Giustizia: Libia nel caos; profughi massacrati, bombardamenti anche sulle carceri Adnkronos, 22 febbraio 2011 “Oltre agli scontri fra le forze del regime e i rivoltosi, si registrano in queste ore drammatici atti di violenza contro la minoranza africana in Libia”. Lo denunciano Roberto Malini, Matteo Pegoraro e Dario Picciau, co-presidenti dell’organizzazione umanitaria EveryOne. “Nel Paese il fenomeno dell’intolleranza nei confronti dei profughi dall’Africa subsahariana, dettato da un’interpretazione razzista del Corano, è particolarmente grave - spiegano - e, proprio mentre scriviamo, vi sono bande di ribelli che, approfittando del caos, aggrediscono i cittadini eritrei, etiopi, somali e sudanesi, per strada e all’interno delle proprie abitazioni, accusandoli di essere mercenari al soldo di Gheddafi”. Si segnalano, fra i profughi, esecuzioni sommarie e ferimenti in tutta la nazione. Il sacerdote eritreo don Mussie Zerai ha lanciato l’allarme poco fa, riportando la testimonianza di alcuni eritrei in Libia con cui è in contatto telefonico: “Ci stanno uccidendo con coltelli e machete. Vanno nelle case dove vivono gruppi di africani, che accusano di essere mercenari del regime”. “Zerai ci ha riferito che decine di questi giovani in pericolo di vita sono i migranti respinti dall’Italia” continuano gli attivisti del Gruppo EveryOne. “Si segnalano inoltre bombardamenti in corso sulle carceri, particolarmente violenti a Misratah, dove sono detenuti molti profughi africani, mentre altri sono attualmente in gravissime condizioni. A questo si aggiungono innumerevoli episodi di violenza contro africani all’interno degli stessi penitenziari”. EveryOne si unisce all’appello lanciato dall’Agenzia Habeshia e chiede all’Alto Commissario per i Rifugiati Antonio Guterres, all’Alto Commissario per i Diritti Umani Navi Pillay e allo Special Rapporteur delle Nazioni Unite sulle esecuzioni extragiudiziali Philip Alston di mettere in atto con urgenza piani di protezione per i profughi africani perseguitati. “Ci appelliamo inoltre all’Ambasciata italiana a Tripoli e alle rappresentanze diplomatiche in Libia dei Paesi democratici affinché aprano le proprie porte ai profughi eritrei, etiopi, somali e sudanesi, per sottrarli al massacro”. Infine, concludono Malini, Pegoraro e Picciau, “chiediamo all’Unione europea di attivare senza indugi programmi di evacuazione umanitaria, accogliendo i profughi africani perseguitati in Libia nell’Ue e fermando così la carneficina”. Caritas, si teme grande afflusso profughi da Libia “Non bisogna essere allarmisti né riduzionisti, tuttavia quello che si teme ora è un grande afflusso di profughi che potrebbero arrivare nei prossimi giorni dalla Libia”. E ‘quanto dice all’Adnkronos Oliviero Forti, responsabile nazionale immigrazione della Caritas. L’organizzazione caritativa della Chiesa cattolica che in questi giorni sta collaborando con il governo per gestire l’afflusso di immigrati e profughi in Sicilia, rileva che “il problema potrebbe sorgere quando le migliaia di profughi detenuti in Libia - grazie agli accordi con il regime per fermare i flussi migratori verso l’Europa - possano uscire dai campi di detenzione e cercare di raggiungere le nostre coste”. Il fatto è, spiega Forti, che si potrebbe riaprire non solo una frontiera, quella libica, “ma un canale migratorio che dall’africa sub - sahariana, dal Corno d’Africa, porta al Mediterraneo. Si tratta di persone in fuga da Paesi che sono in guerra da anni”. Per ora invece “la situazione è sotto controllo o stazionaria, il trend continua, ma si tratta di arrivi intorno alle 100 - 150 unità al giorno, la settimana scorsa arrivavano 1000 persone al giorno. I flussi dalla Tunisia sembrano rallentare”. Giustizia: l’Italia è il primo fornitore europeo di armi alla Libia di Giorgio Beretta www.unimondo.org, 22 febbraio 2011 L’Italia non solo è uno dei principali partner commerciali della Libia, ma è il maggiore esportatore europeo di armamenti al regime di Gheddafi. I Rapporti dell’Unione europea sulle esportazioni di materiali e sistemi militari (qui l’ultimo rapporto e un’analisi) certificano che nel biennio 2008 - 2009 l’Italia ha autorizzato alle proprie ditte l’invio di armamenti alla Libia per oltre 205 milioni di euro che ricoprono più di un terzo (il 34,5%) di tutte le autorizzazioni rilasciate dall’UE (circa 595 milioni di euro). Tra gli altri paesi europei che nel recente biennio hanno dato il via libera all’esportazione di armi agli apparati militari di Gheddafi, figurano la Francia (143 milioni di euro), la piccola Malta (quasi 80 milioni di euro), la Germania (57 milioni), il Regno Unito (53 milioni) e il Portogallo (21 milioni). A differenza colleghi europei, il ministro degli Esteri Frattini si è guardato bene dal dichiarare anche solo la sospensione temporanea dei rifornimenti di armi a Gheddafi. Eppure da quando sono iniziate le manifestazioni di piazza in diversi paesi del nord Africa non sono mancate le dichiarazioni in tal senso delle principali cancellerie europee. Ha cominciato la Francia annunciando la sospensione dell’invio all’Egitto non solo di sistemi militari ma anche di ogni materiale esplosivo o destinato al controllo dell’ordine pubblico tra cui i gas lacrimogeni. Ha proseguito la Germania dichiarando l’interruzione delle forniture di armi verso l’Egitto manifestando specifiche “preoccupazioni per le violazioni dei diritti umani nella risposta alle proteste” da parte delle forze dell’ordine vicine al presidente Mubarak. Il 17 febbraio la Francia ha quindi esteso lo stop alla vendita di armi anche al Bahrain e alla Libia. E lo stesso Foreign Office britannico, inizialmente poco propenso ad ammettere l’uso di armi inglesi contro la popolazione a Manama, il giorno successivo ha revocato numerose autorizzazioni all’esportazione di armi in Bahrain e Libia. Tra i principali esportatori europei di armamenti solo l’Italia tace. Eppure non sono mancate le sollecitazioni. Dopo i primi tumulti nei paesi del nord Africa, Rete Disarmo e la Tavola della pace avevano chiesto esplicitamente al Governo italiano di sospendere ogni forma di cooperazione militare con Algeria, Egitto e Tunisia e di fatto con tutti i paesi dell’area. Simili richieste sono state inoltrate dalle associazioni pacifiste in Germania, in Francia e nel Regno Unito. I cui governi, inizialmente refrattari, hanno dovuto rispondere all’opinione pubblica. Solo il ministro Frattini è sordo ad ogni sollecitazione. Non sono certo bruscolini gli affari in armi delle industrie militari italiane con il colonnello Gheddafi a cominciare da quelle controllate Finmeccanica. La holding italiana è partecipata per la quota di maggioranza (il 32,5%) dal Ministero dell’Economia, ma ha come secondo azionista proprio la Lybian Investment Authority (Lia), l’autorità governativa libica che detiene una quota del 2,01%: quota che Gheddafi mira ad espandere fino al 3% del capitale per imporre nel consiglio di amministrazione alcuni dei suoi uomini fidati e che comunque già adesso le permetterebbe di eleggere fino a quattro delegati. Da quando nel 2004 l’Unione europea ha revocato l’embargo totale alla Libia, le esportazioni di armamenti italiani al regime del colonnello