Lettera dal carcere a sua santità Benedetto XVI di Antonio Floris Ristretti Orizzonti, 24 febbraio 2011 Ci serve la voce della Chiesa, che dica in modo forte e chiaro che le carceri in queste condizioni non rispettano la dignità delle persone. Verso la fine dell’anno passato abbiamo letto sui giornali che Sua Santità ha voluto donare ai suoi collaboratori 232 panettoni prodotti dai detenuti per la cooperativa Giotto all’interno del carcere due Palazzi di Padova. Non è sicuramente casuale la Sua scelta. In effetti il laboratorio di Pasticceria della Casa di Reclusione è famoso in tutta Italia per la bontà dei suoi panettoni, colombe pasquali e dolci vari. Tanto pubblicizzato che chi sente parlare del carcere due Palazzi, lo associa subito alla pasticceria. Tanta è la fama acquisita che le persone che leggono sui giornali queste cose, e non hanno conoscenza di come è la realtà all’interno di questo istituto, sono portate magari a pensare che tutti i detenuti qui ristretti siano impegnati (e pagati) per produrre dolci. Quindi che ci sia abbondanza di soldi e abbondanza di dolci alla portata di tutti. Ma non è esattamente così. Padova non è immune dai mali che affliggono tutte le altre carceri d’Italia, in primo luogo quello del sovraffollamento. Il carcere di Padova era in origine progettato per 350 posti ma dopo un po’ di tempo era stato riempito con 700 detenuti (cioè il doppio della capienza prevista) e ora con l’emergenza sovraffollamento il numero dei detenuti ospitati si sta avvicinando inesorabilmente a mille, il che significa che in stanze per una persona singola ci si ritrova ristretti in tre! Dei circa 900 detenuti ospitati attualmente all’interno dell’Istituto di Padova, oltre ai 10 che lavorano in pasticceria, ce ne sono circa altri 200 che svolgono altri lavori a vario titolo, una parte impiegati in lavorazioni delle cooperative e un’altra parte alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria, per la quale svolgono lavori di pulizia nelle sezioni e corridoi, oppure fanno i portavitto, i magazzinieri ecc. In pratica, se su circa 900 sono 200 quelli che lavorano, significa che altri 700 sono ozianti che trascorrono l’intera giornata senza fare niente, chiusi nelle loro piccolissime celle di dimensioni 3,80 x 2,70 in condizioni, come si dice da tutte le parti “disumane e degradanti”.. Nel panorama delle carceri italiane Padova non è certo l’istituto messo peggio, anzi chi ne ha girati tanti dice che a confronto di altre carceri qui si sta addirittura bene. Se si sta bene qui figuriamoci come si può stare negli altri istituti, nei quali le condizioni sono semplicemente invivibili. Per capire quanto sia grave la situazione del sovraffollamento basti pensare che nel 2006 quando il numero dei detenuti stava arrivando a 61000 (numero mai raggiunto prima), l’80% dei Parlamentari votò a favore dell’indulto ritenendo la situazione non ulteriormente tollerabile. Oggi il numero dei detenuti all’interno dei penitenziari italiani oscilla attorno ai 70.000! Con la differenza rispetto al 2006 che ci sono stati tagli alle spese per la sanità, per il lavoro dei detenuti, per i prodotti di prima necessità tipo forniture di saponi, dentifrici, spazzolini e anche per l’alimentazione, basti pensare che il budget per garantire i tre pasti giornalieri ai detenuti fino allo scorso anno era di 4,15 €. Adesso pare sia sceso a 3,18 €. Sempre più allarmanti sono le notizie sulle morti in carcere, ci sono persone che muoiono o per malasanità o per suicidio senza che nessuno, o quasi nessuno, fuori si scandalizzi. Non passa giorno che non siano fatti reclami per protestare contro le condizioni disumane in cui i detenuti sono costretti a passare le loro giornate in violazione palese sia dell’Ordinamento Penitenziario che della stessa Costituzione e della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. A tutto questo bisogna naturalmente aggiungere il disagio delle persone che lavorano all’interno degli istituti, che sono in numero molto inferiore a quello che dovrebbe essere. La Corte Europea ha condannato l’Italia parecchie volte per violazione dei diritti dell’uomo e ha esortato il governo italiano a trovare subito soluzioni al problema. Ma dal Ministero dicono che la soluzione è quella di costruire nuove carceri. È stato annunciato un piano carceri dove si prevedeva di creare 20.000 nuovi posti. È stato dichiarato lo stato di emergenza per tutto l’anno 2010, ora questo stato di emergenza è stato rinnovato per tutto il 2011, solo che in un anno e più di stato di emergenza non si sono visti significativi risultati, mentre il numero dei detenuti è sempre in aumento e il numero dei morti in carcere pure. Ecco perché vorremmo tanto poter dire a Papa Benedetto XVI che una Sua parola in questo momento sarebbe importante. Visto che il Governo è sordo ai nostri appelli noi detenuti ci rivolgiamo allora a Sua Santità affinché faccia sentire la Sua voce presso le Autorità italiane, così come aveva fatto il suo, mai abbastanza compianto predecessore, Papa Woityla, per ricordare a chi ci governa che le carceri sono fatte per riabilitare le persone al fine di un reinserimento nella società. Ora come ora invece altro non sono che dei lager. Tutti noi ci auguriamo che un Suo autorevole intervento possa scuotere i nostri governanti e l’opinione pubblica dalla loro indifferenza e dal loro cinismo. Giustizia: Cicchitto (Pdl); col piano carceri avremo un sistema penitenziario più adeguato di Nicolò Mulas Il Giornale, 24 febbraio 2011 Le carceri italiane ospitano oggi oltre 65.000 detenuti, contro i 42.000 posti effettivamente disponibili superando di 1.000 la soglia considerata tollerabile. E anche per quanto riguarda il numero degli agenti necessari, se ne registrano 6.261 in meno di quelli previsti in pianta organica. Questi dati hanno spinto il governo a presentare un piano carceri che mira a migliorare questa drammatica situazione. Il piano di edilizia giudiziaria previsto dalla legge dovrebbe far raggiungere un livello di capienza attorno agli 80.000 posti mediante la creazione di 47 nuovi padiglioni. Per consentire l’avvio della realizzazione di nuove infrastrutture carcerarie e l’ampliamento di quelle esistenti, è previsto l’utilizzo di 500 milioni di euro stanziati dalla Finanziaria 2010. Duemila saranno inoltre le nuove assunzioni tra le fila della polizia penitenziaria. “È la prima volta - sottolinea l’onorevole Fabrizio Cicchitto - che in Italia viene varato un piano così ampio e articolato per affrontare l’emergenza carceraria”. I problemi legati al sistema carcerario si legano inevitabilmente anche alla riforma della giustizia. La prima disfunzione del nostro sistema è costituita dal fatto che le carceri italiane ospitano più imputati in attesa di giudizio che persone condannate in via definitiva. Come si può ovviare a questo problema? “In prospettiva, occorrerà procedere a rivedere ampiamente le norme del processo penale e ad arginare gli abusi di alcuni pubblici ministeri, in modo da garantire lo svolgimento del processo in tempi ragionevoli e nel rispetto dell’equilibrio tra le parti, come vuole la Costituzione”. Lei ha prospettato il rischio che le carceri diventino una discarica sociale. Al di là del problema del sovraffollamento, attualmente le carceri svolgono veramente una funzione di reinserimento sociale? “Il carcere è spesso un’università del crimine. Nel piano del governo è prevista, pertanto, la creazione di carceri “flessibili”, in modo da evitare la promiscuità tra chi è ha commesso reati lievi e