Giustizia: la custodia cautelare dovrebbe essere una misura eccezionale, non ordinaria di Michela Evangelisti Il Giornale, 23 febbraio 2011 Misure che non dovrebbero essere ordinarie, ma applicate soltanto in presenza di presupposti di assoluta necessità. Sul controverso tema della custodia cautelare la parola a Gaetano Pecorella. Si parte da misure interdittive, quali il divieto di svolgere determinate attività, di stare in un certo luogo o di avvicinarsi ad alcune persone, per arrivare agli arresti domiciliari e al carcere. Le misure di custodia cautelare, oggetto di polemiche e riflessioni mai sopite, hanno come presupposto gravi indizi di colpevolezza. Ma i requisiti non possono fermarsi qui, perché, come spiega l’avvocato Gaetano Pecorella, “trattandosi di una misura che si applica nonostante il principio di presunzione di innocenza, deve obbedire a ragioni processuali, ovvero servire per impedire l’inquinamento delle prove, la fuga e, infine, la reiterazione del reato”. Punto, quest’ultimo, di per sé contraddittorio e in aperto contrasto con il principio di presunzione di innocenza. “Se da un lato si afferma che il reato va accertato, dire che si applica una misura cautelare per impedire la reiterazione del reato significa presupporre che il reato sia stato già accertato - illustra l’avvocato. Tra l’altro è la più diffusa ragione di applicazione delle norme cautelari, perché le ragioni di non inquinamento della prova hanno una durata determinata nel tempo, considerato che la prova è destinata a essere svelata, e per quanto riguarda il pericolo di fuga il più delle volte sono sufficienti misure come gli arresti domiciliari o strumenti di controllo a distanza”. Ritiene dunque che la norma relativa alla custodia cautelare sia valida e applicabile con efficacia o che andrebbe rivista? “Credo che tutto il sistema andrebbe radicalmente modificato. Il pubblico ministero raccoglie gli indizi e formula una richiesta di misura cautelare, spesso molto estesa e contenente numerosissime intercettazioni ed elementi di prova. Il gip si trova nella difficoltà obiettiva di potere valutare e approfondire tutti questi elementi, disponendo di tempi molto stretti, e finisce per affidarsi in gran parte alle valutazioni del pubblico ministero, al punto che non è raro trovare ordinanze di custodia cautelare che ricalcano alla lettera la richiesta del pm. Il tribunale del riesame, sul quale si riversano una valanga di deposizioni e atti, deve muoversi in tempi molto ristretti, e finisce a sua volta per appiattirsi sulle decisioni dei gip. Purtroppo in Italia, come osservava a suo tempo Vassalli, il giorno della condanna è spesso il giorno della scarcerazione, perché si è scontata tutta la pena nel corso della misura cautelare”. Quale può essere il cambiamento radicale? “Si potrebbe prendere ad esempio il sistema francese, con il cosiddetto contraddittorio anticipato. Si applica una misura restrittiva provvisoria, che non comporta o non dovrebbe comportare la reclusione in carcere ma in istituti appositi, poi si instaura un vero contraddittorio davanti a un giudice o a un tribunale, al termine del quale il tribunale decide se applicare o meno una misura cautelare a carattere permanente. Il paradosso del nostro sistema è che l’articolo 111 prevede che ci debba essere, prima che una persona sia incarcerata per scontare la pena, un contraddittorio nella parità delle parti, ma almeno la metà dei detenuti italiani sono in attesa di giudizio senza aver avuto un vero contraddittorio, né davanti al gip né davanti al tribunale del riesame. Tutto si basa esclusivamente sulle prove che sono state raccolte dal pm; il cosiddetto diritto di habeas corpus da noi non esiste”. La carcerazione preventiva è una misura che dovrebbe essere disposta solo in casi eccezionali e per brevissimi periodi, mentre in Italia se ne fa un uso abnorme. Quali sono le cause di questo uso improprio della legge? La separazione delle carriere tra inquirenti e giudici potrebbe essere una soluzione per arrivare a un’applicazione corretta della legge sulla custodia cautelare? “La separazione delle carriere cambia il volto complessivo del sistema penale. Il pm nel tempo finirà per essere visto dal giudice come una parte, esattamente come il difensore. Oggi non è così, tanto che si usa dire che il giudice è prestato all’accusa. Perché si fa un uso così ampio della custodia cautelare? Non a caso è stata definita una dolce tortura, perché è uno strumento di pressione psicologica molto forte. In carcere si debilita la volontà di difesa: pur di uscire di galera l’imputato, per paura di essere soggetto a violenza o sottomissione, finisce per confessare o collaborare. La custodia cautelare qualche volta viene anche usata positivamente, per salvaguardare le prove o evitare il pericolo di fuga, ma soprattutto per certi reati dove non c’è violenza né pericolo dì fuga, come ad esempio i reati di corruzione, si potrebbero scegliere altre strade”. Una modifica del 2009 aveva nuovamente esteso a una serie numerosa di reati, fra cui quelli sessuali, la regola eccezionale per cui, in presenza di gravi indizi di colpevolezza, la magistratura deve comunque applicare la carcerazione preventiva. La Corte Costituzionale ha poi cancellato la norma che imponeva al pubblico ministero di applicare la custodia cautelare in prigione anche per coloro sospettati di reati di sfruttamento della prostituzione minorile. La decisione della consulta ha scatenato polemiche nel mondo delle associazioni, che hanno accusato la corte di giustificazionismo. Cosa ne pensa? “La corte costituzionale non ha motivi di essere giustifica-zionista: tende sempre e comunque, nonostante i suoi errori, a far rispettare la Costituzione, la quale dice chiaramente che la misura cautelare deve essere eccezionale, non ordinaria. La corte ha ragione quando afferma che, al di là di motivi “propagandistici” o di consenso elettorale, la misura va applicata quando vi siano i presupposti per la sua necessità”. Sono ormai decenni che la nostra politica risponde all’emergenza carceri o con atti di clemenza o con piani di edilizia carceraria, ma il problema è ad ora irrisolto. “Il nostro sistema carcerario è sicuramente medioevale: la pena dovrebbe tendere alla rieducazione del condannato, mentre nelle nostre carceri non è la norma che si lavori, che si studi, che si faccia