Gheddafi hanno visto un crescendo impressionante. Si è passati dai poco meno di 15 milioni di euro del 2006 ai quasi 57 milioni del 2007. Ma è soprattutto nell’ultimo biennio - anche a seguito del “Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione tra Italia e Libia” firmato a Bengasi nell’agosto del 2008 dal presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e dal leader della Rivoluzione, Muammar El Gheddafi - che le esportazioni di armamenti italiani verso le coste libiche hanno preso slancio. L’articolo 20 del Trattato prevede infatti “un forte ed ampio partenariato industriale nel settore della Difesa e delle industrie militari”, nonché lo sviluppo della “collaborazione nel settore della Difesa tra le rispettive Forze Armate”. Si è cominciato quindi con 93 milioni di euro nel 2008 e proseguito nel 2009 con quasi 112 milioni di euro che fanno oggi dell’Italia il principale fornitore europeo - e probabilmente mondiale - di armi al colonnello Gheddafi. Le asettiche Relazioni della Presidenza del Consiglio sulle esportazioni militari degli ultimi anni parlano di generici “aeromobili” (Rapporto 2006, Tabella P.), “veicoli terrestri” e ancora “aeromobili” (Rapporto 2007, Tabella 18), ma poi anche di “bombe, siluri, razzi, missili e accessori” e “apparecchiature per la direzione del tiro” e i soliti “aeromobili” (Rapporto 2008, Tabella 15) e più di recente anche di tutto quanto sopra con l’aggiunta di sempre generiche “apparecchiature elettroniche” e “apparecchiature per la visione di immagini” (Rapporto 2009, Tabella 15). Spulciando le più corpose Relazioni annuali si scopre qualcosa di più: nel 2006 è stata autorizzata l’esportazione a Tripoli di due elicotteri AB109 militari dell’Agusta del valore di quasi 15 milioni di euro. Nel 2007 sempre l’Agusta ha incassato 54 milioni di euro per l’ammodernamento degli aeromobili CH47. Nel 2008 è stato dato il via libera per l’esportazione di otto elicotteri A109 per 59,9 milioni di euro sempre dell’Agusta e all’Alenia Aeronautica per un aeromobile ATR42 Maritime Patrol del valore di 29,8 milioni di euro. Nel 2009 altri due elicotteri AW139 dell’Agusta per circa 24,9 milioni di euro e quasi 3 milioni per “ricambi e addestramento” per velivoli F260W della Alenia Aermacchi, ma anche una autorizzazione alla MBDA Italiana, azienda leader a livello mondiale nei sistemi missilistici, per materiali di cui non si rintraccia l’autorizzazione (se non il numero: MAE 18160) del valore di 2.519.771 euro. Non sembrino poca cosa i poco più di 2,2 milioni di euro e per “ricambi e addestramento” dei velivoli F260W della Alenia Aermacchi: la Libia infatti possiede circa 250 aerei F260W, “un numero spropositato, anche considerando che si tratta del modello armabile” - notano gli analisti. “Questi velivoli in origine Siai Marchetti, che in Europa vengono utilizzati come addestratori, ma che in Africa e America latina sono spesso impiegati come bombardieri, sono stati venduti all’Aeronautica libica negli anni Settanta. Ne erano stati acquistati 240, oggi non si sa quanti siano in servizio. Nel 2006 un certo numero di questi velivoli sono stati ceduti alle forze armate ciadiane che li hanno utilizzati per bombardare i ribelli sulle frontiere con il Sudan” - ricorda Enrico Casale. Nella sua approfondita inchiesta sulle esportazioni di armamenti italiani alla Libia dal titolo “Roma - Tripoli: compagni d’armi”, il giornalista del mensile Popoli, evidenzia inoltre che Finmeccanica e la Libyan Investment Authority hanno stretto ulteriormente i loro rapporti il 28 luglio 2009 con un nuovo accordo: si tratta di un’intesa generale attraverso la quale la holding di piazza Montegrappa e il fondo sovrano si impegnano a creare una nuova joint - venture (con capitale di 270 milioni di euro) attraverso la quale gestiranno gli investimenti industriali e commerciali in Libia, ma anche in altri Paesi africani. Il primo frutto è stato un accordo siglato da Selex Sistemi Integrati, società controllata da Finmeccanica, e dal governo libico: un contratto, del valore di 300 milioni di euro, che prevede la creazione di un sistema di “protezione e sicurezza” dei confini meridionali della Libia per frenare l’immigrazione. Forse anche per questo il ministro Frattini è in difficoltà ad intervenire quando sente parlare di sanzioni contro il leader libico. Gli andrebbe ricordato che la legge 185 del 1990 e la Posizione Comune dell’Unione europea sulle esportazioni di armamenti chiedono di accertare il “rispetto dei diritti umani nel paese di destinazione finale e il rispetto del diritto internazionale umanitario da parte di detto paese” e di rifiutare le esportazione di armamenti “qualora esista un rischio evidente che la tecnologia o le attrezzature militari da esportare possano essere utilizzate a fini di repressione interna”. Proprio per evitare questo tipo di utilizzo, Francia, Germania e Regno Unito hanno deciso nei giorni scorsi di sospendere le esportazioni militari a diversi paesi tra cui la Libia. Il ministro degli Esteri italiano, invece tace. Che sia all’oscuro delle dichiarazioni dei suoi colleghi? Intanto il ministro della Difesa, La Russa conferma da Abu Dhabi che la nave della marina militare Elettra è stata mobilitata per far fronte alla emergenza creata dalla crisi in Libia. La Russa si trova negli Emirati Arabi per una non ben specificata (dai media italiani) “visita ufficiale”. Guarda caso proprio nell’emirato dove è in corso l’International Defence Exhibition and Conference (Idex 2011), “il più grande salone espositivo su difesa e sicurezza nel Medio Oriente e nel Nord Africa”. Al quale non potevano mancare tutte le maggiori industrie italiane di armamenti. Specialmente Finmeccanica che ha realizzato “un padiglione all’avanguardia in linea con i principi espressi nel suo Rapporto di sostenibilità”. E per cercare nuovi acquirenti in un’area che è sicuramente di “interesse strategico” adesso che diversi dittatori sono in bilico. Giustizia: detenuti italiani nel mondo; i Consolati non possono intervenire nel giudizio Italia chiama Italia, 22 febbraio 2011 A Marco Zacchera (Pdl), che chiedeva di alleviare le conseguenze negative dei tagli imposti dalla legge di stabilità sull’assistenza dei detenuti italiani all’estero, il sottosegretario agli Esteri con delega agli Italiani nel mondo, Alfredo Mantica, ha risposto che la riduzione della dotazione finanziaria non ha determinato un abbassamento del livello dell’assistenza consolare fornita ai detenuti italiani all’estero. Fra le altre cose, Mantica ricorda che gli interventi che possono essere prestati da una rappresentanza diplomatico - consolare in favore di un connazionale detenuto in un Paese straniero, nell’ambito della protezione e dell’assistenza consolare, sono le visite consolari; le indicazione di un legale; la cura dei contatti con i familiari in Italia; la fornitura di assistenza medica, farmaci, alimenti, libri, giornali ed eventuali pacchi dono; l’erogazione di sussidi che possono variare a seconda delle situazioni contingenti e delle specifiche necessità individuali; la collaborazione con le autorità competenti per il trasferimento in Italia, qualora il connazionale sia detenuto in Paesi aderenti