Difendere la scuola in carcere vuol dire produrre sicurezza Il Mattino di Padova, 21 febbraio 2011 Sono stati quasi ottomila nello scorso anno scolastico gli studenti-detenuti, la scuola in carcere è forse una delle poche cose che ancora funzionano, nonostante il sovraffollamento. Ma gli insegnanti dell’ITC Gramsci e due studenti dal Due Palazzi ci scrivono per chiederci di difenderla insieme, questa scuola, che oggi rischia di essere ridotta e svuotata, e invece è importante perché permette alle persone di acquisire gli strumenti culturali per rientrare dignitosamente nella società, alla fine della pena. Riforma dell’istruzione per i detenuti ecco quello che non dobbiamo perdere Tra le tante novità che si prospettano nella scuola italiana, le notizie che circolano sul futuro della scuola in carcere sollevano qualche preoccupazione in noi, docenti dell’Istituto Tecnico Commerciale “A. Gramsci”, che da molti anni ci lavoriamo. Sembra, infatti, che sia nelle intenzioni del Ministero assimilare in modo indifferenziato la scuola in carcere a tutta la restante educazione degli adulti. Se questa ipotesi di riforma si concretizzasse, le conseguenze, secondo la nostra più che decennale esperienza, sarebbero molto gravi. Innanzi tutto il percorso scolastico, fin qui sviluppato nell’arco di cinque anni, verrebbe ridotto a tre soli anni: le classi prima e seconda da svolgere in un unico anno con docenti dei Corsi per Adulti, le classi terza e quarta, analogamente, in un unico anno e solo la quinta in un anno intero. Questa riduzione del percorso però non tiene conto della natura peculiare degli alunni in carcere i quali, nella maggior parte dei casi, provengono da esperienze scolastiche a dir poco irregolari: molti hanno compiuto la totalità del percorso scolastico in carcere; quelli che viceversa hanno conseguito la licenza media nella vita “di prima”, lo hanno fatto in un periodo molto distante nel tempo e per la vita che hanno fatto, difficilmente hanno mantenuto una qualche dimestichezza coi libri. Ma non è tutto, in carcere a Padova è attivo un Polo universitario: parecchi degli alunni che si sono diplomati in questi ultimi anni si sono iscritti all’università. Ebbene, in tale ipotesi di riforma, è prevista la possibilità di iscriversi all’università col diploma conseguito? E se anche così fosse, come si può pensare di fornire in soli tre anni una preparazione sufficiente? Temiamo fortemente che non sia così. Infine, la divisione del percorso tra Corso per Adulti e secondaria superiore avrebbe probabilmente una ulteriore, grave, conseguenza e cioè la progressiva perdita di identità della scuola superiore in carcere. Ed è invece, questa, una identità da salvaguardare perché costruita da una esperienza più che decennale, che si traduce in memoria storica e quindi in capacità di formare i docenti che per la prima volta affrontano l’esperienza della scuola in carcere, ma che consiste anche in prestigio acquisito nel rapporto con tutte le altre componenti che operano in carcere, con l’amministrazione carceraria e con gli agenti, gli educatori e gli psicologi, i magistrati di sorveglianza, i volontari e le cooperative che in carcere lavorano. L’assunzione quotidiana di responsabilità che la scuola richiede, senza offrire nulla di tangibile e immediato in cambio, costituisce un aspetto importante nel percorso di ciascuno studente - detenuto, una tappa fondamentale in un processo rieducativo che dovrebbe essere lo scopo fondamentale della detenzione. Non è il diploma che si consegue la cosa più importante, come invece avviene nelle tradizionali scuole per adulti, bensì il percorso in sé. Ridurlo sarebbe svilirne la finalità. Docenti ITC “Gramsci” sezione carceraria Due Palazzi Una finestra che si apre sul mondo per essere più responsabili e meno isolati La scuola superiore in carcere non riveste solo una funzione di approfondimento della cultura, ma offre un importante spazio di relazione con gli insegnanti che sono sempre disponibili a dialogare su qualsiasi argomento, anche di attualità, e portare così chi è recluso a conoscenza di certe realtà che molto difficilmente potrebbe apprendere da altre fonti. In pratica per i detenuti frequentare la scuola superiore è un po’ come affacciarsi a una finestra aperta sul mondo esterno, il che li fa sentire meno estranei e un po’ partecipi della vita sociale. Ci sono anche altre motivazioni che spingono dei detenuti adulti a frequentare le scuole superiori e la principale è l’uso del tempo, che in carcere si può impiegare in maniera costruttiva, ma anche sprecare senza costruire niente di utile. In taluni casi quando si è costretti all’ozio forzato, perché non c’è lavoro, né scuola, la persona finisce che si abbrutisce, perché lo stare nell’ozio impedisce all’individuo di uscire dal circolo vizioso e criminogeno nel quale si trova. Io mi trovo in carcere a scontare una lunga condanna e chi è nelle mie condizioni non può vivere solo facendo cella - passeggio, perché in questo modo rischia di invecchiare senza migliorarsi mai e senza concludere niente di concreto. Una volta arrivato a Padova ho pensato di iscrivermi a Ragioneria, in quanto due anni della stessa scuola li avevo già fatti al carcere di Secondigliano a Napoli. La cosa che più mi ha convinto è stata la presenza sia della scuola superiore che dell’università. Questo è un particolare importante perché permette a uno che è fresco di diploma di continuare con gli studi universitari senza aspettare, magari per anni o inutilmente, di essere trasferito in qualche carcere dove ci sia un Polo universitario. La continuità nello studio per uno studente adulto è fondamentale in quanto si fa in fretta a dimenticare le cose imparate e se c’è un’interruzione solo di uno o due anni si rischia di dimenticare quanto si è fatto prima, mentre se la cosa è continua si arriva senza sforzo al traguardo che ci si è posti. L’Istituto di Ragioneria nel carcere di Padova, grazie anche alla serietà e competenza dei professori, svolge egregiamente il suo compito portando tutti gli anni un buon numero di studenti alla maturità, nonché dando a decine di loro l’opportunità di uscire quelle 5 ore al giorno dalle loro piccole e sovraffollate celle a respirare quello che si può dire un surrogato