sport. La reclusione dovrebbe essere un tratto della vita della persona perché poi torni nel mondo civile migliore e non peggiore; un sistema carcerario come il nostro diventa invece un luogo di violenza e di abbandono o addirittura una scuola di delinquenza, nella quale si stabiliscono contatti tra persone che hanno commesso reati modesti e persone di spessore criminale”. Quali strade a suo parere sarebbero percorribili? “Innanzitutto il carcere dovrebbe essere pensato come estrema ratio, da applicare solo quando non c’è nessun altro mezzo più efficace. In secondo luogo bisognerebbe ripensare tutto il sistema carcerario distinguendo, come nell’inferno, i gironi: dal carcere semiaperto o aperto per i reati minori al carcere sempre più restrittivo. Inoltre sarebbe molto utile introdurre una misura che funziona benissimo nei Paesi anglosassoni, cioè quella della cauzione: se ti faccio versare una certa somma anche rilevante, a seconda delle condizioni economiche, e tu fuggi quella somma la perdi. Un provvedimento conveniente anche per pagare le spese di giustizia e risarcire le vittime alla fine del processo. Si potrebbero valutare pene alternative, come il lavoro obbligatorio nell’assistenza agli anziani o ai malati, e aumentare le misure patrimoniali, soprattutto per certi reati economici. Infine il carcere andrebbe concepito come luogo di educazione e che non recida i legami familiari e sociali: un capitolo importante è anche quello della sessualità in carcere, un diritto che credo dovrebbe essere garantito per lo meno ai soggetti in attesa di giudizio”. Giustizia: uno Stato democratico di diritto in cui la legge sia davvero uguale per tutti di Eliconia Campo di Costa Il Giornale, 23 febbraio 2011 Custodia cautelare o arresti domiciliari? Carcere o casa di cura? Quali sono i casi in cui è possibile disporre una misura cautelare nei confronti di un indagato in attesa di giudizio? “Secondo quanto previsto dall’articolo 274 del Codice di procedura penale per poter ricorrere a una misura cautelare devono esistere determinate condizioni - afferma Raffaele Della Valle, avvocato penalista -. Non deve esistere il pericolo di inquinamento probatorio, non deve esserci il pericolo di fuga dell’indagato e non deve esistere il pericolo che l’indagato commetta altri reati, gravi o contro l’ordine pubblico o della stessa natura di quello per il quale è indagato”. Le misure cautelari previste dalla legge possono essere coercitive o interdittive. Queste ultime comprendono il divieto di espatrio, gli arresti domiciliari, il divieto o l’obbligo di dimora, l’allontanamento dalla casa familiare, l’obbligo di presentarsi alla polizia giudiziaria e la custodia cautelare in carcere o in luogo di cura. Come spiega Della Valle si tratta di una misura da adottare solo in casi assolutamente eccezionali ovvero quando ogni altra misura coercitiva risulti inadeguata, come risulta dal terzo comma dell’articolo 275 del Codice di procedura penale. La legge è chiara: la custodia cautelare in carcere è l’extrema ratio”. In che modo è possibile stabilire l’esistenza del pericolo che l’indagato commetta un altro reato grave o della stessa natura? “Il pericolo di inquinamento delle prove o di fuga sono due elementi facilmente verificabili, ad esempio nel caso in cui il soggetto abbia confessato e si sia costituito. La reiterazione del reato, invece, è più difficile da determinare. Si tratta di un fattore che rientra nella famosa area di discrezionalità del giudice che attraverso la “sfera di vetro” deve prevedere se ci sia il pericolo che il soggetto in futuro possa reiterare l’azione delittuosa. Ed è in quest’area che avvengono le cose più incredibili”. Quali elementi entrano in gioco in questa decisione? “Si tratta di una presunzione, in cui ognuno porta la propria cultura. Un magistrato può stabilire che c’è il pericolo di reiterazione del reato e un altro nello stesso caso potrebbe decidere il contrario. E un giudizio volubile lasciato all’ampia discrezionalità del giudice”. Dalle sue parole emerge un quadro della giustizia come un “terno al lotto”. “E così e il cittadino non può che essere sbandato. Noi avvocati siamo sommersi di richieste di obiezioni e domande perché la gente non capisce. È una torre di Babele in cui ognuno interpreta la reiterazione del reato secondo la propria cultura. Se si trova un magistrato che crede nella cultura della garanzia, nello Stato liberale democratico, nella valenza della legge e della presunzione di innocenza prevista dall’articolo 27 della Costituzione e nella custodia cautelare in carcere come extrema ratio, si è fortunati. Se invece capita un magistrato giustizialista con una cultura che mette avanti non la legge, ma l’uomo giusto e inflessibile, si è sfortunati e si resta dentro, anche a parità di condizioni. Questo dimostra che l’Italia ha tante repubbliche quante sono le teste”. Quindi dove sta il confine tra la discrezionalità del giudice e l’applicazione della legge? “La discrezionalità deve esistere. Il limite? Secondo me è dato dal buonsenso. Il fatto è che si tratta di un elemento che spesso manca nel nostro Paese. Non basta conoscere le leggi e sapere a memoria il codice. Deve esistere anche quel qualcosa in più, quel quid, che a parer mio è proprio il buonsenso”. La conseguenza è, come appare ovvio, una disparità di trattamento tra imputati di serie A e di serie B. “La disparità è micidiale. Se ci sono 40 gip, devo sperare di capitare con il numero 12 invece che con il 20. La stessa cosa vale per i pubblici ministeri. Non c’è un criterio omogeneo. Accade anche in giudizio. Un imputato per detenzione di stupefacenti può prendere quattro anni con un giudice, sei con un altro o uscire subito con un terzo. È una vera e propria Babilonia”. Quindi la soluzione è applicare la legge sempre e costantemente? “Certo. La legge non è a fisarmonica. Non si possono fare discriminazioni. E invece capita sempre più spesso che magistrati “sbaglino”, soprattutto se si tratta di applicare la norma a un “colletto bianco”. Se vogliono tenerti dentro invocano la gravita del reato, se non vogliono la gravità del reato scompare e si appellano alla confessione o alla mancanza di pericolosità. Quando vogliono sostituiscono la mentalità del giudice con quella del prete, ti fanno dire tre Ave Maria ed è finita”. È un problema culturale, quindi. “Sì e purtroppo vedo