Giustizia: perché a Napoli il figlio di un delinquente spesso segue le orme del padre? di Bianca Stancanelli Panorama, 6 febbraio 2011 Carcere minorile di Nisida: su 55 detenuti, 26 hanno il padre in carcere e tre lo hanno avuto in passato. Per tre reclusi anche la madre è detenuta. Rapinatori ogni volta più giovani, ogni volta più violenti. Accomunati tutti da questa regola crudele: sfuggire a un destino familiare rovinato dal carcere è quasi impossibile. Gennaio 1999, Secondigliano, periferia nord di Napoli. Nel salone di un ufficio postale, da un buco nel pavimento, spunta un rapinatore Ha in pugno una pistola. Nell’ufficio c’è un carabiniere, è in fila allo sportello. Il rapinatore punta l’arma, il carabiniere reagisce e spara. Colpito alla testa, l’uomo muore. Il suo nome era Antonio Fontanarosa, 31 anni. Gennaio 2011, via Domenico Cirillo, centro storico di Napoli. A tarda sera, due giovani irrompono in una tabaccheria. Uno ha un berretto, una sciarpa e una pistola; l’altro il casco in testa. Il cane del tabaccaio, un rottweiler, si slancia verso i due. Il ragazzo con la pistola gli spara al muso. Nel negozio c’è un poliziotto in borghese, con la moglie. Intima l’alt ai rapinatori. Il ragazzo col berretto punta l’arma. L’agente spara. Colpito alla testa, il ragazzo crolla al suolo. Morirà nove giorni dopo, in ospedale. Il suo nome è Antony Fontanarosa, ha 17 anni. È il secondo dei tre figli del rapinatore di Secondigliano. II maggiore, Ciro, è morto a 16 anni, ucciso dalla camorra per avere osato fare urta rapina senza permesso. Il minore, Salvatore, 15 anni, è agli arresti domiciliari: ha rapinato una minicar, impugnando un’arma giocattolo. Padri, figli e fratelli nella stessa saga di violenza e di sangue Storie fuori del comune? Tragicamente ordinarie, piuttosto. In una Napoli dove la delinquenza minorile s’impone come una drammatica emergenza (sabato 29 gennaio due giovanissimi rapinatori, Domenico Volpicelli, 16 anni, e Lello Topo, 24 anni, sono stati uccisi mentre assaltavano un supermercato), sempre più spesso il crimine passa di padre in figlio come una tremenda eredità. Nel caso degli ultimi due ragazzi morti, pur essendo cresciuti in famiglie irreprensibili (ferroviere il padre di Volpicelli; piccolo costruttore, quello di Topo), a essere determinante è stato il contagio ambientale: un quartiere dove violenza e soldi facili superano ogni valore. Peraltro, il terzo complice si è costituito martedì 1 febbraio a Milano. Si chiama Felice Spavento, ha 25 anni ed era già stato arrestato per rapina: la prima volta a 19 anni, nel 2004, e poi nel 2006. Anche il fratello maggiore, Luigi Spavento, 28 anni, ha precedenti penali: arrestato per rapina nel 2009. Una paradossale normalità è il tratto che segna la saga dei Fontanarosa. “I padri morti sono perfino più irresistibili di quelli vivi: diventano un mito” avverte Cesare Moreno, che a Napoli, come maestro di strada, ha guidato per 12 anni il progetto Chance, tentando di sottrarre gli adolescenti della periferia orientale alla camorra e al crimine Racconta: “Un nostro ragazzo ci spiegò una volta: mio nonno è morto ammazzato, mio padre è morto ammazzato, io morirò ammazzato. Lucido e disperato”. Ma quanti figli seguono le orme dei padri? Nella camorra, suggeriscono alla squadra mobile napoletana, la “mala-eredità” è una pratica costante, tanto è vero che i clan prendono il nome dalla famiglia del fondatore: ci sono i Giuliano e i Bosti, i Licciardi e i Di Lauro. Ma anche il mestiere del piccolo crimine si tramanda lungo le generazioni. Panorama ha tentato un test empirico, chiedendo all’Istituto per minorenni di Nisida una statistica sui giovani reclusi. Giovedì 13 gennaio, sui 55 detenuti presenti (52 i maschi e 3 le femmine), 26 avevano il padre in carcere e tre lo avevano avuto in passato. Più di uno su due: il 55,7 per cento. In tre casi anche la madre risultava reclusa e in molti altri, anche fratelli e sorelle. Sono storie che spesso si somigliano. Come Antony Fontanarosa, anche Davide Cella aveva 17 anni e un padre finito nei guai la sera in cui, con gli amici del quartiere, andò a rapinare due guardie giurate in una piazza del centro storico. Era il 4 agosto 2009. Nella sparatoria morì una guardia, Gaetano Montanino; Cella rimase ferito e, a differenza di Antony, riuscì a cavarsela. Nel processo in primo grado è stato condannato a 20 anni di reclusione. Commenta il magistrato Raffaele Cantone, che sulla camorra ha indagato come pm e scritto libri diventati best-seller: “La delinquenza minorile, i “muschilli”, a Napoli c’è sempre stata. La novità è che questi ragazzi commettono reati sempre più gravi. E che ogni tentativo di recupero sembra scomparso. Come se la società avesse accettato come ineluttabile l’idea di regalare manovalanza alla camorra”. A volte, qualcuno riesce a sottrarsi al destino di famiglia. Come i figli di Raffaele Stolder, un camorrista che riempì le cronache della Napoli anni Ottanta. Altre storie finiscono in tragedia. Per Vittorio Maglione, tredicenne di Villaricca, un comune dell’hinterland, ribellarsi al padre, Francesco, in carcere per camorra, ha significato impiccarsi, un Venerdì santo, nell’aprile 2009, lasciando sul tavolo una lettera: “Non voglio diventare come te”. Alunno di scuola media, amato da amici e insegnanti, Vittorio teneva sempre in tasca la foto del fratello Sebastiano, ucciso a 15 anni per aver rubato un motorino “senza permesso”. Quel rancore contro il padre, in punto di morte, è un ricordo ancora forte per don Tonino Palmese, salesiano, responsabile dell’ufficio attività sociali per la diocesi di Napoli e referente per la Campania dell’associazione Libera. Da tre anni Palmese organizza incontri fra i giovani detenuti di Nisida e i familiari delle vittime della criminalità: “Entrambi piangono il loro delitto: quello