alla Convenzione di Strasburgo sul trasferimento dei detenuti o ad accordi bilaterali ad hoc; l’intervento in casi particolari per sostenere domande di grazia per ragioni umanitarie. Un ufficio consolare, sottolinea il sottosegretario, non può intervenire in giudizio per conto del connazionale. Se la sede non dispone di fondi sufficienti, in casi eccezionali, può chiedere al Ministero un finanziamento integrativo per far fronte a specifiche esigenze di assistenza ai connazionali detenuti nella propria circoscrizione. Giustizia: detenuto italiano nel carcere di Tripoli, timori per la sua vita Ansa, 22 febbraio 2011 L’ex patron di Rimini Yacht Giulio Lolli è detenuto nel carcere di Al Jdadida, vicino a Tripoli, ma da giorni non si hanno più sue notizie. Per Giulio Lolli questo doveva essere l’ultimo mese da detenuto nel carcere di massima sicurezza di Al Jdadida, a pochi chilometri da Tripoli. Almeno stando alle ultime notizie ricevute dalla Libia prima che scoppiasse l’inferno. Ora invece le comunicazioni con il paese arabo sono interrotte, e di Lolli non si hanno più notizie. Quel che più preoccupa sono le indiscrezioni che vorrebbero già tre morti proprio nel carcere dove fino a poco fa era rinchiuso l’ex patron di Rimini Yacht. I rivoltanti infatti si stanno accalcando davanti alle carceri per chiedere la liberazione dei prigionieri di guerra, e la polizia risponde con il fuoco. Insomma, Lolli potrebbe essere ancora lì, nella sua prigione libica, in cerca di un riparo per salvarsi la vita. Oppure potrebbe aver tentato una fuga, scappando chissà dove nella speranza di allontanarsi il più possibile dalla polveriera. Tra tutte l’ipotesi però non si può escludere nemmeno quella peggiore, ovvero che l’imprenditore riminese sia rimasto vittima della rivoluzione. Gli avvocati sperano che l’ex latitante si costituisca affidandosi nelle mani dell’ambasciata italiana, con la quale oggi tenteranno un coinvolgimento, sempre che la situazione non venga giudicata troppo pericolosa tanto da ritirare le rappresentanze diplomatiche. A quel punto le speranze del ritrovamento di Lolli sarebbero affidate all’Interpol. Giustizia: Sindacati divisi sul capo del Dap Ionta; il Sappe lo difende, per l’Osapp deve andarsene Ansa, 22 febbraio 2011 Sindacati della polizia penitenziaria divisi nel giudicare l’operato del capo del Dipartimento dell’ amministrazione penitenziaria Franco Ionta. Per l’Osapp, Ionta “continua a sminuire la figura del poliziotto penitenziario”, proprio mentre le carceri invece stanno diventando, alla luce dei tumulti libici e del rischio immigrazione di massa nel nostro Paese, “la nuova frontiera per la sicurezza nazionale”; per questo “deve andare a casa”. Difende invece Ionta, il Sappe, il principale sindacato della polizia penitenziaria, che dà atto a lui e al ministro Alfano “di aver ottenuto importanti risultati come la realizzazione di circa 50 nuovi padiglioni detentivi e l’avvio delle procedure per le gare di una ventina di nuovi istituti penitenziari per un totale di circa 20mila nuovi posti detentivi, l’assunzione di ben 4mila e 500 agenti di Polizia penitenziaria a cui si dovranno aggiungere le procedure concorsuali in atto per 271 vice ispettori, 150 vice Commissari ed un ulteriore imminente bando di concorso per ulteriori 120 nuovi Funzionari della Polizia Penitenziaria”. “Discorso diverso dev’essere fatto contro la nomenclatura e la dirigenza dell’Amministrazione penitenziaria che da vent’anni ostacola ogni evoluzione ed accrescimento professionale della Polizia penitenziaria” e contro la quale il Sappe si appresta a protestare il prossimo 8 marzo con un sit-in davanti alla sede del Dap. Giustizia: caso Cucchi; medico sotto accusa scrive lettera aperta “Stefano rifiutò le nostre cure” Ansa, 22 febbraio 2011 Stefano Cucchi rifiutò le cure, per ottenere così di contattare il suo legale, come fanno molti pazienti penitenziari. Beveva succhi di frutta e si alimentava, anche se non regolarmente, e i medici fecero tutto il possibile per convincerlo a sottoporsi ai trattamenti necessari al suo stato di debilitazione. In una lettera aperta, inviata a dei colleghi, Flaminia Bruno, uno dei sei medici dell’ospedale Pertini rinviati a giudizio per il decesso del geometra tossicodipendente, racconta la sua verità. Replica il legale della famiglia Fabio Anselmo, per il quale i medici farebbero meglio a meditare, invece, sulle loro gravi responsabilità. Il caso continua, insomma, anche fuori dalla aule giudiziarie. Chiedendo che la lettera abbia massima divulgazione ai suoi colleghi, la Bruno affronta diversi nodi del caso: il certificato in cui il medico di turno attestò una “presunta morte naturale” in base agli elementi che aveva a disposizione, chiedendo però subito l’esame autoptico perché si facesse chiarezza su una morte che chiara non era; la circostanza del ‘rifiutò delle cure da parte del paziente; il fatto che le macchie mostrate nelle foto accessibili sul web siano ‘non lividì, come si sarebbe voluto far pensare, “ma macchie ipostatiche”, tipiche della fase post mortem, in un corpo sottoposto fra l’altro ad autopsia. “Ciò che mi ha finalmente motivato è l’indignazione rispetto alla falsità ed ipocrisia con cui il caso del povero Stefano Cucchi continua ad essere orchestrato. Un giovane - scrive Flaminia Bruno - che probabilmente ha subito soprusi per tutta la vita anche dopo la morte è stato usato per costruire un teorema orribile, fondato sulle menzogne: sei medici e tre infermieri si sarebbero accordati per volontariamente lasciar morire un giovane tossicodipendente per coprire il fatto che tre agenti di polizia penitenziaria gli avrebbero inferto delle lesioni. Terribile”. Replicando all’accusa di abbandono di incapace, di cui la Bruno risponde come gli altri nelle aule giudiziarie, il medico scrive oggi: “Noi siamo riusciti a sottoporlo a visita ortopedica, effettuare la radiografia alla schiena, i prelievi ematici, somministrare gli anti - dolorifici e farmaci per l’epilessia. Il ragazzo ha sistematicamente rifiutato ogni altro trattamento e indagine proposta: Ecg, Tac cranio, ecografia addominale, reidratazione per via endovenosa, visita internistica quotidiana, visita oculistica. È chiaro che in questo modo il medico ha le mani legate. Abbiamo insistito ripetutamente ad ogni occasione che lui mangiasse e bevesse, gli abbiamo procurato un vitto personalizzato per celiaci in quanto lui dichiarava di esserlo”. Cucchi era, per tutti i medici che hanno avuto a che fare con lui, nel pieno delle facoltà mentali e “la legge italiana non consente che siano praticati trattamenti medici di alcun tipo senza il consenso del paziente ammesso che questo punto sia in grado di intendere e volere”. Secondo il medico, inoltre, dopo la morte ‘improvvisa e inattesà del ragazzo, gli esami avrebbero attestato che il suo organismo fosse cronicamente debilitato. Un punto sul quale replica la difesa della famiglia: “In riferimento al presunto stato di debilitazione, il medico oltre a dire il falso, ignora gli specifici, molteplici e concordati riscontri del processo che danno Stefano prima dell’arresto al lavoro e addirittura in palestra. Una attività ricostruita da noi come dalla Procura”. “Sono