che i giovani seguono sempre più spesso la filosofia di Di Pietro e prediligono il giustizialismo al garantismo. Questo non mi fa ben pensare. Del resto, da parte degli inquirenti, c’è più la tendenza alla cultura della caserma che a quella della giurisdizione. Questi poi ci mettono del loro perché fissano le conferenze stampa all’orario del telegiornale, chiamano le telecamere quando devono tradurre gli indagati dalla caserma al carcere, creando quella gogna mediatica che fa gonfiare inopinatamente le fila dei razzisti. Se parlassero solo dopo aver accompagnato in carcere, le scene da far west a cui sempre più spesso assistiamo, non si vedrebbero. Qualcuno dice che ad alimentarle sono i giornali. Posso essere d’accordo, ma i giornali sono “notiziati” da qualcuno che li avvisa dell’ora in cui arriva il cellulare a portare via l’indagato. Invece, quando vogliono proteggere, proteggono”. Il quadro che sta facendo è particolarmente desolante, in effetti. “Diciamo che, dopo 44 anni di carriera, sono molto disamorato. La discrezionalità dovrebbe essere molto diversa. E per tutti. Invece c’è una miriade di deroghe e la legge viene applicata con rigore in alcuni casi, mentre solo in alcuni ci si ricorda di un principio che, in origine, era stato stabilito per tutti: in carcere ci si va solo come extrema ratio ovvero quando non se ne può fare a meno e per il tempo strettamente necessario allo svolgimento delle indagini. Finito questo periodo il cittadino deve affrontare il processo, chiunque esso sia. Questo è lo Stato democratico di diritto. Invece ognuno fa quello che vuole”. Giustizia: il caso di Giovanni Mercadante; il mio calvario da detenuto innocente 9Colonne, 23 febbraio 2011 “La cosa che ti fa impazzire è l’impotenza. Se due, tre delinquenti dicono che sei un mafioso, che sei creatura di Provenzano, come fai a difenderti? Sai che sei innocente, lo sai, ma come fai a provare che sei una persona perbene anche se è la tua vita a dimostrarlo, se non hai fatto niente?”. Lo afferma Giovanni Mercadante, ex deputato regionale in Sicilia di Forza Italia, ex primario di Radiologia all’Oncologico “Ascoli” di Palermo, assolto dalla corte d’Appello di Palermo dall’accusa di mafia, in una intervista al Giornale, nella quale ripercorre un calvario lungo quasi cinque anni, fatto di due anni e due mesi di carcere e quindi di arresti domiciliari. “Speravo - dice - che qualcuno dei giudici leggesse attentamente le carte e che avesse il coraggio di riconoscere la mia innocenza, di ribaltare la condanna di primo grado a dieci anni e otto mesi. Capivo però che non era facile. E invece è accaduto. Se c’è un giudice terzo ci si può difendere dalle false accuse”, “contro di me c’erano solo accuse de relato di tre pentiti e alcune intercettazioni in cui si parlava di me come persona disponibile. Quelli che parlavano erano un cugino di mia madre e un medico, mio ex collega di corso. Ma non mi hanno mai chiesto nulla, mai raccomandato nessuno. Come potevo sapere che loro avevano rapporti con la mafia?”. E ricorda: “È stata una morte ingloriosa, la mia. A luglio del 2006 ero deputato regionale e un medico stimato, dall’oggi al domani mi sono ritrovato in una cella, a leggere accuse che mi facevano rabbrividire”, “non c’era stato alcun preavviso. Mi hanno preso e portato all’Ucciardone. L’arresto è terribile, ti senti esterrefatto, come se ti cadesse un palazzo sulla testa. E lo sgomento aumenta man mano che leggi le accuse contro di te. La cosa più traumatica è quando ti buttano nel canile dell’Ucciardone. Ore e ore di attesa e poi le foto segnaletiche, le impronte digitali, essere costretto a denudarmi davanti agli agenti per dimostrare di non avere addosso armi... Umiliante, terribilmente umiliante”. E aggiunge: “Veramente tremendi erano gli spostamenti dal carcere di Vibo Valentia per partecipare alle udienze. I trasferimenti sul blindato, con le manette ai polsi, chiuso in un gabbiotto 60 per 60... una mortificazione continua, durava almeno dieci ore il viaggio in queste condizioni”. E conclude: “Non ho più la mia vita. Ero un medico ma ormai sono in pensione, facevo politica ma non intendo tornare a occuparmene, è troppo rischioso fare politica in Sicilia. Mi piacerebbe, quello sì, tornare a fare il medico. Sarebbe una bella rivincita per me e per la mia famiglia”. Giustizia: caso Cucchi; interviene il Quirinale, in risposta alla lettera alla sorella Corriere della Sera, 23 febbraio 2011 Ilaria Cucchi gli aveva scritto un mese fa, all’indomani del rinvio a giudizio di dodici imputati per la morte di suo fratello Stefano, il geometra romano arrestato per possesso di hashish una sera d’ottobre del 2009 e uscito cadavere dal reparto carcerario di un ospedale dopo una settimana di detenzione. Era amareggiata, la sorella di Stefano, perché dai reati contestati era scomparso l’omicidio, colposo o preterintenzionale che fosse, per lasciare spazio alle lesioni e all’abbandono di persona incapace a provvedere a se stessa. Così aveva deciso di rivolgersi al presidente della Repubblica in persona. “Non possiamo comprendere - sosteneva la donna a conclusione della lunga lettera inviata a Giorgio Napolitano - pubblici ministeri che ostinatamente fanno finta di non sapere che Stefano, se non fosse stato picchiato, ora sarebbe vivo come vivo era con noi la sera del suo arresto. Caro presidente, noi non comprendiamo ma siamo ben consapevoli di quanto poco ciò conta, così come quanto poco è contata per l’umana giustizia italiana la vita di Stefano Cucchi. E di quanto poco continui a contare. Ognuno di noi esseri umani coltiva un piccolo o grande sogno, il mio è quello di essere smentita”. Ora, a un mese dall’inizio del processo fissato per il 24 marzo, dal Quirinale è arrivata la risposta. A firma di Loris D’Ambrosio, il consigliere del presidente della Repubblica per gli affari dell’amministra-zione della Giustizia, “Il capo dello Stato segue con attenzione i problemi connessi alla condizione carceraria e vive con preoccupazione e turbamento le vicende umane che da essa non di rado discendono - si legge nella lettera firmata da D’Ambrosio -. E ha assicurato più volte che è indispensabile assicurare alla persona detenuta il pieno rispetto dei suoi diritti fondamentali, e a tal fine è altrettanto indispensabile che gli organi preposti attivino le più rigorose forme di controllo per impedire