Giustizia: un carcere “insostenibile”… di Mario Salomone (direttore di “.eco”) www.innocentievasioni.net, 2 febbraio 2011 Cosa c’entra il carcere con l’ambiente? L’obiezione (un abbozzo di rifiuto…) è stata posta a chi scrive da un’addetta alla distribuzione di copie dell’ultimo rapporto di Antigone (Da Stefano Cucchi a tutti gli altri. Un anno di vita e morte nelle carceri italiane. Settimo rapporto sulle condizioni di detenzione in Italia, “Antigone”, anno V, n. 1, Edizioni L’Harmattan Italia, pp. 288, euro 22). Cercheremo dunque di spiegare il legame alla gentile addetta e ai nostri lettori, ai quali comunque il nesso è senz’altro più chiaro. La reazione dell’addetta suddetta è paradigmatica di un pensiero a compartimenti stagni (che è tra i grandi ostacoli per una “cultura della sostenibilità”), come la condizione delle carceri è paradigmatica di questioni che ci toccano tutti, molto da vicino. Innanzi tutto, le carceri italiane non sono senz’altro un ambiente sano e vivibile. Mancano spesso i servizi di base (l’acqua, la doccia, il gabinetto). Manca lo spazio: le permanenze (intorno alle 70.000) sono quasi il doppio della capienza regolamentare. Un direttore di carcere racconta che gli è capitato di far dormire gli arrestati sul pavimento della palestra, senza brande, materassi e nemmeno una coperta. Le cucine, va da sé, non a norma. Insomma, i luoghi dove sono ristretti quanti hanno violato (o si presume abbiano violato) la legge sono… fuorilegge, come spiega uno dei capitoli del rapporto grazie a una iniziativa di ispezioni dirette promossa da Antigone, A buon diritto e Carta. Non parliamo poi degli ospedali psichiatrici giudiziari, di cui il rapporto ci restituisce immagini sconvolgenti: (ad Aversa) “I tre letti di contenzione erano fissati al suolo, questi letti avevano un materasso di schiuma con una copertura di gomma ed un’apertura centrale che permetteva ai pazienti di liberarsi quando era necessario. Un secchio per raccogliere gli escrementi era posto sotto l’apertura in oggetto” (p. 101). Il carcere, così come qualsiasi altro luogo (scuola, ospedale, azienda, condominio, centro commerciale, ecc.), è un ambiente, da rendere “sostenibile” in tutti i suoi aspetti, architettonici, fisici, energetici, relazionali, organizzativi (“.eco” è stata la prima a introdurre in Italia il tema delle scuole e delle università “sostenibili”, tanto che il sintagma “educazione sostenibile” fa anche da sottotitolo alla testata). I problemi delle carceri italiane sono molti e complessi ed è difficile sintetizzarli in una recensione al denso e ricco volume pubblicato da Antigone. Sono una delle piaghe scoperte della società ed è giusto, per ragioni tanto umanitarie quanto di politica generale, conoscerli e discuterne, spiegandoli ai giovani (Susanna Marietti, Patrizio Gonnella Il carcere spiegato ai ragazzi, Manifesto Libri) ma anche agli adulti. Il “dentro”, specchio di inadeguatezze diffuse ovunque Il dibattito di presentazione del rapporto, lo scorso gennaio 2011 a Torino, ha permesso di fare emergere una serie di questioni che interessano tutti e che si prestano a un interessante lavoro educativo. Il carcere è uno specchio delle trasformazioni e delle contraddizioni della società, addirittura un loro osservatorio privilegiato. Pietro Buffa, direttore della casa circondariale di Torino (una città dentro la città) ama ripetere che osservando flussi e composizione degli ingressi è possibile scorgere con largo anticipo i segnali di fenomeni che poi si manifesteranno in modo più evidente a livello di intera società. Vediamo dunque le questioni che più si prestano a stabilire una relazione tra quanto succede nelle e alle carceri e quanto succede altrove. L’impressionante aumento della percentuale di stranieri tra la popolazione carceraria, ad esempio, non è dato tanto dal fatto che gli immigrati delinquono di più, ma che meno riescono ad accedere a misure alternative alla detenzione, pur avendo pene brevi da scontare. O, se moltissimi degli “ingressi” escono entro tre giorni non è dovuto a un carcere “porta girevole” (stile “polizia e magistratura con le mani legate”) ma all’impossibilità di risolvere tutto in fretta con un rito per direttissima. Metà dei sottoposti a misura cautelare, dice Buffa, non abbiamo neppure il tempo di vederli o di saperne il nome: nessuna funzione “riabilitativa” è possibile in questi casi. E arresti (quasi sempre di “esclusi”, di classici rubagalline e ladri di biciclette, perché chi ha buoni avvocati in genere se la cava) e recidive sono dovuti, magari, a una società, “fuori”, dove regnano le stesse inefficienze e le stesse mancanze di mezzi che troviamo “dentro”. Tra ordinamento carcerario e “carcere reale”, da un lato, e sicurezza dall’altro c’è uno stretto legame. Cattivi servizi sociali e sanitari, mancanza di case di edilizia sociale, mancanza di microcredito per persone non “bancabili”, disoccupazione, cattive scuole, degrado urbano e ambientale e quant’altro sono la fabbrica di soggetti deboli, condannati alla marginalità e alla devianza. Nel nostro modello culturale non si valuta il “costo opportunità” (ovvero il vantaggio economico, oltre che sociale, degli investimenti nei servizi e per uno stato civile ed efficiente), non si conteggiano le “esternalità” di un carcere che “inquina”, così come non si conteggiano le esternalità di un’economia che saccheggia risorse e alza il termostato del pianeta, il costo per la collettività del PM10 o della diossina nel latte. Una spesa per buone carceri in grado di rieducare (oltre che, beninteso, per soluzioni diverse dalla cella), così come per la riduzione dei rifiuti, per una mobilità sostenibile, per la difesa del suolo e della biodiversità o per una ricerca e un’istruzione al livello richiesto dalle sfide del futuro sono tutte spese che non rappresentano costi, ma risparmi e investimenti, con ritorni in termini di coesione sociale, sicurezza, salute, qualità della vita. Vuol dire un Pil fatto di cose buone e non anche di spese “difensive” o “reattive” (come gli allarmi antifurto, le porte blindate, gli incidenti stradali, le medicine e le cure mediche, la ricostruzione dopo i disastri, gli psicofarmaci, i soldi sprecati nell’acquisto di cose inutili o di scarso valore,… - insomma, tutti i segni di disagio e patologia della vita contemporanea). Le politiche (o meglio, la clamorosa assenza di una politica) per il carcere sono dunque un tassello di una più generale visione (o assenza di visione) del futuro, di un’idea di società: cos’è una società “sostenibile”, cosa vuole dire costruire un paese civile, moderno, vivibile, accogliente, “saggio”, capace di visione larga e di lungo periodo? Così come, fortunatamente, nella società italiana vediamo molti fermenti positivi, molte iniziative “dal basso”, molta capacità di amministrazioni locali, associazioni, comitati, imprese, singoli cittadini e cittadine di rimboccarsi le maniche e di cominciare a costruire un mondo migliore senza aspettare che si muova prima qualcun altro, anche nelle carceri italiane non mancano esperienze interessanti che hanno a che fare con la sostenibilità: interna (gli edifici, gli impianti, l’organizzazione generale), ancora interna sotto forma di percorsi formativi, fiorire di laboratori di lavorazioni artigianali a chilometri zero e ecocompatibili (cancelleria, abbigliamento, uso di materiali riciclati, orti biologici, catering, smontaggio di rifiuti elettronici, ecc.) ed esterna, sotto forma di cantieri di lavoro ambientali e preparazione ai nuovi “green jobs”. Uno stato senza carta igienica Una osservazione e un aneddoto (che dobbiamo anch’essi a Pietro Buffa) per finire, che conferma che il carcere non è un mondo a sé e che impegnarsi. La prima riguarda un certo “sfarinamento” delle componenti del personale del sistema penitenziario: di fronte a una società e a un potere politico incerti o assenti sulla “missione” da assegnare al lavoro di guardie, educatori, psicologi, medici, dirigenti, funzionari, ecc., viene