Giustizia: Maisto; le carceri non sono luogo per tossico-alcol dipendenti Dire, 4 febbraio 2011 Accelerare la concessione delle misure alternative per i detenuti tossico-alcol dipendenti in carcere, il cui numero è in crescita. “Il carcere non è un luogo per tossico-alcol dipendenti - chiarisce Francesco Maisto, presidente del Tribunale di sorveglianza di Bologna - ecco perché è necessario accelerare l’adozione di misure alternativa che consenta loro di uscire al più presto e in maggiore quantità”. Secondo i dati del ministero della Giustizia a livello nazionale i detenuti con problemi di dipendenze sono il 30% del totale. Il Dipartimento nazionale antidroga si ferma invece al 5 - 7%. “Si tratta di dati imprecisi - spiega Mila Ferri, responsabile del servizio di Salute mentale, dipendenze patologiche e salute nelle carceri della Regione Emilia - Romagna - per stessa ammissione del ministero, e non raccolti su base sanitaria: in regione non ci discostiamo molto da quella percentuale, ma non abbiamo dati certi”. La stima non è facile: i piccoli spacciatori non vengono considerati tossicodipendenti, mentre spesso oltre a “vendere” sono loro stessi consumatori. Entro l’anno si potranno avere dati più precisi grazie a un sistema di raccolta all’interno del carcere, messo a punto in un gruppo di lavoro Regioni - ministero. Accelerare l’adozione di misure alternative è l’obiettivo del Protocollo di intesa firmato tra gli Uffici per l’esecuzione penale esterna e le Aziende sanitarie della Regione. L’accordo mette in rete esperienze diverse, proponendo un approccio sinergico alla persona. “Non si tratta di un provvedimento svuota - carceri - chiarisce Maisto - ma di un modo perché i tossico - alcol dipendenti, a determinate condizioni, possano uscire più presto e in maggiore quantità dal carcere”. I passaggi comuni dovrebbero “garantire” il risultato. Si tratta di un primo passo per affrontare l’emergenza, anche se non svuoterà le carceri perché “non riguarderà la maggior parte dei tossico - alcol dipendenti - afferma Ferri - bisogna, infatti, tener conto del gran numero di persone con dipendenze che si trovano in istituti penitenziari in via provvisoria perché in attesa di giudizio e rispetto alle quali non si applicano le misure alternative”. Un linguaggio comune però faciliterà il lavoro degli enti che entrano nel percorso di cura, riabilitazione ed esecuzione della pena di una persona tossico - alcol dipendente. “Il protocollo può avere ricadute positive anche sul lavoro del tribunale - precisa Nello Cesari, provveditore regionale amministrazione penitenziaria - Se esiste una rete di assistenza su cui contare, il giudice sarà più portato a prevedere una misura alternativa per una persona con doppia diagnosi, esecuzione e dipendenza”. Vi è però la necessità di uniformare le procedure per fare in modo che in tutte le province si usino linguaggi comuni. Uno dei problemi lamentati, ad esempio, dal Tribunale di sorveglianza è la genericità delle certificazioni della dipendenza fatta dal Sert. “A volte non si distingue nemmeno tra sostanze usate - precisa Maisto - mentre un’omogeneità nella certificazione delle dipendenze può facilitare il nostro lavoro”. Le esecuzioni penali esterne in misura alternativa ai sensi dell’articolo 94 della legge 309/1990 sono in aumento. Secondo i dati del Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria, alla fine del 2010 erano quasi 200. Si è passati da 385 persone che hanno usufruito delle misure alternative nel 2000 alle 456 nel 2005. Il numero è poi drasticamente calato nel 2006 (71) per risalire gradualmente: 97 nel 2007, 129 nel 2008, 192 nel 2009 e 192 al 31 dicembre 2010 (ma erano 222 al 30 giugno 2010). “Il sovraffollamento e l’aumento dell’edilizia penitenziaria causa un livellamento verso il basso delle esperienze fatte ad esempio nelle custodie attenuate - conclude Maisto - quando la misura è colma non si possono far funzionare nemmeno i meccanismi ordinari”. Giustizia: al volante l’omicidio è volontario, così la condanna facilita il risarcimento danni di Luigi Isolabella Il Sole 24 Ore, 4 febbraio 2011 “Non è più un tabù. Riconoscere l’omicidio volontario al volante è ormai un fatto. Lo ha affermato la Cassazione nei giorni scorsi affrontando il caso di Ignatiuc Vasile, cittadino extracomunitario che a Roma, nel 2008, per fuggire dalla polizia che lo aveva fermato, a bordo di un furgoncino rubato è passato con il rosso, aveva investito un’auto e provocato la morte di un ragazzo di 20 anni. All’esito dell’udienza la Suprema corte ha rinviato il processo alla corte d’assise di appello di Roma affinché valuti l’omicidio come volontario e non come colposo. Non si conoscono ancora le motivazioni - arriveranno nei prossimi giorni, ma di sicuro, per sciogliere il nodo, la Cassazione si è mossa sul delicato confine tra colpa e dolo. L’apparente antitesi - la “colpa” poggia sull’assenza di volontà in una condotta caratterizzata da imprudenza, negligenza e imperizia, mentre il “dolo” radica nella volontarietà caratterizzata dalla previsione e dal volere l’evento - è stemperata dalle figure giuridiche della “colpa cosciente” e del “dolo eventuale”. Nella colpa cosciente il realizzarsi dell’evento, pur previsto, non è accettato come possibile conseguenza della propria azione. Il dolo eventuale, invece, fonda proprio sull’accettazione del rischio che l’evento previsto si possa realizzare. L’accettazione del rischio della realizzazione dell’evento equivale, dunque, a volerlo. Anche quello dell’infortunistica stradale, quindi, diventa il campo di reati volontari. Si tratta di capire quando l’incidente è stato “accettato” quale conseguenza della propria condotta. Nel caso Vasile, la volontarietà è stata ricavata oltre che dall’attraversamento dell’incrocio con il semaforo rosso a tutta velocità, “dal fatto che la ragione di quella condotta fosse l’esigenza di fuggire”. Questo quanto afferma Adelmo Manna, professore di diritto penale all’università di Foggia, difensore di parte civile della famiglia della vittima. Peraltro, Manna sottolinea come la diversa qualificazione giuridica dell’omicidio, da colposo a volontario, abbia conseguenze anche in termini di risarcimento dei danni. La condanna con la formula più grave, infatti, conduce a risarcimenti maggiori, anche attraverso il Fondo di garanzia per le vittime della strada. L’attraversamento con il rosso con un mezzo pesante può essere interpretato come la prova del fatto che il guidatore volesse sopra ogni cosa fuggire. La dimostrazione del contrario potrebbe essere data dalla prova di un attraversamento compiuto ad alta velocità e con il rosso, nella convinzione che la strada fosse Ubera. Il dolo eventuale radica, infatti, nell’accettazione di un rischio concreto, non astratto. Guardando a casi analoghi, il Gup di Roma nel 2008 ha chiarito l’essenzialità della concretezza del rischio accettato, evidenziando che le manovre di frenata e sterzata possono testimoniare una “contro volontà” che conduce verso condotte non volontarie: nel caso del guidatore che, pur consapevole della pericolosità, confidi nella propria abilità, non può essere attribuito