il compimento di atti prevaricatori o, addirittura, costituenti delitto”. Nella vicenda di Stefano Cucchi, evidentemente, tutto questo non è stato garantito. Ma al Quirinale fanno affidamento che il dibattimento che sta per cominciare possa chiarire i punti oscuri della morte di un detenuto rimasta ancora inspiegata. “Nella umana comprensione per la sofferenza sua e della sua famiglia - scrive ancora il consigliere di Napolitano a Ilaria Cucchi - la invito ad avere fiducia nella magistratura che, ne sono certo, saprà tempestivamente pervenire, anche grazie al contributo della difesa tecnica da voi attivata, al compiuto accertamento delle responsabilità, a tutela di tutte le parti del processo”. La cosa più importante, per Ilaria Cucchi e gli avvocati che sostengono le ragioni della sua famiglia, sta nell’inciso contenuto nelle considerazioni finali della lettera giunta dal Quirinale. Quello in cui D’Ambrosio valorizza il “contributo della difesa tecnica da voi attivata”. Perché la prima battaglia che i legali di parte civile affronteranno in Corte d’assise sarà quella persa davanti al giudice dell’udienza preliminare, e cioè la richiesta di una nuova perizia sulle cause del decesso di Cucchi. Per stabilire un collegamento - certo secondo i consulenti degli avvocati, viceversa escluso categoricamente da quelli dei pubblici ministeri - tra le percosse ricevute da Stefano e la morte arrivata sei giorni più tardi. È questo il punto di maggior rammarico manifestato dalla sorella di Stefano, sottolineato anche nella lettera a Napolitano. Lei e i suoi genitori continuano a ritenere che esista un rapporto di causa-effetto tra le botte prese dal detenuto nelle camere di sicurezza del Tribunale di Roma (peraltro negate dagli agenti penitenziari) e i motivi del ricovero. E di conseguenza della morte. “Se Stefano non fosse stato picchiato non sarebbe andato in ospedale, non sarebbe stato messo in un reparto chiuso e oggi sarebbe vivo”, ha sempre detto Ilaria. Nelle sue conclusioni, di fronte alla richiesta di nuovi accertamenti, il giudice che ha rinviato a giudizio degli imputati ha osservato che le conclusioni dei periti delle parti civili “evidenziano problematiche e spunti di carattere scientifico degne di considerazione, ma necessitano di essere approfondite”. Come dire che quel nesso tanto discusso ci potrebbe essere, ma ancora non è chiaro. Tuttavia gli ulteriori tentativi per arrivare a una risposta definitiva, ha aggiunto, potranno avvenire “solo nell’ambito delle sede dibattimentale”. Cioè in quel processo che sta per cominciare, e al quale il Quirinale invita i familiari di Stefano Cucchi a guardare con speranza e fiducia. Lettere: Osapp; +360 detenuti in 5 giorni e meno agenti assunti… 400 invece di 1.600 Ansa, 23 febbraio 2011 Sono aumentati di 360 unità in soli cinque giorni i detenuti nelle già sovraffollate carceri italiane, passando da 67.314 a 67.674; mentre nel frattempo si sarebbero ridotte a 400 le nuove assunzioni della polizia penitenziaria rispetto alle 1.600 inizialmente promesse dal ministro della Giustizia Alfano, A denunciarlo è il sindacato Osapp il cui segretario generale, Leo Beneduci ‘In due mesi sono pressoché svaniti gli effetti della cosiddetta legge svuota-carceri, e i suicidi in carcere, riguardo lo stesso periodo di riferimento, sono aumentati del 70%. Beneduci punta il dito contro il capo del Dap, Franco Ionta, di cui chiede le dimissioni, perché - afferma con una nota - in qualità di commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria avrebbe progettato carceri che, in quanto pre-sovraffollate e malfunzionanti già dal loro avvio, rischierebbero di aumentare le tensioni esistenti. Emblematico risulterebbe, infatti, quanto in corso di realizzazione in Lombardia dove - fa notare l’Osapp - si starebbero eseguendo opere fuori norma per 800 posti letto senza prevedere ampliamenti delle cucine-detenuti, le cui esigenze aggiuntive non potrebbero essere inferiori al numero di 4, ovvero di tutte le parti comuni destinate alla socialità. Inspiegabilmente fermo persino l’oneroso progetto denominato piano-carceri che l’amministrazione penitenziaria ha impiegato ben tre anni a sviluppare - indica ancora Beneduci - e con il quale, non essendo ancora stata approvata alcuna opera, ben difficilmente l’attuale capienza penitenziaria potrà ampliarsi di 9.900 posti-letto entro dicembre 2012. Lettere: dalle carceri italiane un appello a Papa Benedetto XVI Radio Vaticana, 23 febbraio 2011 “Vorremmo poter dire a Papa Benedetto XVI che una Sua parola in questo momento sarebbe importante. La Corte Europea ha condannato l’Italia per violazione dei diritti dell’uomo nelle carceri, e ha esortato il governo a trovare subito soluzioni. Ma dal Ministero si limitano a dire che la soluzione è quella di costruire nuove carceri. È stato dichiarato lo stato di emergenza per il 2010, poi rinnovato per tutto il 2011; in un anno e più di stato di emergenza, però, non si sono visti significativi risultati, mentre il numero degli arrestati è sempre in aumento e il numero dei morti in carcere pure. Ma il governo sembra essere sordo ai nostri appelli. Noi detenuti ci rivolgiamo a Lei, Santità, affinché faccia sentire la Sua voce presso le autorità italiane, così come aveva fatto il suo mai abbastanza compianto predecessore, Papa Woityla, per ricordare a chi ci governa che le carceri sono fatte per riabilitare le persone e reinserirle nella società. Ora, invece, altro non sono che dei lager. Tutti noi ci auguriamo che un Suo autorevole intervento possa scuotere i nostri governanti e l’opinione pubblica dall’indifferenza e dal cinismo.” Con queste parole il detenuto Antonio Floris, in carcere da vent’anni, si è fatto portavoce di una richiesta che proviene da tanti altri detenuti. In molti si chiedono perché non ci sia un appello forte della Chiesa che si sollevi per invocare il rispetto della dignità umana di chi è privato della propria libertà in un carcere. Quasi settantamila detenuti stipati in strutture penitenziarie che possono contenerne poco più della metà. Sessantasei (66) suicidi “ufficiali” nel 2010 e già nove (9) nel 2011. Un centinaio i tentati suicidi sventati dagli agenti di custodia. Un trend che cresce in parallelo con le altre decine di detenuti malati morti per presunta malasanità o malassistenza. Nonostante questo quadro desolante di