sconcertato e perplesso del fatto che parlino di ipocrisia - conclude - coloro che avrebbero potuto salvare Stefano Cucchi e non lo hanno fatto. I medici, anche in considerazione del fatto che Stefano non può più difendersi farebbero meglio, invece, a meditare sulle gravi responsabilità configurate a loro carico dalla Procura”. Lettera: buon lavoro ai detenuti di Genova di Piero Ottone La Repubblica, 22 febbraio 2011 Noi giornalisti siamo per lo più messaggeri di sventure, ma se abbiamo occasione di annunciare una buona notizia, ne siamo felici (càpita di rado). Lavoro ai detenuti: l’assessore Scidone metterà al lavoro i detenuti, per lo meno quei detenuti la cui pena sia compatibile con un’attività. L’idea non è nuova, d’accordo: ma è pur sempre un’ottima idea. Porterà benefìci concreti, come il disboscamento di zone impervie, la pulizia di strade in campagna, o (in tutt’altro campo) qualche conferenza sui pericoli della droga, più efficace se proveniente da chi ha fatto esperienza diretta. Ma più ancora che per l’utilità pratica l’intenzione di fare lavorare i detenuti è bella perché è segno di buon governo, attesta intelligenza e buona volontà da parte dei pubblici amministratori. Detto questo, è molto importante l’esecuzione del progetto, che non è di facile attuazione. Bisogna scegliere bene le persone, occorre un’organizzazione avveduta ed efficiente. C’è infine il pericolo che qualche detenuto fugga: ma è un pericolo che vale la pena di correre. I benefìci del progetto saranno superiori al danno. Lettere: il corso di letteratura nel carcere di Opera, concluso per mancanza… di una stufetta di Piero Sempio Ristretti Orizzonti, 22 febbraio 2011 Vorrei raccontare come si è tristemente conclusa, con tanta amarezza da parte mia, la bellissima esperienza dei corsi di letteratura nel reparto detenuti “protetti” della Casa di Reclusione di Milano - Opera, un’esperienza che durava dal 2004 (per i primi due anni al Centro Clinico, poi ai “protetti”) e che nel tempo ha visto oltre 100 partecipanti ai corsi, con la lettura e la discussione di testi di estremo interesse (la trilogia degli Antenati di Italo Calvino, “Il Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa, “La leggenda del Santo bevitore” di Joseph Roth, “Il giorno della civetta” di Sciascia, tanto per fare qualche esempio). Ebbene, questo progetto è stato lasciato fallire perché l’Amministrazione del carcere non è stata in grado - in oltre sei mesi e nonostante nel progetto si fosse chiaramente fatta presente l’esigenza di lavorare in ambiente riscaldato - di riuscire a sistemare nell’auletta del corso una stufetta che permettesse un minimo di riscaldamento in un ambiente altrimenti gelido ed impraticabile (non solo per me - che ho subìto una seria operazione al cuore - ma anche per i detenuti, che da quando è iniziato l’inverno sono scesi da 12 a 4): per comprendere meglio l’insulsaggine di tutta la faccenda, tieni presente che Milano - Opera è il carcere più grande d’Europa (reperire una stufetta può dunque essere un problema?), che nel Reparto “Protetti” il mio corso di letteratura era forse l’unica attività culturale extra - scolastica degna di questo nome e che l’Educatore aveva da sempre collaborato con grandissima efficacia e partecipazione all’iniziativa. Mi piacerebbe che qualche fonte di informazione carceraria (mi viene in mente “Ristretti Orizzonti”) desse notizia di quanto accaduto, in modo che i responsabili imparassero ad avere più rispetto per i detenuti e per i volontari. Cagliari: Uil-Pa proclama lo stato di agitazione; detenuti ammassati e super lavoro per gli agenti L’Unione Sarda, 22 febbraio 2011 Gli agenti della polizia penitenziaria annunciano lo stato di agitazione. Poco personale e troppi detenuti rendono la “situazione drammatica”. I sindacalisti della Uil-Pa propongono alcune soluzioni. Vedi le foto “Detenuti con gravi problemi di salute, ammassati in celle invivibili, personale di polizia penitenziaria che lavora in situazioni drammatiche. Tutto nell’indifferenza del Prap (Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria) che fa finta che Buoncammino non esiste”. I sindacati degli agenti sono nuovamente sul piede di guerra. Questa volta è la Uil-Pa a dichiarare lo stato di agitazione “per denunciare la situazione drammatica della casa circondariale”. Michele Cireddu, delegato della Uil-Pa, mette a nudo i problemi del carcere cagliaritano e i carichi di lavoro non più sopportabili. “I livelli di sicurezza sono diminuiti. Gli agenti non possono smaltire il congedo arretrato del 2007 - 2010. I piantonamenti sono raddoppiati rispetto agli anni precedenti”. Tutto legato alla mancanza di agenti. “Sono 184 anziché 267 come previsto dalla tabella ministeriale”, afferma Cireddu. “Abbiamo chiesto di ridurre la capienza, ormai sono 540 i detenuti che vivono ammassati in celle ristrette, che continuano ad accumulare tensione e poi sfogano la loro frustrazione con gesti e azioni che mettono a repentaglio, vista l’esiguità di numero degli agenti nei turni, la sicurezza dei lavoratori”. Michele Cireddu formula alcune proposte per attenuare le difficoltà. “È importante integrare il Nucleo traduzioni pesantemente sotto organico, (27 unità anziché 41 come previsto). Abbiamo inoltre suggerito di ridistribuire i reclusi in altri istituti sotto capienza regolamentare o perlomeno di inviare i detenuti con grossi problemi psichiatrici in strutture idonee. Suggeriamo con forza - continua Cireddu - di far partecipare ai servizi in carcere, quelli in prima linea, anche gli agenti in servizio nella Scuola di Monastir e al Provveditorato”. La Sardegna non ha ancora un provveditore in pianta stabile. A parlare è Giampaolo Cassitta, dirigente dell’Ufficio detenuti e trattamento del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. “Buoncammino non è l’unico istituto dell’Isola che soffre. Il sovraffollamento non è il vero problema, le difficoltà maggiori sono date dai detenuti tossicodipendenti o con patologie psichiatriche”. Che ne sarà di Buoncammino con l’apertura del nuovo carcere di Uta? “Ancora non è stato deciso. Per il momento non è prevista la chiusura”. E il nuovo provveditore? “Arriverà entro un mese”. Vibo Valentia: detenuto si tolse la vita in carcere, il gip archivia il caso Gazzetta del Sud, 22 febbraio 2011 Il gip archivia il caso ma la difesa ricorre in Cassazione convinta che vi siano delle precise responsabilità sul suicidio di Salvatore Giofrè, imprenditore agricolo di San Gregorio d’Ippona. L’uomo si è tolto la vita impiccandosi alle sbarre della cella numero 3 (nel reparto nuovi giunti della Casa circondariale) la mattina del 29 giugno 2008 a poche ore di distanza dal suo arresto avvenuto il giorno precedente perché accusato di aver violentato una donna anziana di Maierato. In carcere non ha retto alle accuse infamanti che gli venivano mosse al punto che ha deciso di farla finita. Al suo legale, l’avv. Giuseppe Di Renzo aveva detto espressamente: “Avvocato pensi a difendere l’onore dei miei figli perché questa volta io mi ammazzo”. E così è stato. Nell’ordinanza di archiviazione a firma del gip Gabriella Lupoli, emessa dopo aver giudicato inammissibile l’opposizione della difesa alla