l’incidente alla sua volontà. La casistica è stata caratterizzata, fino a poco tempo fa, dal dominio incontrastato della mancanza di volontarietà e da un trattamento sanzionatorio piuttosto blando (fatta eccezione per gli incidenti in stato di ebbrezza o sotto l’influenza di sostanze stupefacenti). Negli ultimi anni, tuttavia, si è registrato un ingresso del dolo attraverso alcune sentenze di merito, particolarmente innovative. Già il tribunale di Milano, nell’aprile 2004, era giunto alla conclusione che non fossero incompatibili omicidio volontario e incidente stradale. Nel caso affrontato dai giudici milanesi, un giovane, anche questo intento a sfuggire alle forze dell’ordine, si introduceva in tangenziale in contromano, finendo la sua fuga in uno scontro frontale: “l’imputato - affermarono i giudici - era perfettamente consapevole che rallentare o fermarsi avrebbe significato essere arrestato per il furto della macchina, ma egli voleva fuggire a tutti i costi, anche a quello di creare un gravissimo rischio per gli automobilisti”. Nello stesso senso si può ricordare anche il tribunale di Roma (16 novembre 2007) che, in un altro caso di fuga contromano, ha considerato doloso il comportamento di chi abbia dimostrato “di essere disposto a tutto pur di sottrarsi alla cattura”. Dare rilevanza penale allo scopo di fuggire quale indice dell’accettazione del rischio è un orientamento che ha diverse conferme dai giudici di merito e che, oggi, trova consacrazione in Cassazione. Giustizia: sulla “pirateria stradale” dati sempre più allarmanti La Repubblica, 4 febbraio 2011 La pirateria stradale passata al setaccio dall’Osservatorio il Centauro-Asaps. L’organismo dell’Associazione Sostenitori Amici Polizia Stradale ha rilevato nel 2010 un netto aumento rispetto all’anno precedente con 585 episodi che hanno causato 98 decessi e il ferimento di 746 persone (nel 2009 ci furono 91 morti e 592 feriti). Da segnalare che i dati riportati dall’osservatorio sono relativi solo gli atti di pirateria più gravi, citati dai mezzi di comunicazione o segnalati dai 700 referenti sul territorio e selezionati sulla base di precisi standard di riferimento. Lo studio evidenzia come nel 74,53% dei casi si riesca a risalire agli autori del misfatto (il 75,5% nel 2009), mentre il 25,47% riesce a farla franca. Secondo l’Asaps: “Dal 2008 sono quasi 300 i morti causati da questi vigliacchi della strada. Un dato che dà la cifra della costanza e pericolosità del fenomeno pirateria. Continuano a migliorare le tecniche investigative delle Polizie Locali e dello Stato, ma crescono anche la sensibilità e la capacità degli inquirenti, che non tralasciano più alcun particolare. In effetti, su 585 inchieste, 436 hanno condotto all’identificazione del responsabile, arrestato in 178 occasioni (40,83% delle individuazioni) e denunciato a piede libero in altre 258 (59,17%). Su tutti questi eventi continua a pesare, come un macigno, l’ombra dell’alcol e delle droghe: in 117 casi (26,83%) ne è stata accertata la presenza, ma è un dato che deve essere accolto con eccessivo difetto per essere considerato attendibile. Bisogna intanto considerare che la positività dei test condotti è riferibile solo agli episodi di fuga e omissione di soccorso nei quali il responsabile sia stato identificato, dunque 436 su 585. Spesso quando le forze di polizia identificano l’autore non ha più senso sottoporre il sospetto a controllo alcolemico o narcotest, perché sono trascorse ore o giorni dall’evento. Si deve ritenere che sul totale degli eventi alcol e droga pesino in realtà per almeno il 40/50% dei casi”. L’analisi dell’Osservatorio il Centauro-Asaps non si limita al semplice censimento dei sinistri ma scandaglia in profondità i vari aspetti tenendo conto anche della presenza di pirati stranieri, definiti per questo “attivi”: “Il 24,08% dei pirati identificati è risultato essere forestiero. Stiamo parlando di 105 conducenti su 436. Un elemento che conferma altre nostre precedenti analisi sulla sinistrosità, riferite alla presenza di stranieri, anche in qualità di vittime, sul fenomeno. Per l’appunto, i cittadini stranieri vittime di pirati sono 67, il 7,94% del totale di morti e feriti”. Il report poi focalizza l’attenzione sulle vittime degli atti di pirateria stradale: “Ancora una volta sono le categorie deboli della strada, in modo particolare bambini e anziani, a pagare un prezzo altissimo in termini di mortalità e lesività: 116 sono i minori coinvolti, 89 gli anziani, rispettivamente il 13,74% ed il 10.55%. Tra i minori, quelli di età inferiore ai 14 anni, cioè i bambini, rimasti vittima di questo atto di codardia stradale sono stati in tutto 47, 3 dei quali rimasti uccisi (3,06% dei morti) e 41 feriti (5,49% dei feriti). I pedoni sono ancora la categoria più tartassata, con 216 eventi: 50 morti, pari al 51,027% dei decessi complessivi, e 200 feriti (26,80% sul totale dei feriti). Infine i ciclisti: 61 gli episodi, con 13 lenzuola bianche (13,26%) e 58 ricoveri (7,77%)”. Nella triste classifica regionale per numero di episodi è in testa la Lombardia, con 86 sinistri (14,70%), al secondo il Lazio con 72 (12,31%), e poi Emilia Romagna con 67 casi (11,45%), Sicilia con 48 e Toscana con 47 (8,21% e 8,03%), mentre due soli casi si registrano in Basilicata (0,34%) e nessuno in Valle d’Aosta. Infine lo studio si conclude con il profilo dell’investitore fuggiasco: “L’identikit del pirata? Nella maggior parte dei casi si tratta ancora di uomini di età compresa tra i 18 ed i 44 anni (solo 43 le piratesse, pari al 5,09%), spesso sotto l’effetto di sostanze alcoliche o stupefacenti e per questo decide di fuggire, sottraendosi alle proprie responsabilità. Hanno rilievo consistente il timore di perdere i punti della patente e lo stesso documento di guida. In netta e preoccupante crescita i casi di veicoli con assicurazioni scadute o addirittura false, un fenomeno che sta incrementando un altro effetto deteriore e pericoloso: le fughe all’alt della polizia, il cui dato in forte espansione è difficile da quantificare. Le pene per l’omissione di soccorso, peraltro, sono deboli: da tre mesi a tre anni. Solo in caso incidente mortale con fuga si rischia oggi di rimanere per un certo periodo in cella. Questo reato, per l’impatto che ha sull’opinione pubblica, dovrebbe vedere processi veloci e condanne certe. Non siamo in grado di fornire l’elenco dei pirati che stanno scontando pene nelle carceri italiane, ma crediamo che la lista sarebbe brevissima”. Giustizia: secondo avvocati Provenzano è gravemente malato, va curato in centro esterno Gazzetta del Sud, 4 febbraio 2011 A un anno dalla prima richiesta, fatta dal suo legale, l’avvocato Rosalba Di Gregorio, il capomafia Bernardo Provenzano, 78 anni, detenuto nel supercarcere di Novara, è stato visitato da tre medici incaricati dai giudici di accertarne lo stato di salute. E il quadro che viene fuori dalla relazione dei periti - sollecitata dal boss che ha chiesto di poter uscire dal carcere - è grave. La recidiva di un tumore alla prostata, per cui nel 2003, da latitante, il capomafia fu operato a Marsiglia, impone un trattamento specifico stabilito