di libertà. Antonio Floris Dal vuoto quotidiano sono passato a dare valore al tempo Dopo due anni di corso di cultura generale quest’anno ho avuto la possibilità di iscrivermi a ragioneria. Da subito ne ho visto i benefici, passando dall’ozio quotidiano fatto di consuetudine e di tempi meccanici, ad un’attività mentale completa. Io che ho “arsura di sapere”, mi sono trovato a mio agio nel potermi occupare di qualcosa che mi accresce sul piano culturale. Dal vuoto quotidiano sono passato a dare valore al tempo e non solo, dato che i riflessi positivi sono molteplici. Per luoghi come il carcere poter parlare d’altro è una notevole apertura al mondo, ti schiude quegli spazi che altrimenti rimarrebbero invalicabili. Gli stimoli si susseguono come una sorta di gioco del domino ove un argomento ne investe subito un altro. Per me è certamente importante lo studio, è un’opportunità che consiglio a tutti, soprattutto a chi vuole migliorarsi culturalmente ed umanamente, dato che lo studio dà anche modo di guardarsi dentro, e di sviluppare capacità critica, come avviene anche nella realtà esterna. Mi affascina molto anche l’aspetto competitivo che automaticamente si innesca con me stesso quando affronto lo studio non più da adolescente. Il mio più vivo auspicio è che questo corso di ragioneria che sto frequentando in carcere continui senza alcun problema negli anni futuri. Mi auguro anche che siano ampliate in questi istituti altre attività culturali per non far logorare i detenuti dall’ozio e dalla noia con cui vivono quotidianamente. Gaetano Fiandaca Giustizia: Rita Bernardini; necessaria un’amnistia e bisogna ridurre il ricorso al carcere di Giorgio De Neri L’Opinione, 21 febbraio 2011 L’amnistia, più che la costruzione di nuove carceri, è la soluzione. Parola del deputato radicale Rita Bernardini, una specie di “angelo dei detenuti italiani”. Si suicidano un po’ tutti, detenuti soprattutto, ma anche agenti di custodia, direttori penitenziari e ormai da anni. L’Europa che dice di ciò? Intanto la Corte di Strasburgo ha già condannato il nostro Paese per violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea sui Diritti dell’Uomo, norma che impone allo Stato di assicurare a tutti i prigionieri condizioni di detenzione compatibili con il rispetto della dignità umana. C’è da dire però che il sovraffollamento carcerario è un problema che non coinvolge solo l’Italia ma molti degli Stati della Comunità Europa. In generale su questo fronte la politica europea sembra quasi unanimemente volta alla carcerizzazione come unica risposta ai problemi della criminalità e della sicurezza. È solo un paradosso pannelliano che le carceri fasciste erano meglio di quelle di oggi? No. La perdita di credibilità della autorità penale che il nostro sistema giudiziario e carcerario sconta da decenni, così come i costi sociali causati dalle nuove forme di controllo della criminalità, sono tutti fenomeni che non si erano registrati in forme così drammatiche nemmeno sotto il fascismo. Come si può realisticamente risolvere il problema delle carceri italiane? Innanzitutto riducendo entro limiti costituzionalmente accettabili il ricorso indiscriminato e massiccio alla misura cautelare estrema della custodia in carcere, istituto che spesso viene usato dalla magistratura anche in aperto contrasto con quanto previsto dall’articolo 27 della Costituzione (in Italia il 40% dei detenuti è in attesa di processo). E poi? Poi occorrerebbe abrogare alcune disposizioni contenute nella legge Bossi - Fini sull’immigrazione e nella legge Fini - Giovanardi sulle sostanze stupefacenti. Ma soprattutto bisognerebbe rivedere la normativa sulla recidiva introdotta con la legge ex - Cirielli nella parte in cui la stessa limita fortemente l’accesso alle misure alternative alla detenzione per i soggetti non incensurati. Meglio un’amnistia e un indulto o costruire nuove carceri? L’amnistia è necessaria non solo per i detenuti che oggi vivono in condizioni brutali ma per gli stessi magistrati che sono sommersi da milioni di processi arretrati che anno dopo anno a centinaia di migliaia cadono in prescrizione. Per quel che riguarda le nuove carceri, il Ministro della giustizia dovrebbe rispondere alle domande che gli ho posto e alle quali non ha mai risposto: con quale personale, se già oggi per i 206 istituti esistenti mancano seimila agenti e centinaia di educatori, assistenti sociali e psicologi perché non ci sono i soldi? Perché non mette on line sul sito del ministero - come prevede la legge! - i nomi e gli stipendi che vengono corrisposti ai “collaboratori” del Commissario straordinario Ionta che è anche capo del Dap? Perché questa operazione non la fanno con trasparenza? La ventata giustizialista degli anni 90 e alcune leggi liberticide come la Fini Giovanardi e la Bossi Fini che responsabilità hanno? Una responsabilità enorme. Anzi, da questo punto di vista si può sicuramente dire che il sovraffollamento carcerario corrisponde ad una precisa scelta di politica giudiziaria - che, non dimentichiamolo, accomuna entrambi gli schieramenti politici - finalizzata a contrastare il disagio sociale (tossicodipendenza ed immigrazione in primis) attraverso il ricorso alla sanzione detentiva. Si può correggere questa deriva? Certo. Innanzitutto sul fronte del ricorso eccessivo alla misura estrema della custodia cautelare in carcere andrebbe svolta una significativa battaglia politica per richiamare la magistratura al rispetto dei suoi doveri istituzionali. Poi occorrerebbe superare una volta per tutte il percorso emergenziale che caratterizza ormai stabilmente le scelte del legislatore (sia di centrodestra che di centrosinistra) sul fronte del diritto penale, magari attraverso l’individuazione di un sistema sanzionatone finalmente alternativo a quello del carcere, proprio come indicato nella nostra mozione sulle carceri approvata da entrambi i rami del Parlamento. La partitocrazia ha ormai irreversibilmente deciso che le carceri debbano diventare una discarica sociale? Come radicali non ci siamo mai rassegnati, anzi, abbiamo anzi sempre indicato alcune linee concrete volte al superamento dei processi di carcerizzazione in atto. Solo depenalizzando nella misura del possibile e usando tutte le alternative alla detenzione