chi, invece, rappresenta un effettivo pericolo per la società. I problemi, però, nascono anche dal patologico “panpenalismo” della giustizia italiana. In prospettiva, dunque, occorre pensare a un’ampia revisione del corpo del diritto penale. Al momento, il piano carceri prevede l’introduzione di misure deflattive: da un lato sarà possibile scontare, per i reati meno gravi, con gli arresti domiciliari l’ultimo anno di pena residua; dall’altro, le persone imputabili per reati con la pena fino a tre anni, saranno messi alla prova, attraverso lo svolgimento di lavori di pubblica utilità che ne favoriscano la riabilitazione”. Il provvedimento prevede l’accesso ai fondi previsti dal decreto anticrisi e il ricorso a finanziamenti privati. È in previsione una privatizzazione degli istituti di pena? “L’esperienza statunitense della privatizzazione degli istituti di pena non è attuabile in Italia. Lo impedisce la nostra cultura costituzionale, in base alla quale è allo Stato, in via esclusiva, che spettano i compiti relativi alla sicurezza dei cittadini e all’esecuzione della pena. I privati vanno sicuramente coinvolti nella fase della costruzione e anche nelle politiche di reinserimento, ma non nella gestione”. L’introduzione del reato di clandestinità per gli immigrati non regolari ha aggravato in qualche modo la già precaria situazione delle carceri? “Innanzitutto, si tratta di un reato previsto anche in altri Paesi occidentali, come la Francia o il Regno Unito. La sua introduzione era necessaria, in Italia, per garantire una cornice di legalità e sicurezza in cui attuare le politiche di integrazione. Va detto, poi, che la legge prevede un’ammenda, non la reclusione, anche se bisogna tener conto del fatto che, data la scarsa disponibilità di liquidi da parte di compie questo reato, la pena rischia spesso di diventare detentiva. In ogni caso, in un Paese come il nostro, dove il “panpenalismo” comporta la detenzione anche per le cose più banali, non si può certo imputare al reato di clandestinità il sovraffollamento delle carceri”. I padiglioni di nuova costruzione saranno 47 e porteranno la capienza complessiva delle nostre prigioni a 80.000 unità. Verranno inoltre predisposte 2.000 nuove guardie carcerarie. Quali saranno i tempi di attuazione? “Il piano è già in attuazione, per quel che riguarda la gestione dell’emergenza e durante l’anno saranno realizzate le altre strutture di edilizia straordinaria. Nello stesso arco di tempo dovrebbero entrare a regime le misure deflattive e di diversificazione dei circuiti carcerari”. Giustizia: puerpere, non detenute di Patrizio Gonnella Italia Oggi, 24 febbraio 2011 È illegale la detenzione finalizzata all’espulsione di una donna che ha dato da poco vita a un bambino. È quanto ha sentenziato la Corte europea dei diritti umani, nei giorni scorsi, proprio nelle stesse ore in cui la Camera del Deputati licenziava il disegno di legge sulle detenute madri, trasmesso al Senato per l’approvazione definitiva. Nel caso Seferovic contro Italia (ricorso n. 12921/04), la Corte, all’unanimità, ha affermato che nel caso in esame ci fosse una violazione dell’articolo 5 (diritto alla libertà e alla sicurezza) della Convenzione sui diritti umani del 1950. Medina Seferovic, di etnia rom e di nazionalità bosniaca, viveva da tempo preso i campi nomadi romani di Casilino 700 e Casilino 900. Nel settembre del 2000, temendo discriminazioni al suo rientro in Bosnia, la Seferovic chiese il riconoscimento dello status di rifugiata. L’istanza fu rigettata per motivi formali. Nel settembre del 2003 dette vita a un bimbo che morì pochi giorni dopo in ospedale. L’11 novembre del 2003 la polizia le contestò un ordine di espulsione e la condusse al centro per espellendi di Ponte Galeria a Roma, dove trascorse un periodo di detenzione amministrativa. Nei mesi successivi fu rivisto il provvedimento di espulsione e nel 2006 le fu riconosciuto lo status di rifugiata politica. I giudici di Strasburgo, nel condannare l’Italia al risarcimento di 7500 euro a favore della cittadina bosniaca e nel ricordare alle autorità italiane che è sempre possibile il ricorso alla Grande Camera della Corte, hanno perentoriamente affermato che è inammissibile detenere una donna - anche qualora penda un provvedimento di espulsione - che ha appena partorito. L’illegalità della detenzione non viene meno anche nella ipotesi in cui la donna abbia perso il bambino. E di bambini in carcere si è occupata l’Assemblea della Camera dei deputati che la scorsa settimana ha approvato con 460 voti favorevoli e 5 astenuti (i radicali) il testo unificato di alcune proposte di legge in materia di rapporto tra detenute madri e figli minori. Durante la discussione parlamentare sono state introdotte modifiche restrittive al testo originario che rischiano di vanificarne i contenuti e lasciare più o meno invariato il numero di bambini sotto i 3 anni incarcerati con le loro mamme. A oggi sono poco più di 50. La novità più sostanziosa presente nel ddl è la modifica dell’art. 275 cpp. Viene previsto l’innalzamento da 3 a 6 anni dell’età del bambini al di sotto della quale non può essere disposta o mantenuta la custodia cautelare della madre in carcere (ovvero del padre, qualora la madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole), salvo che sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza. In presenza di tali esigenze il testo approvato prevede la possibilità di disporre la custodia cautelare della donna incinta e della madre di prole di età non superiore ai sei anni in un istituto a custodia attenuata per minori (Icam), del tipo funzionante a Milano dal 2007. Sono state poco significativamente toccate le norme dell’ordinamento penitenziario relative alla detenzione domiciliare speciale per le madri con figli di età non superiore a 10 anni. La legislazione vigente prevede che il primo terzo di pena vada comunque scontato in carcere. Con le modifiche apportate ora sarà possibile scontare a casa (o in un Icam) anche il primo terzo di pena. Giustizia: chiesti 9 anni di carcere per tabaccaio che uccise un rapinatore, la Lega insorge La Repubblica, 24 febbraio 2011 Il sostituto procuratore generale di Milano, Piero De Petris, nel processo d’appello ha chiesto una condanna a nove anni e mezzo per omicidio volontario e tentato omicidio nei confronti di Giovanni Petrali, il tabaccaio che nel maggio 2003, colpendoli alle spalle, uccise un rapinatore e ferì il complice che avevano tentato una rapina nella sua tabaccheria nel centro di Milano. In primo grado, nel febbraio 2009, il tabaccaio era stato condannato a un anno e otto mesi di reclusione (pena sospesa) per omicidio colposo e lesioni colpose: per i giudici l’anziano commerciante “era incorso in un errore di percezione perché sconvolto”. “È una richiesta di condanna vergognosa, da tribunale libico”, ha detto Matteo Salvini, capogruppo della Lega Nord in Consiglio comunale. La Lega ha invitato militanti e commercianti a invadere il 23 marzo l’aula della Corte d’Appello di Milano dove si pronuncerà la sentenza. Lettere: fermiamo il massacro in Libia… pane, lavoro, democrazia, accoglienza Ristretti Orizzonti, 24 febbraio 2011 C’è un’Italia che si riconosce nella lezione di coraggio e dignità che arriva dal mondo arabo. Il profumo dei gelsomini arriva anche nel nostro paese, anche nelle barche piene di giovani con la loro domanda di futuro. Il messaggio che porta con sé ci dice che non è obbligatorio subire il furto di futuro, il sequestro della democrazia, né la fame di pane, lavoro e