meno una identità comune, un senso di lavoro di équipe e ogni categoria si muove per sé, corporativamente, alla ricerca di vantaggi o di spiragli di fronte al peggioramento delle condizioni complessive. Ma la frantumazione sociale (o chiamiamola “sindrome da capponi di Renzo” frutto di un “divide et impera”) è un fenomeno purtroppo diffuso in molti campi e, se va approfondito e studiato meglio per quanto riguarda il personale dell’amministrazione penitenziaria, tocca un po’ tutti e chiama quindi a una ricomposizione dei diversi strati e gruppi sociali. L’aneddoto è che la casa circondariale di Torino non ha i soldi nemmeno per la carta igienica e deve farsela regalare da una ditta di Novara, accontentandosi di quel che passa il convento (ultimamente: fazzolettini umidi). Anche qui, niente di molto dissimile, ad esempio, dalla scuola, dove i genitori devono tassarsi per comprare carta igienica, sapone e carta per fotocopie. Tempo fa il sociologo Luciano Gallino aveva definito la situazione italiana in modo lapidario: “Stato povero, società ricca”. Siamo ricchi (siamo nel G8) ma i soldi stanno a Santa Lucia o in Svizzera, centinaia di miliardi di euro frutto di evasione fiscale o economia delle mafie, stanno ormeggiati nei sempre più numerosi porti turistici, stanno alle dita e al collo di dame ingioiellate, stanno sotto i culi (ci si passi il termine, da molti sdoganato) seduti sulle Ferrari o nelle decine e centinaia di case possedute da schiere di commercianti e professionisti evasori, stanno nei bunga bunga. È sempre avvenuto così: come dice una vecchia canzone popolare, carne umana mandata al macello senza rancio, nelle trincee della Prima Guerra mondiale, mentre i mercanti di cannoni se ne stanno “con le mogli nei letti di lana”, alpini mandati in Russia con le scarpe di cartone nella Seconda Guerra mondiale. Ora, con la crisi e i tagli lineari di Tremonti, siamo ai saldi finali di uno Stato povero (di soldi - se non per le lobby - e di idee), mentre il 10 per cento degli italiani, come ci dice l’Istat, accumula sempre più quote della non piccola ricchezza nazionale. Giustizia: Alfano; il nostro modello di lotta alla mafia è di esempio in Europa Ansa, 2 febbraio 2011 Il modello italiano per la lotta contro le mafie, basato su tre pilastri (arresti, carcere duro e sequestro dei capitali criminali) funziona ed è “riconosciuto e portato ad esempio in Europa”. È il fiore all’occhiello della giustizia italiana, illustrato dal ministro Angelino Alfano al Parlamento europeo di Bruxelles dove ha annunciato che si sta stringendo il cerchio su Matteo Messina Denaro. Alfano ne ha parlato in una conferenza stampa tenuta dopo aver incontrato il presidente Jerzy Buzek e prima di partecipare ad un convegno organizzato dal Pdl (“La dimensione europea del crimine organizzato alla luce del Trattato di Lisbona”) e dedicarsi ad alcuni incontri politici con esponenti del Ppe. “La nostra politica di contrasto alla criminalità organizzata - ha detto Alfano - si fonda su tre pilastri che sono: arresto dei latitanti, carcere duro e aggressione dei patrimoni criminali. Sul fronte degli arresti, il ministro ha ricordato che grazie all’opera del governo Berlusconi e del ministro Maroni, siamo arrivati alla cattura di 28 dei 30 latitanti più pericolosi. Sull’applicazione effettiva del 41 bis, Alfano ha affermato che “siamo al massimo dei detenuti al carcere duro da quando l’ordinamento giuridico italiano prevede questo istituto, al minimo delle revoche da parte del ministro e al minimo degli annullamenti da parte dei tribunali di sorveglianza dei decreti del ministro”. Per quanto riguarda le confische, Alfano ha rivendicato di aver compiuto una scelta strategica raggiungendo il risultato di riuscire a sequestrare e confiscare beni per numerosissimi miliardi di euro che oggi affluiscono su un conto corrente, chiamato fondo unico giustizia di cui beneficiano i ministeri degli interni e della giustizia proprio per la lotta contro le mafie. Alfano ha anche precisato che su tali conti affluiscono i contanti che vengono sequestrati. Giustizia: Radicali; richieste Cuffaro di lavoro e studio in carcere servano da stimolo per politica 9Colonne, 2 febbraio 2011 “Quanto trapela dalla confidenze fatte dall’ex collega Cuffaro a Saverio Romano, segretario nazionale dei Popolari di Italia Domani, circa il desiderio di conseguire una seconda laurea e di avere fatto anche istanza per svolgere attività lavorativa all’interno del carcere servano da appello di un “detenuto noto” perché sia per lui, come per tutti i detenuti ignoti d’Italia, si dia finalmente seguito alle promesse dei mesi scorsi per avviare un minimo di rientro nella legalità delle nostre carceri. La formazione, le attività trattamentali, ma anche l’assistenza psico-fisica devono poter essere garantite a tutti i 70mila detenuti in Italia. Speriamo che Cuffaro da Rebibbia voglia proseguire la sua attività politica nel farsi promotore di una serie di iniziative di sensibilizzazione e proposte concrete delle drammatiche condizioni in cui versano i detenuti italiani. La sua voce può arrivare sui grandi quotidiani italiani, quella dei suoi compagni di cella viene invece sistematicamente silenziata...”: lo dichiarano i senatori Radicali Marco Perduca e Donatella Poretti. Giustizia: Cuffaro si iscrive a giurisprudenza, sosterrà esami a Rebibbia Italpress, 2 febbraio 2011 L’ex presidente della Regione siciliana, Salvatore Cuffaro, condannato a sette anni per favoreggiamento alla mafia e rivelazione di segreto istruttorio, si è iscritto ad un corso speciale della facoltà di Giurisprudenza. Sosterrà gli esami, secondo quanto pubblicato sull’edizione locale del quotidiano “La Repubblica”, nel carcere di Rebibbia, dove è recluso dal 22 gennaio. L’ex Governatore in questo momento si trova nella sezione G8 di Rebibbia, tra i detenuti comuni in cosiddetta “media sicurezza” che devono scontare una condanna definitiva, in attesa dell’assegnazione a una cella singola. Giustizia: l’incontro con Cuffaro… siciliani, vi ho tradito, scusatemi di Giancarlo Mazzuca parlamentare del Pdl Panorama, 2 febbraio 2011 Non mi sento tradito dalla Sicilia, semmai sono io ad avere tradito la Sicilia”. Bussi alla cella di Salvatore Cuffaro, laggiù in quella piccola stanza del primo piano di Rebibbia, e trovi il Totò che meno t’aspetti. Ti immagini un uomo distrutto, disperato, rancoroso, incupito, ma l’uomo che hai di fronte è sereno, forte e coraggioso. Anche se, in fondo, mi appare rassegnato all’ineluttabilità di una sentenza definitiva. Ti chiedi se sia proprio lui, il viceré della Sicilia, il “Vasa Vasa” che, a Palazzo dei Normanni, riceveva, ogni giorno, frotte di cortigiani e di supplicanti. Sì, questo cinquantenne ingrigito e già con qualche chilo in meno addosso, blue-jeans e maglione grigio d’ordinanza, era forse il più potente della Trinacria, ma oggi è solo il detenuto X. Mi sorprende la dignità con cui sta affrontando la terribile prova e, a esserne stupito, non sono il solo, come ha riconosciuto anche il presidente della seconda sezione penale della Cassazione, Antonio Esposito. Mi accoglie abbracciandomi e, incredibilmente, è lui che cerca di farmi coraggio, non viceversa. Spiega subito perché si sente di avere voltato le spalle alla sua terra: “Sono io ad avere tradito la Sicilia”: finendo in prigione, ora rischia di offuscare l’immagine della regione. Cerco di consolarlo, gli dico che non è cosi. L’ormai ex senatore del Gruppo misto ha un attimo di commozione e, quasi a volermi rispondere, mi fa vedere il libro che sta leggendo in questi giorni assieme ad altri (la Bibbia e il saggio di Papa Ratzinger. Luce nel mando, che gli ha portato in dono Gaetano Quagliariello): è La luna è tramontata di John Steinbeck. Sembra una metafora: qualcuno non lo considerava un Re Sole con tanto di cannoli per tutti? Ora è in piena eclissi, ma la sua forza d’animo è sorprendente. Il motivo è semplice: ha appena ricevuto la visita dei suoi cari al