che il nostro sistema già conosce, possiamo pensare di ridare consapevolezza, risorse ed efficacia alle risposte sociali che in tutti questi decenni sono mancate. E poi facciamo tutto questo anche perché conviene: i tassi di recidiva si abbattono drasticamente quando si usano pene alternative alla detenzione nelle nostre carceri infami. Giustizia: cambiare articolo 79 della Costituzione, per rendere più facili amnistia e indulto di Dimitri Buffa L’opinione, 21 febbraio 2011 C’è poco da fare, la crisi attuale del sistema giudiziario penale, con l’appendice delle carceri ridotte a discarica sociale, dipende da due mosse avventate, compiute nel 1992 sulla spinta del giustizialismo di “tangentopoli”. La prima è la modifica dell’articolo 79 della Costituzione nel senso di richiedere una maggioranza qualificata in Parlamento per concedere l’amnistia o l’indulto. La seconda è l’abolizione tout court dell’immunità parlamentare attraverso il cambiamento dell’articolo 68 della Costituzione. Al netto di queste due pensate oggi noi non avremmo le carceri in questo stato e neanche la continua rissa tra magistratura e politica. D’altronde non è che l’ordine pubblico o i reati dei politici fossero maggiori prima del 1992 rispetto ad oggi. Anzi. Magari c’era meno la tendenza a carcerizzare il nemico politico. Già, perché se la Costituzione italiana fin dal 1946 prevedeva i due istituti un motivo c’era: l’amnistia e l’indulto sono sempre stati uno strumento per tenere sotto controllo l’interpretazione pan-penalistica della società, l’immunità parlamentare uno strumento per evitare che qualcuno “più puro” epurasse la politica. Oggi invece ci troviamo in un “cul de sac”. Perché da un lato è impossibile per mancanza cronica di fondi pubblici costruire carceri modello come quello di Bollate dove 1900 detenuti hanno ciascuno la cella singola dotata di computer, cucina, doccia e bidè e una sala biblioteca degna di un’università. E dall’altro vediamo una tendenza sempre più indesiderabile della magistratura a sostituirsi alla politica. Con sempre più ex eroi di inchieste penali a lanciarsi poi nella politica vera e propria forti della popolarità un bel po’ demagogica acquisita con le inchieste. In realtà le accuse di corruzione sono da sempre un ottimo pretesto per far dei golpe in giro per il mondo. E anche quando come in Italia la democrazia sembra tenere, lo stato di diritto di fatto non esiste quasi più. Anche perché una grande ipocrisia della nostra Costituzione è quella rappresentata dalla obbligatorietà dell’azione penale che di fatto si traduce in arbitrio delegato in capo al pm. Mettiamoci poi la mancata riforma della separazione delle carriere tra chi indaga e chi giudica e la sostanziale inapplicabilità della attuale legge per la responsabilità civile del magistrato e avremo la risposta al “delirio” attuale. Oggi il primo che si alza si veste. Oggi la gerarchia nella magistratura è rovesciata: i capi non contano e i magistrati che fanno carriera sono quelli con l’inchiesta che va in tv, in prima pagina, sulla bocca di tutti. E questo sprona molti di quelli che un tempo si chiamavano pm d’assalto a scegliersi i propri bersagli giudiziari in base al ritorno mediatico previsto o prevedibile. Cosa che in parte spiega anche l’incredibile caso del premier Silvio Berlusconi, uomo che da quando è sceso in politica è stato indagato più di qualsiasi capo mafia in qualsivoglia parte del mondo. Per il problema delle carceri, in questo momento, l’amnistia presenta un vantaggio in più rispetto all’indulto: oltre a fare uscire fuori quelle ventimila persone di troppo, alcune delle quali, come gli stranieri, potrebbero essere espulse verso il paese d’origine, mentre altre, come i tossicodipendenti, potrebbero essere reinserite e curate socialmente grazie alle comunità di recupero private e pubbliche, permette anche di estinguere le cause penali e quindi di smaltire un gigantesco arretrato bagatellare per le procure e i tribunali di tutta Italia. Il grande errore nel 2006 fu quello di non avere approvato l’amnistia insieme all’indulto e oggi si potrebbe rimediare. Va anche precisato e ribadito con forza, specie nei confronti di quelle forze politiche come i dipietristi, i leghisti e i finiani, che hanno fatto delle emergenze sicurezza le proprie uniche bandiere di propaganda elettorale da dieci anni a questa parte (Fini, allo spirare della legislatura del secondo governo Berlusconi, volle a tutti i costi, tanto da inserirla nel decreto delle Olimpiadi invernali di Torino, una legge punitiva sulle droghe, equiparando leggere e pesanti a dispetto di ogni evidenza scientifica, per marcare il proprio territorio all’epoca “di destra” e questo nonostante che Berlusconi avesse tentato per tutta la legislatura di farne volentieri a meno, ndr), che i detenuti cui viene applicato l’indulto o l’amnistia sono quelli a più basso tasso di recidiva. Nonostante le campagne giornalistiche di falsità dopo l’ultima legge di indulto votata in Italia, uno studio sui dati forniti dall’amministrazione penitenziaria dimostrava che i tassi di recidiva erano piuttosto bassi e si assestavano al 30,31% per i beneficiari provenienti dal carcere ed al 21,78% fra coloro che al momento dell’entrata in vigore della legge stavano scontando la pena in misura alternativa. Il dato deve opportunamente essere confrontato con il tasso medio di recidiva “ordinario” che è del 68% fra la popolazione detenuta e del 30% fra coloro che hanno scontato la pena prevalentemente in misura alternativa. Se si considera come i principali studi in materia indichino nei primi tre anni il periodo di maggiore rischio per la commissione di nuovi reati, ne consegue un giudizio positivo sull’impatto prodotto dall’indulto sui percorsi esistenziali delle persone coinvolte nel provvedimento. Il problema stava come al solito nella percezione mediata dai telegiornali. Se si fossero analizzati i dati relativi alle notizie di cronaca nera, cronaca giudiziaria e criminalità organizzata, sarebbe apparso evidente come, mediamente, il tempo dedicato alla esposizione di tali eventi, fosse raddoppiato (quando non addirittura triplicato), passando dal 10,4% dei telegiornali del 2003, al 23,7% di quelli del 2007. In pratica, mentre nel periodo 2003 - 2005 la rappresentazione di eventi criminosi si era mantenuta costante, a partire dal 2006, dopo l’indulto, si è rilevato un sensibile incremento del tempo dedicato a questa tipologia di notizie, con un ulteriore aumento nel corso del 2007. Giustizia: Clemenza e Dignità; anche quest’anno ricomincia conteggio morti nelle carceri Agenparl, 21 febbraio 2011 “Per far comprendere l’entità di una tragedia, non può farsi affidamento solo sulla capacità di impressionare propria dei grandi numeri. La matematica può rendere un’idea, ma non può da sola spiegare esaurientemente una tragedia.” Lo afferma in una nota Giuseppe Maria Meloni, presidente di Clemenza e Dignità. “Nel caso di specie e per le carceri - prosegue - non solo vi è la tendenza ad ignorare gli aspetti propriamente umani della vicenda, applicando la matematica quale principale mezzo cognitivo della realtà, ma si pretende di applicare tale mezzo in una maniera che può apparire anche discutibile: all’inizio di ogni anno, infatti, magicamente si ricomincia da capo, si riparte da zero, ricomincia il conteggio dei morti nelle carceri, come se nell’anno precedente non fosse mai successo nulla”. “Questo approccio strettamente aritmetico della tragedia, - conclude - non è azzardato ipotizzare sia anche frutto di un disagio e di un profondo senso di impotenza degli operatori e delle associazioni del settore, il cui ruolo, non potendosi immediatamente modificare qualcosa di rilevante del complessivo sistema punitivo, sta sempre più riducendosi, inevitabilmente, a quello del mero contabile”. Giustizia: Giulio Petrilli (Pd) in sciopero della fame per legge sull’ingiusta detenzione Ansa, 21 febbraio 2011 Sciopero della fame a oltranza del responsabile del dipartimento delle Garanzie e dei Diritti del Pd della provincia dell’Aquila, Giulio Petrilli, contro l’assenza di una legge che renda retroattiva la norma che sancisce la riparazione per ingiusta detenzione. La legge venne approvata con il nuovo codice di procedura penale nell’ottobre del 1989. prima di quella data le persone detenute e poi assolte non hanno potuto beneficiare di alcuna riparazione. Tra loro, Petrilli, che ha scontato cinque anni ed otto mesi di carcere prima di essere assolto. “Il dettato costituzionale secondo cui la legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari - spiega Petrilli in una nota - non è valido per tutti coloro che sono stati assolti prima del 24.10.1989. Per spingere la commissione giustizia a calendarizzare i disegni di legge per rendere retroattiva la legge ho iniziato uno sciopero della fame. Una battaglia questa, fatta anche per conto dei tanti che come me hanno scontato anni e anni di carcere per poi essere assolti”. Petrilli ricorda che sono molte le proposte presentate e che “ultimamente diversi giuristi, esponenti di forze politiche e associazioni, giornalisti, cittadini e cittadine hanno sottoscritto un appello per introdurre la retroattività nella riparazione per ingiusta detenzione, ma tutto rimane fermo”. Secondo Petrilli, “in base ai dati Eurispes, in Italia dal 1945 ad oggi ben 4 milioni e mezzo di persone sono state vittime di errori giudiziari, ma di queste solo venticinquemila hanno avuto un risarcimento”. Giustizia: legge sulle detenute madri; il plauso dell’Unione nazionale camere minorili Comunicato stampa, 21 febbraio 2011 L’Unione nazionale camere minorili manifesta il proprio apprezzamento in relazione alla recente approvazione - all’unanimità - alla Camera del testo unificato delle proposte di legge C. 52 - C. 1814 - C. 2011 - A (Modifiche al codice di procedura penale e alla legge 26 luglio 1975 n. 354 a tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori). Evidenzia che l’approvazione del testo unificato rappresenta un importante traguardo verso l’attuazione dei principi fondamentali sanciti dalla Convenzione Onu sui Diritti dell’Infanzia e, in particolare, del diritto “di intrattenere regolarmente rapporti personali e contatti diretti con entrambi i genitori, a meno che ciò non sia contrario all’interesse preminente del fanciullo” (art. 9 comma III), che risulta sensibilmente limitato nel caso di minori figli di madri e/o genitori detenuti; che, infatti, la tutela di tale diritto fondamentale del minore è fortemente ostacolata dalla condizione detentiva del genitore, per come opportunamente rilevato da uno studio approfondito del Gruppo di Lavoro per la Convenzione sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza (cfr. 2° Rapporto supplementare 2009 e 4° Rapporto di aggiornamento 2007/2008 sul monitoraggio della Convenzione sui diritti dell’Infanzia e dell’adolescenza in Italia, elaborati dal Gruppo Crc); che, secondo i dati rilevati, la problematica in questione assume dimensioni rilevanti, atteso che ogni anno in Italia i minori separati da un genitore (o da entrambi) perché detenuti sono ben 75 mila (cfr. Figli di genitori detenuti - Prospettive europee di buone pratiche, Milano 2007, Bambini senza sbarre); che il mantenimento della relazione familiare (fatte salve le ipotesi di impedimenti giudiziari e di situazioni che siano in contrasto con la tutela dell’incolumità e/o degli interessi del minore) è un diritto fondamentale di ogni fanciullo e che va, pertanto, garantita la continuità del legame affettivo fra genitori e figlio minore, specialmente se di età inferiore ai dieci anni. che risulta, conseguentemente, necessario favorire il mantenimento del rapporto madre/padre e figlio minore con adeguate “attività di sostegno e di intervento” nelle ipotesi in cui sussista inevitabilmente una distanza fisica tra figlio minore e genitore (a causa della condizione detentiva di quest’ultimo). Auspica che si ponga fine al fenomeno dei c.d. “bambini detenuti” e che si favorisca - ove la situazione concreta lo consenta - il ricorso a strutture che limitino, al massimo, la percezione del bambino di trovarsi in una condizione “restrittiva”, in ossequio al principio secondo cui i bambini non debbano essere sottoposti a limitazioni della libertà personale in ragione della condizione carceraria del genitore che ne cura prevalentemente l’accudimento e la crescita. Rileva che l’approvazione della riforma della normativa in materia, pur non del tutto esaustiva, rappresenta un