libertà. Ci conferma che è possibile riprendere in mano il proprio destino, e scrivere insieme una nuova storia per il proprio paese e per il mondo intero. Dimostra che il vento del cambiamento si può alzare anche dove sembra più difficile. Oggi soffia da una regione rapinata dai colonialismi vecchi e nuovi, oppressa da dirigenti corrotti e venduti, violentata da guerre e terrorismi, troppo spesso contesa, divisa, umiliata. Alzare la testa si può, anche quando costa immensamente caro, come il prezzo che il popolo libico sta pagando in queste ore per aver sfidato il dittatore. Siamo tutti coinvolti da ciò che accade aldilà del mare. Le speranze e i timori, i successi e le tragedie delle sollevazioni arabe disegnano anche il nostro futuro. Viviamo conficcati in mezzo al Mediterraneo ed è da qui che è sempre venuta gran parte della nostra storia. Non possiamo restare in silenzio, mentre il Governo italiano tace, preoccupato solo di impedire l’arrivo di migranti sulle nostre coste, e ancora difende il colonnello Gheddafi. Uniamo le nostre voci per chiedere la fine della repressione in Libia e in tutti gli altri paesi coinvolti dalla rivolta dei gelsomini, dallo Yemen al Bahrein fino alla lontana Cina. Per sostenere i processi democratici in Tunisia e in Egitto e lo smantellamento dei vecchi regimi. Per rafforzare le società civili democratiche che escono da anni di clandestinità e di esilio. Per politiche di vero dialogo tra culture e per promuovere i “diritti culturali” delle popolazioni coinvolte. Per la revisione degli accordi ineguali e ingiusti imposti dalle nostre economie ai vecchi regimi. Per la fine delle occupazioni e delle guerre in tutta la regione. Per chiudere la stagione dei respingimenti e di esternalizzazione delle frontiere, la stagione della guerra ai migranti. Chiediamo che ai migranti della sponda sud sia, in questo frangente eccezionale, concesso immediatamente lo status di protezione temporanea. Non possiamo tollerare che la reazione italiana ed europea alle rivoluzioni democratiche del mondo arabo sia la costruzione di un muro di navi militari in mezzo al mare. Ai morti nelle piazze stanno aggiungendo in questi giorni ancora tanti, troppi, morti in mare. È arrivato il momento di dire basta! Chiediamo a tutti e tutte di firmare questo appello, di farlo girare, di farsi sentire. Per adesioni: gelsomini2011@gmail.com. Primi firmatari: Luigi Ciotti, Andrea Camilleri, Cristina Comencini, Margherita Hack, Dacia Maraini, Moni Ovadia, Igiaba Scego Lettere: e se importassimo la rivoluzione? di Gabriella Baggi Il Manifesto, 24 febbraio 2011 Domenica 13 febbraio eravamo tutte e tutti nelle piazze italiane, per ricordare a Berlusconi che la dignità delle cittadine e dei cittadini, delle donne e degli uomini di questo paese non è in vendita e non è sindacabile… non quella di tutti almeno. Abbiamo cantato, saltato, urlato che noi siamo nostre, che vogliamo lavorare e creare per i nostri meriti intellettuali e le nostre capacità, non per le nostre tette, che ogni giorno corriamo tra lavoro, spesa, casa, figli, manifestazioni, anche…che insomma siamo noi le donne reali. Catarsi pura dopo mesi, settimane, anni di indicibile patimento e indignazione. Sono stata a molte manifestazioni, presidi, proteste in questi anni bui, ma domenica 13 eravamo in tanti e dicevamo: “la misura è colma”, “se non ora, quando?”. Poi il giorno dopo ho iniziato ad avvertire un disagio crescente: che fare ora? Ho iniziato a trovare quasi insopportabile l’idea della dispersione di quell’energia, che ho sentito nel centro di Milano, che finalmente sembrava una città diversa dalla squallida metropoli morattiano-leghista in cui si è trasformata. In piazza il 13 scandivamo slogan che citavano l’Egitto e la Tunisia… nel frattempo anche i popoli di Algeria, Marocco e Libia si sono riversati nelle loro piazze. Proprio in queste ore molti libici sono morti e stanno morendo, trucidati dal dittatore Gheddafi, accolto in Italia con tutti gli onori, accampato addirittura nel centro di Roma, scortato da prestanti ragazzone in perfetto Berlusconi-style. Nel frattempo qualcuno vaneggia sulla più o meno reale possibilità di “esportare” la “nostra democrazia” nei paesi del Nord-Africa. Quelle popolazioni ci stanno al contrario ricordando che la democrazia è una conquista; noi dovremmo aver imparato dalla nostra recente storia - 60 anni non sono tanti - che ha un prezzo alto, purtroppo anche in termini di vite umane. La nostra democrazia ce la stanno rubando invece pezzo a pezzo, insultando la nostra intelligenza e la Costituzione con esiziali leggi e riforme, con accordi stretti con dittatori della peggior specie, con un vergognosa e antidemocratica spartizione di posti e stipendi. “Non siamo in una dittatura violenta”, qualcuno potrebbe dire. Il G8 di Genova è una ferita aperta, le cariche spesso insensate e violente contro chi protesta sono ormai la normalità. Si sta lavorando ad un progressivo annullamento delle coscienze, ad uno svuotamento di senso del linguaggio e della partecipazione politica. Vogliono decidere che cosa possiamo leggere, vedere, quali notizie debbano passare e quali no. Un trattamento più adeguato a sudditi che a cittadini di un paese democratico. Non possiamo ridurre il 13 febbraio ad una scampagnata, dalla quale si ritorna stanchi e felici: siamo tanti, possiamo far rivivere le piazze come quel giorno: ogni settimana, ogni giorno se necessario. È il momento di dimostrare coraggio, spostandoci dalle tastiere dei computer alle strade. Lo fanno a rischio della vita in Libia, non possiamo non farlo noi: se non ora, quando? Lettere: gli Educatori penitenziari scrivono al Parlamento Ristretti Orizzonti, 24 febbraio 2011 Ai deputati della Conferenza dei Presidenti di Gruppo. Ai deputati della Commissione giustizia della camera. Ai senatori della Commissione giustizia del senato. Egregio Onorevole, nel corso del Consiglio dei Ministri n. 119 del 17.12.2010 su proposta del Ministro Angelino Alfano, veniva approvato il nuovo Schema di Decreto del Presidente della Repubblica recante il “Regolamento di organizzazione del Ministero della Giustizia”; il testo avrebbe dovuto essere trasmesso al Consiglio di Stato ed alle Commissioni Parlamentari competenti di Camera e Senato per i prescritti pareri necessari affinché il suindicato provvedimento possa perfezionarsi ed entrare in vigore. Attualmente, nulla si sa sullo stato di avanzamento del procedimento riguardante il suddetto provvedimento. L’unico punto certo è che il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria senza tale provvedimento non può procedere alle assunzioni dei vincitori e degli idonei dei concorsi relativi ai profili di educatore penitenziario, collaboratore amministrativo e contabile. Infatti, proprio dall’entrata in vigore di tale provvedimento dipende, purtroppo, l’immissione in ruolo degli ultimi 44 vincitori del concorso a 397 posti di educatore penitenziario ed altresì di tutti i vincitori dei concorsi a collaboratore amministrativo e contabile. Ed, inoltre, senza il perfezionamento di tale provvedimento non sarà mai possibile neppure procedere all’assunzione di tutti i restanti idonei delle graduatorie dei relativi concorsi, assunzione alla quale l’attuale governo si è impegnato sia a seguito della discussione di numerose interrogazioni parlamentari sia con una molteplicità di mozioni “bipartisan” presentate in occasione della discussione sui problemi che affliggono il mondo penitenziario. In particolare ci preme ricordare che si tratta di concorsi