commesso e quello subito. È una sofferenza che può condurre, negli uni e negli altri, al superamento della propria condizione”. Per dare una mano a ragazzi e ragazze finiti nei guai con la giustizia, la fondazione Chianese distribuisce ogni anno, dal 1987, borse di studio a chi ha deciso di cambiare strada. Quest’anno ne ha consegnate 22. “Due su tre” spiega Giosuè Di Marino, sindaco di Villaricca e presidente della fondazione “sono andate a giovani che hanno alle spalle una famiglia a rischio”. Tra i premiati del 2011 c’è un ragazzo di 20 anni, condannato per tentato omicidio. Il padre, un piccolo camorrista, venne ucciso nel 2000 a Ponticelli. Poco tempo dopo la madre sparì senza lasciare tracce. Solo di recente il figlio ha saputo, leggendo il resoconto di un pentito sui giornali, che era stata violentata e uccisa per ordine dei clan. Coinvolto, da minorenne, in una lite culminata nell’assassinio di un passante, condannato a 10 anni di reclusione, il ragazzo ha trovato in carcere un’occasione di riscatto. Ammesso al lavoro estremo, ha un posto in una fabbrica di pelli. Osserva Cantone: “Quando si lavora, i risultati arrivano. E dove ci sono punti di riferimento i miracoli si verificano”. Ma sono miracoli, appunto, in una città dove un progetto come Chance (600 ragazzi tolti alla strada in 12 anni; il 95 per cento arrivati alla licenza media, due all’università) può chiudere per mancanza di finanziamenti. “C’è qualcuno che pensa che anche i criminali hanno figli e che bisognerebbe guidarli fuori dall’inferno?” domanda con amarezza Moreno. Curioso a dirsi, stanno cominciando a pensarci i boss. Analizza Cantone: “Nei clan tradizionali, lo scettro del comando si trasmette da padre in figlio. Ma c’è adesso una mafia più moderna che cerca di tenere i figli fuori dalle attività criminali, ispirandosi al “metodo Provenzano”. Un esempio? I tre figli di Antonio Iovine, boss dei casalesi, studiano tutti, all’università”. Antony Fontanarosa s’era fermato alla licenza elementare. E aveva cominciato a lavorare: garzone di bar, cameriere in pizzeria, venditore ambulante di calzini, perfino titolare di un banchetto per lo smercio di magliette e berretti con le insegne del Napoli calcio in una piazzetta a due passi dalla Stazione Centrale. “Chi se lo piglia, questo figlio mio, non muore mai di fame” diceva sua madre, Silvana. Se l’è preso la morte. Giustizia: il figlio di Provenzano; curatelo, altrimenti meglio pena di morte Ansa, 6 febbraio 2011 Curare Bernardo Provenzano o chiedere per lui la pena di morte “ad personam”: la provocazione arriva dal figlio del capomafia, Angelo, che sulle pagine di Palermo de La Repubblica rincara l’appello lanciato dal padre, che sta male e vorrebbe uscire dal carcere di Novara, dove è rinchiuso, per essere curato. La perizia medica chiesta e ottenuta dalla difesa di Provenzano registra che il capomafia sta male, ha il Parkinson e ci sono dei valori che fanno pensare a una recidiva del vecchio tumore alla prostata per il quale fu operato nel 2003 quando era latitante a Marsiglia: la prognosi, se non curato, sarebbe di 2-3 anni. “Un figlio chiede solo che suo padre venga curato e che non sia trattato come una bestia. Nient’altro. Se poi l’esistenza di mio padre dà fastidio, qualcuno abbia il coraggio di chiedere la pena di morte anche ad personam”. È quanto dice Angelo Provenzano, 36 anni, figlio del capo mafia Bernardo Provenzano, in una intervista alle pagine locali di Repubblica parlando delle condizioni di salute del padre. I legali del boss hanno chiesto la scarcerazione per il capo mafia che sarebbe molto malato. “Chi ha perso un padre credo che possa capirmi, anche se il mio dolore non è paragonabile al suo - ha detto Provenzano junior - io ho provato a immedesimarmi nei miei coetanei che hanno perso un genitore per morte violenta. Confesso di non esserci riuscito. Penso che provino un dolore immenso che non riesco anche ad immaginare. E mi dispiace. Ognuno di noi paga un dazio e anche io l’ho pagato solo perché esisto e perché sono figlio di un certo pezzo di storia di questo paese. Anche un pluriegastolano ha diritto di essere trattato come un essere umano”. Giustizia: Lumia (Pd); perchè Angelo Provenzano non chiede al padre di collaborare? Ansa, 6 febbraio 2011 “La presa di posizione del figlio del boss Bernardo Provenzano è sibillina e tipicamente mafiosa. Il sistema carcerario italiano è in grado di prendersi cura delle condizioni di salute di Provenzano in modo serio. Gli arresti domiciliari no, questo mai. La fuoriuscita dal 41 bis sarebbe una scelta sciagurata”. Lo dichiara il senatore del Pd Giuseppe Lumia, componente della Commissione antimafia, rispondendo alle affermazioni di Angelo Provenzano. “C’è una strada che il figlio, se non vuole stare dentro la cultura mafiosa, potrebbe intraprendere: convincere il padre a collaborare. Perché non prende questa iniziativa - continua Lumia? Il padre non è una vittima, ma un carnefice e il suo nome è legato ad un pezzo della peggiore storia del nostro Paese. Non si può trascurare il fatto che il Bernardo Provenzano sia un boss e che sia stato la causa del dolore di molti ragazzi a cui ha ucciso in modo barbaro e spietato i genitori”. Lettere: ancora sul principio di territorializzazione della pena di Stefano Anastasia (Difensore civico dell’Associazione Antigone) Terra, 6 febbraio 2011 Per la terza volta decidiamo di parlare del caso di V.G. e con lui di tutte quelle migliaia di detenuti che chiedono garantito il principio di territorializzazione della pena. Lo scorso mese di settembre avevamo appreso del trasferimento di V. in un carcere del nord Italia vicino alla sorella. La notizia non ci aveva fatto cantare vittoria: l’Amministrazione penitenziaria aveva sì applicato la legge ma il trasferimento era soltanto “provvisorio”. Con una carcerazione