da un oncologo e “la destinazione del paziente presso sede idonea a garantire il rispetto di un programma terapeutico richiedente prestazioni esterne alla casa di custodia, non solo quindi trattamento esauribile in sede carceraria”. Questo scrivono Francesco Maria Avato, Giuseppe Micieli e Francesco Montorsi, i periti nominati dalla corte d’appello di Palermo che processa Provenzano per una tentata estorsione. Nella consulenza si parla di “una prognosi non particolarmente favorevole a breve - medio termine (2 o 3 anni)”. La corposa perizia chiesta dal legale, che, come prevede la legge, per ottenere gli accertamenti ha dovuto fare istanza di scarcerazione del padrino di Corleone, è stata depositata agli atti del processo. I tre medici hanno esaminato lo stato clinico di salute del detenuto riscontrando una forma di parkinson, “ampiamente trattabile anche in ambiente di restrizione di libertà personale” e la presenza di un nuovo tumore. A questo proposito i periti hanno chiesto “l’esecuzione urgente di una scintigrafia ossea” e la valutazione da parte di uno specialista in oncologia. L’oncologo che esaminerà il caso sarà Oscar Alabiso, primario di Oncologia a Novara. Per ottenere che qualcuno visitasse il suo cliente, il legale ha atteso oltre un anno. La prima richiesta di perizia, infatti, l’avvocato l’ha fatta a giugno 2009. Allora il tribunale - il processo pendeva in primo grado - delegò al carcere di Novara gli accertamenti. Nell’istituto di pena diagnosticarono al paziente alcune patologie, tra le quali una malattia cardiaca, che indusse i giudici a chiedere al Dap di individuare un carcere con un centro clinico annesso per un eventuale trasferimento. Ma dall’amministrazione penitenziaria fu risposto che la struttura medica di Novara era adeguata. A marzo scorso il legale ha reiterato la richiesta di perizia alla corte, nel frattempo diventata competente perché il processo era arrivato al secondo grado. A luglio i tre periti hanno giurato e avviato gli accertamenti medici che hanno indotto gli esperti a sollecitare un nuovo parere, questa volta oncologico. Giustizia: Luigi Li Gotti (Idv); Provenzano si curi nel circuito carcerario Ansa, 4 febbraio 2011 “Il nostro sistema carcerario, per quanto deficitario, è dotato di centri clinici per assicurare le cure ai detenuti infermi. La richiesta di sospensione della esecuzione della condanna che sarebbe stata fatta da Provenzano, dovrà essere valutata considerando la malattia e la possibilità di cura all’interno del circuito carcerario”. Per il capogruppo dell’Italia dei Valori in commissione Giustizia al Senato, Luigi Li Gotti, “dovrà esserci il massimo rigore nella valutazione anche al fine di fugare il sospetto che possa trattarsi di un segmento della trattativa, ossia di una cambiale da onorare”. Lettere: dubbi di diritto; l’uomo condannato per aver ucciso vent’anni fa è lo stesso uomo? di Gianni Biondillo Sette, 4 febbraio 2011 Se mi ammazzassero una figlia cercherei, ferino, la morte del suo omicida. È per questo che provo sollievo sapendo che esiste il Diritto, che non si pone al di sopra ma al di fuori dei nostri istinti, alla ricerca di un equilibrio nella condanna. Le leggi sono, con Beccaria, “l’espressione della pubblica volontà”, il patto di convivenza di un popolo che diversamente imploderebbe. Non mi interessano le tifoserie che, con la nuova sentenza, si schiereranno fra innocentisti e colpevolisti. È vent’anni che si conserva in una bolla mediatica la morte di una povera ragazza. Io non so nulla, non sono un giudice. So però che la nostra giustizia perennemente in ritardo scompagina la vita di tutti noi. Anche per questo mi chiedo, senza darmi risposta: l’uomo che arresteremo è la stessa persona che uccise Simonetta Cesaroni, due decenni addietro? Un certo giustizialismo protestante alla Cold Case questo dubbio non se lo pone. Per cultura gli americani sono veterotestamentari, la loro giustizia è retributiva: occhio per occhio. Hai sbagliato, paghi. Ma cosa? E come? Di fronte al reiterarsi del reato la legge arresta il criminale per difendere il corpo sociale. A cos’altro serve il carcere? In teoria per rieducare e reinserire. Eppure due terzi dei nostri detenuti hanno precedenti. Non c’è recupero, chi frequenta le patrie galere peggiora come uomo e come cittadino, si allontana dall’alveo civile. Certo c’è la deterrenza, perdere la libertà per aver commesso un omicidio può avere effetto dissuasivo. Ma, lo dico timoroso, forse dovremmo ammettere che incarceriamo anche per punire. Punire senza scopo. Vendicarci. Il reato crea una frattura insanabile, nessuno mi restituirà mai l’affetto che ho perduto, di certo la detenzione non è in grado di ricomporla. Non sto parlando di perdono, che forse qualcuno potrà dare ma che nessuno ha il diritto di chiedere. Tutte le vittime, in quanto tali, si assomigliano, ma tutti i criminali sono diversi. Non so come Raniero Busco possa risarcire non solo i parenti di Simonetta ma la società stessa. So però che i suoi figli sono incolpevoli vittime di un crimine compiuto da un ragazzo che non è il padre che conoscono. Tutta la filosofia del Diritto si dibatte da sempre su ciò, io non ho soluzioni prèt-à-porter. Ma oltre a una pena certa dovremmo forse volere una pena giusta, efficace, chiedendoci quale sia il “senso” profondo e civile di ciò che chiamiamo pena. Lettere: anni 70, pensieri galeotti e giustizialismo di Sandro Padula Gli Altri, 4 febbraio 2011 Nell’Italia degli anni 70 “il grande riformismo aveva due gambe: il Pci e le Br”. Così ha scritto in un articolo pubblicato su Gli Altri del 21 gennaio il direttore Piero Sansonetti. Non è la prima volta che sento un’affermazione di questo tipo. Nel 1985 ad esempio, nel carcere speciale di Novara, ascoltai qualcosa di simile dalla voce del primo prigioniero politico della lotta armata di quel periodo storico: Mario Rossi, arrestato il 26 marzo 1971 e condannato all’ergastolo per l’omicidio, non volontario, di un commesso che aveva opposto resistenza durante una rapina compiuta dal gruppo denominato 22 Ottobre. La sua cella, prima che gli fosse data la possibilità di usufruire di un apposito locale, era un laboratorio per costruire piccoli e grandi animali di carta pesta. Lì sentivi l’odore della colla riempirti i polmoni ma quando Mario si metteva a cucinare non ci pensavi più. Cenando e discutendo con lui, mentre un vecchio mangianastri sparava canzoni guevariste, ti sentivi libero. Le sue idee erano sostanzialmente identiche a quelle di Giangiacomo Feltrinelli, una persona di cui oggi la gente conosce solo l’omonima casa editrice e le relative librerie. Pensava che negli anni ‘70 la lotta armata avrebbe dovuto non solo aderire alla parola d’ordine del Che di “creare due, tre, molti Vietnam” (1967), ma anche, nella specifica realtà italiana, essere un cosciente supporto e indirizzo per tutta la sinistra e i movimenti di lotta antioppressivi del proletariato metropolitano. D’altra parte, essendo recluso, Mario Rossi non aveva vissuto direttamente il dramma che colpì la sinistra italiana dopo il golpe militare di Pinochet in Cile (11 settembre 1973) e per tutto il periodo, durato