richiesta di archiviazione, vengono accolte le richieste del pubblico ministero che inizialmente aveva aperto un fascicolo contro ignoti per accertare se all’interno della Casa circondariale vi siano state delle responsabilità per quanto concerne in particolare l’omessa vigilanza sul detenuto. Il giudice annota che Giofrè al suo arrivo in carcere è stato subito sottoposto a visita medica e colloquio di primo ingresso da parte del medico di guardia il quale, sulla base dei parametri presi in considerazione, “ha assegnato un livello di rischio suicidario e violento basso, in ragione di ciò non suggeriva alcuna indicazione per l’eventuale assunzione di provvedimenti di sorveglianza”. Tuttavia sulla scorta dei propositi di suicidio che Giofrè aveva manifestato al momento dell’arresto tanto alla polizia giudiziaria “e da questa riferiti al coordinatore della sorveglianza”, l’uomo veniva sottoposto a regime di “grande sorveglianza” e smistato per la notte in una cella della sezione nuovi giunti in attesa che fosse completato l’iter diagnostico di ingresso che deve avvenire nell’arco delle 24 ore. Sulla base di tali disposizioni Giofrè veniva controllato ogni 20 minuti. Secondo quanto evidenziato dal gip gli agenti della polizia penitenziaria hanno tenuto sotto controllo tutta la notte la cella n. 3 occupata da Giofrè. Alle 6,50 lo stesso veniva notato dormire tranquillamente e subito dopo veniva scorto nel bagno intento a lavarsi; alle sette invece, l’allarme: l’uomo si era impiccato legandosi con un lenzuolo alle sbarre della finestra. Il giudice, tuttavia, non ravvisa “alcuna condotta penale né sotto il profilo intenzionale, né colposo” e rimarca che “l’azione di controllo è stata scrupolosa e cautelativa dal momento che i presupposti, in ragione del proposito suicidario manifestato e sebbene non riscontrato clinicamente, comunque decisero di disporre il regime di grande sorveglianza pur in assenza di indicazioni in punto di rischio autolesionistico, scelta dunque più che adeguata al caso”. Così come il gip non rileva alcuna inottemperanza per quanto concerne i controlli: considerato che il tempo intercorso da un controllo all’altro è stato di soli 10 minuti, mentre il regime di grande sorveglianza ne prevede addirittura venti. La difesa però non ci sta e presenta ricorso per Cassazione chiedendo l’annullamento del provvedimento del gip per “omessa fissazione dell’udienza camerale e l’immotivata decisione relativa all’inammissibilità del ricorso della difesa avverso la richiesta di archiviazione del caso avanzata dal pubblico ministero. L’avv. Di Renzo evidenzia, tra le altre cose, che “il giudice ha dato per scontato l’accertamento di tutte le circostanze rilevanti per la valutazione del caso concreto ed ha effettuato un giudizio alquanto approssimativo con cui ha escluso la sussistenza di profili di responsabilità penale per quanto accaduto”. Secondo l’avv. Di Renzo “tale giudizio, che coinvolge la valutazione del merito della vicenda e che non appare sorretto dalla considerazione di tutte le particolarità del caso concreto (quali la denunciata approssimazione del colloquio di primo ingresso, gli scarsi controlli notturni, la manifestata intenzione suicidaria da parte del detenuto) non poteva essere effettuato se non a seguito dell’instaurazione del giudizio camerale”. La difesa aggiunge, inoltre, che “l’omessa fissazione da parte del gip dell’udienza e l’omessa motivazione in ordine all’inammissibilità dell’opposizione avverso la relativa richiesta formulata dal pm costituiscono violazione sostanziale del diritto della persona offesa...”. Venezia: tunisino 22enne suicida in carcere, l’inchiesta verso la conclusione Il Gazzettino, 22 febbraio 2011 È in dirittura finale l’inchiesta sulla morte del giovane detenuto di nazionalità tunisina, suicidatosi il 22 settembre dello scorso anno, all’età di 22 anni, nel carcere di Santa Maria Maggiore. Il sostituto procuratore Francesca Crupi si starebbe apprestando ad interrogare la direttrice della casa di reclusione, Irene Iannucci, indagata per quell’episodio assieme al comandante della polizia penitenziaria della struttura, Ezio Giacalone, con l’ipotesi di omissione in atti d’ufficio. La loro iscrizione sul registro degli indagati ha costituito un atto dovuto, al fine di garantire loro la possibilità di fornire tutti i chiarimenti necessari sul decesso avvenuto in cella. Quella mattina, il giovane tunisino aveva aspettato che sei compagni uscissero per l’ora d’aria e che la guardia carceraria addetta a quell’ala si allontanasse: quindi aveva preso le lenzuola, le aveva legate alla finestra del bagno e, dopo averle avvolte attorno al collo, e si era lasciato andare. Il ventiduenne era stato condannato per spaccio di droga e stava attendendo il processo di appello: in passato aveva già tentato di togliersi la vita, e la mattina stessa del suicidio si era ferito un braccio. Il pm Crupi sta cercando di capire se il personale del carcere abbia fatto quanto possibile per evitare il suicidio, considerato che il giovane era sicuramente a rischio e, per tale motivo, era sottoposto al cosiddetto regime di “grande sorveglianza”. L’inchiesta penale non può prescindere dalle pesanti condizioni in cui versa il penitenziario di Santa Maria Maggiore a seguito di un gravissimo sovraffollamento e di una cronica carenza di agenti, problemi più volte denunciati dagli stessi sindacati di polizia, impegnati a ridurre per quanto possibile i disagi. La procura si sta occupando anche di un altro suicidio il 5 marzo 2009, vittima un 27enne tunisino. Il pm Massimo Michelozzi ha indagato 7 agenti: due per omicidio colposo; tutti per abuso di autorità contro arrestati e detenuti in relazione all’utilizzo di una cella che i detenuti definivano “l’inferno” e che la direzione del carcere ha spiegato essere una cella di transito, in cattive condizioni perché distrutta da un detenuto. Anche questa inchiesta è in attesa di essere chiusa. Nuoro: incontro con Ionta; possibili nuovi arrivi di detenuti in regime di 41-bis La Nuova Sardegna, 22 febbraio 2011 Il capo dell’amministrazione penitenziaria Franco Ionta non esclude l’arrivo nelle carceri isolane di altri boss, dopo il camorrista Iovine: “Sardi impermeabili alla mafia”. Iovine potrebbe presto non essere più solo. I sardi infatti “si sono dimostrati impermeabili alle penetrazioni mafiose. E la presenza di un detenuto in regime di 41 - bis a Badu ‘e Carros non provoca nessun allarme. Come non ne provocherebbe, una volta finite le nuove strutture nell’isola, una loro eventuale destinazione a questo compito”. Parole del capo del Dipartimento di amministrazione penitenziaria Franco Ionta. Ieri a Nuoro, prima a un convegno della Fp Cgil dedicato proprio al 41 - bis. E poi in visita nel carcere che ospita il boss dei Casalesi. Super boss che dunque potrebbe non rimanere a lungo l’unico 41 - bis dell’isola. Il numero uno del Dap non si sbilancia: “Anche perché bisognerà vedere l’organizzazione complessiva delle carceri in tutta Italia”. Ma poi precisa: “Il ddl sicurezza prevede che i 41 - bis siano da scontarsi in istituti esclusivamente dedicati, collocati preferibilmente in aree insulari”. Come dire, molti dei detenuti speciali