che va avanti da più di dieci anni, le decine di istanze di trasferimento presentate e sempre rigettate per le più svariate ragioni, le certificazioni dei medici penitenziari che attestano il bisogno di V. di stare vicino alla famiglia, il buon comportamento tenuto in quel carcere, l’accesso ai benefici oramai prossimo, ci sembrava conseguenziale che l’assegnazione in quel carcere potesse divenire definitiva. I più recenti fatti hanno confermato i nostri timori: nonostante le richieste di assegnazione definitiva al carcere, l’amministrazione penitenziaria, questa volta tempestivamente, a pochi giorni dalle vacanze natalizie, ha disposto nuovamente il trasferimento di V. in un altro istituto lontano, e di molto, dal paese dove vive la sorella. Oggi siamo allo stesso punto di partenza con l’unica differenza che V. è ancora più provato, deve adattarsi ad un nuovo carcere e le sue condizioni psicologiche sono precipitate. Certamente non si sente sconfitto e ha fatto l’unica cosa che gli è permesso fare: presentare di nuovo istanza per tornare in un carcere vicino alla sorella. Lo abbiamo detto tante volte il prolungato allontanamento dai familiari è in contrasto con il Principio di territorializzazione della pena ma è anche causa di una detenzione inumana come questa che V. continua a subire e se l’amministrazione penitenziaria non riesce a garantire quanto previsto dalla legge lo chiederemo al Magistrato di Sorveglianza, per richiamarlo ad una delle sue funzioni originarie di garante dei diritti dei detenuti, e porteremo la richiesta di V. anche davanti ai Giudici della Corte europea dei diritti dell’uomo. Sardegna: la legge 199 “svuota-carceri” non ha funzionato, a casa solo 42 Agi, 6 febbraio 2011 In Sardegna non ha prodotto gli effetti sperati la legge 99 del novembre 2010, la cosiddetta “svuota carceri” che consente di scontare ai domiciliari pene detentive non superiori a un anno, entrata in vigore il 16 dicembre scorso. Lo rileva Silvestro Ladu (Pdl), presidente della commissione Diritti civili (Seconda) del Consiglio regionale, evidenziando come il sovraffollamento negli istituti di pena dell’isola abbia raggiunto “livelli preoccupanti”, nonostante questa norma. Ne hanno potuto beneficiare soltanto - secondo dati diffusi da Ladu, 42 detenuti delle 12 carceri sarde che oggi ospitano circa 2.300 reclusi a fronte di una capienza di 1.957. Il numero di scarcerati è così ripartito: undici a Cagliari, sei a Sassari, altrettanti a Oristano, quattro a Nuoro, due a Tempio Pausania, due ad Alghero, altrettanti a Macomer, quattro a Mamone, così come a Is Arenas, uno a Isili, mentre a Iglesias e Lanusei nessun detenuto a potuto lasciare le celle. “Eppure, il numero dei procedimenti attivati, cioè di soggetti che si trovavano nelle condizioni di fruire della misura prevista dalla legge 199, in tutta la Sardegna erano 276”, osserva Ladu. “Ciò sta a significare come le maglie previste nella legge siano molto strette, restringendo così il numero dei detenuti su cui è possibile applicare tale normativa, impedendone un’uscita più significativa ed un reale alleggerimento della popolazione reclusa, condizione che, in questo momento, è quanto mai opportuna”. La legge dispone che la pena detentiva (non superiore a 12 mesi) sia eseguita nell’abitazione del condannato o altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza, denominato domicilio. Ma tanti - spiega il presidente della Seconda commissione - non possiedono questo requisito, basti pensate ai detenuti stranieri che oggi rappresentano il 40% della popolazione carceraria. Di questa disposizione di legge non possono beneficiare neanche i soggetti condannati per reati particolarmente gravi, (criminalità organizzata, terrorismo, violenza sessuale) delinquenti abituali, soggetti ancora particolarmente pericolosi. “Bisogna, però, aspettare alcuni mesi per valutare appieno il risultato della legge”, conclude Ladu. “In attesa dell’attuazione del piano straordinario penitenziario e della misura alternativa alla detenzione, si renderà opportuna una rivisitazione della legge per renderla più fruibile ed efficace”. Liguria: Rapporto regionale Immigrazione; nelle carceri il 54% dei detenuti è straniero Ansa, 6 febbraio 2011 Il 54% dei detenuti liguri è di origine straniera. 859 su 1.583 rinchiuse nelle carceri liguri. È quanto è emerso dal VI Rapporto regionale sull’Immigrazione. Dei 751 detenuti ammessi nel 2009 all’esecuzione penale esterna a Genova, Savona e Imperia, solo 153 sono stati immigrati, il 20.4%. I detenuti stranieri accedono meno alle misure alternative per mancanza di requisiti come l’abitazione, la reperibilità certa, un lavoro stabile. Altro dato del rapporto: gli stranieri finiscono più spesso in carcere prima di essere condannati in via definitiva; il 68% va subito dietro le sbarre contro il 43% degli italiani. Il 36% dei reati denunciati in Liguria nel 2009 è attribuibile ad autore noto di cittadinanza straniera, il 64% a italiani. Il Marocco è l’area di provenienza maggioritaria dei carcerati liguri, il 20%, a seguire Romania 13%, Ecuador 9%, Senegal 9%, Albania 8%, Tunisia 6%, Algeria 4% e Cina 2%. Sono soprattutto i reati contro il patrimonio che determinano la forte incidenza della popolazione straniera nelle strutture penitenziarie liguri. Agrigento: la legge “svuota-carceri” è applicabile a 40 detenuti, ma molti non hanno casa La Sicilia, 6 febbraio 2011 Il Governo Berlusconi, con il ministro della Giustizia Angelino Alfano con il provvedimento detto “svuota-carceri” stanno cercando di “regalare” qualche centimetro in più nelle patrie galere. Nel penitenziario di contrada Petrusa accade qualcosa di paradossale. Ci sono infatti parecchi detenuti che, pur avendo tutti i requisiti di legge per fruire del beneficio della scarcerazione, non possono godere di ciò. Si