banditi ormai nel lontano 2003 e che per quanto riguarda i 44 educatori in attesa di assunzione, appartenendo all’ultima trance di 397 vincitori, la copertura economica è già stanziata e per costoro il Dap ha già proceduto anche all’assegnazione delle sedi. Appare del tutto evidente, quindi, come ulteriori ritardi da un lato hanno già leso e lederebbero ancor più i diritti di coloro che come i 44 educatori in attesa di assunzione vedono ritardarsi ogni giorno un diritto acquisito e legittimo e dall’altro si aggrava ulteriormente la già insostenibile situazione che il mondo penitenziario vive a causa del tristemente noto sovraffollamento. Per tali motivi, egregio Onorevole, Le chiediamo di intervenire per sollecitare la calendarizzazione presso le Commissioni Parlamentari competenti del suddetto Schema di Decreto del Presidente della Repubblica recante il “Regolamento di organizzazione del Ministero della Giustizia affinché siano dati i prescritti pareri e il provvedimento possa entrare in vigore. Restando in attesa di una Sua risposta, il Comitato coglie l’occasione per porgerLe cordiali saluti. Il Comitato vincitori idonei concorsi Educatori Dap Referenze Avv. Anna Fasulo Lettere: mobilitazione per una legge sulla retroattività della riparazione dell’ingiusta detenzione di Marcello Pesarini (Osservatorio permanente sulle carceri Marche) Ristretti Orizzonti, 24 febbraio 2011 Uno Stato è conforme al popolo che lo abita, e che ha votato il suo Governo. Questa triste verità non può essere negata, ma non è neanche definitiva; può e deve essere cambiata. Nello stesso momento in cui chiediamo come sinistra, come democratici, di seguire le direttive europee nei confronti dei rifugiati, allo stesso tempo chiedo, a nome di tutti i firmatari dell’appello per la retroattività della riparazione dell’ingiusta detenzione, alla dottoressa Giulia Bongiorno di compiere gli atti in suo potere per calendarizzare la discussione della proposta di legge in merito firmata da Rita Bernardini. La trasparenza con cui la presidente della Commissione giustizia alla Camera ha aderito all’appello “Se non ora quando” per il 13 febbraio sembra far ben sperare. Nel frattempo il compagno Giulio Petrilli, primo firmatario dell’appello, ha iniziato da lunedì scorso uno sciopero della fame allo scopo di denunciare alla popolazione come un provvedimento volto ad attuare l’articolo 24 della Costituzione rischi di venire offuscato da vari atti ad personam, dal sapore spesso incostituzionale. L’articolo dice che “Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi. La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento. Sono assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione. Con i l nuovo codice di procedura penale del 1989 l’ingiusta detenzione viene riparata ma solo a chi ha avuto la sentenza depositata da quella data. La proposta Bernardini, assieme ad altre iscritte, riparerebbe la disuguaglianza. Nello stesso momento in cui mi rivolgo alla Presidente della Commissione Giustizia, invito a firmare l’appello presente anche su www.micromega.net. Sicilia: Cisl: le carceri sono al collasso, Polizia penitenziaria in stato d’agitazione La Sicilia, 24 febbraio 2011 La polizia penitenziaria, in Sicilia, è in stato d’agitazione. Motivo: “lavora con mezzi insufficienti e inidonei e soffre della grave carenza di personale”. A dar voce alla protesta, Giovanni Saccone e Domenico Ballotta, segretario e segretario aggiunto della Cisl Fns Sicilia, la federazione cislina della sicurezza. Per i due sindacalisti, “la situazione è ormai drammatica”. La denuncia prende le mosse dal fatto che stamani, a Palermo, un blindato addetto al trasporto di detenuti, che si stava recando all’Ucciardone da dove avrebbe dovuto prelevare dei reclusi per accompagnarli in un’aula di giustizia, si è improvvisamente fermato per un guasto. E “solo per una coincidenza, non si è fermato con detenuti a bordo”. Si tratta, protesta il sindacato, di “un mezzo di trasporto vetusto, che da tantissimi anni è in circolazione e che, stanco dei chilometri percorsi, ha detto basta”. Il fatto, per Saccone e Ballotta, “è scandaloso”. Anche perché la polizia penitenziaria, riferiscono i due sindacalisti, è stata costretta a scendere dal mezzo e a sostare nella centralissima piazza Indipendenza. “Abbiamo più volte denunciato l’inadeguatezza delle attrezzature di cui disponiamo - affermano Saccone e Ballotta - ma le nostre denunce sono rimaste inascoltate. Oggi la situazione è incandescente anche perché il sistema penitenziario è al collasso”. Da qui, la proclamazione dello stato d’agitazione. Per la Cisl Fns, l’episodio deve far riflettere governo, istituzioni e amministrazione penitenziaria. “Il personale è sfiduciato - rimarcano - anche se, nonostante tutto, con grande spirito di abnegazione, continua ogni giorno a rischiare la vita per garantire l’ordine e la sicurezza dei cittadini”. Palermo: nel carcere dell'Ucciardone docce inagibili, detenuti costretti a lavarsi con un tubo Ansa, 24 febbraio 2011 "Nella sesta sezione del carcere Ucciardone le docce sono state chiuse e così, per lavare i detenuti, si usa un tubo da giardino lungo 40 metri e lo si fa passare da cella in cella". è la denuncia fatta da un ex detenuto, che ha telefonato alla rubrica "Radiocarcere" in onda su Radio Radicale. "L'acqua ovviamente è fredda - ha proseguito l'uomo, uscito da poco dal carcere palermitano - e le celle, già sovraffollate, assomigliano sempre più a gabbie per animali. Ci fanno vivere in undici persone, e ci tengono chiusi per 22 ore al giorno". Già in passato, in una lettera inviata a Riccardo Arena, il giornalista che conduce la trasmissione radiofonica, erano emerse le condizioni particolarmente difficili in cui vivono i carcerati dell'Ucciardone: "Viviamo ammassati in undici dentro la stessa piccola cella del vecchio carcere - scrivevano i detenuti -. Una cella dove rimaniamo chiusi per 22 ore al giorno. Ma non solo. Pesate infatti che noi, come tanti altri nostri compagni dell'Ucciardone, non possiamo neanche lavarci e questo perché le docce sono state dichiarare inagibili e quindi chiuse". Opera (Mi): detenuto protesta; mi lasciano morire in carcere… di Luca Fazzo Il Giornale, 24 febbraio 2011 La strana storia di Salvatore Mascellino, chiuso da due anni a Opera per un omicidio del 1982: ha denunciato i medici dell’ospedale che avrebbero nascosto il suo cancro. Ma ha rifiutato visite e analisi, “mi fido solo degli ospedali spagnoli”. Il comunicato di Massimo Sher, medico, da sempre in prima fila nella difesa dei diritti dei malati e dei detenuti, sembra non lasciare spazio a dubbi: Salvatore Mascellino, condannato per omicidio e richiuso nel carcere di Opera, è affetto da “una patologia neoplastica rara (fibrosarcoma dei tessuti molli della coscia destra)”, per cui “si ritiene che le condizioni cliniche attuali siano assolutamente non compatibili con il regime carcerario”. “In queste condizioni - spiega Sher - gli restano pochi anni di vita”. Ciò nonostante, secondo quanto denuncia il medico, a Mascellino non verrebbe data la possibilità di curarsi, e anzi le sue condizioni reali di salute sarebbero state occultate grazie ai rapporti compiacenti dei sanitari del carcere milanese: “Abbiamo denunciato per falso ideologico il direttore sanitario di Opera”, ha raccontato Sher in una conferenza stampa organizzata a Palazzo di giustizia. Una storia sia di malagiustizia che di malasanità, apparentemente. Al centro della vicenda, un personaggio vulcanico: lui, Mascellino, veronese, classe 