significativo passo in avanti verso la piena attuazione del principio che assicura ad ogni minore il diritto ad una relazione familiare piena con la figura genitoriale in stato detentivo, al fine di garantire lo sviluppo armonico della personalità. Il Presidente Avv. Luca Muglia Giustizia: basta con le falsità sul caso Battisti di Armando Spataro (Sostituto procuratore della Repubblica di Milano) Il Manifesto, 21 febbraio 2011 A seguito delle polemiche suscitate dal caso Battisti in Francia, e all’intervista pubblicata sul manifesto allo stesso, il sostituto procuratore della Repubblica di Milano e coordinatore del Dipartimento antiterrorismo ha inviato questo articolo a Le Monde e al Manifesto. Voltaire sosteneva che la libertà di espressione va tutelata, specialmente quella di chi non la pensa come noi. lo sono naturalmente d’accordo, ma le offese e le falsità sono una cosa diversa. Gli amici dell’assassino Cesare Battisti possono continuale ad aiutarlo fino all’eternità, anche con presunzione o leggerezza, ma non hanno il diritto di diffondere falsità sul suo caso e di offendere la giustizia italiana che ha pagato con il sangue la difesa della democrazia negli anni di piombo. Ho letto su Le Monde del 27 gennaio scorso un articolo di Fred Vargas e da pubblico ministero che si occupò delle fasi iniziali del caso Battisti, chiedo ospitalità per ristabilire la verità così profondamente manipolata. 1 - Battisti non è un estremista perseguitato in Italia per le sue idee politiche, ma un criminale comune che si è politicizzato in carcere, commettendo poi rapine, ferimenti ed omicidi. Egli venne arrestato nel giugno 1979 in una base terroristica di Milano, piena di mitra, pistole, fucili e documenti falsi: la prima condanna che subì riguardava solo il reato di banda armata nonché il possesso delle armi di cui fu trovato in possesso, ma fu aperta subito (non nel 1982) anche l’indagine per gli omicidi ed i ferimenti commessi dai Proletari Armati per il Comunismo (Pac). 2 - Battisti, uno dei capi dei Pac (sebbene madame Vargas lo neghi), è stato poi condannato all’ergastolo per molti gravi reati, tra cui anche 4 omicidi: in due di essi, omicidi del maresciallo Santoro (Udine, 6.6.] 978) e del poliziotto A. Campagna (Milano, 19.4.1979), egli sparò materialmente alle vittime; in un terzo (L.Sabbadin, macellaio, ucciso a Mestre il 16.2.1979) svolse il ruolo di “palo” in aiuto dei killer; per il quarto (P.Torregiani, Milano, 16.2.1979) partecipò alla decisione ed organizzazione del fatto. 11 gioielliere e il ma - cellaio furono “giustiziati” per ritorsione (avendo reagito con le armi a rapine che essi avevano subito), i due poliziotti solo perché facevano il loro dovere. 3 - Battisti non è mai stato accusato di essere autore materiale dell’omicidio Torregiani: egli lo decise insieme agli altri capi dei Pac ma partecipò materialmente al contemporaneo omicidio Sabbadin, commesso vicino Venezia e rivendicato insieme all’altro. Dunque, a che fine la Vargas continua ad affermare che chi sparò a Torregiani era fisicamente diverso da Battisti? 4 - È assolutamente ridicolo e falso che siano stati accertati, nel caso Battisti, casi di tortura. Subito dopo l’omicidio del gioielliere Pierluigi Torregiani fu individuato uno degli autori del fatto. Due suoi parenti ed alcuni degli arrestati resero dichiarazioni fondamentali a carico degli assassini che, però, cercarono di ritirare due giorni dopo, affermando che erano state loro estorte con torture. I giudici che si occuparono del caso accertarono facilmente che quelle denunce erano false e strumentali. 5 - Battisti non è stato condannato solo per le accuse del pentito Mutti. Ma anche grazie a molte testimonianze ed alle successive collaborazioni di altri ex terroristi. Nella base dove fu arrestato nel ‘79 si trovarono anche i documenti di rivendicazione degli omicidi. La verità, dunque, sta scritta nelle sentenze. Ma madame Vargas evidentemente rifiuta di leggerne le centinaia di pagine di motivazione. Ed evita di citare nel suo articolo anche le interviste rilasciate in questi giorni da un altro capo dei Pac, Arrigo Cavallina, un dissociato e non certo un pentito, che ha duramente criticato 1’omertà di Battisti e confermato le accuse a suo carico. 6 - Non è vero che a Battisti sia stata negata la possibilità di difendersi in quanto assente durante i processi: fu lui a sottrarsi alla giustizia evadendo nel 1981 dal carcere dove era detenuto. Per questa ragione nel 2006 la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo ha respinto il ricorso di Battisti contro la concessione dell’estradizione da parte della Francia, giudicandolo “manifestamente infondato” ed affermando che in tutti i processi subiti - della cui esistenza era ben consapevole - egli era stato sempre difeso dai suoi avvocati di fiducia: li aveva formalmente nominati con tre distinte lettere inviate alle Corti italiane. Lettere autentiche e non false come sostiene madame Vargas. La invito a leggere la sentenza della Corte di Strasburgo: è scritta in francese! O pensa che anche quella Corte perseguiti Battisti per ordine dei magistrati torturatori italiani? 7 - Madame Vargas afferma poi che i due avvocati di Battisti - di cui non fa i nomi - furono arrestati e sembra voler far credere che ciò sia avvenuto per danneggiare Battisti! Posso solo affermare che vari avvocati sono stati arrestati e processati in Italia per terrorismo e mafia, ma solo perché, tradendo il loro nobile mandato, avevano agito per favorire l’attività di associazioni terroristiche o mafiose. Anche questo è spiegato in molte sentenze. 