fino al 1979, in cui il Pci mantenne la strategia del “compromesso storico”, cioè un progetto politico per abbandonare ogni ipotesi di alternativa di sinistra al regime democristiano. Non aveva conosciuto in prima persona il tentativo di repressione organizzato da Lama, segretario della Cgil, rispetto al movimento del 1977. Non sapeva sulla propria pelle che i dirigenti del Pci, sia a livello nazionale che locale, specie durante i governi democristiani di “solidarietà nazionale” e la massima infiltrazione della P2 negli organi dello Stato e nei mass - media, crearono delle strutture segrete per schedare e controllare ogni possibile area dei sovversivi di sinistra. In quel periodo, al di là delle eventuali speranze di qualche prigioniero politico, non era possibile una sorta di compromesso fra Pci da un lato e movimento rivoluzionario di cui facevano parte le Br dall’altro. Alle Br e alle altre organizzazioni comuniste rivoluzionarie interessava comunque dialogare con la base elettorale e proletaria del Pci, specie nelle grandi fabbriche del nord Italia, e anche per questo motivo ebbero migliaia di militanti. A questo punto però, a differenza di quanto ritiene in buona fede Sansonetti, occorre precisare che il Pci e organizzazioni come le Br non erano propriamente organizzazioni “staliniste”. Avevano delle caratteristiche molto diverse nei confronti dei partiti della Terza Internazionale. Fu piuttosto il Psi di Craxi ad avere una logica cesaristica vagamente paragonabile a quella dei partiti stalinisti della Terza Internazionale. Non a caso, favoriva una netta separazione al proprio interno fra capi teorici e politici da un lato e militanti dall’altro, ma neppure Craxi può essere definito uno stalinista. Nelle vicende italiane degli anni ‘70 lo stalinismo non c’entra nulla. Il berlinguerismo e il brigatismo rosso, in particolare, non c’entrano nulla neppure con l’Urss del mummificato capo di stato Breznev (1964 - 1982), un paese che in Europa puntava alla “coesistenza pacifica” con Washington, cioè alla sostanziale conservazione delle rispettive sfere d’influenza, e non voleva assolutamente che la sinistra italiana in genere crescesse al punto di mettere in difficoltà gli equilibri internazionali. Il berlinguerismo dalla fine del 1973 al 1979, volendo essere precisi, fu qualcosa di originale: una tattica di stampo nazional-popolare-togliattiano, incardinata nella concezione lasalliana - cioè statalista - del socialismo e trasformata in una strategia di “compromesso storico” (con la Dc) e di “lunga marcia nelle istituzioni” che, per altro, aveva un taglio europeista e dialogante verso il mondo arabo. Il brigatismo rosso dal 1970 al 1982, inteso in senso stretto, cioè come il fenomeno specifico delle Br di quel particolare periodo storico, fu invece una tattica di stampo internazional-guevarista che, a differenza della rivoluzione portoghese del 25 aprile 1974 realizzata mediante un colpo di Stato, attuò una strategia metropolitana di “lotta armata di lunga durata”, una strategia contraddistinta da una lunga marcia nei rapporti sociali per condurre l’attacco al “cuore dello Stato”, cioè al “cuore” del regime della Prima Repubblica, nella vana speranza di creare le condizioni soggettive di una insurrezione generale per “staccare l’anello Italia dalla Nato”, far dettare stabilmente le leggi al proletariato e - al contrario della linea democristiana - favorire l’autonomia dell’Europa Occidentale rispetto agli Usa. Le cose però non andarono nel verso di chi elaborò e condusse quelle due ben diverse strategie politiche. O almeno, non andarono subito e del tutto nelle principali direzioni auspicate. Il regime della Prima Repubblica, morto in realtà assieme ad Aldo Moro, il suo abile stratega che riusciva a tenere politicamente unita la Dc e la classe dominante, fu prolungato in maniera formale fino a qualche anno dopo il crollo del Muro di Berlino (1989). Quel regime non ebbe una lunga agonia a causa del brigatismo rosso o del berlinguerismo degli anni 70 ma visse fino a quando rimase in qualche modo utile alla strategia geopolitica degli Usa. Era un sistema politico tanto bloccato preventivamente rispetto ad un eventuale governo di sinistra quanto difeso da una miriade di forze, compresi “gladiatori”, faccendieri e mercenari, in nome della subalternità rispetto all’impero egemonizzato dagli Usa. Durante la Prima Repubblica, ad esempio, le forze militari Usa presenti in Italia - specie nel Veneto - avevano riciclato e usato molti ex fascisti e sedicenti neofascisti in funzione di controrivoluzione preventiva e di stragismo soprattutto per contrastare, impaurire e logorare il Pci e poi, fra il 1978 e il 1982, anche per manipolare l’opinione pubblica, denigrare la guerriglia, favorire il populismo penale, far nascere delle leggi speciali di repressione e distruggere le organizzazioni come le Br (vedasi: http://www.strano.net/stragi/tstragi/salvini/index.html). Nonostante ciò, negli anni ‘70, e in particolare fra il 1978 e il 1979, proprio nel periodo di massimo peso politico del Pci e di maggiore sviluppo del brigatismo rosso, si ebbero le riforme anti oppressive elencate da Sansonetti nel suo articolo: la migliore riforma sanitaria del mondo, la riforma psichiatrica, l’equo canone, la riforma dei patti agrari e la legge sull’aborto. Ad esse, come ricorda lo stesso direttore del settimanale Gli Altri, va aggiunta almeno una conquista avvenuta un paio di anni prima: il “punto unico di contingenza”, la più egualitaria misura determinatasi in Occidente per contrastare gli effetti dell’inflazione sui redditi. Il merito di tali riforme fu quindi soprattutto del Pci e del movimento rivoluzionario di cui facevano parte le Br. Su questo non ci sono molti dubbi sul piano della verità storica anche se è doveroso non sottovalutare nemmeno per un attimo sia il contributo dell’intera sinistra (compresa l’area di Benigno Zaccagnini, il segretario nazionale della Dc in quel delicato e drammatico periodo) che il decisivo fattore costituito dall’esistenza di vasti movimenti di lotta del proletariato metropolitano, di molteplici culture critiche verso lo stato di cose esistente, di migliaia di organismi dal basso sui temi dei diritti collettivi e individuali e di una forte ondata di lotte anti sistemiche su scala globale dalla fine degli anni ‘60 alla rivoluzione sandinista del 1979. Inoltre, sempre secondo Sansonetti, “la storia ci dice che al crescere della spinta brigatista corrispose uno spostamento a sinistra di tutta la società politica, in particolare del Pci ma anche della Democrazia cristiana”. Lui non intende giustificare gli omicidi compiuti dalla lotta armata. Vuole contribuire a produrre un bilancio sull’Italia degli anni ‘70. Intende la memoria storica come base della progettualità politica. Poi però conclude il suo articolo in maniera del tutto pessimista: “vedo intorno a me solo brandelli di sinistra e tutti marchiati dal giustizialismo. E sono convinto che, in Italia, il giustizialismo sia il figlio naturale del vecchio stalinismo”. No, su quest’ultimo punto, anche se tutti capiamo il senso garantista e libertario del suo