1958, una vita in fuga. Nel 1982, quando aveva appena ventiquattro anni, ammazza a Monaco un maestro di sci, per una lite scaturita da un traffico di valuta in cui era implicato all’epoca. Ma prima che la giustizia italiana lo incastri, Mascellino sparisce nel nulla. Emigra in Spagna, viva tra Marbella e Andorra, mette su una seconda famiglia, si dà da fare con business di vario tipo. Fino a quando, nell’ottobre 2008, la polizia iberica lo arresta a Cadice: nei suoi confronti è diventata definitiva la condanna (singolarmente blanda) a nove anni di carcere emessa dalla Corte d’appello di Trento per l’omicidio del maestro di sci. Nel 2009 l’uomo viene estradato in Italia e chiuso ad Opera. E qui inizia la sua lotta per ottenere la liberazione. Mascellino spiega di essersi ammalato durante la latitanza di tumore alla coscia e al rene, di essersi curato ed operato, ma di essere ricaduto. Chiede di essere curato. Ma l’unico medico di cui si fida, dice, è un medico di Marbella. Il carcere e il tribunale di sorveglianza gli offrono di andare a fare una tac per confermare la recidiva del tumore: ma lui rifiuta, a ripetizione. Non si fida dell’Istituto dei tumori, nè dello Ieo, né del Policlinico. Vuole andare a Marbella, o al massimo al San Raffaele. Dove però non viene accettato. Chiede di andare ai domiciliari, a casa della prima moglie: ma la donna, interpellata dal tribunale, fa sapere che non ha alcuna intenzione di riprenderselo a casa. Ma lui ha pronta la contromossa: c’è un signore che era nel letto accanto al suo, durante un ricovero in ospedale, che è diventato suo amico e che se lo prenderebbe a casa. Ma, vista anche la gravità del reato per cui è stato condannato, prima di lasciarlo uscire dal carcere bisogna essere sicuri che sia davvero gravemente malato. E qui casca l’asino, perché il detenuto rifiuta le analisi. Ma intanto fa partire le denunce. Il prossimo 3 marzo il tribunale esaminerà di nuovo il suo caso. Sapendo che ci si può trovare di fronte ad un furbacchione che le tenta tutte per uscire di prigione; ma anche che è possibile che sia davvero malato, e che la sindrome da complotto di cui è vittima gli renda difficile fare la cosa più sensata, cioè accettare di essere visitato e curato senza bisogno di andare fino in Spagna. Se Mascellino venisse scarcerato e si desse alla macchia, le polemiche sarebbero inevitabili. Ma le polemiche, e ancora più violente, ci sarebbero anche se gli venisse rifiutata l’istanza di libertà, e poi la sua malattia avesse conseguenze drammatiche. Nell’attesa di vedere come se la sbrigheranno carcere, medici e giudici, resta una curiosità: cosa c’entra con questa storia Roberto Calvi, il banchiere milanese trovato impiccato sotto il ponte di Blackfriars, a Londra, nel giugno 1982? Nulla, si dirà. L’anno è lo stesso del delitto contestato a Mascellino, ma i contesti criminali appaiono sideralmente distanti. E allora perché nel comunicato dei medici che lo assistono, si parla - tra parentesi, come se fosse cosa da niente - di “caso Calvi”? Genova: detenuto polacco trentenne tenta il suicidio, salvato dagli agenti Adnkronos, 24 febbraio 2011 “Un detenuto trentenne P.G.W. di nazionalità polacca ha tentato di impiccarsi nel carcere genovese di Marassi. L’insano gesto non è stato portato a termine per il tempestivo intervento dell’agente di sorveglianza”. Lo comunica Eugenio Sarno, segretario generale della Uil-Pa Penitenziari. “È la seconda volta che l’uomo, in carcere per tentato omicidio della figlia di tre anni, tenta il suicidio”. “In questo mese di febbraio - continua Sarno - a Marassi abbiamo dovuto registrare un suicidio e due tentati suicidi. È evidente che questi gesti di auto soppressione possano essere alimentati anche dalle esasperanti, disumane ed incivili condizioni di detenzione. Marassi -prosegue - in queste ore ospita circa 730 detenuti a fronte di una capienza regolamentare prevista in 450, a tale sovraffollamento fa da contraltare le carenze dell’organico della polizia penitenziaria stimabili in circa 160 unità“. Dall’inizio del 2011, secondo la Uil-Pa Penitenziari, sono 9 i detenuti morti per suicidio in cella e i tentativi poco meno di 50, ci sono poi gesti di autolesionismo e molte risse”. Questa deriva di morte e violenza - conclude Sarno- è una diretta conseguenza dell’impossibilità ad articolare percorsi di recupero, rieducazione e risocializzazione. Il personale di polizia penitenziaria deve fare i classici salti mortali per garantire servizi sempre al di sotto dei livelli minimi di sicurezza. Educatori, psicologi e assistenti sociali sono sempre più specie rare”. Pozzuoli (Na): grazie al volontariato, notizie positive dalla Casa circondariale femminile di Simona Carandente www.ilmediano.it, 24 febbraio 2011 In un momento storico dove l’emergenza carceri è sotto gli occhi di tutti, dove il complesso pianeta della detenzione vive un momento di enorme difficoltà, connesso all’atavica carenza di risorse ed infrastrutture, non è facile parlare di carcere in termini positivi, nello scopo di diffonderne un’immagine lontana dall’immaginario collettivo. Eppure, anche in un territorio difficile come quello campano non mancano iniziative importanti e di ampio respiro, che pur non avendo l’ambizione di risolvere in nuce i problemi della popolazione penitenziaria, sono volte quantomeno ad alleviarne le difficoltà quotidiane, aprendo uno squarcio di speranza sulla quotidianità penitenziaria e su chi è costretto a viverla. Merita di essere segnalato l’esempio della Casa Circondariale di Pozzuoli che, con il prezioso aiuto di associazioni esterne senza scopo di lucro, si distingue per le numerose iniziative rivolte alla popolazione penitenziaria, rigorosamente femminile, ivi ristretta. È di qualche giorno fa, ad esempio, la notizia dell’acquisto di 3 Tv Lg e di 3 Dvd che verranno collocati negli spazi comuni dei reparti che ospitano le detenute, con lo scopo di realizzare in futuro una cineteca, finalizzata ad alleviare la quotidiana monotonia delle recluse. L’acquisto è stato possibile grazie ai proventi raccolti il mese scorso, con il ricavato di una cena tenutasi proprio presso la Casa Circondariale, che ha visto le stesse detenute attivarsi e collaborare in prima persona. Proprio l’attività dei laboratori di cucina, peraltro, ha fatto sì che per quattro detenute della Casa Circondariale si realizzasse un sogno: quello di trovare lavoro all’esterno del Carcere. Grazie ad appositi laboratori di cucina, tenuti in collaborazione con l’Associazione Professionale Cuochi Italiani, si è permesso alle detenute di maturare una significativa preparazione sul campo, che ha permesso ha due di loro, una volta rimesse in libertà, di trovare un’insperata occupazione. Per altre due, in regime di semilibertà, si sono aperte le porte della ristorazione, anche se al momento solo di giorno, nella speranza che l’impegno possa divenire quotidiano una volta scontata del tutto la pena inflitta. Tra le attività della Casa Circondariale, con il prezioso supporto della Onlus “Il Carcere Possibile”, occorre poi segnalare la dotazione, nel giardino del penitenziario, di alcuni giochi per bambini, acquistati con il ricavato della serata di beneficenza “Ridere per rieducare”, finalizzati a rendere più piacevole e meno traumatico l’incontro dei piccoli con le proprie madri detenute. Civitavecchia (Rm): le detenute in una sfilata di moda, presenti politici regionali Dire, 24 febbraio 2011 "Nel ciclo di iniziative all'interno degli istituti di detenzione, come amministrazione