tratta di tutti coloro i quali non hanno un domicilio fisso da comunicare agli organi competenti. Come dire che una volta fuori dal carcere non sanno dove abitare, dormire, vivere. Situazione che lascia dunque intendere come per molti le patrie galere rappresentano una soluzione alla mancanza di alloggi accessibili. Il tutto accade in un penitenziario dove l’emergenza posti è sempre attuale. Nei giorni scorsi venne reso noto un bilancio dell’anno appena trascorso. A stilarlo dal punto di vista strettamente statistico fu il sindacato Uil polizia penitenziaria. Ne emergeva una fotografia com’era facile pronosticare a tinte abbastanza scure, anche se tutto sommato la casa circondariale agrigentina si pone in una posizione di classifica certamente alta, ma non al vertice. Per una volta non essere primi suscita un po’ di soddisfazione anche se i punti di emergenza e preoccupazione non mancano di certo. Sono nove le “voci” che la Uil ha preso in considerazione per fotografare la situazione delle carceri siciliane. Capienza regolare, presenze al 31 dicembre scorso, esubero di presenze, percentuale dell’indice di affollamento, suicidi, tentati suicidi, gesti autolesionistici, aggressioni ai danni dei poliziotti penitenziari, scioperi della fame. Su una capienza regolamentare di 260 detenuti al 31 dicembre erano “ospiti” del Petrusa 452 persone, con un esubero di 192 unità, per un indice di affollamento del 73,8%. Agrigento si pone alle spalle di carceri come Palermo Pagliarelli e Ucciardone, Augusta, Catania e Siracusa. Anche sull’indice di affollamento il “nostro” penitenziario si pone circa a metà classifica delle 26 strutture detentive siciliane. Per fortuna e bravura degli agenti in servizio non si sono consumati suicidi, mentre invece sono 12 i tentativi sventati in extremis. Una dozzina di casi che fanno schizzare Agrigento immediatamente dopo le carceri di Palermo, segnale che le difficoltà logistiche a qualche detenuto hanno fatto abbassare le forze di autoconservazione, spingendo alcuni a cercare di farla finita. Gli atti di autolesionismo sono stati 40, al quarto posto in Sicilia dopo le carceri di Palermo e Siracusa. Secondo i numeri forniti dalla Uil polizia penitenziaria si è registrato un solo caso di aggressione consumata a danno degli agenti in servizio, un numero nella media isolana. I detenuti che nel 2010 hanno invece deciso e attuato lo sciopero della fame, rifiutando il vitto concesso dalla struttura detentiva sono stati 61, “pochi” rispetto ai 108 dell’Ucciardone. Dai numeri emerge dunque l’immagine di una struttura con situazioni difficili specie dal punto di vista strutturale, causa molto spesso dei gesti di insofferenza che a volte sfociano con il tentativo di suicidio. Negli ultimi mesi in particolare il personale della polizia penitenziaria hanno sventato almeno cinque quasi suicidi, salvando la vita a persone che ormai erano sul punto di passare all’altro mondo. Il sindacato Uil di categoria con una nota stampa diffusa giorni fa evidenziò la drammatica situazione delle carceri siciliane, chiedendo al Governo interventi immediati per migliorare la situazione. Il decreto “svuota carceri” è già entrato in vigore, ad Agrigento dovrebbe incidere sulla scarcerazione di una quarantina di detenuti nell’arco del 2011. Nell’anno in cui, si spera possano essere ultimati i lavori di costruzione della nuova ala del penitenziario, capace di accogliere - si dice - altri 200 detenuti. Anche se occorrerà verificare quanti beneficiari dello svuotamento potranno realmente approfittarne, essendo in possesso di un luogo dove trovare domicilio, una volta tornate persone libere. Bassano (Vi): studenti a lezione dai carcerati, progetto all’istituto professionale Scotton Il Gazzzettino, 6 febbraio 2011 A scuola hanno incontrato due ex detenuti. Lunedì seguiranno un processo penale in Tribunale e poi visiteranno il carcere minorile di Treviso. Sono gli studenti dell’istituto professionale Scotton impegnati nel progetto scolastico di “Educazione alla legalità”. Nei giorni scorsi, a scuola, hanno incontrato due ex detenuti e altrettanti che stanno ancora scontando la pena in carcere anche se in regime di semilibertà. Lunedì seguiranno un processo penale nel Tribunale cittadino e in seguito si recheranno a visitare il carcere minorile di Treviso, dove sfideranno i coetanei in una partita a calcio, e il “Due Palazzi” di Padova. Sono gli studenti di alcune classi seconde, terze e quinte dell’istituto professionale Scotton impegnati nel progetto scolastico di “Educazione alla legalità”. Un intervento avviato negli anni scorsi per sensibilizzare i ragazzi sui temi della devianza e dell’illegalità, ma che allo stesso tempo punta a rafforzare in loro la consapevolezza delle azioni, l’importanza del rispetto delle regole e della legge. Ad accompagnarli in questo percorso educativo che si sviluppa durante l’anno scolastico sono tre docenti: Alessandra Bianchin, Mario Gasparotto, Eraldo Ravagnani cui si aggiunge Ottorino Bombieri, coordinatore di alcune delle classi coinvolte. Il progetto si articola in più fasi che prevedono incontri con le Forze dell’ordine, la partecipazione ad alcune udienze penali al Tribunale cittadino per seguire dal vivo l’applicazione delle norme. Nei giorni scorsi, gli studenti hanno invece sentito le testimonianze di quattro condannati per reati gravi invitati all’istituto assieme a Ornella Favero dell’associazione “Granello di senape” di Padova. Un incontro che ha contribuito a far riflettere i giovani sui comportamenti ad alto rischio come il consumo di sostanze stupefacenti. “Il messaggio che viene trasmesso ai ragazzi pone l’accento sull’importanza di rispettare le regole e di non agire con superficialità, perché ogni errore si paga”, ha osservato Bombieri. A breve, le scolaresche si recheranno negli istituti