attualmente sparsi in 12 carceri tra centro e nord Italia potrebbero trovare spazio in Sardegna. Magari in due appositi bracci dedicati nelle strutture in via di ultimazione a Uta e Bancali. E nel braccio in costruzione nel carcere di Badu ‘e Carros di Nuoro. Prospettiva (la prima) ventilata dallo stesso Ionta nel piano presentato nel 2009 (con conseguente esplosione di polemiche e parziale marcia indietro). E che non agiterebbe affatto la direttrice della casa circondariale barbaricina Patrizia Incollu: “Quando ci piace una teoria - spiega - tendiamo a osservare i dati solo alla luce di quella. E non osserviamo invece che studiosi, antropologi, ricercatori, hanno sempre spiegato con robuste argomentazioni che la Sardegna è immune dalla mafia, dalle mafie. A Nuoro sono presenti da anni detenuti mafiosi. E non si è mai riscontrato nessun tipo di contaminazione. Non si vede perché questo debba accadere con il regime del 41 - bis, che proprio sul controllo delle comunicazioni con l’esterno fa il suo punto cardine”. In realtà ad essere messa in discussione da molti non è la sicurezza, ma il rapporto tra carcere e territorio. “Reso più difficoltoso - sottolinea il sindaco di Nuoro, Sandro Bianchi - quando invece il nostro obiettivo era quello di aprire il carcere alla città”. “Il 41 - bis è l’ennesima servitù - attacca il deputato Guido Melis - a cui vogliono piegare la nostra isola”. “Il vero problema - attacca il segretario nazionale della Fp Rossana Dettori - è la drammatica carenza di organico, e la conseguente assenza di spazi e di personale preparato”. Un dato su tutti: a pochi chilometri da ‘O Ninno, nell’ex casa mandamentale di Macomer, sono ospitati alcune decine di detenuti islamici accusati o condannati per terrorismo internazionale. “E lì - attacca il segretario provinciale della Fp Sandro Fronteddu - mancano muro di cinta e postazioni di controllo e vigilanza esterne. L’impianto di videosorveglianza è guasto, il braccio per i detenuti pericolosi non è idoneo per assicurare le condizioni di sicurezza per gli operatori, i detenuti, e i cittadini di Macomer”. Nonostante questo l’istituto è stato inserito proprio da Ionta nel circuito AS (alta sicurezza) 2. Qualifica condivisa da anni con Badu ‘e Carros. Che tra le sue mura, al netto di Iovine, ospita un centinaio di detenuti di massima pericolosità. “Il sovraffollamento è un dato di fatto - spiega Ionta - così come la carenza di organici. E noi abbiamo messo in campo la migliore strategia possibile per combattere entrambi. Inanzitutto con un piano di assunzioni (in realtà si tratta di turn over - ndr): 760 nel 2011, 1600 a regime. Poi con l’ampliamento delle carceri: entro luglio ne saranno completate quattro in Sardegna. E infine con leggi che allentino la pressione delle presenze. Come quella entrata in vigore a dicembre e ancora tiepidamente applicata (in Sardegna ne hanno beneficiato meno di 40 detenuti - ndr). A fonte di problemi così gravi la sistemazione dei 41 - bis è marginale”. “Ionta è capace - chiude Guido Melis - , purtroppo lo stesso non posso dire del governo che gli sta dietro. E temo che alla Sardegna, come sempre, verrà chiesto di pagare il conto per tutti”. Avellino: reintegro detenuti nel mondo del lavoro: il progetto di Solimine www.irpiniaoggi.it, 22 febbraio 2011 Una sinergia istituzionale per sviluppare azioni di sistema territoriale mirate alla qualificazione dei servizi di transizione pena - lavoro in provincia di Avellino. È una nuova iniziativa assunta dall’assessore provinciale per il lavoro e la formazione professionale, Giuseppe Antonio Solimine, che ieri pomeriggio (21 febbraio 2011) ha invitato presso la sede dell’assessorato i direttori delle case circondariali della provincia di Avellino, la direttrice provinciale dell’Uepe il direttore generale dell’area inclusione sociale del Ministero del lavoro e delle politiche sociali ed un gruppo di formatori di Italia Lavoro per illustrare il progetto e condividerne la metodologia e la concreta applicazione in provincia di Avellino. Gli interventi sono rivolti a detenuti che si trovano nella fase di fine pena o che sono sottoposti a misure alternative alla detenzione e che, quindi, hanno la necessità di essere accompagnati nel reinserimento sociale e nel mondo del lavoro. L’obiettivo del progetto non è solo di natura sociale, perché riduce la presenza dei detenuti in cella, incide sugli oneri a carico dell’amministrazione carceraria tenuto presente che di media un detenuto costa cento euro al giorno, rafforza la sicurezza sociale e, soprattutto, trasforma la natura degli interventi da assistenzialisti a welfare in quanto il detenuto passa da assistito a lavoratore che produce reddito e che, quindi, diventa contribuente al pari di ogni altro cittadino. La proposta è stata presentata dall’assessore Solimine ed illustrata più dettagliatamente dal dottore Mario Conclave, direttore generale dell’area inclusione sociale del ministero. I direttori delle carceri e la responsabile dell’Ufficio esecuzione penale della provincia di Avellino hanno manifestato interesse nei confronti del progetto e sottolineato la circostanza secondo la quale per la prima volta un ente pubblico e l’Amministrazione provinciale in particolare si avvicina in modo così diretto alla realtà carceraria e manifesta la volontà ad intervenire concretamente a difesa dello status del detenuto e dell’Amministrazione. “Le azioni di sistema saranno sviluppate con il supporto di Italia Lavoro e del Ministero - precisa l’assessore Solimine - con la Provincia che svolgerà la sua parte per quanto di sua competenza relativamente alla organizzazione dei corsi di formazione. La presenza convinta dei direttori o dei loro rappresentanti delle case circondariali di Ariano Irpino, Sant’Angelo dei Lombardi, Avellino e Lauro, unitamente all’Uepe e agli assistenti sociali, rappresenta un ottimo punto di partenza per avviare una sinergia concreta e costruttiva finalizzata a potenziare la presenza dei servizi pubblici in un settore spesso trascurato del pianeta giustizia in generale. I detenuti ammessi potranno beneficiare dei tirocini formativi, attività di work experience e svolgere prestazioni di lavoro di tipo accessorio, quali lavori domestici, giardinaggio, insegnamento privato supplementare e attività agricole”. Pisa: il personale sanitario del carcere scrive al Governatore Rossi; il prof Ceraudo deve restare Il Tirreno, 22 febbraio 2011 “Chiediamo che il professor Ceraudo possa continuare a essere la nostra guida nel rispetto delle regole e delle esigenze dell’Asl di Pisa”. È l’appello rivolto al governatore della Regione, Enrico Rossi, dal personale sanitario del carcere Don Bosco. Dal 1º febbraio il professor Francesco Ceraudo, già responsabile del Centro clinico del carcere, è in pensione, ma sia i detenuti che i colleghi lo vorrebbero ancora con loro. Con l’Asl la partita pare essere chiusa: al posto di Ceraudo è stata nominata la dottoressa Emanuela De Franco, in attesa di un bando. Ma il professore pisano potrebbe avere presto un’altra chance con un incarico, stavolta regionale, nella sanità penitenziaria. Certo, la lettera dei colleghi a Rossi, come gli appelli dei detenuti e la lettera di Adriano