regionale, insieme all'associazione Gruppo Idee, nel promuovere questo progetto denominato 'Donna fuori, donna dentro' abbiamo creduto nella forza dell'iniziativa quale veicolo di un incontro tra realtà diverse ma non cosi' distanti, mediato da un comune sentire di donne verso altre donne. L'apertura fisica dello spazio del carcere alla realtà esterna e l'interesse sincero della realtà esterna verso il mondo del carcere, è elemento portante e significante del progetto che ha portato in passerella ragazze detenute e ragazze modelle per un famoso atelier per creare una struttura finalizzata al lavoro sartoriale delle detenute". è quanto ha dichiarato, come si legge in una nota, Giuseppe Cangemi, assessore alla Sicurezza ed agli Enti Locali Regione Lazio, che partecipando all'evento di moda nel carcere di Civitavecchia, ha portato i saluti della presidente Renata Polverini, mettendo in evidenza un caso piu' unico che raro in Italia dove l'intera amministrazione del carcere sia tutta guidata da donne, in particolare direttore, capo del corpo di Polizia Penitenziaria, responsabile dei processi educativi. L'abito non fa il monaco pero' aiuta a sembrarlo: era questo il provocatorio messaggio del progetto "Donna fuori, donna dentro" che all'interno del nuovo complesso penitenziario di Civitavecchia, ha fatto sfilare i capi di alta sartoria della stilista Loredana Dell'Anno, indossati per l'occasione da modelle professioniste e detenute, spiega la nota. La manifestazione è stata presentata da Rosaria Renna, nota speaker radiofonica, inoltre si sono esibite due cantanti che hanno voluto aderire all'iniziativa la cantante Jennifer, nota per la trasmissione "Amici", e Naike Rivelli, che ha presentato il suo ultimo lavoro. Le creazioni del defilè, organizzato dall'atelier LD-Luxury in collaborazione con l'associazione Gruppo Idee, saranno messe all'asta a Roma il prossimo 15 marzo, conclude la nota. Il ricavato sarà destinato alla creazione di un fondo per l'installazione di un laboratorio sartoriale nel supercarcere, l'avvio di un corso di formazione e l'assunzione di due detenute presso la LD-Luxury. Rauti: ottimo questo progetto Il consigliere regionale Isabella Rauti è intervenuta oggi alla sfilata di moda organizzata dalle detenute del carcere di Civitavecchia nell'ambito del progetto Donna fuori, Donna dentro, realizzato dall'Associazione Gruppo Idee e dall'azienda Ld-Luxury con il sostegno dell'Assessorato regionale alle Attività produttive. "Sono convinta dell'importanza della funzione di recupero e degli effetti positivi delle attività trattamentali- ha affermato Rauti- Il progetto 'Donna fuori Donna dentro', realizzato nel carcere di Civitavecchia, risponde pienamente all'obiettivo del recupero delle detenute: la sfilata che si è tenuta oggi, animata dalle stesse detenute in veste di indossatrici, accanto alle modelle della Ld luxury, è stata infatti il centro di un progetto di recupero che si completa con altre attività. Del progetto 'Donna fuori Donna dentro' fanno parte due fasi ulteriori: un'asta benefica realizzata con il materiale indossato durante la sfilata, ed il collocamento professionale di alcune detenute nel settore della moda a fine pena" ha spiegato la consigliera Rauti. "Per tutto cio' il progetto rappresenta una buona prassi nel quadro delle attività di recupero che le istituzioni come la Regione possono contribuire a realizzare- ha concluso Rauti- Continuiamo nel nostro impegno per migliorare le condizioni di vita all'interno delle strutture carcerarie del Lazio promuovendo progetti di recupero ma anche strutture adeguate, come gli Istituti di custodia attenuata per madri detenute, un obiettivo perseguito con il pieno sostegno dell'assessorato alla Sicurezza". Bari: sport per minori detenuti, Vendola e Campese domani siglano protocollo Ansa, 24 febbraio 2011 Venerdì 25 febbraio 2011, alle ore 11.00 presso la Sala Stampa della Giunta regionale - L.re N. Sauro, 33 - il Presidente della Giunta Nichi Vendola, l’Assessora allo Sport, Maria Campese e la Dirigente del Centro per la Giustizia Minorile di Puglia, Francesca Perrini, sottoscriveranno un Protocollo d’intesa per il triennio 2011-2013 teso a rinnovare l’impegno comune per promuovere l’esercizio e la pratica di attività motorie e sportive da parte di minori d’età detenuti e/o sottoposti a provvedimenti giudiziari restrittivi, al fine di favorirne il recupero e il positivo reinserimento sociale. Molto positivi infatti sono stati gli esiti delle attività sportive realizzate nel triennio 2008 - 2010, finanziate della Regione Puglia e programmate dagli Uffici di Servizio Sociale per i Minorenni in favore dei minori d’età ospiti presso gli Istituti Penali, i Centri di Prima Accoglienza e la Comunità Pubblica di Bari, Lecce e Taranto, attraverso la collaborazione con esperti istruttori della Uisp e della Fin-Coni. Circa 1.000 i ragazzi che hanno praticato le numerose attività sportivo-motorie proposte, quali: nuoto, calcio, tennis, tennis da tavolo, atletica, fitness, percorsi salute, trekking, body building, judo, equitazione, riportandone notevoli benefici sul piano psico-fisico e relazionale. È con tali interventi ed è in tali contesti di vita - dice l’Assessora regionale allo sport Maria Campese - che lo sport assume la sua funzione educativa e sociale, fondamentale per la formazione ed il reinserimento di tutti quei giovani entrati nel circuito penale, ai quali è necessario offrire la possibilità di sperimentare stili di vita diversi dai consueti, per imparare l’autodisciplina e il rispetto delle regole. E lo sport, è dimostrato, è un vero e proprio maestro di vita. Ancona: musica lirica e popolare per i detenuti di Montacuto Il Resto del Carlino, 24 febbraio 2011 Far sì che i detenuti possano continuare a sentirsi parte di una comunità ed alleviare le tensioni che inevitabilmente la detenzione provoca, soprattutto in un momento come questo di particolare sovraffollamento delle carceri. Questo il duplice obiettivo che il Consiglio della III Circoscrizione del Comune di Ancona si è posto promuovendo ed organizzando, nell’ambito delle sue iniziative socio-culturali, un concerto di musica lirica e popolare all’interno del carcere di Montacuto. Venerdì prossimo, 25 febbraio 2011, alle 13, le porte del carcere si apriranno all’esibizione della Pasquella di Varano e del gruppo lirico composto dal soprano, Alessandra Rosciani, dal mezzosoprano Paola Micucci, dal tenore Paolo Sepe e dal baritono Alessandro Lazzarini, accompagnati dal Maestro Stefano Grassoni. È la prima volta che i consigliere di una Circoscrizione varcano le soglie di un carcere. “Le Circoscrizioni, da sempre il presidio istituzionale sul territorio più vicino al cittadino, svolgono un ruolo fondamentale per il tessuto sociale cittadino”, ha affermato il presidente della III Circoscrizione, Massimo Mandarano. “È proprio per l’attenzione che la Circoscrizione rivolge al sociale - ha continuato - che, come Consiglio, abbiamo ritenuto indispensabile guardare oltre che alle categorie cui siamo più soliti rivolgerci: anziani, disabili, famiglie in difficoltà, dedicare un pensiero e parte della nostre attività anche ai detenuti, che, benché momentaneamente ai margini, fanno comunque parte della nostra comunità, tanto più che il carcere di Montacuto cade proprio entro i confini della III Circoscrizione”. Esprimendo plauso per l’iniziativa circoscrizionale, la responsabile dell’area trattamentale del carcere di Montacuto, Gianna Ortenzi ha sottolineato l’importanza di un territorio attento