completo (la moglie Giacoma, medico radiologo come lui, il figlio maggiore, studente di medicina, quello che sabato scorso l’ha accompagnato in carcere, e la figlia) e si è sentito rincuorato: “Hanno detto che non avevano mai trascorso 2 ore di fila assieme a me” confessa sorridendo. Continuiamo a parlare stando in piedi, al centro della minuscola stanza (un lettuccio, un tavolino, un televisore, il bugliolo). Resto sempre più stupito dalla sua pace interiore (solo apparente?): come è possibile che abbia accettato una sentenza così dura per favoreggiamento mafioso senza batter ciglio? Non si sente anche lui un politico perseguitato dai giudici? Toto allarga le braccia: “Certo non mi aspettavo 7 anni di prigione”. Finché ha potuto, ha dichiarato la sua innocenza, ma, ora che i giochi sono fatti, si è rassegnato, “perché sono uomo delle istituzioni e accetto la sentenza”. Gli faccio notare che il senatore Carlo Giovanardi in un articolo sul Quotidiano nazionale rileva che la condanna non ha tolto ogni ragionevole dubbio sulla sua colpevolezza. L allora? Maloto è, paradossalmente, con la testa già rivolta ai prossimi anni dietro le sbarre, sperando, magari, in un’uscita anticipata per buona condotta. Sono a Rebibbia come deputato per accertare le condizioni di vita dei detenuti. Lui come sta? A sentirlo, sembra ospite di un hotel a cinque stelle: “Sono trattato benissimo”. Il cibo è abbondante e mi fa vedere gli avanzi del pasto di mezzogiorno: riso, pesce e broccoli. La vicedirettrice che ci accompagna ricambia i complimenti: finora nulla da eccepire sul suo comportamento. Provvisoriamente è stato messo in una cella singola, ma, tra un po’, quando i riflettori si saranno spenti, potrebbe essere trasferito in una cella con altri reclusi e, magari, lavorare al “call center”. Gli chiedo se ha già incontrato qualche detenuto siciliano. Risponde di no, sono quasi tutti extracomunitari, ma sanno già chi è: lo chiamano “presidente”. Dorme solo 2 ore a notte, ha tanto tempo per meditare e lo confessa, per piangere Legge, trova conforto nella fede: prega alla mattina e alla sera. Ancora non ha usufruito dell’ora d’aria: ha avuto troppo da fare Gli chiedo se si sente pentito per qualche errore commesso da governatore: “Vedevo tutti e parlavo con tutti”. Nei suoi rapporti si è dimostrato superficiale, ma non è colluso con la mafia. Anzi, cita i provvedimenti che ha varato per aiutare la magistratura a combatterla. Mi saluta con due piccole confessioni: 1 ) se tornasse a nascere, rifarebbe di nuovo il politico; 2) vuole raccontare la sua disgraziata storia in un libro. E aggiunge: “Perché non lo scriviamo assieme?”. Ci penserò. Sul serio. Toscana: 120 mila euro per gli “educatori ponte” tra carcere e territorio Redattore Sociale, 2 febbraio 2011 La regione ha stanziato tale somma per istituire o mantenere quei soggetti destinati a creare un raccordo tra il personale socio-educativo della struttura penitenziaria e quello socio-educativo del territorio. La regione Toscana ha stanziato 120 mila euro per promuovere progetti che prevedono l’istituzione o il mantenimento dei cosiddetti educatori-ponte, ovvero quei soggetti destinati a creare un raccordo tra il personale socio-educativo della struttura penitenziaria e quello socio-educativo del territorio (comuni, province e zone). L’obiettivo è creare progetti di reinserimento sociale che accompagnino il detenuto dal carcere all’uscita con relativo reinserimento sociale sul territorio toscano o verso quello di ritorno (nazionale o estero). La somma massima disponibile per ciascun progetto è di 24 mila euro. Basilicata: Belisario (Idv); governo intervenga per situazione delle carceri lucane Ansa, 2 febbraio 2011 “A causa della grave carenza di organici e dell’inaccettabile degrado delle strutture, le situazione delle carceri in Basilicata è sul punto del collasso: il Governo si renda conto che non stiamo in Siberia ai tempi dell’Unione sovietica, intervenga subito per ripristinare una situazione civile e degna di un Paese moderno”. È quanto emerge da un’interpellanza parlamentare che il Capogruppo dei Senatori dell’Italia dei Valori, Felice Belisario, ha sottoposto al Ministro della Giustizia, precisando che “il Sindacato autonomo di Polizia penitenziaria ha denunciato come il lavoro degli agenti e la quotidianità dei detenuti siano penalizzati dalla carenza di personale e dalle pessime condizioni delle strutture detentive. Gli agenti operano in condizioni rischiose, costretti per di più a turni estenuanti e senza adeguati riconoscimenti economici. Nella casa circondariale di Potenza mancano almeno 20 unità, 15 invece a Matera, mentre quella di Melfi è classificata di livello 3 anziché 2, poiché ospita 200 detenuti di alta sicurezza senza che vi siano misure idonee. Sempre a Matera, i detenuti sono ricoverati nelle corsie ospedaliere e ricevono frequenti visite di parenti, creando un clima allarmante. Alfano si impegni per una vera riforma del sistema giudiziario - conclude Belisario - aumentando gli investimenti in organici e risorse per tutelare l’esclusivo interesse pubblico”. Marche: il Garante lancia l’allarme; sistema penitenziario vicino al collasso Il Messaggero, 2 febbraio 2011 Penitenziari sovraffollati, carenza di personale e strutture da rimodernare. Sono queste le tre principali problematiche delle carceri marchigiane, emerse da uno studio messo a punto dal Garante dei Detenuti. Il report relativo al 2010 è stato realizzato con il contributo dell’Assemblea Legislativa delle Marche: una delegazione di consiglieri ha infatti accompagnato Italo Tanoni (Garante dei Diritti dei detenuti) e l’associazione Ombudsman. Una relazione dettagliata sullo stato dei sette istituti di pena marchigiani, e che il presidente dell’Assemblea Legislativa delle Marche, Vittoriano Solazzi, ha intenzione di trasformare in “un lavoro annuale per fare sistematicamente il punto sulle nostre strutture carcerarie”. Tre, secondo Solazzi, gli aspetti più rilevanti emersi dall’analisi. Anzitutto, “i penitenziari marchigiani fanno registrare una situazione di sovraffollamento non trascurabile”: sono infatti 1166 i detenuti, un numero che Solazzi definisce “eccessivo” rispetto alla capienza regolare complessiva dei sette istituti (747 posti) ed anche alla capienza massima tollerata (995 posti). A questo problema si aggiungono poi altre due carenze: “Manca un servizio di Polizia Penitenziaria adeguato al numero detenuti, ed alcune delle nostre strutture necessitano una manutenzione urgente”. Insomma, i penitenziari delle Marche soffrono, e Solazzi annuncia “una segnalazione al Ministero per un intervento tempestivo”, perché “la pena non può solo essere una risposta al reato, ma deve consentire la rieducazione e, se possibile, il reinserimento nella società”. A confermare l’analisi del presidente del Consiglio Regionale arriva il giudizio di Italo Tanoni, Garante dei Detenuti delle Marche, che parla di “sistema giunto al collasso”. Il sovraffollamento delle carceri si evince da un dato: “Il numero dei detenuti, doppio rispetto alla capienza regolare, fa pensare che non siano state rispettate le misure imposte dai parametri europei, che impongono almeno 3 metri cubi di aria e superficie calpestabile per detenuto”. Da Tanoni arriva poi un appunto sulle leggi “svuota carceri”, che “non hanno risolto il problema del sovraffolamento”, mentre in cantiere ci sarebbe anche un nuovo penitenziario da 800 posti nella zona di Camerino. Indicativi, secondo Tanoni, anche i dati relativi alla Polizia Penitenziaria impiegata. Ad Ascoli Piceno, su 142 agenti assegnati ne sono in servizio 140 (182 in organico). A Fossombrone 105 in servizio su 102 assegnati (127 in pianta organica), mentre al Barcaglione lavorano 21 agenti a fronte dei 4 assegnati. 