Sofri pubblicata dalla Repubblica, sono tutte carte a favore di Ceraudo. Che nell’appello del personale sanitario del Don Bosco viene definito “insostituibile”. Ferrara: la protesta dei detenuti; la legge “svuota-carceri” non viene rispettata La Nuova Ferrara, 22 febbraio 2011 Sono un gruppo di detenuti del carcere dell’Argionone, e hanno scritto alla città per denunciare ciò che per loro è una non applicazione della nuova legge, la cosiddetta “svuota carceri” che prevede di scontare l’ultimo anno di detenzione agli arresti domiciliari e che prevede risposte entro 5 giorni a chi presenta l’istanza: “Vogliamo denunciare il fatto che ciò non viene rispettato”. Secondo i detenuti, il magistrato di sorveglianza ha agito in modo restrittivo “rigettando il 97% delle richieste con scuse sempre diverse”. Ma non solo questo: “Vogliamo denunciare lo scarso interessamento degli operatori interni: educatori, psicologi, e garante per i diritti dei detenuti, i quali a nostro avviso, non svolgono, deontologicamente parlando, i loro doveri” “Vogliamo denunciare - dicono in modo collettivo - tutto questo attraverso il vostro giornale perché si tratta non solo della nostra libertà, delle nostre famiglie e dei nostri bambini, ma anche di far rispettare quella legge che quando noi la infrangiamo paghiamo con la vita”. Solo due detenuti beneficiari della legge I detenuti protestano sulla non applicazione della legge “svuota carceri”, elogiando la stessa polizia penitenziaria, ma proprio dal carcere giunge una lettura opposta alle loro argomentazioni: “A Ferrara sono stati solo 2 i casi che hanno beneficiato della legge - spiegano i dirigenti del Sappe - in regione solo 4”. La spiegazione è semplice: il segretario Durante spiega che il tribunale di sorveglianza ha carichi di lavoro straordinari con la nuova legge, e troppe interpretazioni sull’accoglimento delle richieste. Non solo: i detenuti di Ferrara che hanno presentato richieste sono stranieri al 70%, non hanno posti dove esser messi ai domiciliari. Da qui il rigetto delle istanze. “I ritardi? - spiegano il direttore Cacciola e il vice Battaglia - Sono dovuti al fatto che stiamo consultando enti e associazioni per trovare sistemazioni ai detenuti che possano usufruire della legge. È nel nostro interesse”. Nell’interesse di tutti, spiega Durante: “Chi esce in regime alternativo dal carcere prima del fine pena ha recidiva di delinquere minore di chi esce direttamente all’esterno”. Giarre (Ct): l’Osapp denuncia; personale carente, impossibile garantire i diritti, riposi e congedi La Sicilia, 22 febbraio 2011 Cogliendo la spunto dopo la lettera - denuncia sulla casa circondariale di Giarre, il vicesegretario regionale del sindacato Osapp Domenico Nicotra, ha parlato della difficile situazione dei detenuti. “La condizione è drammatica nelle carceri siciliane - dice - perché, per esempio, nel resto d’Italia esistono, all’interno delle stesse carceri, aree destinate al ricovero mentre, da noi, in Sicilia, se un detenuto deve essere ricoverato, deve allontanarsi dalla struttura carceraria, essere ricoverato in un ospedale e piantonato da personale apposito? E mi chiedo: se in una cella dove convivono 5, 8 detenuti, dunque celle sovraffollate, si registra un caso di suicidio, siamo sempre certi che esistano le condizioni per appurare che si tratti di suicidio? E come facciamo ad appurarlo? In un clima di sovraffollamento, di organico di polizia ridotto, non si riesce a garantire massimi standard sicurezza”. Hanno suscitato reazioni i dati resi noti nella conferenza stampa del garante dei detenuti, Salvo Fleres, sulla condizione delle carceri siciliane. Dichiarazioni che hanno svelato uno scenario difficile e precario per i detenuti delle strutture carcerarie isolane, sia sotto il profilo sanitario che professionale, rivelando numeri e puntando i riflettori su contesti vissuti dai detenuti e dagli agenti di Polizia Penitenziaria, a dir poco “inadeguati”. Non si salva la casa circondariale di Giarre. A tracciarne un profilo è l’Osapp, l’Organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria. In un documento formale, dedicato alla struttura giarrese, il sindacato fa riferimento a “problematiche relative al personale di Polizia Penitenziaria in servizio nella Casa circondariale di Giarre”. Per Lorenzo Valenti, segretario regionale Osapp, “la situazione è veramente al collasso”. Un documento dettagliato e analitico che fotografa - per il sindacato autonomo - la situazione del personale: “La scrivente organizzazione sindacale - si legge - denuncia, ancora una volta, le gravissime condizioni operative nella quali versa il personale di polizia penitenziaria della Casa circondariale di Giarre. L’impossibilità di garantire i diritti soggettivi, specie per quanto concerne i riposi e il congedo, sta provocando, fra il personale, uno stato di generale malessere, con evidenti conseguenze sulla condizione psico - fisica dei dipendenti che va a riflettersi negativamente sui livelli di sicurezza. Alla data odierna - continua il documento - tutto il personale mantiene, ancora per intero, il congedo ordinario per l’anno 2010, in più deve fruire di parecchi riposi recupero”. Il nodo rimane il numero di unità impiegate. Secondo il sindacato sono “insufficiente a sopperire - spiega il vicesegretario regionale Osapp, Domenico Nicotra - alle esigenze di una struttura carceraria come questa giarrese. Si tratta di standard sotto i livelli minimi di sicurezza. Su una media di 100 detenuti, al carcere di Giarre, vengono impiegate circa 45 unità di Polizia penitenziaria in organico ma, in realtà, ne sono a disposizione circa 26”. “Va inoltre osservato - si legge ancora nel documento - che quasi quotidianamente 2 o 3 unità vengono impiegate per integrare il personale del nucleo traduzione e piantonamenti di Catania “Bicocca” costringendo la direzione a scoprire vari posti di servizio, con conseguenze collegate alla sicurezza dell’istituto. È necessario - si legge - prendere iniziative urgenti, disponendo un ulteriore incremento del personale diretto a riempire i vuoti di organico allo scopo di attivare posti di servizio, di garantire un’adeguata sicurezza all’Istituto, ma anche per permettere al personale di fruire dei diritti spettanti”. Eleonora Cosentino Cagliari: Sdr; cappellano di Buoncammino ha ripreso suo ruolo, dopo rinuncia per minacce Agenparl, 22 febbraio 2011 Padre Massimiliano Sira che aveva rimesso l’incarico di cappellano del carcere cagliaritano di Buoncammino in seguito a sms e telefonate di minacce ha ripreso il suo ruolo nella Casa Circondariale. Lo ha appreso Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme” durante i colloqui con le detenute e i detenuti dell’Istituto Penitenziario registrando una diffusa soddisfazione anche da parte degli Agenti e degli operatori. “I detenuti - afferma Caligaris - avevano manifestato preoccupazione per la decisione del cappellano di lasciare l’incarico e avevano avviato anche una raccolta di firme per chiedere al frate cappuccino di restare al suo posto rivolgendo perfino un appello all’arcivescovo di Cagliari Mons. Giuseppe Mani affinché intervenisse sul giovane sacerdote per convincerlo a continuare a vivere l’esperienza