discorso, Sansonetti non è preciso! L’odierno giustizialismo in Italia, diffuso sia a destra che a sinistra, è il prodotto multiforme, mega - Leviatano, schizofrenico e interconflittuale di svariati fattori oggettivi e soggettivi: una scarsa memoria dei colossali crimini della controrivoluzione preventiva della Prima Repubblica e degli Usa di quel tempo, una trentennale divisione e subcultura politica della classe dominante, l’infausta delega alla magistratura per affrontare i problemi emergenti ed infine, ma non certo dal punto di vista dell’importanza, la sovranità nazionale ancora limitata del nostro paese. Per spazzarlo via non sarà facile. Abbiamo comunque il dovere di muoverci in questa direzione e, al tempo stesso, di lottare per un mondo multipolare e meno diseguale fra le proprie aree: creare due, tre, molti Brasile e senza l’ergastolo! Lettere: Franca Salerno, una vita per la critica alle istituzioni totalizzanti come il carcere di Sandro Padula Ristretti Orizzonti, 4 febbraio 2011 Dopo il dolore per la scomparsa del giovane militante del centro sociale romano Acrobax Antonio Salerno Piccinino, avvenuta nel 2006 in un incidente stradale mentre lui stava lavorando, anche adesso rimango senza parole. Nella Città Eterna, a causa di una grave malattia, è morta sua madre. Si tratta di Franca Salerno: arrestata il 9 luglio 1975, condannata a quattro anni e mezzo per la sua militanza nei Nuclei armati proletari, evasa il 22 gennaio 1977 insieme a Maria Pia Vianale dal carcere di Pozzuoli, riarrestata il primo luglio 1977 e in seguito condannata ad una ben più lunga pena detentiva. Non l’ho mai conosciuta vis a vis, ma nei suoi sedici anni consecutivi di carcere, mi è capitato diverse volte di avere una corrispondenza postale con lei e poi, una volta tornata in libertà, di sentirne parlare spesso. Nella mia mente s’accavallano una serie infinita d’immagini: i locali del Centro Sportivo Culturale di Torre Spaccata, un quartiere romano in cui si politicizzarono una cinquantina di brigatisti rossi; una grandissima scritta murale con la vernice rossa: “Onore al compagno Lo Muscio!”, nappista ucciso dalla polizia al momento dell’arresto di Franca Salerno e Maria Pia Pianale in piazza San Pietro in Vincoli a Roma; la produzione di un audiovisivo sulle carceri nel 1977 da parte di quel centro sociale ante litteram; la nascita delle carceri speciali, come Badu ‘e Carros a Nuoro, in cui la stessa Franca fu per un periodo reclusa; il timbro della censura carceraria; il volto dell’ex nappista Raffaele Piccinino, padre di Antonio; i fogli di una lettera giuntami dal supercarcere di Latina quando Franca fu scarcerata. Quel giorno finiva un incubo per lei. Aveva però trascorso molti anni insieme ad altre detenute politiche e verso di loro si sentiva quasi in colpa di tornare in libertà. Fuori dalla prigione restò diverse ore. Fumava una sigaretta dopo l’altra. Segnali di fumo per salutare le compagne prigioniere. Non aveva quasi niente con sé, solo il minimo indispensabile, come chi è abituato a vivere di corsa e ad affrontare ogni possibile imprevisto. Prese il treno? Venne qualcuno a prenderla con l’automobile? Non lo so. Di sicuro andò a Roma, ad abbracciare Antonio. Per la prima volta dopo sedici anni lei e il figlio erano entrambi liberi! Fin dall’inizio la vicenda di Franca e Antonio, di cui lei era incinta quando venne arrestata la seconda volta, pose il problema dei bambini in carcere. Senza dubbio per Antonio non fu qualcosa di piacevole. Essere neonati chiusi dentro un carcere è a dir poco assurdo, ma lui ricevette non solo l’irriducibile amore di Franca ma, in qualche circostanza, quando la madre non era isolata, anche quello di detenute politiche come Rosaria Biondi. Era una specie di figlio di tante donne. Una gioia. Una vita nuova che al terzo anno sarebbe dovuta per forza essere scarcerata. Franca e Antonio. Antonio e Franca. Due vite intrecciate dalla storia e dalla casualità insita nella storia stessa. Dall’inizio alla fine. Come se dal 1977 in poi l’una e l’altra fossero animate dallo stesso respiro. Come se la morte di Antonio di cinque anni fa avesse di fatto indebolito Franca nelle condizioni di salute. Nonostante ciò, negli ultimi tempi lei stava cercando di raccogliere dei fondi per mettere in piedi un’agenzia per dare delle prospettive di lavoro ai giovani. Non so a che punto era il suo progetto. Ad ogni modo, per il momento, sembra doveroso far capire in giro chi era questa compagna e quale fu il contributo dei Nap alle trasformazioni sociali e politiche dell’Italia degli anni ‘70 e in particolare alla riforma carceraria del 1975. Gli eroi, come ben sapeva Franca, non esistono se non per gli storici ben poco storici e molto reazionari. Esistono solo persone normali che in certe condizioni storiche, e pur sempre con pregi e difetti, sono come costrette dalla forza degli eventi a combattere contro le ingiustizie. Un abbraccio a coloro che hanno conosciuto e amato Franca e in particolare a Raffaele Piccinino. Monza: ancora mistero sulle cause della morte del detenuto marocchino Ansa, 4 febbraio 2011 È morto in circostanze misteriose il 30enne detenuto marocchino, che due settimane fa era arrivato al Pronto Soccorso del San Gerardo in condizioni già critiche. Gli esami autoptici delle prossime settimane chiariranno se ad ucciderlo, sia stata un’encefalite, ipotesi al momento più accreditata, e se di origine virale, in modo da poter escludere contagi all’interno del carcere. Per tre volte, nel mese di gennaio, il giovane detenuto è stato trasportato in Pronto Soccorso, ma solo la terza volta i suoi valori ne hanno reso necessario il ricovero. Due giorni dopo però, il 23 gennaio scorso, l’immigrato è deceduto. “Faremo vari esami per capire da che patologia era affetto il giovane - dichiara la Direttrice Sanitaria dell’ospedale Laura Radice - ma è una prassi che seguiamo sempre, in tutti i casi di morte naturale”. L’encefalite che forse ne ha causato la morte, è una patologia difficile da diagnosticare “Parliamo ancora per ipotesi, si intende - prosegue Radice - ma l’encefalite di cui era presumibilmente affetto il paziente, è peggiorata in pochissimo tempo, tanto da non poter capire a fondo di cosa si trattasse. È una malattia che può avere varie origini, tra cui un virus, ed è per questo che dobbiamo fare esami approfonditi”. Catania: Camera penale; sulla morte di Carmelo Castro i pm indaghino con rigore La Sicilia, 4 febbraio 2011 A proposito della riapertura delle indagini sulla presunta impiccagione nel carcere di piazza Lanza del detenuto 19enne Carmelo Castro (28 marzo 2009), la Camera Penale di Catania ha diramato un importante documento. “Si tratta - asserisce il presidente, avvocato Giuseppe Passerello - di una morte dai contorni ancora poco chiari; ennesimo, tragico, inaccettabile episodio avvenuto in ambiente penitenziario che vede quale protagonista un cittadino affidato per ragioni di custodia alle Istituzioni”. Gli oltre 170 morti nelle carceri italiane nel corso del 2010 costituiscono un dato agghiacciante e testimoniano, al di là di ogni altra considerazione, lo stato di estremo degrado dell’istituzione