8 - È falso che l’Italia ed il suo sistema giudiziario non siano stati in grado di garantire i diritti delle persone accusate di terrorismo negli “anni di piombo”. È un’affermazione - sia ben chiaro - che non ferisce me (accusato dall’assassino Battisti e dalla sua amica madame Vargas di essere un Torquemada), ma l’intera magistratura italiana. Sono dieci i magistrati e tanti gli uomini delle istituzioni ed i poliziotti che sono stati vilmente uccisi, da persone come Battisti, solo perché, codice in mano, applicavano la legge. L’Italia non ha conosciuto derive antidemocratiche nella lotta al terrorismo. Lo ricordò in quegli anni anche il nostro Presidente della Repubblica Sandro Ferrini, socialista, affermando che l’Italia poteva vantare di avere fermato il terrorismo nelle aule di giustizia anziché “negli stadi”. Suggerisco dunque alla scrittrice di gialli ed archeologa Fred Vargas di approfondire le sue ricerche, a partire dagli studi di accademici francesi come Marc Lazar e Marie - Anne Matard - Bonucci, che quegli anni ben conoscono. Barbara Spinelli, una grande giornalista italiana, in un articolo del marzo 2004, contestò ai sostenitori francesi di Battisti, uno degli assassini più spietati e determinati che il terrorismo italiano abbia mai conosciuto, la loro “ignoranza molto speciale... perentoria... militante”, aggiungendo: “La verità è che l’Italia degli anni di piombo voi la conoscete attraverso gli occhi di chi, riparato in Francia, vi ha venduto una sua storia falsa con la stessa tecnica con cui i magliari vendevano merce difettosa negli Anni Cinquanta”. Inutile chiedere autocritica a madame Vargas, ma che almeno i lettori francesi conoscano la verità. Lettere: carceri, un crimine da Corte penale internazionale di Mario Zamorani (presidente di Radicali Ferrara) La Nuova Ferrara, 21 febbraio 2011 La stampa ferrarese parla di una lettera (che purtroppo non ho potuto leggere) redatta nei giorni scorsi da alcuni detenuti del carcere dell’Arginone. In essa, pare, si critica in primo luogo la cosiddetta legge “svuota-carceri” e in particolare il comportamento del magistrato di sorveglianza. E si criticano infine anche educatori, psicologi e il garante per i diritti dei detenuti; solo si salva, pare, “il personale di polizia penitenziaria”. Su questo alcune considerazioni. Lo stato delle carceri italiane rappresenta una sempre più insostenibile e scandalosa emergenza umanitaria con violazione sistematica dell’articolo 27 della Costituzione, sistematica impossibilità di “rieducazione del condannato” e sistematica violenza contro le persone che vivono il carcere. Oggi le carceri rappresentano una comunità dolente e oggetto di violenza da parte dello Stato, e che coinvolge detenuti, polizia penitenziaria, medici, infermieri, psicologi, educatori, assistenti sociali, garanti dei diritti dei detenuti e altre figure ancora. E tutti, ripeto tutti, questi soggetti collaborano con generosità, ognuno per la sua parte e competenza, al tentativo di rendere più umana o almeno meno disumana la vita di tutti in carcere. In questo contesto di certo nessuno degli operatori merita di essere classificato di serie A o di serie B, come sembra argomentare la lettera di cui si parlava, con considerazioni sulla cui assoluta spontaneità manifesto qualche minimo dubbio e sicuramente ingenerose verso operatori che in gran parte agiscono in condizioni quasi insostenibili di disastro strutturale. Intanto sale a quota 15, di cui 8 suicidi, il totale dei detenuti deceduti in carcere dall’inizio del 2011: 6 di loro avevano meno di 30 anni e altri 7 un’età compresa tra i 32 e i 39 anni. Per i Radicali l’attuale situazione carceraria è “un crimine da Corte penale internazionale” di cui è pienamente responsabile lo Stato italiano. Lettere: fallimento della “svuota-carceri”; le dichiarazioni di Ionta, l’allarme dei sindacati www.ilcarcerepossibileonlus.it, 21 febbraio 2011 Il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria chiede che venga verificato l’operato della Sorveglianza. I Sindacati di Polizia Penitenziaria denunciano il fallimento dell’azione di Governo. Napoli, 20 febbraio 2011 - Mentre la nave continua ad affondare, il comandante - dalla terra ferma - cerca di convincere i suoi uomini che non è vero e che se c’è qualche falla nello scafo, la colpa non è dell’armatore. Ormai, il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria è sempre più solo a difendere l’indifendibile. Da Nord a Sud le carceri scoppiano e le risorse a disposizione sono sempre meno, ma egli continua a non vedere. Le morti e i suicidi, la possibilità che tra poco mancheranno i fondi per il vitto, mentre già quelli per il trattamento rieducativo hanno subìto l’ennesima drastica riduzione, azzerando di fatto l’attività, l’allarmante situazione sanitaria, la chiusura dell’area colloqui con i difensori nel carcere di Reggio Calabria, che ha suscitato la giusta protesta della Camera Penale locale, l’attenzione alle violazioni di legge ormai denunciata anche dai media più attenti, sembrano non scalfire le certezze del Dott. Ionta, che nella sua intervista si preoccupa soprattutto di sottolineare che i pochi che hanno beneficiato della nuova norma, non sono evasi dagli arresti domiciliari e non vi è stato un incremento degli illeciti. Insomma i cittadini liberi possono stare tranquilli. Ma il Capo del Dipartimento non dovrebbe verificare soprattutto che nelle carceri venga rispettata la Legge ? Se il Governo non lo consente, ha l’obbligo di protestare e evidenziare carenze e limiti dell’azione politica. Lazio: il Garante; finito effetto legge svuota-carceri, aumentano di nuovo i detenuti Dire, 21 febbraio 2011 “I numeri sembrano certificare che, nel Lazio, è già finito l’effetto della legge svuota-carceri, il provvedimento varato dal governo lo scorso dicembre, che prevedeva la possibilità di scontare agli arresti domiciliari l’ultimo anno di pena. Dopo il calo di presenze registrato a gennaio, questo mese i reclusi presenti nelle 14 carceri della regione sono tornati a salire: il 15 febbraio erano infatti 6.398, un dato molto vicino a quota 6.400, sfondata per la prima volta lo scorso novembre”. I dati sono stati diffusi dal Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni. “Lo scorso mese avevamo salutato come un piccolo segnale di speranza il calo dei reclusi - ha detto - Oggi siamo costretti, con rammarico, a constatare che aveva ragione chi aveva preannunciato le criticità della legge, criticità che inevitabilmente sono venute a galla in fase di attuazione. Ad esempio, non si è tenuto in debito conto molti detenuti sono stranieri, che non hanno un luogo dove scontare la detenzione domiciliare, o tossicodipendenti per i quali non ci sono strutture per accoglierli”. Secondo i dati, al 15 febbraio, in tutta Italia circa 1.100 detenuti su 68.000 (poco più dell’1%) avevano beneficiato della legge svuota-carceri. La Regione con il maggior