sovraffollamento e morti in carcere, “chi è preposto a gestire il sistema penitenziario italiano - afferma Eugenio Sarno della Uil-Pa - si contraddistingue per indifferenza, distanza e insensibilità”. Lettere: una scuola in visita ai detenuti del carcere di Tolmezzo Messaggero Veneto, 23 febbraio 2011 Abbiamo avuto l’occasione di visitare il carcere di Tolmezzo. Siamo stati accolti dalla direttrice dell’istituto, la dottoressa Silvia Della Branca, e dal commissario responsabile delle guardie penitenziarie. Ci hanno fatto visitare la struttura: una cella, la scuola e le aule dove vengono svolte le lezioni, la biblioteca, la palestra e la sala cinema. Ci hanno illustrato la vita quotidiana dei detenuti. Piuttosto monotona: sveglia, ora d’aria, attività lavorativa o educativa, pranzo, ora d’aria, doccia, cena, attività sociale serale. Alle otto in cella. Questo per i detenuti comuni, perché chi è in un regime di reclusione stretto - detto 41 bis, dall’articolo di legge che lo regolamenta - è obbligato a ritmi molto più severi e rigidi. E la famiglia di origine? I carcerati possono normalmente ricevere fino a 6 visite al mese, mentre quelli del 41 bis hanno la possibilità di usufruire solo di una visita o una telefonata al mese. Parlando con la direttrice e il commissario abbiamo capito che, nell’ordinamento italiano, la detenzione non ha principalmente uno scopo punitivo, ma dovrebbe cambiare la persona, affinché abbia la possibilità di riscattarsi nei confronti della società. È per questo che a Tolmezzo ci sono corsi di falegnameria e di informatica, percorsi scolastici per acquisire il diploma di scuola media, una serra florovivaistica: in questo modo, una volta scontata la pena, potranno trovare un lavoro e dunque evitare di delinquere nuovamente. Ma quello che ci ha coinvolto maggiormente è stato il colloquio con un detenuto. Eravamo curiosi e gli abbiamo fatto molte domande, dalle più banali alle più personali. “Questa chiacchierata mi ha toccato e colpito” dice Morris “perché ho capito che le persone, anche se hanno sbagliato e hanno procurato del male agli altri, possono cambiare e avere il diritto di rifarsi una vita e ricominciare da zero, dopo aver pagato con il carcere”. Aggiunge Martina: “Anche io condivido… E il bello è che prima non la pensavo così. Mi ha anche colpito il fatto che questa persona aveva un fortissimo rimorso: il carcere può saldare il debito con la società, ma mai con la propria coscienza”. Tutti hanno dei pregiudizi quando varcano la soglia di una prigione. Eppure abbiamo capito che questo può anche essere un luogo di accoglienza: alcuni detenuti ci hanno preparato e offerto una colazione, che poi è stata un’occasione per loro per parlare e stare in compagnia, una cosa semplice, che però per gente sempre sola e isolata è un premio, una cosa preziosa. Conclude Vanessa: “Questa trasferta a Tomezzo è stata utile perché ha cancellato dalle nostre menti lo stereotipo dei detenuti in tuta arancione dei film: sono persone come tutti”. La direttrice ha anche voluto sottolineare che sono uomini finiti dentro per piccoli sbagli. “La visita in carcere” afferma allora Thomas “ci ha fatto capire che noi siamo fortunati: abbiamo la libertà, la cosa più preziosa di cui può disporre un ragazzo e una ragazza. Dobbiamo averne cura”. La classe VB In rappresentanza di tutte le quinte Istituto di Istruzione Superiore di Spilimbergo Sardegna: accusa bipartisan; Ionta apre le carceri sarde ai super boss della mafia La Nuova Sardegna, 23 febbraio 2011 Forte preoccupazione dopo l’intervento del numero uno del Dap a Nuoro. Guido Melis: “La mafia riesce a penetrare anche nell’isola: lo affermano Pisanu e Fiordalisi” I sardi immuni alla mafia. E fuori pericolo in caso di arrivo nei carceri dell’isola di boss in regime di 41-bis. Questa la teoria esposta l’altro ieri a Nuoro dal numero uno del Dap Franco Ionta. E avallata dalla direttrice di Badu ‘e Carros Patrizia Incollu (che ospita, unico 41-bis dell’isola, il super boss Antonio Iovine). Un’analisi autorevole quanto datata. Che non solo non convince ma, vista la “levatura” di Ionta (che è stato anche pm a Nuoro negli anni caldi della contaminazione terroristica e del “braciere” di Badu ‘e Carros) lascia il sospetto che dietro la boutade del numero uno del Dap ci sia ben altro. E cioè l’intenzione (del resto palesata nel Ddl sicurezza e nel piano di riorganizzazzione delle carceri curato dallo stesso Ionta) di preparare il terreno all’arrivo in Sardegna di qualche centinaio di 41-bis, attualmente sparsi in 12 supercarceri tra centro e nord Italia. Un “sospetto” bipartisan, espresso dal presidente della commissione diritti civili Silvestro Ladu (Pdl) e dal deputato Guido Melis (Pd). “Con tutta la stima che nutro per Ionta - spiega Melis - la sua tesi non mi convince. Certo il tema della tipicità della criminalità sarda è stato a lungo una bandiera della cultura progressista in Sardegna. Furono gli Antonio Pigliaru, i Gonario Pinna, i Giuseppe Melis Bassu e poi via via gli studiosi di seconda generazione a segnalare la peculiarità del banditismo sardo: bande aggregate di volta in volta intorno a un latitante, non stabili né padrone del territorio; passività (forse) delle popolazioni della zona pastorale, ma mai connivenza o omertà; assenza di quelle stabili gerarchie che caratterizzano la piramide mafiosa. Quella interpretazione era giusta, negli anni in cui venne enunciata. Ma oggi? Cosa sta accadendo, ad esempio, in città in fortissima crescita come Olbia? Che matrice ha la violenza di certe zone dell’Ogliastra? E come dobbiamo considerare gli allarmi di magistrati esperti come Fiordalisi a Lanusei o gli avvertimenti di una personalità non certamente incline a parlare a vanvera come il presidente della commissione Antimafia Pisanu?”