carcere: luogo ove la privazione della libertà personale si patisce in condizioni di assoluta invivibilità, indegne di un Paese civile”. “La morte del Castro - aggiunge il presidente a nome dell’intera Camera penale - è ancor più inquietante e inspiegabile ove si consideri lo stato di “alta sorveglianza” cui lo stesso era sottoposto. Il difensore della famiglia del giovane ha evidenziato come la “versione ufficiale” sul decesso sia costellata da una lunga serie di palesi incongruenze. La Camera Penale auspica che l’Autorità giudiziaria indaghi rigorosamente su tutta la vicenda, chiarendo ogni zona d’ombra. La legalità va pienamente affermata. Uno Stato di diritto è tale nella misura in cui tutela i diritti inalienabili di tutti: anche dei più deboli e indifesi. Inoltre la Camera penale si dice disponibile ad assistere l’Ufficio del Garante dei diritti dei detenuti Sicilia (secondo quanto già concordato da un protocollo” per un’eventuale costituzione di parte civile, qualora più approfondite indagini dovessero individuare responsabilità penali a carico di alcuno. Roma: Nieri (Sel); drammatica la questione della salute in carcere Adnkronos, 4 febbraio 2011 Questa mattina Luigi Nieri, capogruppo di Sinistra Ecologia Libertà nel Consiglio regionale del Lazio e Patrizio Gonnella, presidente dell'Associazione Antigone, si sono recati in visita alla Casa circondariale di Rebibbia Nuovo Complesso. "Permane una condizione generale di preoccupante sovraffollamento. Sono circa 1680 i detenuti per 1180 posti letto", dichiara Patrizio Gonnella. "Le scarcerazioni avvenute grazie alla recente legge sulla detenzione domiciliare sono state pochissime, circa 40. Cio' significa che nel carcere di Rebibbia c'è ancora un tasso di sovraffollamento che rende durissime le condizioni di vita dei detenuti e degli operatori". "In uno degli istituti che potremmo definire tra i meglio diretti nel panorama nazionale, abbiamo pero' potuto constatare come sia drammatica la questione della salute in carcere", sostiene Luigi Nieri. Abbiamo incontrato persone con problematiche di salute gravissime e che da mesi non ricevono un adeguato trattamento medico. Il tutto in una situazione in cui la Regione e la Asl competente, non hanno ancora nominato il responsabile del servizio sanitario. Si tratta quindi di responsabilità regionali su cui bisogna immediatamente intervenire. è a rischio la vita delle persone. Abbiamo raccolto una serie di casi gravi - conclude - su cui preannuncio una interrogazione alla presidente Polverini". Catanzaro: presentato progetto per il reinserimento dei minori detenuti Apcom, 4 febbraio 2011 È stato presentato questa mattina dall’assessore alle Politiche Sociali del Comune, Nicola Sabatino Ventura, un progetto promosso dall’associazione “Aurora” che ha come obiettivo quello di incoraggiare lo sviluppo psicologico dei ragazzi ospiti del Centro per la giustizia minorile di Catanzaro. La finalità è quella di preparare questi ultimi al reinserimento sociale una volta scontata la pena. “Si tratta - ha spiegato Ventura - di un progetto che si associa ai tanti altri attivati dal Comune e che si propongono di intervenire sulla devianza minorile”. Il progetto è stato illustrato dalla presidente dell’Aspic (Associazione per lo Sviluppo Psicologico dell’Individuo e della Comunità) Angela De Sensi Frontera, la quale ha sottolineato che “non è possibile rieducare senza che il soggetto interessato arrivi all’azzeramento del proprio passato”. Per farlo, saranno proposte delle attività di counseling, termine inglese che indica un’attività professionale capace a orientare, sostenere e sviluppare le potenzialità del ragazzo, promuovendone atteggiamenti attivi, propositivi e stimolando le capacità di scelta. “Perché - ha spiegato - la pena deve rieducare ma il pericolo è che gli ospiti di queste strutture penitenziarie assumano delle identità negative, le fissino e abbiano serie difficoltà a modificarle”. Il progetto prevede due moduli. Il primo tenderà a preparare i soggetti che si occupano dei ragazzi. Questo perché gli educatori possano rapportarsi con i professionisti (psicoterapeuti) che, nel secondo modulo, si relazioneranno con i giovani tra i 14 e 21 anni individuati all’interno dell’Istituto. In tutto saranno una ventina. “Si tratta di un percorso nuovo da offrire ai nostri ospiti - ha spiegato Angelo Meli, direttore del Centro per la Giustizia Minorile di Catanzaro - per fargli recuperare consapevolezza del proprio vissuto e fornirgli il sostegno necessario per il loro riscatto e il reinserimento sociale”. Meli ha ringraziato il Comune per la particolare attenzione rivolta alla devianza minorile, ricordando che si è stabilito assieme un programma di base per ulteriori iniziative. Modena: sovraffollamento, attività illecite e condizioni igienico-sanitarie disastrose Asca, 4 febbraio 2011 I sindacati denunciano ancora una volta la “continua latitanza” del Governo per quanto riguarda gli organici di polizia penitenziaria. A Modena la situazione ha, infatti, raggiunto livelli gravi. Al Sant'Anna, a fronte di 226 agenti previsti per vigilare su 220 detenuti, ci sono 170 poliziotti per 484 detenuti; mentre a Saliceta San Giuliano, pur essendo previsti 48 agenti, sono presenti in 25 per 69 detenuti, cifra che sfora del 20% quella prevista. A preoccupare Fp-Cgil, Uilpolpen, Cnpp e Sinappe, non sono solo le recenti scoperte di telefonini, armi da taglio e droga all'interno della struttura di Saliceta, ma anche lo sviluppo di indagini legate all'attività di caccia di frodo nell'area preposta alle coltivazioni agrarie del Sant'Anna. Sempre secondo i sindacati, il controllo della legalità è “arrivato ad essere un problema di secondo piano”. I tagli del Ministro Tremonti pesano, inoltre, anche sui trasporti, sulla necessità di ristrutturazione delle carceri e sulle condizioni igienico-sanitarie. Ancora una volta l'appello è ai parlamentari modenesi affinché facciano pressione sul Governo. Venezia: la Cgil va controcorrente; è proprio necessario costruire un nuovo carcere? Il Gazzettino, 4 febbraio 2011 “È proprio necessario costruire altri carceri?”. A porre la domanda sono Teresa Dal Borgo, segretaria confederale Camera del lavoro di Venezia, Alessandro Biasioli e Giampietro Pegorarom di Cgil Funzione pubblica Veneto. I rappresentanti sindacali tornano sulla questione della nuova Casa circondariale, allargando però la visuale. “Ci riesce di difficile comprensione - spiegano - tutto il dibattito sulla costruzione di un nuovo carcere a Campalto e non solo per la scelta territoriale ma soprattutto per quella politica. Ricordiamo che a Venezia esiste un altro carcere, la ex Sat alla Giudecca, chiuso per la mancanza di fondi da destinare al restauro delle cucine. Quelle risorse possono essere utilizzate in maniera diversa? Crediamo si debbano rafforzare e non indebolire tutte le norme di vigilanza attenuata, di semilibertà e di pene alternative che si sono dimostrate negli anni validi strumenti contro la reiterazione dei reati”. La Spezia: troppo poco personale nelle carceri, si va avanti alla giornata Secolo XIX, 4 febbraio 2011 Tempo di bilanci anche per la polizia penitenziaria spezzina che diffonde un documento in cui illustra le attività del 2010 del Nucleo traduzioni e piantonamenti, legate all’ordine ed alla sicurezza, non solo all’interno della carcere, ma anche come sicurezza sociale. Il nucleo è diretto dall’Ispettore Capo Mario Falcone. Nel sono state svolte 776 traduzioni, ossia il trasferimento coatto di persone in regime di restrizione della libertà personale da un luogo ad un altro. Questi trasferimenti hanno riguardato 1.345 detenuti, di cui 768 sono avvenuti su strada ed otto tramite aerei di linea. 