alle esigenze dei detenuti. “Il problema carcere - ha dichiarato - non può essere delegato solo a chi lavora al suo interno. In questa struttura - ha aggiunto - c’è molta gente che ha sbagliato e che per questo sta scontando una pena che, però, non deve essere solamente afflittiva, ma quanto più rieducativi possibile. Queste persone - ha concluso - prima o poi torneranno alla vita di tutti i giorni, si spera, migliori di quanto non fossero quando hanno commesso reato. A tutto questo deve assolutamente contribuire anche la comunità locale”. “Siamo davvero lusingati di aver avuto l’opportunità di preparare uno spettacolo per i detenuti del carcere - ha detto il soprano Alessandra Rosciani -. È la prima volta che io e il mio gruppo prendiamo parte ad un’iniziativa di questo genere e speriamo di essere all’altezza della situazione. Abbiamo cercato di studiare e proporre un repertorio che possa quanto più possibile incontrare il gusto del pubblico, regalandogli un’ora di diversa dal solito, che sia occasione di svago e di divertimento”. Immigrazione: nel Cie di Roma Ponte Galeria 90 tunisini tra quelli sbarcati in Sicilia Redattore Sociale, 24 febbraio 2011 “Costretti a vivere come detenuti, pur non avendo commesso nessun reato se non quello di essere in fuga da Paesi dove c’è stata, o è in corso, una vera e propria guerra civile”. È questa, secondo il garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, la paradossale situazione che stanno vivendo 90 immigrati di nazionalità tunisina, sbarcati la scorsa settimana a Pantelleria e Lampedusa e trasferiti da venerdì scorso nel Centro di identificazione ed espulsione (Cie) di Ponte Galeria. Attualmente nella struttura di Ponte Galeria sono presenti 244 ospiti, 160 uomini e 84 donne. Fra gli ospiti trasferiti dalla Sicilia a Roma anche due minorenni, trasferiti al Centro assistenza richiedenti asilo di Castelnuovo di Porto gestito dalla Croce Rossa italiana. Secondo il garante, che questa mattina ha visitato con i suoi collaboratori la struttura per rendersi conto della situazione, quella che stanno vivendo gli immigrati giunti dalla Tunisia non può che essere una fase transitoria, cui dovrebbe presto mettere fine il Governo con una decisione chiara sul loro destino. “Quanto accaduto in Tunisia, in Algeria, in Egitto ed ora in Libia - ha detto il garante - potrebbe avere come conseguenza immediata lo sbarco di migliaia di disperati sulle nostre coste. E se questi ultimi giorni sono stati la prova generale di quanto potrà accadere nel prossimo futuro, non c’è davvero da stare allegri. Visto che, allo stato attuale, per motivi di sicurezza è impossibile avviare il rimpatrio delle persone arrivate, e nell’attesa che si dispieghi un dispositivo di degna accoglienza, il nostro governo dovrebbe garantire a questi disperati un trattamento migliore”. “È impensabile, infatti - continua Marroni - che per queste persone si prospetti un’ospitalità a tempo indeterminato all’interno di un Cie. La stragrande maggioranza di queste persone, che non parla italiano, fa capire di avere un lavoro in Patria, dove spera di tornare presto non appena la situazione si sarà normalizzata. Per questo i nuovi arrivati hanno rifiutato di inoltrare la richiesta di asilo politico. Sono molto preoccupato perché i Cie sono ambienti estremamente difficili e queste persone non hanno colpe specifiche da scontare, se non quella di essere fuggite dagli orrori di guerra”. Libia: sei detenuti politici uccisi dalla polizia; sei colpi per sei teste… così si fa a Tripoli da sempre di Francesca Spinola Ansa, 24 febbraio 2011 “Se entro domani a quest’ora non ti avrò richiamato, ci rivedremo nella casa di Dio: questo è il sangue che dobbiamo versare per la nostra libertà”. Le ultime parole che mi dice al telefono. È pomeriggio inoltrato quando mi chiama A. (non faccio il suo nome perché non so se sia vivo o morto), un poliziotto, uno di quelli buoni, che mi ha preso in simpatia dal primo giorno che ci siamo conosciuti. Me lo hanno messo alle calcagna tanto tempo fa, per controllare quello che facevo, in un Paese dove i giornalisti sono merce rara e io ero l’unica straniera ad avere un accredito stampa permanente. “Hanno sparato a tre detenuti”, mi dice con la voce trafelata e il suo italiano stentato. Passano pochi minuti e mi richiama, “no sono sei, ne hanno uccisi sei”. Quasi certamente detenuti politici entrati in contatto con le famiglie di Bengasi che devono avergli detto della rivolta, della speranza di farcela. Si sono ribellati e la polizia non ha esitato: sei colpi per sei teste. Così si fa in Libia, da sempre. A. è terrorizzato. Mi dice che a Bengasi hanno appena ucciso un suo cugino di 23 anni. Non l’ho più sentito. E quelle 24 ore sono passate. E una delle tante “istantanee” che porto con me oggi, mentre l’aereo che mi sta riportando in Italia con la mia famiglia, stacca le ruote dal suolo libico. Mi tornano in mente tanti volti, immagini, momenti vissuti su quella terra che si allontana. E mi tornano in mente gli ultimi giorni, i più difficili e drammatici. L’inferno vero a Tripoli inizia il 19 febbraio. Incontro Rhim dal macellaio della Gargaresh, una lunga arteria che porta dall’ovest della città verso il centro. Facciamo scorte di cibo perché l’aria che tira è tesa. Dentro, sul bancone di Abdhalla, è comparsa una foto di Muammar Gheddafi che campeggia sulla canna di una grande pistola esposta da tempo come trofeo. Non è chiaro se la canna sia solo un supporto per un fan del Leader o un sottile gioco dove la testa del colonnello è il bersaglio dell’arma. Questa è Tripoli da quando Bengasi e tutta la Cirenaica sono in guerra. Un posto dove ci si guarda con sospetto. Dove nessuno sa più da che parte stare. Dove il tuo vicino potrebbe trasformarsi nel tuo carnefice. Così si ascolta in silenzio la carneficina che insanguina la Cirenaica e la battaglia dei propri amici, compagni, cugini: In Libia sono una manciata di milioni e pare che tutti siano imparentati fra loro. “Sono i più giovani quelli che stanno morendo”, mi dice Rhym. “Sono ragazzi nati negli anni 90, gente che non ha paura perché non ha già sofferto”. Poi con le lacrime che stenta a trattenere mi dice che a Bengasi sono morti due suoi conoscenti di 13 anni. Dal tardo pomeriggio del giorno prima Tripoli è attraversata dalle raffiche dei mitra che accompagnano le ore nel corso dell’intera notte, fino al mattino, quando tutto si placa. Mi muovo in una città dimezzata. Metà del traffico, di solito impossibile. Metà dei ragazzi per strada. Metà dei negozi aperti e su tutto un vento che non accenna a smettere e la stanchezza aggiunge stordimento. Ma anche paura. Chiamo amici, informatori, voglio sapere come stanno, cosa pensano che accadrà, quale sarà la prossima mossa di un capo che è in Libia da tutta la loro vita. Ma la risposta è sempre la stessa: “abbiamo paura”. Sono paralizzati. Stanno nelle loro case in attesa di qualcosa che solo loro sembrano conoscere già: la ferocia. Che non tarda. Perdo il conto dei morti perché nessuno che io conosca osa avventurarsi per la città durante la notte e non ci sono report o immagini. Noi giornalisti siamo controllati a vista. Io sono stata presa dalle forze di sicurezza in borghese solo qualche giorno prima che tutto avesse inizio a Tripoli: un avvertimento. Domenica 20 mi accorgo che mi hanno bloccato il cellulare. Scopro poi che lo hanno fatto anche ad altri tre colleghi. Il pomeriggio dello stesso giorno un impiegato della LTT, la compagnia telefonica, mi avverte che ci sarà un blocco totale