dentro le mura del carcere. La loro voce è stata ascoltata e Padre Massimiliano ha proprio confermato ai ‘parrocchianì di Buoncammino la volontà di restare al suo posto. Ha quindi ripreso a svolgere le quotidiane funzioni”. “La presenza di padre Massimiliano Sira - hanno detto alla presidente di Sdr - è per noi un sollievo. Siamo particolarmente contenti che abbia accettato di riprendere il suo posto di cappellano. Per noi è un punto di riferimento insostituibile. Speriamo che quanto è accaduto non debba mai più ripetersi. Il cappellano negli Istituti Penitenziari svolge un ruolo importantissimo. È più che un punto di riferimento spirituale, è un amico, un fratello, qualcuno a cui si può parlare senza filtri anche quando i momenti di sconforto e di rabbia sono dominanti. Padre Massimiliano, in questi anni, ha lavorato con impegno e ha saputo con umiltà, sacrificio e passione trasmetterci i valori e i principi dei Padri Cappuccini. Di questo gli siamo grati così come ringraziamo Mons. Giuseppe Mani e il Padre provinciale per averlo convinto a restare con noi”. Modena: Sappe; internato in Casa lavoro di Saliceta voleva impiccarsi, salvato da agenti Dire, 22 febbraio 2011 Tentato suicidio, ieri pomeriggio, all’interno della casa di lavoro di Saliceta San Giuliano, nel modenese. Lo rende noto il sindacato del Sappe, spiegando che intorno alle 14 un internato della casa di lavoro “ha tentato il suicidio utilizzando i lacci delle scarpe ed è stato salvato grazie all’immediato intervento della Polizia penitenziaria”. L’agente in servizio nella sezione, essendosi accorto di quanto stava succedendo, ha dato l’allarme a un collega in servizio nell’altro reparto e insieme i due agenti “hanno sollevato sulle spalle il detenuto e spezzato il laccio che aveva al collo, dopo averlo bruciato con l’accendino”. Il Sappe, contento del fatto che grazie all’intervento della Polizia penitenziaria si sia salvata un’altra vita nelle carceri italiane, torna all’attacco: “La Polizia penitenziaria continua a lavorare con pochi uomini e scarsissime risorse economiche” denuncia il segretario aggiunto Giovanni Battista Durante. Nella casa di lavoro di Saliceta ci sono 80 internati ma solo 40 agenti. Non va meglio a livello regionale (dove “mancano 650 agenti e ci sono 2.000 detenuti”) né tanto meno nazionale (“mancano 6.500 agenti e ci sono 25.000 detenuti in più“. Mancando i numeri, “la Polizia penitenziaria viene spesso impiegata in più posti di servizio contemporaneamente, con grave rischio per la sicurezza e per le condizioni psicofisiche degli stessi agenti” dice Durante. Su questo fronte arriva, oggi, una piccola consolazione: “Grazie alle pressanti richieste del Sappe, è stato sottoscritto oggi un importante accordo con il Provveditore regionale dell’Emilia Romagna - fa sapere Durante - che prevede che al personale di Polizia penitenziaria impiegato in più posti di servizio contemporaneamente venga riconosciuta un’indennità economica”. L’obiettivo, ora, è che venga estesa a livello nazionale. Milano: due poliziotti penitenziari rinviati a giudizio per violenze sessuali a detenuti transessuali www.diritto.net, 22 febbraio 2011 Rinviati a giudizio con l’accusa di aver stuprato dei detenuti transessuali nelle carceri di San Vittore e di Bollate due agenti della polizia penitenziaria. Il pubblico ministero Isidoro Palma contesta loro i reati di concussione sessuale e violenza sessuale con l’aggravante di averli commessi su persone sottoposte alla limitazione della libertà personale e in qualità di pubblici ufficiali nell’esercizio delle proprie funzioni. In base a quanto ricostruito dalla procura, il primo agente, un ispettore superiore in servizio a San Vittore di 56 anni, nel luglio 2008 in due occasioni avrebbe convocato un primo detenuto transessuale nel proprio ufficio. Rimasto solo con lui, gli avrebbe detto di essere il “comandante delle guardie” e avrebbe preteso un rapporto sessuale. Tra il giugno e il settembre dello stesso anno avrebbe riservato quattro volte lo stesso trattamento a un altro transessuale. Ancora, avrebbe convocato il detenuto nell’ufficio, ricordato chi è che comanda e richiesto rapporti sessuali in cambio della promessa di soddisfare rapidamente le richieste di ricevere vestiti in cella presentate dal trans. Il secondo imputato è invece un assistente di polizia penitenziaria, che avrebbe violentato le stesse due vittime. La prima a San Vittore e la seconda a Bollate. Se le imputazioni sono le stesse del collega, diverse, però, le modalità delle presunte violenze. Avrebbe avvicinato il primo transessuale nel settembre 2008, intimandogli di non creare problemi e costringendolo a un rapporto attraverso le grate della sua cella alla presenza degli altri detenuti. In una seconda occasione, nell’estate del 2009, si sarebbe chiuso con lui nella cella. Poi avrebbe riservato lo stesso trattamento al secondo trans nell’agosto del 2009, una volta trasferito con l’altro transessuale nel carcere di Bollate, dove le due vittime condividevano la stessa cella. L’inchiesta aveva preso il via dalle confidenze della prima vittima a un operatore del carcere che aveva fatto aprire una prima indagine della stessa polizia penitenziaria. I due transessuali nei mesi scorsi hanno confermato le accuse in sede di incidente probatorio. Da marzo la vicenda finirà al vaglio del tribunale. Afghanistan: esercito e polizia torturano i prigionieri… l’occidente sa e lascia fare Ansa, 22 febbraio 2011 Il ricorso alla tortura è in larga parte diffuso nell’esercito e nella polizia in Afghanistan, ma i loro istruttori della Nato - benché informati - chiudono spesso gli occhi quando non sono accusati di ricorrere a questa pratica. È quanto emerge da varie testimonianze dei militari. In undici basi militari americano - afgane della provincia meridionale di Kandahar, un giornalista della France Presse ha raccolto 23 dichiarazioni di soldati afgani e statunitensi, semplici soldati o ufficiali, che hanno mostrato di essere a conoscenza dell’uso diffuso, se non sistematico, della tortura sui loro detenuti da parte delle forze di sicurezza afgane. “Ho visto come l’Ana (esercito nazionale afgano) tratta i talebani”, ha raccontato un sergente statunitense della forza Nato (Isaf). Un ufficiale afgano ha detto ridendo di avere catturato due talebani che ha torturato, portato davanti alle loro case e assassinato sotto gli occhi dei loro familiari. Nell’Arghandab, un distretto di Kandahar, i tenenti colonnelli americani David Flynn e Rodger Lemons hanno invece assicurato di non avere informazioni sulla tortura nella loro zona. Ma hanno un parere sull’argomento. Le forze afgane non sono d’altronde le uniche sul banco degli imputati. Come in Iraq, esercito americano e Cia sono accusati di torture, che alimentano la rabbia dell’opinione pubblica contro il loro intervento militare. Secondo la norma in vigore all’Isaf i detenuti sono trattenuti per 96 ore, quindi trasferiti alle forze di sicurezza afgane o rilasciati. Ma i soldati interrogati sanno che i prigionieri trasferiti alle forze afgane rischiano la tortura o l’esecuzione sommaria: il loro trasferimento rappresenta in questo caso una violazione della convenzione di Ginevra.