44 contro 43 a Fermo (49 in organico), 24 contro 26 a Camerino. Numeri diversi, invece, a Pesaro: lavorano in 113 contro i 123 assegnati (169 in organico), mentre a Montacuto si registrano 131 agenti contro i 184 assegnati, ma in organico ne sarebbero previsti 201. Le difficoltà del sistema penitenziario si ripercuotono anche sulla situazione sanitaria dei detenuti. Il report di Tanoni ricorda infatti i quattro suicidi avvenuti nel 2010, e i 146 casi di autolesionismo dei carcerati. “Ed in questi - dice il Garante - sono compresi anche i tentati suicidi”. Ed occorrono “provvedimenti radicali” anche in materia di edilizia, per “recuperare gli spazi esterni in degrado” di alcune strutture e per realizzarne alcuni dove questi attualmente non esistono, come ad esempio a Fermo. Sicilia: situazione allarmante nelle carceri, Polizia penitenziaria in sciopero il 18 febbraio La Sicilia, 2 febbraio 2011 Hanno deciso di aderire in massa allo stato di agitazione che è stato proclamato a partire da venerdì 18 febbraio in tutta la Sicilia anche i 300 agenti di Polizia penitenziaria in servizio negli istituti di pena della provincia di Caltanissetta: una protesta che si preannuncia massiccia ed alla quale hanno già dato la loro adesione tutte le organizzazioni sindacali di categoria, che, in questo modo, sperano di richiamare l’attenzione dei politici ed in particolare del ministro della Giustizia Angelino Alfano al fine di ottenere dei provvedimenti in grado di risolvere i gravosissimi problemi che attanagliano il sistema penitenziario in Sicilia, ed in particolar modo a Caltanissetta in carcere sono ospitati circa 150 detenuti appartenenti a pericolosissime organizzazioni criminali nazionali (mafia, ‘ndrangheta, camorra, Sacra Corona unita) ed internazionali (l’esistenza a Pian del Lago del Centro per l’accoglienza degli extracomunitari ha portato nel capoluogo nisseno anche diversi criminali già sono stati poi arrestati). “La situazione nei tre istituti penitenziari del Nisseno - sottolinea Rosario Di Prima, segretario provinciale degli agenti di custodia della Cgil di Caltanissetta - è allarmante, ed è ormai arrivata ai limiti della sopportazione, non solo per quel che riguarda i miei colleghi ma anche per i detenuti, che in provincia sono non meno di 400. Ci sono seri problemi riguardanti l’ammasso di persone detenute in spazi angusti e ristretti con celle dentro le quali sono costretti a trovar posto sino a otto carcerati, l’organico della nostra provincia è particolarmente carente dato che mancano almeno un centinaio di agenti destinati alla sorveglianza ed ai servizi di accompagnamento dei detenuti che vanno in udienza, per cui gli agenti sono sottoposti a turni massacranti senza però ottenere alcun compenso per quel che riguarda lo straordinario che a volte viene pagato dopo almeno sei mesi”. “C’è inoltre - aggiunge il segretario della Funzione Pubblica del settore Polizia penitenziaria - una persistente mancanza di mezzi, che camminano per inerzia al punto tale che si sono verificati degli incidenti a causa del malfunzionamento dei freni; siamo arrivati al punto che le macchine non potevano più prelevare nemmeno il carburante perché il gestore del distributore non veniva pagato dall’Amministrazione da un anno. Infine vanno ristrutturati i locali per gli alloggiamenti, che sono ormai invivibile: noi abbiamo la metà del personale che viene da fuori Caltanissetta, e che avrebbero bisogno di rimanere in caserma, ma non possono farlo perché la struttura è vecchia, poco accogliente e assolutamente invivibile. Insomma in provincia di Caltanissetta c’è carenza di tutto: di uomini, di mezzi, di strutture e di risorse finanziarie, per cui per noi fare questo lavoro è diventato davvero difficilissimo, e - ovviamente - lo è ancor di più per i detenuti: non è un caso che nello scorso mese di luglio uno di questi, preso dallo sconforto, si è pure suicidato”. Questa - per grandi linee - la situazione attualmente esistente nei tre istituti penitenziari operanti nella nostra provincia. Caltanissetta - Nella Casa circondariale di “Malaspina” ci sono due sezioni. La prima è di “media sicurezza” ed ospita 150 detenuti “ordinari”, la seconda è di “massima sicurezza” e qui ci sono altri 150 detenuti appartenenti alla criminalità organizzata e ritenuti pericolosissimi. C’è sovraffollamento in entrambe le sezioni (in totale dovrebbero essere al massimo 200), dove operano quasi duecento agenti di custodia al posto dei 280 necessari. San Cataldo - C’è una Casa di reclusione che potrebbe ospitare al massimo 60 detenuti prossimi alla scarcerazione e dove, invece, ne sono rinchiusi cento. In servizio ci sono 80 unità, un numero questo sottodotato, dato che in pianta organica nel 1992 ne erano previsti un centinaio. Istituto Minorile Caltanissetta - I minori ristretti sono una decina, ma c’è pure una comunità innovativa dove i giovani durante il giorno possono svolgere diverse attività, anche esterne. Ad occuparsene sono in tutto sedici dipendenti. Prato: archivi del tribunale da riordinare? la giustizia punta sui detenuti La Nazione, 2 febbraio 2011 “Cerchiamo di dare una mano a questa macchina della giustizia che è lenta, per velocizzarla po’”. Julian Mecaj, 35enne albanese, da questa “macchina della giustizia” è stato condannato a sette anni e 8 mesi per reati di droga e adesso lavora per aiutarla e “velocizzarla”. Non è un paradosso, ma è l’aspetto simbolico particolarmente significativo del progetto (unico in Italia nel suo genere) di inclusione sociale, aggiornamento professionale e orientamento al lavoro organizzato dal carcere di Prato e finanziato dalla Provincia che coinvolge detenuti della Dogaia in un lavoro di riordino dell’archivio del tribunale di Firenze che dal 1987 si trova in un capannone alle spalle dell’Unione industriale. “Vedere queste persone all’opera - spiega la vicepresidente e assessore al lavoro e alla formazione della Provincia, Ambra Giorgi - mi conferma sulla giustezza della scelta fatta, perché il lavoro è il primo strumento di inclusione sociale. Questo vale per tutti e ancor di più per chi per anni ha vissuto nell’area dell’esclusione”. I detenuti che fanno parte del progetto prima hanno svolto un’attività solo di riordino di parte dei 30 chilometri di sviluppo lineare degli scaffali all’interno dei 5mila metri quadri del capannone (dal gennaio al novembre 2010, con un finanziamento della Regione) poi, da dicembre hanno cominciato un’attività formativa “sul campo” studiando come effettuare registrazione e archiviazione di documenti. Sono detenuti ammessi al lavoro esterno che cinque giorni su sette (dal lunedì al venerdì) escono dal carcere e vanno a frequentare questo stage sull’archiviazione occupandosi anche di riordinare fascicoli e faldoni. Il tutto per un rimborso spese di 400 euro al mese per sei mesi. “A noi fa piacere poter aiutare queste persone - dice Salvatore Palazzo, ex presidente del tribunale di Prato e adesso vicepresidente vicario del tribunale di Firenze - e al tempo stesso svolgono un lavoro importante per lo Stato”. Attualmente i detenuti coinvolti sono sette, ma via via che escono dal carcere vengono sostituiti da altri, così da quando è cominciato il progetto sono circa una quindicina i detenuti che hanno preso parte al progetto. Si tratta di persone con vari tipi di pene: da chi ha pochi anni a chi ha l’ergastolo. E i risultati si vedono: “Rispetto ad altre esperienze di reinserimento sociale e lavorativo - dice Pasquale Scala, responsabile dell’area educativa della Dogaia - questa mi pare coinvolga di più i detenuti, li faccia sentire di più parte della società anche per il fatto di lavorare per lo Stato”. “È un’iniziativa innovativa in Italia - spiega il direttore del carcere pratese, Vincenzo Tedeschi - un modo importante per favorire il recupero e la rieducazione dei detenuti, ma anche per dare loro una formazione professionale e una qualifica che, una volta usciti possa essere utile per trovare lavoro”. Ovviamente, all’esterno, non è così facile trovare lavoro per chi esce dal carcere. “È vero - spiega Andrea Braschi, presidente di Astirforma, l’agenzia formativa che si occupa dello stage - ma è anche vero che esistono cooperative