1036 detenuti sono stati trasferiti in ambito locale, 220 in ambito Regionale e 89 in ambito Nazionale. Sono stati circa 623 i detenuti accompagnati palazzo di giustizia della Spezia per motivi di giustizia per le udienze di convalide, Dibattimentali, udienze Gup, ma anche per interrogatori. 413 sono i detenuti che sono stati accompagnati in ospedale per visite specialistiche ed esami ambulatoriali ed undici sono stati ricoverati con conseguente piantonamento. Infine 32 detenuti sono stati trasferiti in varie parti d’Italia per scontare gli arresti domiciliari. Il personale del Nucleo impiegato nel complesso ammonta a 2.209 agenti, 67 Ispettori e 248 Sovrintendenti per un totale generale di 2.524 unità e un monte ore straordinario di 1.450 ore effettuate. Il Nucleo traduzioni, che si impegna nei trasferimenti dei detenuti, notoriamente sotto organico - si legge in una nota stampa della Polizia Penitenziaria - ha dovuto attingere ben 320 unità di Personale del Reparto, prevalentemente impiegato nel servizio a turno all’interno dell’Istituto per un totale generale di 2.844 unità. Lodi: Polizia penitenziaria; siamo in pochi, irresponsabile aprire altre due sezioni Il Cittadino, 4 febbraio 2011 Ampliare, sì, ma il personale. È quello che torna disperatamente a chiedere per il carcere della Cagnola il sindacato di polizia penitenziaria Alsippe, che alla luce degli ormai annosi problemi che affliggono la casa circondariale e della prossima riapertura di due sezioni attualmente oggetto di ristrutturazioni ha deciso di scrivere a prefetto, questore, presidente della Provincia, sindaco di Lodi e parlamentari lodigiani per chiedere aiuto”. Nel giro di pochi mesi, presso la Casa Circondariale di Lodi, si assisterà al completarsi dei lavori di ristrutturazione, al termine dei quali una sezione detentiva e l’infermeria con annesse sale degenza saranno aperte, in assenza di garanzie circa l’assegnazione di una congrua aliquota di personale di polizia penitenziaria necessaria alla loro gestione”, recita un passaggio della lettera firmata dal segretario dell’Alsippe, Francesco Ricciardi. Il quale reputa “irresponsabile”, la prospettiva, indicando anche il numero, dieci, di unità minime necessarie per coprire non solo i futuri servizi, ma anche quelli attuali. Che restano, va da sé, drammaticamente esposti al precariato più volte denunciato dai sindacati attorno alle attività del carcere. Al cronico problema del sovraffollamento delle celle (con detenuti, ricorda l’Alsippe, obbligati a occupare in otto spazi studiati per la metà degli ospiti, e dormendo talvolta su materassi a terra e brande da campeggio) si contrappone infatti il sovraccarico di lavoro che affligge il personale, che tra distaccamenti e aspettative conta di fatto su 38 elementi, già inferiori a quanto previsto dal pure “scellerato” decreto ministeriale del 7 settembre 2001: un organico, insomma, gravemente esposto all’emergenza. L’elenco dei disagi legati è lungo. Affollamento delle celle, turni prolungati oltre le 8 ore, doppi incarichi e sacrifici per garantire a se stessi e ai colleghi di usufruire di ferie e riposi: e ancora i nuclei piantonamento e traduzioni in carcere in costante carenza, e affanno, nel garantire la sicurezza delle scorte e dei trasferimenti dei detenuti, per un disagio psico-fisico che l’apertura delle nuove sezioni, destinato a portare “un carico di lavoro almeno triplicato” non potrà che esasperare. Dunque? Troppe volte evasi o ignorati, gli appelli dei secondini e dei sindacati passano per le massime autorità del territorio. Il direttore del carcere, Stefania Mussio, dal canto suo non entra nel merito della missiva, mai arrivata sul suo tavolo. Ma una volta sottolineato come “quando i lavori saranno ultimati i nuovi spazi andranno utilizzati”, conviene sulla necessità di ragionare anche sul capitolo - risorse: “Se si pensa di aumentare un carico di lavoro, è logico che per essere effettivamente efficaci e efficienti si debba pensarlo a trecentosessanta gradi - spiega. Vedremo: da sempre cerchiamo di fare il meglio con forze esigue, le risorse vengono assegnate da fuori e mi auguro che chi ha ragiona in un ottica di ampliamento lo faccia anche in questi termini”. Firenze: denuncia del Garante; vogliono sopprimere fermata autobus davanti al carcere Comunicato stampa, 4 febbraio 2011 Ho avuto conferma che il piano di ristrutturazione delle linee degli autobus riguarda anche la linea 27, che raggiungeva il carcere di Sollicciano. La soppressione della fermata per il carcere è assolutamente inaccettabile in quanto colpisce le famiglie dei detenuti che si recano in Istituto per i colloqui e che in molti casi vengono da altre città o addirittura da regioni lontane e che non possono permettersi mezzi più costosi. Il taglio colpisce anche gli operatori che lavorano in carcere, soprattutto la Polizia Penitenziaria. Il mondo di Sollicciano comprende mille detenuti e un numero equivalente tra personale e volontari. Mi auguro che la Provincia di Firenze e il Comune di Scandicci intervengano per ripensare una scelta che danneggia persone già svantaggiate e soprattutto che dà un segnale di abbandono e trascuratezza verso il carcere. Franco Corleone Garante dei diritti dei detenuti Cuba: vicentino da sei mesi in carcere; h confessato il falso dopo le torture Giornale di Vicenza, 4 febbraio 2011 Da circa sei mesi il vicentino Luigi Sartorio è rinchiuso in un carcere di L’Avana senza che siano stati ancora formulati i capi di imputazioni contro di lui. Nel frattempo, l’imprenditore italiano - arrestato insieme al fiorentino Simone Pini e al mantovano Angelo Malavasi nel luglio scorso nell’ambito delle indagini svolte sulla morte per abuso di droghe di una prostituta minorenne - “ha subito violenze e torture e per questo ha confessato il falso”, ha spiegato all’Ansa la deputata Pd Daniela Sbrollini a margine di una interrogazione alla commissione Affari Esteri della Camera che ha avuto come oggetto proprio la detenzione dei tre italiani a Cuba. “Il procuratore cubano”, per il momento, “mantiene il segreto istruttorio” sul caso, ha riferito il sottosegretario agli Esteri Alfredo Mantica al termine dell’interrogazione alla quale è intervenuto. La Farnesina - ha aggiunto - “segue con attenzione il caso e sta fornendo” alla giustizia cubana, “tutti i documenti che attestano che Sartorio sarebbe stato in Italia nei giorni” in cui è morta la minorenne e “ha sollecitato il trasferimento dei tre italiani al carcere La Condesa”, dove sono detenuti gli stranieri. Il ministero degli Esteri, ha però sottolineato