penitenziari di Treviso, dove sono reclusi i minori, e nel “Due Palazzi” di Padova. Nel primo caso, si confronteranno con gli educatori che seguono i giovani condannati contro cui scenderanno in campo per una partita di calcio. Nella città del Santo, invece, approfondiranno soprattutto il tema del reinserimento degli ex carcerati nel tessuto sociale. Infine, sono in calendario contatti con l’associazione “Vittime della strada”. Racconti di vita dietro le sbarre Una donna condannata per traffico di droga, un uomo che deve scontare 40 anni di carcere per una serie di gravi reati e ora in regime di semilibertà, un ex detenuto per omicidio, un extracomunitario in regime di semilibertà sono stati ospiti dell’istituto Scotton nell’ambito del progetto “Educazione alla legalità”. Ciascuno ha raccontato ai ragazzi la propria vicenda, ammettendo gli errori commessi. Dal canto loro, gli studenti hanno seguito con grande attenzione i passaggi, soprattutto quelli più drammatici, intervenendo con una sequenza di domande che hanno puntato l’attenzione sui racconti personali ma anche sulla situazione oggi delle carceri italiane e sulle problematiche legate al reinserimento sociale degli ex detenuti. Tolmezzo (Pn): “lezione” in carcere per una classe dell’Istituto superiore di Spilimbergo Messaggero Veneto, 6 febbraio 2011 Lezione speciale per i ragazzi dell’Istituto d’istruzione superiore di Spilimbergo che, accompagnati dall’insegnante di lettere Marco Pelosi, hanno fatto visita ai detenuti del carcere di Tolmezzo. Guidati dalla direttrice dell’istituto di pena, dottoressa Silvia Della Branca, gli studenti hanno avuto modo di visitare la struttura: una cella, la scuola e le aule dove vengono svolte le lezioni, la biblioteca, la palestra e la sala cinema. “Parlando con la direttrice e il commissario - sostengono i ragazzi - abbiamo capito che, nell’ordinamento italiano, la detenzione non ha principalmente uno scopo punitivo, ma dovrebbe “cambiare” la persona, affinché abbia la possibilità di riscattarsi nei confronti della società. È per questo che a Tolmezzo ci sono corsi di falegnameria e di informatica, percorsi scolastici per acquisire il diploma di scuola media, una serra florovivaistica: in questo modo, una volta scontata la pena, i detenuti potranno trovare un lavoro e dunque evitare di delinquere nuovamente”. “Ma quello che ci ha coinvolto maggiormente - raccontano - è stato il colloquio con un detenuto. Eravamo curiosi e gli abbiamo fatto molte domande, dalle più banali alle più personali”. “Questa chiacchierata mi ha toccato e colpito - dice Morris - perché ho capito che le persone, anche se hanno sbagliato e hanno procurato del male agli altri, possono cambiare e avere il diritto di rifarsi una vita e ricominciare da zero, dopo avere pagato con il carcere”. Aggiunge Martina: “Anch’io condivido questa opinione. E il bello è che prima non la pensavo così. Mi ha anche colpito il fatto che questa persona aveva un forte rimorso: il carcere può saldare il debito con la società, ma mai con la propria coscienza”. Conclude Vanessa: “Questa trasferta a Tolmezzo è stata utile perché ha cancellato dalle nostre menti lo stereotipo dei detenuti in tuta arancione dei film. Sono persone come tutti”. La direttrice ha anche voluto sottolineare che sono uomini finiti “dentro” per piccoli sbagli. “La visita in carcere - afferma allora Thomas - ci ha fatto capire che noi siamo fortunati: abbiamo la libertà, la cosa più preziosa di cui può disporre un ragazzo e una ragazza. Dobbiamo averne cura”. Teramo: detenuto tenta il suicidio due volte in un giorno, detenuta in overdose di farmaci Il Centro, 6 febbraio 2011 Tenta di impiccarsi per la seconda volta, a sole 24 ore dal primo tentativo di suicidio. È accaduto al carcere di Castrogno, dove l’altro ieri un detenuto napoletano di 45 anni ha tentato di nuovo di impiccarsi alle sbarre della sua cella, ma è stato salvato dagli agenti di polizia penitenziaria. Il copione è lo stesso del giorno prima, quando l’uomo ha fatto un cappio con il maglione e con questo avrebbe cercato di impiccarsi. Il soccorso immediato del medico di turno in carcere, che è anche rianimatore, gli ha salvato la vita: aveva le pupille già midriatiche, ma con opportune manovre e l’immediata somministrazione di medicinali ha ripreso coscienza. Sul posto è arrivata anche l’ambulanza del 118, il cui personale ha trovato il paziente in condizioni accettabili. E l’altro ieri è accaduto lo stesso, per fortuna il napoletano è stato salvato dagli agenti e dal medico di guardia in ospedale. L’altro ieri, peraltro, è stata una giornata particolarmente turbolenta a Castrogno. Infatti una donna ormai da tempo reclusa a Teramo, ma proveniente dal carcere romano di Rebibbia, è andata in overdose per un cocktail di farmaci. Il medico di turno in carcere le ha somministrato due fiale di Narcan, farmaco antagonista della droga, ma le sue condizioni non sono migliorate. Per questo, a bordo di un’ambulanza del 118, è stata portata in ospedale, dove è stata ricoverata. La paziente ieri pomeriggio è stata di messa ed è tornata in cella. “Sono episodi che ancora una volta sottolineano la grave carenza di personale”, spiega il segretario della Fns Cisl, Paolo Chiarini, “secondo la pianta organica del ministero dovremmo essere in 202 per garantire un minimo di sicurezza, in 250 per garantire la sicurezza massima. Noi siamo 178 a fronte di 430 e passa detenuti. Questo significa, ad esempio, che oggi (ieri per chi legge, ndr) c’erano due agenti per piano: per legge devono esserne tre. E ogni piano ospita cento detenuti. Controllarli tutti è difficilissimo, ma a prezzo di grandi sacrifici spesso riusciamo a salvare loro la vita. Ma la situazione del personale ha superato i livelli di guardia: abbiamo ferie arretrate persino del 2008”. Nuoro: mostra-mercato di