sociali che si occupano di questo e che la qualifica che ottengono qui di potrà aiutarli concretamente una volta fuori”. I progetti di socializzazione e di reinserimento messi in cantiere sono diversi: “Il 28 febbraio porteremo un gruppo di detenuti a Firenze a vedere gli Uffizi - spiega Tedeschi - poi siamo stati invitati a partecipare, con alcuni detenuti, a maggio alle letture dantesche nelle vie e piazze fiorentine”. Riguardo alla polemica sul perché l’iniziativa partita dal carcere pratese riguardi l’archivio del tribunale di Firenze e non di quello di Prato, Tedeschi assicura che “si tratta di un progetto pilota che vorremmo estendere e siamo più che disponibili a farlo con il tribunale pratese”. Così impariamo un mestiere e ci costruiamo un futuro Per i detenuti coinvolti nel progetto di riordino degli archivi del tribunale di Firenze e della formazione sull’attività archivistica “i giorni di festa sono quando vengono a lavorare”, come spiegano Paolo Pandi e Giovanni Baldi, i due dipendenti del tribunale che lavorano a contatto con i detenuti-archivisti. Questi ultimi sono soddisfatti e motivati da questa possibilità di svolgere il lavoro esterno (secondo l’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario) e di poterlo fare all’interno di un tribunale, sorta di contrappasso dantesco ma stavolta gratificante e non punitivo. Arlind Skuqi, 26enne albanese in carcere per reati di droga (e condannato a 8 anni e quattro mesi) è molto soddisfatto dall’esperienza: “Mi pare una possibilità importante per il nostro reinserimento nella società e mi piace il fatto che alla fine avremo un attestato professionale”. Per lui, comunque, a pochi mesi dalla fine della pena, il futuro più probabile è quello nell’attività che faceva da libero: “Ho fatto il muratore, vorrei trovare un’occupazione nell’edilizia, magari in un’azienda gestita da miei connazionali”. È albanese anche Gazmor Haxhillar, 33enne, che ha sulle spalle una condanna per tentato omicidio e rapina aggravata e dovrà restare in carcere fino al gennaio 2013. “Questa opportunità che ci viene data è una cosa che mi aiuta tanto. Io spero di restare a Prato, una volta scontata la condanna, perché qui ho la mia famiglia e vorrei trovare un lavoro come operaio o manovale”. Diversa è la storia di Domenico, 47enne di Eboli (la cittadina in provincia di Salerno, resa famosa dal romanzo di Carlo Levi) che sconta una condanna all’ergastolo. In carcere da 21 anni “effettivi” (26 contando i giorni di permesso e gli sconti vari) spera tra qualche anno di poter uscire: “Questa esperienza è una buona chance per il futuro, per aiutarci a rientrare nella società. Ci fa sentire utili, coinvolti dalla società. Per me è importante, tanto che a volte durante i permessi vado a fare volontariato all’Aurora per aiutare persone più sfortunate di me”. Un futuro se lo sta costruendo anche Julian Mecaj, 35enne albanese, che studia “scienze di governo” alla facoltà di Scienze politiche e che fra due mesi uscirà: “Per me è un’esperienza che ha valore integrativo rispetto al mio curriculum universitario. è un’opportunità per costruirsi una carriera”. Perché alla fine, come dice Domenico, con progetti come questo “si rivede un po’ di luce”. Caltanissetta: il nuovo carcere di Gela ospiterà sino a 50 reclusi, ma servono ancora lavori La Sicilia, 2 febbraio 2011 C’è molta attesa in provincia di Caltanissetta per il nuovo carcere che è stato costruito a Gela e che potrebbe attenuare il sovraffollamento esistente negli altri istituti di penitenziari della provincia poiché è in grado di accogliere almeno dai trenta ai cinquanta detenuti. Ma la struttura, che stata realizzata alla periferia della città e che è stata già consegnata al ministero della Giustizia, ancor prima di essere attivata ha bisogno di nuovi interventi di manutenzione, poiché servono degli adeguamenti e delle modifiche. L’apertura del nuovo istituto penitenziario è annunziata quanto prima (era stata pure indicata il mese, che è quello di febbraio, che è già in corso), ma l’attuale stato dei lavori sembra rendere impossibile il mantenimento di questa data, per cui i dirigenti del ministero sembrano costretti a rinviare ulteriormente l’attivazione della nuova struttura, che - inevitabilmente - porrà un altro problema, e che è quello dell’assegnazione di nuovo personale da destinare alla sorveglianza ed alla custodia dei detenuti che verranno assegnati al carcere di Gela. “L’idea del ministero - dice ancora Rosario Di Prima della Cgil - è quella di fare un “interpello” a livello nazionale e chiedere agli agenti interessati se sono intenzionati a trasferirsi a Gela. C’è poi la promessa fatta dal ministro Alfano di procedere all’assunzione di altre 800 unità e di destinarle nelle carcere d’Italia. Tra questi neoassunti alcuni dovrebbero arrivare a Gela; ma il problema è però capire quando verranno fatte veramente queste nuove assunzioni?”. Enna: protesta del Sappe; allagamenti in carcere, alcune celle sono ancora inagibili La Sicilia, 2 febbraio 2011 Protesta degli agenti di polizia penitenziaria che ieri, come segnalato dal Sappe che ha proclamato lo stato di agitazione, sono tornati a fare i contri con le infiltrazioni di acqua. “Dove sono finiti i politici dopo la passerella d’estate?”, chiedono i rappresentanti provinciali del sindacato che aggiungono: “Se non riceveremo risposte concrete da parte del Dipartimento non esiteremo ad intraprendere forme di protesta pacifiche, dalla protesta di piazza ad oltranza allo sciopero bianco, al rifiuto della fruizione della mensa di servizio, sino a quando le autorità interessate non interverranno e verificheranno che poco è stato fatto e tanto si deve fare”. A siglare la nota con la quale viene proclamato lo stato di agitazione, il segretario nazionale del Sappe, Calogero Navarra. Sul carcere di Enna da tempo gli agenti denunciano le gravi carenze igieniche della struttura e la difficile situazione che si vive. “Continuano gli allagamenti all’interno del carcere ove alcune celle delle sezioni detentive femminile e maschile restano inagibili, con ripercussioni sull’operato degli agenti che devono farsi carico di questi disagi. Rimane inagibile - si legge nella nota che proclama lo stato di agitazione - diversi anni il muro che costeggia il penitenziario, rendendo difficile la circolazione delle auto, con serio disagio per la cittadinanza. Riteniamo opportuno esprimere la nostra solidarietà ai cittadini che subiscono il disagio per l’inerzia e l’assenza di intervento da parte delle Istituzioni. Si chiede con forza la chiusura del vecchio padiglione e l’immediata apertura di quello nuovo nonché l’invio di nuovi agenti che dormono dove le mura sono scrostate e piene di muffa, mentre i corridoi della mensa versano in analoghe condizioni. La struttura in più punti presenta evidenti segni di deterioramento, con pareti e soffitti scrostati, intonaco distaccato, muffa”. Venezia: protesta del Pd; non vogliamo un “Alcatraz” a Campalto Il Gazzettino, 2 febbraio 2011 “Il no alla realizzazione del nuovo carcere a Campalto sostenuto dal Partito Democratico ha una duplice motivazione: da un lato la questione urbanistica-ambientale, l’utilizzo cioè del territorio in una direzione che non condividiamo (45 milioni di euro per un Alcatraz di cinque e più piani), dall’altra la visione della giustizia e dell’applicazione delle pene sostenuta dal governo”. Il circolo “Di Vittorio” del Partito Democratico di via Passo torna a prendere posizione contro la realizzazione nel quartiere di gronda lagunare della nuova Casa circondariale che andrà a sostituire la struttura veneziana, motivando il proprio dissenso e inserendolo nel contesto generale. “Il piano carceri è una questione nazionale che fa capo al Ministero degli Interni. Riteniamo che la costruzione di altre strutture carcerarie sia una risposta soltanto quantitativa al problema dei detenuti. Il governo risponde con l’uso del cemento anziché modificare una legislazione che attualmente è