Mantica, “segue con attenzione i casi di 1800 italiani detenuti nel mondo ma, si tratta comunque di fatti privati in cui lo Stato non può intervenire. Noi possiamo fornire assistenza ai familiari e verificare che le condizione del trattamento dei detenuti rispettino i diritti umani”. Quei diritti che, secondo Sbrollini, in questo periodo sono stati violati. “Sartorio soffre di patologie che richiedono continui controlli medici. I suoi legali ci hanno riferito che, in carcere, ha subito violenze”, ha evidenziato la deputata dicendosi comunque “rassicurata dall’attenzione” al caso dimostrata dalla Farnesina. Oggi, ha infine aggiunto Sbrollini, “abbiamo consegnato l’ultima parte dei documenti che dimostrano che Sartorio non era a Cuba il 14 maggio, al momento del presunto omicidio. Speriamo che bastino ad ottenere il suo rilascio”. Egitto: arrestati membri di Amnesty International e Human Rights Watch Adnkronos, 4 febbraio 2011 Un rappresentante di Amnesty International è stato arrestato dalla polizia al Cairo, dopo che questa mattina la polizia militare aveva preso il controllo del Centro di studi giuridici Hisham Mubarak. Lo denuncia un comunicato dell’organizzazione per i diritti umani, aggiungendo che il componente dello staff di Amnesty International è stato trasferito, insieme ad altri attivisti del Centro e a un delegato di Human Rights Watch, in una località della capitale di cui Amnesty International non è attualmente a conoscenza. Altri attivisti sono ancora trattenuti all’interno del Centro. “Chiediamo il rilascio immediato e in sicurezza del nostro collega e delle altre persone detenute insieme a lui, che dovrebbero poter monitorare la situazione dei diritti umani in Egitto in questo momento cruciale senza timore di intimidazioni o arresti” - ha dichiarato Salil Shetty, Segretario generale di Amnesty International. Brasile: l’avvocato dell’Italia impugna il no all’estradizione di Cesare Battisti Ansa, 4 febbraio 2011 L’Italia è partita ieri al contrattacco nel caso Cesare Battisti tre giorni dopo la riapertura dell’anno giudiziario brasiliano dopo le ferie estive, nella stessa giornata in cui l’ex terrorista ha inviato una lettera ai senatori brasiliani nella quale ripete di non avere mai ammazzato nessuno. “Voglio assicurarvi che non ho mai provocato ferimenti o morte a nessun essere umano - si legge nel messaggio scritto da Battisti di suo pugno e raccolto nel carcere della Papuda a Brasilia dal senatore Eduardo Suplicy - . Finora nessuna autorità della polizia e nessun giudice mi ha mai chiesto se ho commesso un omicidio. Sottolineo sempre che l’uso della violenza compromette i propositi maggiori che dobbiamo raggiungere. “ Desidero collaborare con la costruzione di una società giusta in Brasile, con mezzi pacifici, durante il resto della mia vita”. L’avvocato Nabor Bulhoes, che difende gli interessi del governo italiano nel caso dell’ex terrorista, ha presentato al Supremo Tribunale Federale (Stf) di Brasilia due azioni giuridiche, una impugnazione e un reclamo, entrambi contro la decisione dell’ex presidente Luiz Inacio Lula da Silva di non concedere l’estradizione in Italia dell’ex terrorista e al parere espresso in tal senso dall’Avvocatura Generale di Stato. L’impugnazione, ha spiegato il collaboratore di Bulhoes, Ricardo Vascon-Sellos, è contro l’atto esplicito di Lula di negare l’estradizione. Brasile: Battisti scrive al Parlamento; io non ho ucciso, nessun giudice me l’ha mai chiesto Ansa, 4 febbraio 2011 Nello stesso giorno in cui gli avvocati dell’Italia hanno presentato al Supremo Tribunale Federale, il massimo organo giuridico brasiliano, due nuovi ricorsi per estradare Cesare Battisti - un ricorso costituzionale e uno incidentale contro la decisione dell’ex presidente Lula che, all’ultimo giorno del suo mandato, scelse di mantenere in Brasile Battisti, l’ex terrorista dei Proletari Armati per il Comunismo (Pac), ha inviato una lettera ai senatori brasiliani nella quale ripete di non avere mai ammazzato nessuno: “Voglio assicurarvi che non ho mai provocato ferimenti o morte a nessun essere umano. Finora nessuna autorità della polizia e nessun giudice mi ha mai chiesto se ho commesso un omicidio. Sottolineo sempre che l’uso della violenza compromette i propositi maggiori che dobbiamo raggiungere. Desidero collaborare con la costruzione di una società giusta in Brasile, con mezzi pacifici, durante il resto della mia vita”. Stati Uniti: detenuto afghano a Guantanamo muore “facendo sport” Ansa, 4 febbraio 2011 Un afghano di 48 anni detenuto nel carcere speciale di Guantanamo è morto sotto la doccia subito dopo aver usato una “macchina” sportiva. Lo ha reso noto il Pentagono in un comunicato. Fonti giornalistiche parlano di “un attacco cardiaco”. Il cittadino afghano era sospettato di essere un comandante talebano e sarebbe morto subito dopo aver fatto una serie di esercizi con una macchina da body building, riferisce il Miami Herald. L’uomo si chiamava Awal Gul ed era detenuto nel carcere speciale americano situato nella parte sud di Cuba dall’ottobre 2002. I vertici militari della prigione hanno spiegato che il detenuto dopo una seduta di allenamento si sarebbe sentito male sotto la doccia. “Due altri detenuti lo hanno subito trasportato al posto di guardia” da dove poi è stato portato all’ospedale della base navale, ha aggiunto il comandante della prigione sottolineando che “all’arrivo era già troppo tardi”. Gul è il settimo prigioniero a morire all’interno del campo da quando nove anni fa il Pentagono ha deciso di usare la base come prigione speciale antiterrorismo. La prigione di Guantanamo ospita ancora 172 detenuti. Cuba: presto liberi due detenuti politici; uno resterà sull’isola, l’altro andrà negli Usa Ansa, 4 febbraio 2011 Cuba libererà due prigionieri politici che si rifiutano di andare in Spagna: uno resterà sull’isola e l’altro andrà negli Stati Uniti. Lo ha annunciato oggi l’Arcivescovado dell’Avana. I due fanno parte degli 11 prigionieri di coscienza, del gruppo di 52 arrestati nel 2003, che si rifiutavano di andare in Spagna. Come risultato del dialogo intrapreso tra il governo di Raul Castro e la chiesa cattolica un totale di 41 sono stati liberati. Di questi 40 sono andati in Spagna e uno è rimasto a Cuba. Altri 19 condannati per atti violenti sono stati liberati e si sono recati in Spagna. I due detenuti che saranno liberati sono Angel Juan Moya, marito di una delle dirigenti delle “Donne in bianco” Berta Soler, e Guido Sigler, fratello di Ariel Sigler, detenuto in sedia a rotelle che è stato liberato nel luglio scorso ed è andato a Miami. Tutti e due sono stati condannati a 20 anni di carcere. Elizardo Sanchez, della Commissione cubana dei diritti umani (Ccdhrn, illegale ma tollerata) si è detto ‘contentò per le scarcerazioni anche se ha denunciato “la pratica di liberarli a poco a poco. Il governo - ha detto all’Ansa - tratta i prigionieri politici come se fossero oggetti”. Le autorità cubane negano che si tratti di prigionieri politici e li considerano mercenari pagati dagli Stati Uniti. Secondo la Ccdhrn, nei carceri cubani ci sono oltre un centinaio di prigionieri politici.