. “Insomma, mi stupisce che un conoscitore del tema come Franco Ionta - chiude Melis - sia tanto apodittico nell’escludere inquinamenti mafiosi in Sardegna. La mafia è presente in tutto il Nord, è arrivata a Duisburg. Perché mai noi sardi ne dovremmo restare immuni? A meno che, lo dico a mezza voce, non si voglia creare un clima, giustificare una politica carceraria, in netto contrasto tra l’altro con impegni presi anche di recente. A meno che, insomma, non si prepari un invio in massa nelle carceri sarde, vecchie e nuove, di mafiosi e camorristi ad alto rischio di contagio”. “Le parole di Ionta - attacca Silvestro Ladu - non sono né tranquillizzanti né condivisibili. Negli annì80, ad esempio, la presenza del supercarcere a Nuoro ha condizionato in negativo l’ambiente esterno. E a quegli anni sono riconducibili la nascita di movimenti organizzati che non erano tipici della cultura barbaricina. Oggi poi sono sotto gli occhi di tutti gli “atteggiamenti” mafiosi che si registrano con sempre maggiore frequenza nelle zone costiere. Sottovalutare questo fenomeno potrebbe essere un grave errore. L’atteggiamento di Ionta, viste le sue conoscenze in materia, ci sorprende. Sembra voglia minimizzare il problema quasi per mettere le mani avanti. Preparando uno sbarco in massa in Sardegna dei 41 bis. Non lo permetteremo”. Bologna: solidarietà degli avvocati ad agenti di polizia penitenziaria “trattati come schiavi” Dire, 23 febbraio 2011 Condizioni di lavoro “disumane, più simili a quelle di coloro che sono costretti a vivere in schiavitù da organizzazioni criminali piuttosto che a quelle previste per dipendenti e funzionari dello Stato”. I penalisti di Bologna descrivono così la situazione in cui operano gli agenti di Polizia penitenziaria in servizio al carcere della Dozza. Per cui, aggiungono gli avvocati della Camera penale “Franco Bricola” non stupisce la dichiarazione dello stato di agitazione dei sindacati di Polizia penitenziaria “per la situazione che loro stessi hanno definita esplosiva” della Dozza. Semmai, aggiungono, “stupisce la loro resistenza a sopportare per così lungo tempo condizioni di lavoro disumane, più simili a quelle di coloro che sono costretti a vivere in schiavitù da organizzazioni criminali piuttosto che a quelle previste per dipendenti e funzionari dello Stato”. Da tempo, tra l’altro la Camera penale di Bologna ha denunciato “le intollerabili e disumane condizioni di vita delle persone private della libertà personale e degli agenti di Polizia penitenziaria, conseguenti oltre che all’inerzia ed alla miope azione governativa” ed anche “all’eccessivo utilizzo della misura cautelare della custodia in carcere ed ad una scarsa applicazione delle misure alternative”. A questo punto, “ci chiediamo quale altra tragedia, oltre a quella purtroppo sempre più ricorrente costituita dal suicidio di un sempre maggior numero di reclusi, dovrà ancora accadere prima che si ponga mano ad una seria, concreta ed efficace riforma della giustizia e dall’applicazione rigorosa della misura cautelare della custodia in carcere”, si domandano i penalisti bolognesi. Messina: Sarno (Uil Pa); emergenza carcere, tra degrado strutturale e affollamento Adnkronos, 23 febbraio 2011 L’istituto penitenziario mostra impietosamente i segni del tempo (costruito negli anni 50) e gli effetti dell’usura accentuata dagli effetti della salsedine. Pur essendo stata una visita limitata al poco tempo disponibile, si è potuto constatare come gli allarmi lanciati nel tempo dal personale trovino molto che più giustificate ragioni. È quanto fa notare il segretario generale della Uil Pa Penitenziari, Eugenio Sarno, a seguito della visita effettuata lo scorso 18 febbraio alla Casa Circondariale di Messina. È del tutto evidente - spiega Sarno - che l’impossibilità di accedere ad idonei finanziamenti, per i necessari interventi di manutenzione straordinaria, determinino un grave degrado strutturale che coniugato all’impressionante sovrappopolamento fanno della Casa Circondariale di Messina una vera emergenza penitenziaria. Un orrore. Null’altro - rimarca - ci sovviene per definire ciò che abbiamo potuto vedere. “Particolarmente gravosa - fa notare ancora Sarno - è la situazione organica del personale di polizia penitenziaria”, per cui è necessario porre in atto una serie di iniziative per contenere il disagio, la rabbia, la frustrazione, la stanchezza del personale. Auspichiamo un confronto sulla riorganizzazione del lavoro e sempre più corrette relazioni sindacali. Roma: “L’identità che dà libertà”, un incontro sulla creatività negli istituti penitenziari Dire, 23 febbraio 2011 “In carcere c’è spazio anche per l’arte”. Parola di Enrico Borello, operatore di “Ferro & Fuoco Jail Design” del carcere di Fossano in provincia di Cuneo, che organizza nel locale più Fancy di Roma. “Se l’arte fa l’identità che dà libertà, un incontro sulla creatività negli istituti penitenziari. L’evento nasce dall’incontro con Pino Di Maula, il giornalista ideatore dell’inusuale laboratorio di idee sorto all’interno di un locale bio, che a sua volta fa da cornice a una galleria d’arte. Non è un caso che a promuovere l’iniziativa sia proprio Di Maula considerando la sua ultra decennale attività giornalistica: “Ho più volte denunciato - dichiara - lo stato di illegalità dello Stato che costringe decine di migliaia di persone a sopravvivere, e purtroppo spesso a morire, in quelli che di fatto sembrano essere diventati, come dimostra - chiosa l’ex direttore di Left - anche l’ultimo servizio di Riccardo Iacona su Rai 3, i nuovi manicomi dove rinchiudere impunemente persone malate, disagiate o, semplicemente, sfortunate: migranti, poveri o semplicemente illusi da qualche grammo di droga”. Per fortuna esistono anche rari casi di eccellenza che dimostrano come la trasformazione individuale e sociale sia possibile, anzi è una realtà concreta se si opera recuperando quella creatività tipica degli esseri umani che fa identità, l’identità umana e professionale che dà la vera libertà, anche in carcere: “Non si tratta di un esercizio filosofico, ma di investimento per il Paese che scavalca l’idea di punizione con il concetto di produzione di qualità. Ecco la ragione dell’interesse per l’iniziativa di Ermete Realacci, che oltre ad essere responsabile green economy del Pd è presidente di “Symbola”, Fondazione per le Qualità Italiane nata con l’obiettivo di promuovere un nuovo modello di sviluppo orientato alla qualità in cui si fondono tradizione, territorio, ma anche innovazione tecnologica, ricerca, design. Fancy è una società composta da tre donne in rappresentanza di un movimento di creativi che operano nel Lazio per dar vita a operazioni culturali di varia natura. Con “Fancy dall’orto all’arte”, il locale realizzato di fianco al Palazzo delle Esposizioni, si lavora ad esempio per offrire benessere in ogni senso: frutta e verdura provenienti da orti biologici curati da Consortium vengono messi in