responsabile dell’ingolfamento della macchina della giustizia”. E ancora: “Siamo contrari ad una gestione degli istituti di pena che pensa unicamente a realizzare altre opere edilizie senza pensare a migliorare l’efficienza delle strutture a disposizione e la qualità del vivere in carcere. La contraddizione è ancora più forte a Venezia dove il processo di razionalizzazione del “sistema giustizia” è già stato messo in moto 20 anni fa con la nuova destinazione d’uso dell’ex Manifattura Tabacchi. Non a caso gli stessi operatori di sorveglianza dell’attuale carcere hanno dato una prima risposta per affrontare l’emergenza di Santa Maria Maggiore, ovvero riadattare e riutilizzare i posti immediatamente disponibili nella casa di lavoro della Giudecca che può ospitare circa 100 detenuti”. Conclude il Circolo Pd di Campalto: “C’è da chiedersi se parte dei reclusi di Santa Maria Maggiore possa intraprendere un percorso di reinserimento nelle comunità ospitanti ed in contesti sorvegliati. Alcune di queste realtà già esistono sul territorio e stanno producendo esperienze positive, è necessario però un sostegno maggiore aprendo una riflessione sulla possibilità di ristrutturazioni edilizie-funzionali anche all’interno del carcere stesso”. Venezia: Franco Ionta fa visita agli istituti penitenziari, incontra il personale e i volontari www.polpen.it, 2 febbraio 2011 Dopo Milano e Palermo, Ionta prosegue nel giro di visite agli istituti penitenziari. Accompagnato dal provveditore del Triveneto Felice Bocchino, il capo del Dap ha visitato prima la struttura di Santa Maria Maggiore, dove è stato accolto dalla direttrice Irene Iannucci e dall’isp. Paolo Fania. La visita è iniziata negli uffici matricola e traduzioni ed è proseguita all’interno delle sezioni. Il giorno 29 gennaio erano presenti 351 detenuti, con una percentuale del 70per cento di detenuti stranieri. La visita a Santa Maria Maggiore si è conclusa con il pranzo all’interno della mensa dell’istituto. Successivamente Ionta si è recato nel carcere femminile della Giudecca, accolto dalla direttrice Gabriella Straffi e dal commissario Nicola Di Gennaro. Il 29 gennaio erano presenti 90 detenute. È presente anche una detenuta madre di un bimbo. Oltre al giro nelle sezioni, Ionta ha visitato la base navale, accompagnato dal comandante Michele De Chiara e dal personale del servizio navale, le lavorazioni, la lavanderia, l’orto, la sartoria e il laboratorio di cosmetici, curato dalla cooperativa Rio Terà dei Pensieri. Il capo del Dap ha espresso apprezzamento per la gestione degli istituti e si è soffermato con il personale di Polizia Penitenziaria in servizio negli uffici e all’interno delle sezioni. Parma: la strana denuncia di un ergastolano; “torture” con scosse elettriche a bassa tensione Gazzetta del Sud, 2 febbraio 2011 “In cella sono sottoposto a una continua tortura elettronica”. Dal carcere di massima sicurezza di Parma arriva una strana storia dove la presunta vittima è nientemeno che il boss Pasquale Condello, che sta scontando l’ergastolo a regime specialissimo, sostiene di subire continui soprusi sotto forma di scariche elettriche a bassa tensione che lo investono, ne condizionano i movimenti e incidono pesantemente anche sulla sua capacità di svolgere le normali funzioni intellettive. È un vero e proprio colpo di scena quello che si registra in Corte d’appello (Iside Russo presidente, Giuliana Campagna e Massimo Gullino giudici). Il capo della ‘ndrangheta reggina, in video collegamento, assiste senza battere ciglio. Rimane imperterrito anche quando i difensori chiedono di verificare se il boss sia in grado di stare in giudizio nel processo “Vertice”, dove in primo grado ha avuto 9 anni di reclusione in continuazione con le precedenti condanne per associazione mafiosa. La prima parte dell’udienza si svolge secondo previsione. Dopo la costituzione delle parti, il pg Francesco Mollace chiede la sospensione dei termini della custodia cautelare in considerazione della complessità del dibattimento. Alla richiesta si oppone l’avvocato Annunziato Alati (sostituto processuale dell’avvocato Antonio Managò) e il codifensore, Francesco Calabrese, si aggrega. A questo punto, dopo essersi consultato con l’imputato, l’avvocato Calabrese sorprende tutti chiedendo alla Corte di verificare la capacità di stare in giudizio di Pasquale Condello e in caso contrario di rinviare l’udienza per legittimo impedimento. Il legale procede nel suo intervento segnalando le lamentele relative a quella che l’assistito definisce “tortura elettronica”. Calabrese evidenzia come dal diario clinico inviatogli dal detenuto emerge l’iniziativa adottata già dal mese di giugno dello scorso anno. Risalirebbe, dunque, a sette mesi addietro, la prima denuncia di Condello. E nel diario clinico c’è traccia di visite e controlli da parte dei sanitari della casa di reclusione di Parma in considerazione dei malori lamentati dal detenuto. Peraltro, dal documento si ricava come gli stessi sanitari, dopo le visite, più volte consiglino uno spostamento di cella avvalorando la tesi della verosimiglianza delle denunce del “supremo”. In una circostanza, durante un sopralluogo, si registra qualcosa di inspiegabile: il detenuto fa dondolare un ago appeso a un filo e quando lo avvicina il suo viso attrae l’oggetto come una calamita. “Evidente - sostiene il legale - i trattamenti a cui è sottoposto il detenuto comportano una polarizzazione”. Ma c’è dell’altro: l’ago avvicinato allo specchio della cella viene fortemente attratto. Sarà un caso ma, come ricorda il penalista, il detenuto viene spostato di cella. Ma le difficoltà di Condello non sarebbero solo legate alla esposizione alle (per usare l’espressione ripetuta più volte dal legale) “scariche elettriche a bassa tensione”. Dal diario clinico viene fuori che nello scorso mese di ottobre il boss viene ricoverato all’ospedale civile di Parma. I sanitari diagnosticano la presenza di un “trauma cranico di origine imprecisata” con il cervello interessato da un ematoma. “Nella circostanza - sostiene il legale - non è possibile comprendere le ragioni di quell’ematoma ma i sanitari registrano nel diario clinico una frattura della base cranica con compromissione della del cervello a causa di una evidente dispersione di liquido ematico all’’interno del cranio”. Le condizioni, successivamente, si ristabiliscono ma il detenuto, come annotato nel diario clinico, lamenta ancora di essere sottoposto a quel trattamento e chiede più volte un intervento dei sanitari. L’avvocato Calabrese informa di aver investito della delicata questione la Procura competente, il ministro della Giustizia e il dirigente del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e di averlo fatto nello scorso mese di novembre: “Nonostante tutto - chiosa il legale - nessuna ha fatto nulla”. Calabrese non ha dubbi nel ritenere come non vi siano le condizioni per ritenere l’imputato idoneo a stare coscientemente in giudizio e cioè comprendere in maniera chiara quale sia lo svolgimento del procedimento”. A questa richiesta si associa l’avvocato Annunziato Alati. Il pg Mollace, da parte sua, chiede innanzitutto la trasmissione degli atti al proprio ufficio per assumere tutte le iniziative necessarie al fine di verificare le cause dei malori registrati dal detenuto, le eventuali responsabilità e i rimedi da approntare. E chiede, anche, un termine allo scopo di studiare il diario clinico e esprimere una propria opinione in proposito. La Corte concede il termine richiesto dal rappresentante dell’accusa, disponendo la sospensione dei termini di custodia cautelare. Pasquale Condello, ritenuto il capo indiscusso del fronte “condelliano” durante la seconda guerra di mafia, è stato catturato dopo quasi 20 anni di latitanza. Dopo l’arresto è stato detenuto dapprima a Messina, poi, una volta sottoposto al regime del 41 bis, per alcuni giorni a Spoleto e, infine, a Parma dove si sarebbero verificati gli episodi denunciati dal difensore. Nella struttura di massima