San Valentino con gli oggetti realizzati dai detenuti La Nuova Sardegna, 6 febbraio 2011 Inaugurata mercoledì, resterà aperta sino al 18 febbraio la mostra-mercato San Valentino allestita presso la corniceria di Alessandro Vargiu in via Trieste 44 (di fronte alla Casa di riposo), che presenta opere realizzate dai detenuti del carcere di Badu ‘e Carros. È intitolata al patrono degli innamorati perché espone oggetti che possono essere regalati anche in occasione di questa festa: quadri, portafoto, cestini, libri farfalla. Si tratta di idee originali, realizzate completamente a mano dai detenuti che frequentano un laboratorio creativo tenuto dall’insegnante Pasquina Ledda per conto del Centro territoriale permanente. Con il ricavato delle vendite si vuole costituire un fondo per portare avanti altre iniziative culturali che vanno a completare le normali attività didattiche programmate nel corso dell’anno. “L’aula scolastica - dice Pasquina Ledda - diventa luogo e opportunità formativa, trasformata spesso in officina di idee, di riflessione e di revisione del vissuto di ciascuno, dove la lezione si centra sul dialogo, sulla fiducia e sul clima di classe attivo e partecipativo”. Le lezioni sono frontali o dialogate, ampio spazio è dato allo scambio di esperienze individuali e a conversazioni che possono stimolare un lessico appropriato. Il laboratorio creativo, che arricchisce la proposta formativa, rappresenta un percorso di ricostruzione di interessi, capacità, abilità, talenti. Non è solo un modo per trascorrere il tempo, è uno scoglio da superare. Ha l’obiettivo di sviluppare una crescita espressiva globale, migliorare le capacità relazionali, le abilità di lavoro cooperativo, sperimentare le opportunità offerte dal lavoro di gruppo, rafforzare la fiducia e l’autostima. La scuola, con il suo ventaglio di proposte, rappresenta per molti detenuti un contatto con la società dei liberi, la possibilità di arricchire le proprie conoscenze e il proprio mondo interiore, un momento di evasione da un’esistenza di solitudine e di sofferenza, ma anche un’occasione di crescita e di confronto. Palermo: la Provincia consegna giocattoli per i figli dei detenuti Il Velino, 6 febbraio 2011 L’assessore provinciale alle Politiche sociali, Domenico Porretta, ha consegnato ad una rappresentanza di circa 40 detenuti del carcere Ucciardone di Palermo oltre 300 fra giocattoli e videogiochi destinati ai figli degli stessi detenuti dell’istituto di pena. L’incontro è stato allietato dalla presenza dei clown dell’associazione Vivere in positivo. “Proseguendo una tradizione già avviata da anni - sottolinea l’assessore Porretta - la Provincia in maniera semplice ha voluto dare un segnale di vicinanza a coloro che guardano al recupero sociale per scontare gli errori commessi”. Televisione: vita in carcere e piano carceri, domani mattina fra i temi di “Brontolo” (Rai3) Ansa, 6 febbraio 2011 La vita in carcere e il piano carceri saranno fra i temi di Brontolo, il programma condotto da Oliviero Beha, lunedì su Rai 3 alle 10.00. Ospiti della puntata Franco Ionta, capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Rita Bernardini, deputata dei Radicali italiani nel Pd, e Ornella Favero, coordinatrice dell’associazione “Ristretti Orizzonti” Televisione: “Le mie prigioni”, domenica 13 febbraio un’inchiesta di “Presadiretta” (Rai3) Ansa, 6 febbraio 2011 Riccardo Iacona con Raffaella Pusceddu e Francesca Barzini è partito dal problema del sovraffollamento nelle carceri cercando una risposta a molte domande scomode: perché ci sono tanti suicidi tra i carcerati? Quasi la metà quelli in attesa di giudizio. Devono stare in carcere anche quelli non socialmente pericolosi? Si potrebbe evitare il sovraffollamento anche senza costruire decine di nuove carceri? Tossicodipendenti e malati mentali sono una vasta percentuale dei detenuti eppure secondo le leggi vigenti non dovrebbero essere reclusi. L’inchiesta di “Presadiretta” entra nel cuore e nel nodo dei problemi del nostro sistema penitenziario. Riccardo Iacona è andato a Poggioreale, il carcere di Napoli, che è simbolo dei molti mali che affliggono gli istituti penitenziari e dà la misura di quanto grave sia la situazione. I detenuti sono ammassati in celle anguste, condannati all’inattività per la totale mancanza di progetti di riabilitazione e rieducazione e sono condannati a guardare il soffitto gran parte della giornata. Tra gli altri ha incontrato Gaetano Di Vaio, un ex detenuto che ha realizzato un documentario che dimostra l’inferno dietro le sbarre. Nella puntata anche la ricostruzione delle storie di chi non ce l’ha fatta a sopportare e si è tolto la vita, lo scandalo dello spreco nel cosiddetto “piano carceri” che non risolverà mai il problema del sovraffollamento (la popolazione carceraria continua ad aumentare). “Presadiretta” mostra invece come i dettami della Costituzione siano stati presi alla lettera da chi lavora nel carcere di Bollate dove la pena è un percorso per ricostruirsi una nuova vita una volta fuori. Persino Angelino Alfano, il ministro della giustizia, ha affermato che: “Le carceri italiane sono fuori dalla costituzione”. L’articolo 27 della carta costituzionale infatti recita: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Cinema: Paolo Taviani presenta “Progetto Rebibbia”; costruiremo il film come docu-fiction Il Mattino, 6 febbraio 2011 Il loro nuovo film, ambientato tra i detenuti del carcere di Rebibbia, sarà un documentario narrativo col quale due maestri del cinema italiano come Paolo e Vittorio Taviani si ricollegheranno idealmente a quei lavori documentaristici (come “San Miniato luglio ‘44”) realizzati negli anni Cinquanta e, purtroppo, andati quasi tutti perduti nel corso dei decenni. Stavolta però, in ossequio alla predisposizione dei due fratelli per un cinema