi legali ci hanno riferito che, in carcere, ha subito violenze”. La speranza adesso, conclude la deputata, è che “quest’ultima parte di documenti presentati, che dimostrano appunto l’assenza di Sartorio da Cuba lo scorso 14 maggio bastino ad ottenere il suo rilascio”. Immigrazione: Maroni; aumentato livello d’attenzione, dopo rivolte in Egitto e Tunisia Ansa, 7 febbraio 2011 Il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, ha detto che la rivolta in Egitto e in altri paesi del Nord-Africa ha indotto l’Italia ad aumentare il livello di attenzione per il rischio di un’ondata di immigrazione clandestina. Maroni ha aggiunto che l’instabilità politica di questi paesi lo preoccupa perché “può determinare una ripresa dell’immigrazione clandestina con addirittura infiltrazioni da organizzazioni terroristiche e anche di criminali scappati da carceri di questi paesi in rivolta”. Maroni ha ricordato che domani sarà a Napoli per la conferenza Euro - mediterranea con le delegazioni di 110 paesi europei e nordafricani. “Ci saranno i capi delle polizie, sarà un’occasione - ha concluso il ministro - per definire le procedure di controllo che sono assolutamente necessarie per impedire a chi vuole scappare da quei paesi per venire in Italia o in Europa di farlo”. Egitto: polizia ha arrestato 157 detenuti evasi da alcune prigioni nei giorni scorsi Ansa, 7 febbraio 2011 La polizia egiziana ha arrestato 157 detenuti evasi da alcune prigioni nei giorni scorsi, mentre il Paese era in preda alle violenze divampate in seguito alle manifestazioni anti-regime. Intanto la Corte di cassazione ha dichiarato “ineleggibili” 480 dei deputati entrati nell’Assemblea del popolo dopo le elezioni parlamentari. “Speriamo che in Egitto, qualunque regime governi, sia rispettoso delle minoranze” ha auspicato l’arcivescovo di Genova e presidente della Cei, cardinale Bagnasco. Iraq: il Governo smentisce accuse di Human Rights Watch su esistenza carcere segreto a Baghdad Ansa, 7 febbraio 2011 Il governo iracheno ha smentito con forza le denunce di Human Rights Watch sull’esistenza di un centro di detenzione segreto a Baghdad, gestito dalle forze di sicurezza agli ordini del premier Nouri al - Maliki. L’organizzazione internazionale per la difesa dei diritti umani ha scritto le accuse nero su bianco in un rapporto basato su fonti confidenziali all’interno del governo e su documenti secretati. Nell’arco di pochi giorni nel novembre scorso, oltre 280 prigionieri sono stati trasferiti verso un carcere segreto all’interno di Camp Justice, una base militare nel quartiere nord - ovest Kadhimya di Baghdad. “Non capiamo come un’organizzazione rispettabile come Human Rights Watch sia capace di sostenere simili bugie”, ha detto alla Cnn Ali al - Moussawi, un consigliere di Al Maliki: “L’organizzazione ha un obiettivo politico oppure i suoi informatori sono stati messi sulla cattiva strada da notizie false”. Secondo Human Rights Watch il carcere segreto è controllato dalla 56esima Brigata, nota come la ‘Baghdad Brigadè, e dal Servizio di controterrorismo, entrambi agli ordini di Al Maliki. Afghanistan: restituito ai familiari il corpo del detenuto morto a Guantanano Ansa, 7 febbraio 2011 I resti di Mualim Awal Gul, il comandante talebano morto giorni fa nel carcere statunitense di Guantanamo Bay, sono stati restituiti ieri sera ai familiari nella base aerea americana di Bagram, nella provincia afghana di Parwan. Lo riferisce l’agenzia di stampa Pajhwok. Gul, nato nella provincia orientale di Laghman, aveva 48 anni ed era un responsabile del movimento Hezb - e - Islami impegnato contro i sovietici a partire dalla fine degli anni 70. Le truppe americane lo arrestarono il giorno di Natale del 2001. Dopo il suo arresto, fu accusato di aver aiutato Osama bin Laden a fuggire da Tora Bora, dove i militari americani cercarono di catturarlo, attraverso la provincia di Kunar. Familiari di Gul hanno però decisamente negato questo particolare ed al riguardo il fratello Haji Nazar Mohammad ha dichiarato: “Era innocente. Se non lo fosse stato, avrebbero provato le sue responsabilità in un processo che non c’è mai stato”. Da parte loro i talebani hanno pubblicato un comunicato ufficiale nella loro pagina web in cui denunciano “la brutalità del trattamento dei prigionieri da anni reclusi senza diritti nella prigione di Guantanamo”.