sicurezza della città emiliana Condello è detenuto attualmente in regime di cosiddetta “aria riservata” vale a dire un sistema detentivo che è ancora più rigido di quello che viene riservato ai detenuti di cui all’articolo 41 bis. Il boss, infatti, sta in cella da solo e non può vedere altri detenuti ad eccezione di un compagno di detenzione che incontra per un’ora al giorno, vale a dire il tempo che gode per l’uscita all’aria. Si tratta di un regime detentivo speciale che è stato riservato a pochissimi detenuti, in particolar modo ai capi indiscussi di “Cosa nostra”, ovvero ai responsabili delle stragi di Capaci e via D’Amelio. Porto Azzurro (Li): detenuto appena operato in fugge dall’ospedale, poi si consegna ai Carabinieri Ansa, 2 febbraio 2011 Si è allontanato dall’ospedale con le fasciature sul corpo, dolorante e probabilmente in stato confusionale. Una passeggiata sotto la pioggia, sabato notte, che gli è costata l’accusa di evasione perché il viaggiatore notturno è un omicida detenuto a Porto Azzurro. Ma è stato subito fermato dai carabinieri che lo hanno riportato in ospedale dove si trova tutt’ora, controllato a vista. Protagonista della vicenda un uomo di 38 anni, bresciano, che a Porto Azzurro sconta una lunga pena per un omicidio commesso quasi venti anni fa. Un detenuto modello, fino a qualche sera fa, che non aveva mai dato problemi e che, infatti, negli ultimi tempi aveva beneficiato anche di permessi premio. Ecco perché, dovendosi operare, era stato ricoverato in ospedale senza che di fronte alla sua stanza venisse previsto un servizio di piantonamento, come del resto prevedono le norme in caso di detenuti ritenuti non pericolosi. Ma sabato notte qualche cosa deve essere scattato nella sua testa: con le fasciature addosso si è alzato dal letto e ha lasciato l’ospedale. Ha cominciato ad aggirarsi per le strade di Portoferraio fino a che, probabilmente dolorante e in difficoltà, ha chiesto aiuto a due passanti suggerendo loro di chiamare i carabinieri. Gli uomini dell’Arma, immediatamente intervenuti, hanno identificato il detenuto, subito riaccompagnato in ospedale. Inevitabile per lui una denuncia per evasione per quanto non sembra che volesse darsi alla fuga considerando anche le sue condizioni di salute. Per evitare altre passeggiate notturne, comunque, è stato disposto un servizio di piantonamento di fronte alla sua stanza in ospedale, dove resterà fino a quando non sarà guarito per poi fare ritorno in carcere. Libri: “Liberi dentro. Istentales, un tour nelle carceri”, di Luciano Piras La Nuova Sardegna, 2 febbraio 2011 “Ci sono libri utili e libri futili, il libro di Luciano Piras, giornalista attento ai problemi sociali, è un libro utile”. Lo ha sostenuto Giacomo Mameli, intervenendo in videoconferenza da Cagliari alla presentazione di “Liberi dentro. Istentales: un tour nelle carceri”. Un libro che scava nel sociale che “ci aiuta a essere umani” anche se “non siamo riusciti a umanizzare le carceri”. E alla domanda di Giuliano Marongiu: “Cosa ti torna in mente del concerto degli Istentales a Buoncammino”, Mameli risponde: “Una immagine che non cancello: Gigi Sanna che balla insieme a una detenuta. Forse una mamma che cercava di sorridere. Un’immagine di quasi felicità. Che vorrei fosse fissa”. Il messaggio sul problema delle carceri è rivolto al mondo politico: sovraffollamento, quindi “vivibilità”, mancanza di lavoro, “territorialità della pena”, carceri aperte. Per quanto riguarda la polizia penitenziaria: sovracarico di lavoro, “usurante” come lo ha definito Silvestro Ladu, presidente della Commissione regionale Diritti civili e politiche comunitarie, che ha anche firmato la presentazione al libro. E ancora la rinuncia forzata alle ferie, riposi, giorni di congedo. Sono questi e altri i temi del pianeta carcere denunciati nel volume, corredato di testimonianze dei detenuti, ed evidenziati in tutti gli interventi. Luciano Piras (lodeino) e gli Istentales hanno descritto l’esperienza del circuito concertistico (Badu ‘ e Carros, Mamone, Buoncammino, San Sebastiano, Quartucciu, Macomer, Spoleto, Volterra), iniziata nel 2004 nel carcere nuorese (direttore Paolo Sanna), dopo tre anni dalla prima “bocciatura” della proposta avanzata dagli Istentales. Il sindaco Graziano Spanu, nel ricordare i tanti agenti lodeini a Mamone e oltremare, ha parlato dell’iniziativa “la biblioteca comunale dentro il carcere”, sollecitata da detenuti e “arenata” all’atto della richiesta della convenzione. Tanti hanno ricordato l’articolo 27 della Costituzione che recita: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità” ma devono tendere alla rieducazione del condannato. Gigi Sanna ha raccontato dei due ragazzi (15 e 16 anni) del carcere minorile di Quartucciu e inseriti nell’azienda agricola di famiglia e nella fattoria sociale Coccollone di Fonni. “Un’esperienza da allargare”. Silvestro Ladu si è soffermato sulla difficile “vivibilità” del carcere, indicando vie d’uscita con l’adeguamento delle norme, anche per il rientro degli agenti sardi nell’isola. Molto si è fatto, molto resta da fare. Immigrazione: presidente Napolitano, perché l’Italia è avara con i profughi? di Luigi Manconi (Presidente dell’associazione “A Buon Diritto”) www.innocentievasioni.net, 2 febbraio 2011 Signor Presidente, questa mattina ho avuto modo di visitare l’edificio dell’ex ambasciata della Somalia in Italia, sito in via dei Villini numero 9. nel centro di Roma. L’edificio è privo di acqua corrente e di elettricità, gli infissi sono in gran parte divelti, le porte sono scardinate e mancano moltissimi vetri, i muri sono corrosi dall’umidità e la vecchia carta da parati è ammuffita e lacerata, ovunque rifiuti ammassati, i due servizi igienici sono precari e insufficienti, una stanza del palazzo è adibita a cucina e per accendere il fuoco si versa dell’alcool per terra, sul tetto c’è un cassone di amianto in cui scorre dell’acqua che viene utilizzata per bere e lavarsi, i topi scorrazzano numerosi per lo stabile. Qui vivono, alcuni di loro da anni, circa 150 somali. Sono profughi: rientrano, cioè, in quella categoria solennemente riconosciuta dalla convenzione di Ginevra del 1951, che definisce tali coloro che vengono perseguitati nel proprio paese per motivi di razza, religione, cittadinanza, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per le proprie opinioni politiche. L’Italia che ha firmato quella convenzione, ha riconosciuto come meritevoli di protezione umanitaria quei 150 somali e quelle altre centinaia di afghani, eritrei, etiopi, nigeriani e congolesi che hanno trovato riparo precario negli insediamenti improvvisati di Ponte Mammolo, Romanina, via Collatina e del binario 15 della stazione Ostiense. Sono circa 1.500 a Roma e circa 9.000 in tutta Italia e si trovano a vivere in condizioni che non è esagerato definire subumane. Si tratta di persone che godono dello status di rifugiati o della cosiddetta protezione sussidiaria: sono riconosciuti, cioè, come perseguitati nel proprio paese di origine e meritevoli di tutela. Ma nulla, o quasi nulla, viene fatto per garantire loro l’inserimento sociale, la ricerca di occupazione, l’accesso ai servizi e ai diritti di cittadinanza. L’Italia rivela una singolare avarizia nei loro confronti, dal momento che ne ospita meno di un decimo di quanti ne ospita la Germania, e che destina loro una quantità assai esigua di risorse. Definisco singolare tanta avarizia perché essa sembra fondarsi su un processo di rimozione di un fatto storico determinante nella nostra vicenda nazionale. Settanta, ottanta anni fa molti antifascisti italiani ripararono all’estero: si fecero clandestini, fuggiaschi, profughi in terra straniera, talvolta accolti da governi democratici, talaltra perseguitati da polizie ostili. Sandro Pertini e i fratelli Rosselli, Gaetano Salvemini e Bruno Buozzi, Leo Valiani e Giorgio Amendola e migliaia e migliaia di altri anonimi erano - per tratti culturali, politici, sociali e psicologici - molto diversi da