numero di concessioni ai domiciliari era la Sicilia (100 su 7.800 detenuti), seguita dal Lazio (90 su 6.400 reclusi). Al 16 febbraio i detenuti reclusi nel Lazio, sono 6.398, oltre 1.700 in più rispetto alla capienza regolamentare. Rispetto alla rilevazione di gennaio i detenuti sono cresciuti di 21 unità. Rispetto ad un anno fa (quando i detenuti erano 5.882), c’è stato un incremento di ben 516 unità. Nelle celle della Regione sono reclusi 5.949 uomini e 449 donne. A gennaio erano 5.558 uomini e 419 donne. Alla fine di novembre 2010 erano 5.989 e 445. A settembre c’erano 5868 uomini e 449 donne mentre ad agosto i reclusi erano 5853 uomini e 434 donne. A luglio nelle celle c’erano 5811 uomini e 442 donne. Il 20 giugno 5.795 uomini e 459 donne: il 24 maggio 5784 gli uomini e 445 le donne. Il 21 aprile i detenuti erano 5.704 uomini e 434 donne, l’11 marzo 6.082 (5648 uomini e 434 donne), a febbraio 5.882 (5.470 uomini e 412 donne). Secondo quanto spiega Marroni le situazioni più critiche sono a Latina (dove i detenuti dovrebbero essere 86 e sono invece più del doppio), Viterbo (300 detenuti in più rispetto alla capienza), Frosinone (oltre 200 reclusi in più), Rebibbia N.C. (oltre 450 in più) e Regina Coeli. A Rebibbia Femminile le donne dovrebbero essere 274, sono invece oltre cento in più, con tutti i problemi pratici che ciò comporta, anche nella gestione delle recluse madri con i figli da 0 a 3 anni al seguito. Ancora senza soluzione i casi, da tempo segnalati dal Garante, delle strutture di Rieti e Velletri dove oltre 300 nuovi posti restano utilizzati per carenza di personale di polizia penitenziaria. “Il suicidio di un giovane nei giorni scorsi nel carcere di Velletri è l’ennesimo segnale di una situazione prossima al collasso - ha commentato il Garante - destinata inevitabilmente ad aggravarsi con i tagli ai fondi per il funzionamento degli istituti già annunciati per il 2011. I problemi sono sempre gli stessi: sovraffollamento, inadeguatezza di certe strutture, cronica carenza di risorse umane e finanziarie. Tutte criticità che dovrebbero essere risolte in maniera radicale non un intervento della politica. Ma in questo momento le priorità dell’agenda politica sembrano essere altre”. Sicilia: il Garante; presto 4 nuove carceri, i detenuti siciliano non sono di serie B www.cinquew.it, 21 febbraio 2011 Bilancio 2010 del Garante Salvo Fleres sullo stato delle carceri siciliane. Presente anche il provveditore Farano che annuncia: “Presto 4 nuove strutture carcerarie”. Assistenza sanitaria, sovraffollamento delle carceri, nuove strutture, completamento dell’organico di polizia penitenziaria e attività di reinserimento. Sono questi i punti salienti della relazione sull’attività svolta nel 2010 dal Garante dei Diritti dei detenuti di Sicilia, Salvo Fleres, presentata il 18 febbraio in conferenza stampa nella sede catanese della Regione Siciliana. “Sarebbe sufficiente, anche in un solo ospedale per provincia - ha affermato Fleres - destinare ai detenuti un reparto con un minimo di tre posti letto, per garantire loro un’adeguata assistenza. Un recluso di Reggio Calabria ha più possibilità di essere assistito rispetto a uno di Messina o di Catania: i detenuti siciliani non sono detenuti di serie B”. Questa la prima concreta proposta per risolvere l’annosa questione dell’assistenza sanitaria in Sicilia, ad oggi l’unica regione a non aver recepito il decreto dell’1 aprile 2008 (già operativo nel resto d’Italia) che assicura il trasferimento dell’assistenza dal Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria) all’Amministrazione regionale. Gli 8.017 detenuti, dislocati nei 26 Istituti di pena per adulti - che costituiscono il 10% della popolazione carceraria italiana - pongono la Sicilia tra le regioni con il maggior sovraffollamento carcerario: “Quasi il doppio della capienza normale (fissata in 4 mila e 500 posti) e ben oltre la capienza tollerabile (5393 posti)”, come ha specificato Fleres, definendola “una situazione di allarme nell’ambito di un’emergenza nazionale”. “I detenuti che potrebbero non essere in carcere - ha continuato il Garante - sono circa l’80%: oltre 2mila tra imputati e ricorrenti sono ospitati in istituti di pena; più di 300 sono gli internati, ossia i “detenuti in attesa di reato”, soggetti considerati pericolosi, senza aver di fatto commesso alcun reato specifico”. Uno spiraglio nel problema del sovraffollamento carcerario arriva dalle parole di Orazio Farano, provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, che stamattina ha annunciato: “In tre anni in Sicilia avremo quattro nuove strutture carcerarie, attualmente in costruzione, che ospiteranno 2mila e 500 nuovi posti letto”. Un detenuto costa al giorno dai 150 ai 250 euro e l’importanza di svolgere attività di prevenzione e azioni di reinserimento è dimostrata dalle cifre: “Abbiamo calcolato che su 100 detenuti, l’85% di quelli assistiti o trattati non tornano a delinquere - ha continuato Fleres - un dato che si ribalta in caso contrario”. Ed è in questa direzione che la Regione attraverso la legge 19 agosto 1999, n. 16 - “Interventi a favore di attività lavorative autonome da parte di detenuti in espiazione di pena” - prevede fino a 25mila euro di finanziamento per ogni recluso, da investire in attrezzature che resteranno di loro proprietà anche al termine della detenzione”. Non ultima arriva la proposta della commutabilità della pena: “Sarebbe auspicabile una riforma del sistema carcerario che ipotizzi la detenzione carceraria nel caso di condanne per i reati più gravi e di maggior allarme sociale, mentre negli altri casi e nel rispetto della legge, prevedere forme detentive alternative a quella intramuraria, potenziando nel contempo gli strumenti alternativi, come determinati dalla legge, anche attraverso pronuncia diretta del magistrato giudicante”. Presenti in conferenza anche Salvatore Sciacca, dirigente della sede catanese dell’Ufficio del Garante, e Giuseppa Sichili, dirigente dell’assessorato regionale alle Attività Produttive. Liguria: Martinelli (Sappe); con legge svuota-carceri usciti pochi detenuti Adnkronos, 21 febbraio 2011 Non sembra avere prodotto fino ad oggi gli effetti sperati la legge recentemente approvata sulla detenzione domiciliare, la legge 