profondamente narrativo, la loro nuova regia, intitolata “Progetto Rebibbia”, miscelerà finzione e realtà. “Inizieremo a girare il mese prossimo - conferma Paolo Taviani - e costruiremo il film come una docu-fiction. Riprenderemo, infatti, i laboratori teatrali realizzati dentro Rebibbia dal regista Fabio Cavalli, autore di interessantissime versioni di classici shakespeariani interpretate dai detenuti. Seguiremo le loro prove e la messa in scena finale del “Giulio Cesare”, ma anche le vite dei detenuti nelle loro celle. Ci interrogheremo sul contrasto tra la libertà assoluta dell’attore e la costrizione di chi deve vivere recluso”. Di questo lavoro Paolo Taviani parla all’università Federico II nell’ambito della rassegna “Visioni e revisioni del Risorgimento nel cinema italiano (1905-2010)”, a cura degli storici Marcella Marmo e Massimo Cattaneo. Poco prima, il regista introduce la proiezione di “Allonsanfan” (1974), rispondendo alle sollecitazioni dello storico del cinema Vincenzo Esposito e di Luigi Mascilli Migliorini, soprattutto a proposito del rapporto tra passato e presente quando si realizzano film di argomento storico. “Io e Vittorio - racconta Paolo - abbiamo sempre rifiutato di fare i semplici “illustratori” e, così, ogni volta che ci siamo rifatti a un periodo storico o a un testo letterario lo abbiamo sempre utilizzato per parlare di noi stessi e del nostro presente. Proprio “Allonsanfan”, ambientato negli anni del primissimo Risorgimento e della Restaurazione, ci servì per dire la nostra sulla realtà italiana post-sessantottina e sulle inquietudini e speranze infrante presenti nella cultura di sinistra all’inizio degli anni Settanta. All’epoca, tra l’altro, restammo davvero scioccati dall’accoglienza controversa che il film ricevette in Italia, dove tanti giovani militanti, che di lì a poco però fecero la scelta della lotta armata, ci contestarono in maniera anche violenta al termine delle proiezioni”. L’impegno civile ha caratterizzato il cinema di Paolo e Vittorio Taviani fino ai giorni nostri. “E, da questo punto di vista, il documentario narrativo su Rebibbia - aggiunge il regista - rappresenta un ulteriore capitolo della nostra ricerca di libertà. Peccato, però, che oggi il cinema italiano abbia così pochi mezzi a disposizione, perché talenti interessanti in giro ce ne sono: basti pensare a Sorrentino e Garrone. Però qui lo Stato, a differenza di altre nazioni come la Francia, non investe sui giovani autori. Ma io, nonostante tutto, resto un anti-pessimista”. Libri: “Tell me your story 3”, la vita raccontata (e ritrovata) dentro una cella Alto Adige, 6 febbraio 2011 Raccogliere i cocci dell’individualità frantumata dal carcere e ricostruire storie degne di autobiografie. È questo il lavoro svolto dalla psicopedagogista Franca Berti, lo psicologo Claudio Fabbrici e lo scrittore Massimo Carlotto nella pubblicazione “Tell me your story 3” presentata ieri in un convegno nell’aula magna dell’Upad. In 64 pagine, il volume realizzato con la collaborazione del Fondo Sociale Europeo e distribuito dalla stessa Upad racconta la vita e i pensieri di chi vive dietro alle sbarre della casa circondariale di Bolzano. Affreschi di vite, in parte romanzati e in parte lasciati alla vivida testimonianza, anche lessicale, degli stessi detenuti. “Li abbiamo ascoltati e spinti a scrivere e a raccontare - dichiara Fabbrici nell’introduzione - di se stessi. Ci siamo messi in una singolare posizione clinica, che persa ogni memoria del divano, si è accomodata su sedie di fortuna e in setting ad alto ricambio con un ampio numero di variabili e di influenze”. Ci sono regole e quotidianità in carcere - le parole di Berti - “che determinano un’importante chiusura verso l’esterno e una complessiva perdita di individualità. Abbiamo cercato di trasmettere anche questo raccogliendo le loro storie”. Immigrazione; la procura di Roma boccia la Bossi-Fini; niente arresti per clandestinità L’Unità, 6 febbraio 2011 Non può essere arrestato il migrante irregolare che non ha ottemperato al decreto di espulsione. È l’indicazione data dalla procura di Roma a forze dell’ordine e magistrati. Recepita la direttiva Ue del dicembre 2008. I clandestini che non ottemperano ai decreto di espulsione entro cinque giorni non possono essere arrestati. L’indicazione data dalla Procura di Roma a forze dell’ordine e magistrati è molto chiara. E va in direzione contraria all’articolo 14 della legge Bossi-Fini. Disobbedienza? No, ottemperanza delle direttive europee. È la legge italiana, semmai, che deve adeguarsi. La direttiva Ue 115 del 16 dicembre 2008, infatti, prevede una serie di sanzioni amministrative per chi non ottempera al decreto di espulsione ma esclude l’arresto o le sanzioni penali. L’Italia si sarebbe dovuta adeguare, come tutti gli stati membri, entro il 24 dicembre 2010. Non l’ha fatto. È rimasta ferma alla Bossi-Fini. Ma la direttiva europea vale lo stesso. Per effetto di un pronunciamento della Corte di Giustizia europea, le direttive della Ue, infatti, hanno immediato valore applicativo anche quando sono in contrasto con le leggi nazionali. La procura di Roma, dunque, si è mossa per colmare un vuoto legislativo. In assenza di una normativa adeguata, ha scelto di disapplicare quanto stabilito dalla legge Bossi-Fini e di allinearsi invece al dettato della direttiva europea. Nei prossimi giorni il procuratore capo della Capitale, Giovanni Ferrara, invierà una circolare a tutti gli uffici giudiziari della Capitale e alle Forze dell’ordine, spiegando che l’arresto deve ritenersi illegittimo e si dovrà anche concludere per l’archiviazione degli atti perché, vista la norma. dell’Ue, il fatto non costituisce reato. Analoghe iniziative sono state prese dalle Procure di Firenze, Torino e Pinerolo. In pratica i magistrati applicando la direttiva europea escludono