chi fugge oggi dalla Somalia o dall’Afghanistan, ma per altrettanti tratti molto simili. Signor Presidente, Lei, più giovane di quegli uomini, appartiene tuttavia a quella stessa storia e sa che in quel migrare fuggire e cercar riparo altrove si formarono donne e uomini che contribuirono a conquistare la libertà per il loro paese e a costruire una società democratica. E sa anche come quella memoria venga oggi malintesa e maltrattata: e forse questo costituisce una delle ragioni che rendono l’Italia così ingrata e così avara verso coloro che oggi sono, a loro volta, perseguitati e fuggiaschi in ragione delle loro idee o della loro identità nazionale o religiosa, etnica o politica. Converrà con me Signor Presidente che una democrazia forte e stabile come quella italiana e un Paese avanzato e progredito come il nostro debba essere in grado di accogliere alcune decine di migliaia di persone e di offrire loro una opportunità di vita dignitosa. Egitto: 17mila i detenuti evasi dalle carceri, anche pericolosi terroristi islamici Adnkronos, 2 febbraio 2011 Sono circa 17mila i detenuti evasi dalle carceri dell’Egitto nei giorni scorsi, in seguito a una serie di sommosse. Lo ha annunciato il ministero dell’Interno del Cairo attraverso la tv di Stato egiziana. Tra i detenuti evasi ci sarebbero anche pericolosi terroristi islamici. Evasi anche due poliziotti detenuti per torture su attivista Due poliziotti egiziani, accusati di aver torturato e ucciso un attivista celebre nel Paese, sono evasi dalla prigione di Alessandria assieme ad altri detenuti. Lo hanno riferito fonti legali e della sicurezza. Alla vittima, Khaled Said, è dedicato un gruppo su Facebook con centinaia di migliaia di utenti che stanno organizzando le proteste di questi giorni. I poliziotti erano stati processati nel luglio scorso con l’accusa di aver arrestato illegalmente e torturato Said, deceduto mentre si trovava in loro custodia. Secondo le autorità era pieno di droga. Per la gran parte del popolo egiziano, le forze di sicurezza agiscono nell’impunità, secondo una legge di emergenza che permette loro di trattenere in arresto a tempo indeterminato e di tenere a freno con ogni strumento le attività anti-governative. Abolire questa legge è una delle richieste dei dimostranti che continuano a manifestare in tutto il Paese. Secondo il governo, la legge di emergenza serve a ostacolare il traffico di droga e il terrorismo. Iraq: Human Rights Watch; governo gestisce carcere clandestino a Baghdad Ansa, 2 febbraio 2011 Dei corpi speciali agli ordini del premier sciita Nouri al Maliki gestirebbero una “prigione clandestina” a Baghdad e torturerebbero i detenuti in un altro carcere della capitale irachena: è quanto afferma l’organizzazione per la difesa dei diritti umani Human Rights Watch (Hrw), citando numerosi documenti governativi riservati. Secondo Hrw Le autorità irachene avrebbero ordinato il trasferimento di circa 300 detenuti in una prigione dipendente dal Ministero degli Interni e che si troverebbe all’interno di una base militare denominata Camp Justice; a gestire il carcere sarebbero elementi della 56esima Brigata dell’esercito iracheno e i servizi antiterrorismo agli ordini dell’ufficio del Primo ministro. Inoltre, alcuni ex detenuti hanno riferito di essere stati vittime di torture ed abusi in un’altra prigione, Camp Honor, situata all’interno della Zona Verde: proprio da questo centro sarebbero stati prelevati i detenuti destinati a Camp Justice, trasferimento che sarebbe avvenuto alla vigilia di una visita di ispezione internazionale. Brasile: uso passaporto falso; Battisti condannato a 2 anni, con pena commutata in lavori sociali Ansa, 2 febbraio 2011 Un tribunale di Rio de Janeiro ha confermato oggi la sentenza emessa tempo fa di due anni di carcere per uso di passaporto falso contro Cesare Battisti. La decisione, presa dal Tribunal Regional Federal della città carioca, riguarda il passaporto falso che l’ex terrorista rosso ha utilizzato nel 2004 per entrare in Brasile, dove venne catturato a Rio nel marzo del 2007. La difesa di Battisti aveva tempo fa presentato un ricorso contro tale sentenza. La richiesta era stata avanzata dal legale Luiz Eduardo Greenhalgh, il quale aveva sostenuto che il diritto alla difesa del suo cliente è stata ristretta in quanto - durante il processo svoltosi tempo fa a Rio sull’uso del documento falso - lo stesso Battisti non è comparso in aula in tre delle cinque udienze relative a tale procedimento giudiziario. La condanna a due anni di carcere era stata poi commutata, sempre da un tribunale di Rio, nella prestazione di servizi presso una comunità e nel pagamento di dieci salari minimi brasiliani. Il caso Battisti sarà riesaminato, in data ancora da confermare, dal Supremo Tribunal Federal di Brasilia. Repubblica Democratica Congo: Ong chiede la liberazione dei prigionieri politici Agi, 2 febbraio 2011 L’Associazione africana di difesa dei diritti dell’uomo (Asadho), attraverso un comunicato diffuso a Kinshasa, ha chiesto al presidente della Repubblica democratica del Congo, Jospeh Kabilala, la liberazione “di tutti gli oppositori politici”. Asadho, nella nota, denuncia inoltre l’intimidazione, gli arresti e la repressione delle manifestazioni dell’opposizione in vista delle elezioni generali che si terranno quest’anno. “Chiediamo al presidente della Repubblica - si legge nell’appello - che si impegni a liberare tutti gli oppositori attualmente in carcere, e chiediamo al governo di assicurare la sicurezza dei membri dell’opposizione e di permettere loro di tenere riunioni e manifestazioni pubbliche conformemente a ciò che prescrive la Costituzione”. Iran: lo stupro nelle carceri, strumento di punizione e tortura per uomini e donne Aki, 2 febbraio 2011 Kate Allen, il direttore britannico di Amnesty International, scrive per il Telegraph un articolo sugli stupri nelle carceri iraniane. I media britannici ha recentemente messo in evidenza il caso di una giovane donna da parte dell’Iran, “Leyla”, che sarebbe stato rapito, arrestato e violentata dalle forze di sicurezza di quel paese perché il suo fidanzato è stata coinvolta nelle manifestazioni che seguirono le contestate elezioni presidenziali dello scorso anno. È una storia terribile e purtroppo non l’unica. A seguito delle manifestazioni post-elettorali, le autorità iraniane hanno represso con severità sorprendente chiunque venga coinvolto nella critica dello status quo. Migliaia di persone sono state arrestate: studenti, avvocati, giornalisti, sindacalisti e difensori dei diritti umani. Centinaia di persone sono state successivamente tentato ingiustamente in massa “processi farsa”, alcuni dei quali hanno portato alle esecuzioni. Ma soprattutto, sono stati provati casi di abusi, compreso lo stupro di donne e uomini. Le autorità iraniane hanno ammesso che qualche abuso ha avuto luogo nel centro di detenzione di Kahrizak, ma la reazione del governo iraniano è stato quello di respingere e reprimere tutte le altre accuse. Ebrahim Sharifi, studente di 24 anni, da Teheran, è stata sequestrato da funzionari della sicurezza in borghese, nel giugno 2009 e tenuto in isolamento per una settimana prima di essere rilasciato. Ha raccontato ad Amnesty di essere stato legato, bendato e picchiato prima di essere violentato. Quando ha cercato di presentare una denuncia giudiziaria, gli agenti dell’intelligence hanno minacciato lui e la sua famiglia. Il giudice che si occupava del caso ha detto: “Forse ha preso soldi [per dire questo] … [e] se si va fino in fondo, dovra andarsene all’inferno per pagare”. L’istruttoria giudiziaria ha annunciato che le sue accuse di stupro sono stati inventate per motivi politici. Due membri della milizia Basij hanno detto ai media britannici di aver assistito a stupri sistematici su uomini e ragazzi in un parco nella città meridionale di Shiraz. Altri membri Basij hanno infilato gli uomini giovani e, eventualmente, i ragazzi in una serie di container nel parco, dove sono stati stuprati.