delle comunicazioni. Faccio appena in tempo a chiamare il Vescovo di Tripoli, Monsignor Giovanni Martinelli. Mi racconta delle vicissitudini dei religiosi in Cirenaica. Chiese e case assaltate. Il blocco di tutte le comunicazioni è il campanello di allarme. Una notte di vera odissea: La città si svuota di cittadini e si riempie di ronde dei comitati rivoluzionari, la spina dorsale del regime libico. Armati di fucili controllano le strade e sono pronti a sparare ai manifestanti, circa 3.000 persone che si stanno riversando dalle cittadine circostanti verso il centro città. Danno fuoco a cassonetti, macchine, a tre caserme della polizia. Le raffiche di mitra accompagnano le grida, i clacson, i cori. Una notte da incubo: Molti forzano i portoni delle case per entrare negli androni. Il discorso di Seif Al Islam, catalizza l’attenzione e subito delude i libici che credevano in lui. Il 21 febbraio è chiaro a tutti: Tripoli è nel caos. Fra supporter e manifestanti, polizia ed esercito, forze di sicurezza e mercenari, nessuno sa più a chi credere. La città è un fantasma di se stessa. Di giorno è terra di nessuno. Poi all’improvviso compaiono posti di blocco di gente in borghese e armata. È il momento della grande fuga. L’aeroporto è preso d’assalto. Lo spazio aereo è chiuso a tratti e attraversato da elicotteri per trasporto truppe. I mercenari di Gheddafi? Non c’è tempo nemmeno per darsi una risposta. Tutti fanno fagotto. L’aeroporto di Tripoli è un girone dell’inferno. Migliaia di persone accalcate in attesa di un volo. Fra loro molti tunisini ed egiziani terrorizzati. Il regime li ha presi di mira: è anche colpa loro se la Libia è esplosa. Io impiego due giorni a raggiungere l’aeroporto. È il 22 quando un charter dall’Italia ci viene a prendere. L’aereo decolla e l’applauso è liberatorio. Libia: l’incubo di un ricercatore italiano senza accuse precise finito nelle carceri di Gheddafi www.blitzquotidiano.it, 24 febbraio 2011 In prigione in Libia senza una vera accusa: è quello che è capitato a un ricercatore italiano della University of London, raccontato dal Fatto Quotidiano. “Quando passi tre settimane in carcere in Libia ti vengono in mente molte cose. Guardi le foto di Berlusconi che bacia Gheddafi a Tripoli e ti chiedi se sei tu a dover essere sacrificato sull’altare degli interessi economici. Pensi agli accordi Italia-Libia e vedi che parlano di diritti umani che poi a te sono sistematicamente negati”. L’uomo, che chiede di mantenere l’anonimato, è stato arrestato a Tripoli il 4 dicembre scorso. È potuto tornare in Italia la vigilia di Natale dopo aver passato venti giorni nelle prigioni di libiche “senza processo o capo di accusa. Ma soprattutto senza che nessuno del Consolato o dell’Ambasciata italiana si facesse vivo. La sua colpa, scrive il Fatto, “aver incontrato persone non gradite al regime: due ragazzi della minoranza berbera, arrestati anche loro dai servizi libici il 16 dicembre e, secondo le denunce di Amnesty International, torturati in carcere. I fratelli Mazigh e Maghris Bouzahar sono stati rilasciati domenica”. Il ricercatore era finito in Libia per studiare un dialetto berbero in via do estinzione parlato nella piccola comunità di Augila. Qui incontra uno dei due gemelli Bouzahar, attivisti dediti alla promozione della cultura berbera e membri del World Amazigh Congress. Torna a Tripoli il 4 dicembre, viene fermato in aeroporto. Viene riportato in albergo, e qui, nel suo portatile, gli trovano i documenti sulla lingua berbera. Tutto quello che riesce a fare l’italiano è avvisare il consolato, che promette di informarsi. Ma poi lo studioso non riceve più alcuna notizia, escluso da ogni comunicazione con il mondo esterno per venti giorni. “Per ore e ore mi hanno chiesto di spiegargli giorno per giorno dove ero stato, chi avevo incontrato e cosa avevo fatto”, racconta al Fatto. Ore di interrogatorio, la firma dei verbali in arabo senza traduzione. In carcere l’uomo raccoglie le testimonianze di chi ha subito torture e botte dalle forze di sicurezza. Dopo cinque giorni l’uomo viene trasferito in isolamento. Alla fine qualcuno inizia a credere al fatto che quest’uomo fosse solo un ricercatore con un progetto accademico e scientifico. Il 22 dicembre viene portato in un albergo. Alla fine una commissione accademica libica vaglia il suo racconto, e lui può finalmente tornare in Italia. Rimangono alcuni interrogativi, sottolinea il Fatto: “come mai in quei venti giorni nessuna autorità italiana è riuscita a mettersi in contatto con un cittadino italiano detenuto senza capi d’accusa in un carcere libico? Cosa ne è dei decantati rapporti privilegiati? E se è vero che il Consolato ha chiesto a più riprese informazioni a Tripoli perché non gli sono state date e quali passi formali sono stati fatti per averle? E perché è stato chiesto all’uomo di mantenere il riserbo sulla sua vicenda?” “Per due mesi, racconta il ricercatore, un po’ egoisticamente, ho pensato fosse giusto non disturbare il manovratore e che forse non ne avrebbero giovato nemmeno i miei progetti di ricerca. Poi sono arrivate le manifestazioni e i morti. Il silenzio cominciava a pesare. E quando anche i miei amici libici sono stati liberati, è arrivato il momento di raccontare”. Libia: mancano notizie di Lolli, in prigione vicino a Tripoli; la Farnesina lavora per estradizione Ansa, 24 febbraio 2011 Ancora nessuna notizia di Giulio Lolli, l’ex presidente di Rimini Yacht indagato per una colossale truffa basata sulla vendita a più clienti degli stessi mega yacht, e detenuto da tempo in Libia dopo essere stato arrestato in seguito ad un mandato di arresto internazionale. Detenuto in un carcere posto a circa 5-6 chilometri dalla capitale Tripoli, Giulio Lolli potrebbe trovarsi immerso appieno nell’inferno che sta vivendo il paese di Gheddafi ormai in guerra civile: una situazione in cui la posizione di carcerato non è certo la più facile. I suoi familiari sono molto preoccupati, anche perché non si riesce ad avere alcuna notizia certa dalla Libia. Né la Procura né tantomeno l’avvocato di Lolli, Antonio Petroncini, sono riusciti a sapere nulla dal Ministero degli Esteri che sta intervenendo in Libia per rimpatriare i connazionali. Per Lolli la questione è ancora più complicata perché non esiste un trattato di estradizione tra i due paesi e inoltre in questi giorni sembrano saltate le gerarchie diplomatiche e non, per cui non si sa neanche a chi rivolgere richieste, sia le ufficiose che le ufficiali. “La cosa più grave - afferma Petroncini - è che tuttora non mi è stato comunicato nè perché Lolli è detenuto in Libia, non avendo commesso alcun reato in quel paese; nè se è stato arrestato dai libici o dagli italiani, né quali sono i capi d’accusa a suo carico. Ho più volte chiesto lumi al Ministero degli Esteri, facendo presente l’anomalia della situazione e il pericolo che corre il mio assistito, e non mi hanno degnato di alcuna risposta. Ma non demordo, continuerò a pressare la Farnesina; prima o poi dovranno darci una risposta”. Ma dalla Farnesina - interpellata sulla vicenda - si fa sapere che una richiesta di estrazione era già stata presentata alla fine del gennaio scorso dal Ministero della Giustizia. E che tale richiesta è stata sollecitata proprio oggi dal Ministero degli Esteri che è in contatto con l’Interpol. Lolli, spiegano le fonti interpellate, è stato arrestato a fini estradizionali dopo un mandato di cattura internazionale dell’Interpol. “Stiamo lavorando per favorire il rientro del connazionale”, precisano le stesse fonti.