l’arresto per i clandestini e archiviano il procedimento che prevedeva una pena che andava da 1 a 5 anni di reclusione. Secondo la direttiva per gli stranieri clandestini devono essere previsti solo tre tipi di provvedimento: uà primo allontanamento volontario, successivamente il cosiddetto allontanamento coattivo e solo in ultima ipotesi il trattenimento presso i Centri di identificazione ed espulsione (Cie) per un tempo minimo di 180 giorni”. Egitto: rilasciati attivisti di Amnesty e Hrw e due giornalisti arrestati nei giorni scorsi Ansa, 6 febbraio 2011 Due attivisti di Amnesty International, il ricercatore di Human Rights Watch Daniel William e due giornalisti stranieri sono stati rilasciati ieri dalle autorità egiziane. Lo riferisce oggi Human Rights Watch (Hrw) in un comunicato, in cui sollecita l’immediato rilascio dei colleghi egiziani ancora in stato di arresto. I cinque erano stati arrestati il 3 febbraio insieme ad altri attivisti e avvocati: secondo Hrw, sono almeno 10 le persone ancora detenute. “Il governo egiziano non avrebbe mai dovuto arrestare gli attivisti per i diritti umani e i giornalisti - afferma Kenneth Roth, direttore esecutivo di Hrw, nella nota - gli egiziani ancora in stato di arresto hanno un ruolo vitale da svolgere a fronte della crisi egiziana e dei continui abusi dei diritti umani. Le autorità devono rilasciarli senza indugi”. Tunisia: nuove proteste a Sidi Bouzid dopo la morte di due detenuti nel carcere cittadino Adnkronos, 6 febbraio 2011 Nuove proteste a Sidi Bouzid, nel sud della Tunisia, in seguito alla morte di due persone in carcere. Lo riferisce l’agenzia Tap, spiegando che una folla di persone ha attaccato il commissariato locale. Il ministro dell’Interno, Farhat Rajhi, ha riferito che è stata avviata un’inchiesta sulla morte dei due uomini, arrestati per ubriachezza e disturbo della quiete pubblica. A Sidi Bouzid si era dato fuoco il 17 dicembre scorso il 26enne Mohammed Bouazizi, esasperato dalle sue condizioni economiche e dai maltrattamenti subiti dalla polizia. Il suo gesto aveva scatenato la protesta nazionale che ha portato alla caduta del regime del presidente Zine El Abidine Ben Ali. Cuba: liberato dopo 7 anni di carcere prigioniero politico condannato a 20 anni Ansa, 6 febbraio 2011 Cuba ha ripreso il processo di liberazione dei prigionieri politici, interrotto lo scorso novembre, rimettendo in libertà Guido Sigler, che ha rifiutato l’esilio in Spagna. “ È molto pallido, ma è su di morale e ora è con i suoi parenti e con i suoi compagni di lotta”, ha detto alla France presse il dissidente Oscar Sanchez. Economista di 57 anni, Sigler era stato condannato a 20 anni di prigione nel 2003. La Chiesa cattolica, che tratta con il governo per la liberazione dei detenuti politici, aveva annunciato come “prossima” la sua liberazione, insieme a quella di Angel Moya, un muratore di 46 anni condannato alla stessa pena. Sigler dovrebbe partire per gli Stati Uniti e raggiungere i fratelli Ariel, liberato nel giugno 2010, e Miguel, rilasciato nel 2005 per ragioni di salute, mentre Moya ha espresso il desiderio di rimanere a Cuba, stando a quanto precisato dall’arcivescovado dell’Avana in un comunicato. I due oppositori fanno parte del gruppo di 52 militanti, ritenuti dei prigionieri politici da Amnesty International, che il presidente cubano Raul Castro si è impegnato a liberare. Di questi 52, ne sono stati liberati finora 42: sono tutti andati in esilio in Spagna, eccetto uno che ha preferito rimanere a Cuba. Olanda: su Wikileaks documento che racconta la vita di Milosevic in carcere Agi, 6 febbraio 2011 Un cablogramma diplomatico statunitense, svelato oggi dal sito Wikileaks, ha fornito uno spaccato unico sulla vita dell’ex presidente serbo, Slobodan Milosevic, nella prigione del Tribunale penale internazionale (Tpi) dell’Aia in cui è morto. Il documento descrive Milosevic come un appassionato lettore di thriller giudiziari di qualità mediocre, un ascoltatore delle canzoni di Frank Sinatra e un detenuto che non mancava di godere della sua ora d’aria nel cortile della prigione. L’Ambasciata statunitense all’Aia ha inviato al Dipartimento di stato Usa la sua informativa nel novembre 2003, quando il processo a Milosevic entrava nel suo secondo anno. L’autore del documento aveva avuto un colloquio col capo dell’unità di detenzione del Tpi Tim McFadden. Quest’ultimo era in contatto quotidiano con Milosevic e aveva accesso al contenuto delle sue conversazioni con la sua famiglia e i suoi amici, oltre che al dossier medico dell’ex presidente serbo. Nei colloqui con i rappresentanti dell’ambasciata, McFadden ha spiegato che Milosevic chiamava ogni giorno la moglie, Mira Markovic, e descriveva la loro relazione come “straordinaria”. Markovic è descritta come una donna dalla personalità fortissima. “Milosevic poteva manipolare tutta una nazione, ma finiva a mal partito quando deve gestire sua moglie che, al contrario, sembrava esercitare una forte ingfluenza su di lui”. Milosevic aveva problemi cardiaci e d’ipertensione, problemi che l’hanno angustiato durante tutto il corso del processo in cui doveva rispondere per genocidia e crimini di guerra relativi ai conflitti balcanici degli anni 90. Si trattava di sintomi “seri e difficilmente controllabili con i farmaci”. McFadden, inoltre, descrive Milosevic come un “narcistista” che si credeva “circondato da matti” nel tribunale. Eppure era convinto di controllare l’andamento del processo. “Ha una grande fiducia nelle proprie capacità e pensa che riuscirà a vincere di fronte al tribunale, un atteggiamento che rafforza il suo stato di salute stabile attuale”. Tuttavia, nel documento, c’è la previsione che le sue condizioni cliniche sarebbero peggiorate. Previsione che s’è avverata tre anni dopo, quando - il 14 marzo 2006 - l’ex presidente è morto.