bella mostra tra prodotti d’artigianato d’autore, opere d’arte e gioielli in carta pesta. Tutto ciò in un atmosfera stimolante creata ad arte con presentazioni di libri, cd, corsi di formazione ed eventi dove si mette in campo l’ingegno che fa di quel locale un posto davvero piacevole, “naturalmente”. Le opere realizzate nel carcere di Fossano saranno esposte nella galleria di via Milano 6, a fianco al Palazzo delle Esposizioni. La presentazione, sabato 26 febbraio 2011 dalle ore 19.30. Ospiti della serata: Ermete Realacci, responsabile green economy del Pd; Angiolo Marroni, garante dei diritti dei detenuti del Lazio; Luca Iaia, responsabile nazionale Cna Artistico e Tradizionale; Marco Girardello, della Fondazione Casa di Carità Arti e Mestieri Onlus; Pietro Felici, psicologo; imprenditori, critici e designer selezionati da Next Exit Busto Arsizio: studenti a scuola di “dolce in carcere” Varese News, 23 febbraio 2011 Una tavola rotonda sul progetto realizzato nella casa circondariale di Busto in programma venerdì 25 febbraio alle ore 10.00 al teatro Sociale di Busto Arsizio. Venerdì 25 febbraio alle ore 10.00, presso il teatro Sociale di Busto Arsizio, si svolgerà il convegno “A scuola di ... Dolce in carcere”, progetto nato dalla collaborazione dell’Associazione Assistenza Carcerati e Famiglie di Gallarate, i comuni di Busto Arsizio, Gallarate, Cassano Magnago e alcuni istituti scolastici della zona. Il progetto, realizzato grazie al contributo della legge regionale 23/99 erogato dal Dipartimento Sviluppo e Sussidiarietà Assi dell’Asl diretto dalla Dr.ssa Ester Poncato, vuole avvicinare i giovani dei diversi istituti al mondo del carcere. Una tavola rotonda rivolta agli studenti delle scuole superiori e finalizzata alla prevenzione e all’informazione sui temi della legalità, del carcere, del senso della pena e del reinserimento in società, per riflettere sui primi risultati prodotti dal progetto anche attraverso la testimonianza di alcuni studenti che hanno partecipato ai laboratori direttamente presso la Casa Circondariale. Il progetto si é sviluppato lungo tutto il corso dell’anno grazie a diverse attività: incontri e testimonianze con gli operatori carcerari (direttori, educatori, insegnanti, psicologi, operatori volontari, Magistrati di Sorveglianza) e alcuni laboratori pratici che proseguiranno sino al mese di maggio e termineranno con una mostra dei lavori realizzati. Parteciperanno alla tavola rotonda, moderata dal dott. Pietro Roncari - Presidente Associazione Carcerati e Famiglie di Gallarate; dott. Luigi Pagano - Provveditore Amministrazione Penitenziaria della Lombardia; dott. Salvatore Nastasia - Direttore della Casa Circondariale di Busto Arsizio; dott.ssa Rita Gaeta - Responsabile area trattamentale Casa Circondariale di Busto Arsizio; Avv. Mario Crespi - Assessore Servizi Sociali comune di Busto; dott. Pierluigi Brun - Coordinatore del Progetto “Dolce in carcere”; dott.ssa Chiara Bertinotti, psicologa e conduttrice dei laboratori in aula. Bollate (Mi): lezioni di cucina per le detenute, termineranno l’8 marzo Comunicato stampa, 23 febbraio 2011 Nel reparto femminile della II Casa di Reclusione di Bollate tutti i giovedì a partire dal mese di novembre fino all’8 marzo, si sono tenute lezioni di cucina alle quali hanno partecipato alcune detenute interessate ad imparare ed approfondire le regole del buon cucinare. Questa iniziativa è stata proposta, come service, dalla Presidente del Soroptimist Club Milano Fondatore, Mariangela Doglio Mazzocchi ed accettata con entusiasmo dalla direttrice della Casa di Reclusione Lucia Castellano che ha messo a disposizione la cucina della mensa. Questo ha permesso alla giornalista di cucina Lucia Donizetti di portare nel carcere la sua lunga esperienza anche come insegnante del settore. Un veloce percorso di formazione culinaria che ha dato a tutte le partecipanti la possibilità di esprimersi al meglio pur nella privazione della libertà . Dopo ogni Corso tutte in tavola a gustare il menu preparato! Giunte alla fine delle lezioni , nel giorno più rappresentativo per le donne, l’8 marzo si terrà nella Sala Convegni del carcere una cena aperta ad ospiti interessati a conoscere una realtà che vive parallela accanto alla nostra società libera. Le donne che hanno partecipato alle lezioni cucineranno mettendo nel cibo non solo quanto hanno imparato ma anche la loro esperienza di cuoche libere. Durante la serata verrà presentato il libro” Ciaocucina”, scritto da Lucia Donizetti con la collaborazione di alcune detenute a testimonianza di tutto il lavoro svolto in questi mesi nella cucina del carcere. Direzione della Casa di reclusione Milano-Bollate Milano: i detenuti-attori della Compagnia della Fortezza si esibiscono in “Hamlice” La Repubblica, 23 febbraio 2011 Se Amleto incontra Alice, il viaggio è un insolente fantasy a tinte forti che parte dal castello di Elsinoree finisce nella tana del Bianconiglio. O, per dirla in altro modo, uno spettacolo di rara potenza che nasce dietro le sbarre del carcere di massima sicurezza di Volterra e arriva a “colonizzare” gli immensi spazi dell’Hangar Bicocca. È una formidabile occasione quella offerta dall’ unica replica milanese di Hamlice (Saggio sulla fine di una civiltà), ultimo lavoro firmato da Armando Punzo con gli attori detenuti della Compagnia della Fortezza, in arrivo domani all’ interno della sezione “Fessure” che apre l’ Hangar ai diversi linguaggi della contemporaneità. Non solo arte, dunque, ma anche musica, danza e teatro nelle migliaia di metri quadrati dell’ ex stabilimento Ansaldo che si sta confermando uno dei crocevia creativi più coraggiosi della geografia milanese. Lo dimostra la scelta di ospitare questo spettacolo che ha stregato chi l’ ha visto quest’ estate nel carcere di Volterra. Perché è li che è nato, come tutti gli altri lavori (molti dei quali premiati con i maggiori riconoscimenti) di questa eccezionale tribù teatrale che dal 1988 ha saputo imporsi oltre la marginalità della reclusione diventando punto di riferimento per la scena europea. “Hamlice è il frutto di due anni di lavoro su Amleto, ovvero il testo dei testi - spiega Punzo. Ci siamo accorti che poteva essere il punto di partenza per rimettere in discussione tutto, come se i suoi personaggi si ribellassero al gioco della rappresentazione e uscendo dai loro ruoli. Esattamente come fa il romanzo di Carroll che sovverte la realtà ribaltando le prospettive. È nel tentativo di cambiare il già dato che Alice e Amleto si incontrano”. Dalla tragedia del potere al trionfo anarchico della fantasia, lo spettacolo di Punzo, che è anche in scena con stivaloni da drag queen e rossetto fiammante, è una giostra febbrile di corpi tatuati e gesti pieni di poesia, cappelli di nuvole e monologhi incandescenti, danze macabre, muri che crollano e molta musica (guest star il controtenore Maurizio Rippa) in cui Amleto, Claudio, Gertrude, Ofelia diventano Alice, il re, la regina, il Bianconiglio. Con gran finale catartico che consegna al pubblico lettere in bianco polistirolo da lanciare in aria a comporre l’ utopia di un nuovo alfabeto possibile, di una nuova storia ancora da raccontare. Il tutto ripensato per gli spazi dell’ Hangar, tra le imponenti Torri di Kiefer e le opere della mostra Terre Vulnerabili dove lo spettacolo si svilupperà in forma itinerante, con più azioni contemporanee tra le quali gli spettatori potranno scegliere, costruendo il proprio personale percorso liberatorio. Insieme a questi formidabili attori che, per quanto sono bravi, fanno dimenticare di essere detenuti ma che, a fine spettacolo, se ne andranno a dormire nel carcere di Opera per tornare il giorno dopo in quello di Volterra. Per loro tutto questo è molto più che un diversivo buonista. Lo dice bene Punzo. “Il teatro è lo specchio della società e delle sue contraddizioni. Come il carcere”. Gran Bretagna: il Governo nega il voto ai detenuti, è scontro con la Corte Europea di Marco Incagnola www.linkontro.info, 23 febbraio 2011 È scontro tra la Corte Europea per i diritti dell’uomo e il Regno Unito. I deputati britannici hanno infatti respinto la richiesta dell’organismo europeo di autorizzare i detenuti ad esercitare il diritto di voto. La notizia ha suscitato il giusto clamore. Il Times, venuto a conoscenza di un documento riservato, ha lanciato, alcuni giorni fa, il tema in apertura di giornale con il titolo “Cameron is clear to defy Europe on human rights” (Cameron è pronto a sfidare l’Europa sui diritti umani). Dopo la importante apertura sui matrimoni gay, dunque, la Gran Bretagna rischia ora di compiere un passo indietro sul tema dei diritti civili. Nel documento riservato di otto pagine, preparato per convincere Nick Clegg, leader del partito Liberal Democratico e vice-primo Ministro del Governo britannico - anticipa il Times - si sostiene che la Corte di Strasburgo è “in grado solo di porre pressioni politiche sulla Gran Bretagna”. La mossa giunge a una settimana dal voto del Parlamento che, con 234 voti contrari e 22 favorevoli, ha respinto al mittente la decisione del novembre scorso della Corte che dava un termine di sei mesi al Regno Unito per adottare una normativa che accordasse il diritto di voto ai detenuti. Downing street sembra scegliere dunque la strategia offensiva come forma di difesa. Il documento, dal titolo Voting: the consequences of non-compliance, ipotizza anche lo scenario-limite e i danni di un possibile ricorso e di un conseguente risarcimento per il mancato esercizio di un diritto da parte di 70mila-80 mila detenuti. Uno scenario che causerebbe una perdita per le casse del Regno Unito pari a circa 143 milioni di sterline. I laburisti non sembrano pensarla diversamente. Già Chris Bryant aveva sostenuto, all’indomani del voto, che “non spetta alla Corte legiferare su chi detiene il diritto di voto nel Regno Unito”. L’opposizione ha poi aggiunto che “non c’è il rischio concreto che il Regno Unito sia costretto a pagare un risarcimento ai detenuti. L’unico rischio è un certo imbarazzo diplomatico, un piccolo prezzo da pagare per ristabilire le prerogative democratiche britanniche”. Il Presidente della Corte Europea per i Diritti Umani, da parte sua, ha avvisato che il rifiuto di concedere il voto ai detenuti porrebbe la Gran Bretagna alla pari del regime dei colonnelli greci. Lo scontro, insomma, continua ad inasprirsi. Qualcuno, nel Regno Unito, ha finanche ipotizzato la clamorosa decisione di ritirarsi dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Il braccio di ferro è appena iniziato. Staremo a vedere. Bahrein: il re concede la grazia a 23 militanti sciiti accusati di terrorismo Ansa, 23 febbraio 2011 In Bahrein ventitré militanti sciiti accusati di terrorismo sono stati liberati dopo avere ricevuto la grazia del re. Lo riferisce Jassem Hussein, deputato del movimento d’opposizione sciita al Wefaq. Il re del Bahrein, Hamad Ben Issa Al Khalifa, ha ordinato di liberare i detenuti sciiti e di deferire le azioni giudiziarie contro altri prigionieri politici, accogliendo così una delle richieste dell’opposizione sciita. I 23 uomini erano sotto processo da ottobre per “avere creato un’organizzazione illegale”, “finanziato delle attività terroristiche”, e “diffuso delle informazioni errate e tendenziose”, secondo le accuse. Accuse simili, secondo gli avvocati, sono passibili dell’ergastolo. Arabia Saudita: riforme a favore dipendenti pubblici, studenti, detenuti e mercato case Ansa, 23 febbraio 2011 Il re saudita Abdullah, atteso nel pomeriggio nel Regno dopo tre mesi di assenza per malattia, ha annunciato una serie di riforme sociali, che andranno a favorire dipendenti pubblici, studenti, detenuti e il mercato immobiliare. Il re saudita Abdullah, atteso nel pomeriggio nel Regno dopo tre mesi di assenza per malattia, ha annunciato una serie di riforme sociali, che andranno a favorire dipendenti pubblici, studenti, detenuti e il mercato immobiliare. In una serie di decisioni rese note dall’agenzia ufficiale Spa, il sovrano ha ordinato che un premio del 15%, deciso in precedenza, sia integrato nei salari di un milione di sauditi che lavorano nel settore pubblico. L’86enne re Abdullah ha annunciato inoltre che il capitale di un fondo di aiuto alle case sia aumentato di 40 miliardi di riyal (10,7 miliardi di dollari) per meglio rispondere alle domande di prestiti immobiliari. Il re ha graziato inoltre un grande numero di detenuti sauditi, in carcere per reati finanziari e proclamato una serie di misure per lottare contro la disoccupazione e sostenere gli studenti all’estero. Abdullah è atteso nel pomeriggio a Riad, dopo un’assenza di tre mesi, in seguito a un’operazione all’ernia del disco e una convalescenza spesa tra New York e Casablanca.