199 del novembre 2010 (improvvidamente definita ‘svuota carcerì), che consente di scontare ai domiciliari pene detentive non superiori a un anno, entrata in vigore il 16 dicembre scorso. “Bisogna certamente aspettare alcuni mesi per valutare appieno il risultato della legge”, sottolinea Roberto Martinelli, segretario generale aggiunto e commissario straordinario per la Liguria del sindacato autonomo polizia Penitenziaria Sappe. “Ma rispetto all’indulto che fece uscire complessivamente e quasi subito circa 650 persone detenute tra Marassi e Pontedecimo, con la nuova legge fino ad oggi sono usciti solamente 20 detenuti da Marassi e 5 da Pontedecimo”, rimarca poi Martinelli. “Da Chiavari, poi non è uscito proprio nessuno mentre da Sanremo sono solamente 8 le persone detenute scarcerate per effetto di questa legge. Si tenga conto che, a due mesi dall’approvazione, sono state complessivamente 1.100 le persone detenute scarcerate in tutta Italia. Le disposizioni previste dalla legge sono molto vincolanti e quindi - aggiunge Martinelli - restringono il numero dei detenuti cui è possibile applicare tale normativa, impedendone di fatto un’uscita più significativa ed un reale alleggerimento della popolazione reclusa”. La legge dispone che la pena detentiva (non superiore a 12 mesi) sia eseguita nell’abitazione del condannato o altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza, denominato domicilio. “Ma tanti - spiega Martinelli - non possiedono questo requisito: basti pensate ai detenuti stranieri che oggi, a Marassi ed a Pontedecimo, rappresentano il 60% della popolazione carceraria”. Tra gli interventi che il Sappe torna a chiedere al ministero della Giustizia, vi sono quelli di un’adeguata integrazione dell’organico del personale di polizia Penitenziaria in servizio negli istituti penitenziari liguri ed in particolare in quelli genovesi di Marassi e Pontedecimo e la predisposizione di progetti sperimentali volti a favorire il reinserimento socio - lavorativo di soggetti in espiazione di pena mediante la partecipazione responsabile e consapevole in progetti di recupero del patrimonio ambientale e lavori di pubblica utilità, come ad esempio la pulizia dei parchi e delle spiagge della provincia genovese. Sardegna: Sdr; l’Inps revoca pensioni di invalidità ai detenuti, proteste nelle carceri Agenparl, 21 febbraio 2011 “Le decisioni dell’Inps, in particolare quelle sulle pensioni di invalidità, assunte senza le opportune informazioni, con un metodo di verifica inaccettabile e con assurdo fiscalismo, hanno colpito le fasce più deboli della popolazione ed hanno suscitato proteste ed esasperazione anche tra i detenuti di Buoncammino e degli altri istituti di pena dell’isola”. Lo sostiene Maria Grazia Caligaris, presidente di “Socialismo Diritti Riforme” con riferimento alle numerose segnalazioni all’associazione e alle lamentele raccolte dai volontari che operano nel carcere cagliaritano. “Evidentemente a caccia di falsi invalidi e per recuperare fondi, l’Inps colpisce indiscriminatamente anche le categorie più deboli e disagiate con pensioni che oscillano tra i 250 e i 500 euro mensili come nel caso dei cittadini ristretti. Molti di loro - sottolinea Caligaris - si sono, infatti, visti sospendere la modesta pensione, unico loro reddito, e non si sono resi conto dei motivi sino a quando i volontari non hanno accertato che avrebbero dovuto sottoporsi agli accertamenti di verifica. Essendo in carcere, alcuni peraltro senza fissa dimora, non hanno ricevuto la lettera di convocazione per la revisione. A prescindere dai ricorsi dei singoli, è indispensabile che l’Istituto di Previdenza intervenga d’intesa con le Direzioni delle Case Circondariali per un monitoraggio dei diversi casi in modo da procedere agli accertamenti medico sanitari anche per l’aggravamento e le nuove istanze. A questo proposito la certificazione medica e la documentazione richiesta per via telematica crea ulteriori difficoltà agli interessati in quanto - precisa la presidente di Sdr - non essendo ancora stata organizzata la sanità penitenziaria nell’ambito del servizio sanitario regionale non tutti medici possono soddisfare le richieste dei detenuti. In base alle disposizioni dell’Inps, la certificazione deve essere infatti inoltrata dal medico di base del richiedente”. “Per quanto riguarda le segnalazioni e le proteste, giunte a Socialismo Diritti Riforme da cittadini liberi che hanno avanzato richiesta di pensione o di aggravamento di invalidità, attengono in genere a gravi ritardi nell’espletamento delle pratiche, spesso smarrite da un ufficio all’altro, mancanza di risposte, eccessivo fiscalismo da parte dei medici con alcuni casi paradossali riferiti a persone gravemente ammalate che - conclude Caligaris - non avrebbero dovuto per le patologie da cui sono affette. L’associazione denuncerà pubblicamente i casi che le sono stati segnalati. Ferrara: il carcere fa “scoppiare” tutti; 3 agenti congedati per problemi psichiatrici La Nuova Ferrara, 21 febbraio 2011 C’è un detenuto del carcere di Ferrara che guadagna, col proprio lavoro interno, 38 euro al mese (sì, 38, non è un refuso del giornalista). Fa il barbiere 1 ora al giorno: è un privilegiato, perché tanti altri detenuti non sanno che fare, se non restare tutto il giorno in cella. E in cella, se vivi con altre 2/3 persone che parlano lingue diverse, se non ci vai d’accordo, i conflitti si accendono. E allora moltiplicateli per centinaia e il carcere scoppia: perché c’è troppa gente nelle celle, troppa gente che non lavora (a Ferrara appena 40/45 detenuti) e pochissimi agenti di polizia a controllarli: “Siamo noi a tirarli giù dalle sbarre, quando tentano il suicidio - ti dicono gli agenti in modo ruvido ma incisivo - e siamo, come spugne, quando la sera torniamo a casa, a non riuscire a lavarci sotto la doccia quello che sentiamo, vediamo, viviamo”: solo nel 2010, nel carcere di Ferrara, 3 agenti sono stati congedati per motivi psichiatrici. Il carcere scoppia per sovraffollamento (492 detenuti con 170 agenti), ma il carcere fa scoppiare. Giovan Battista Durante segretario aggiunto del Sappe, con tutti i vertici del sindacato - il più rappresentativo della polizia penitenziaria - ha incontrato gli agenti ieri nelle sezioni, ha parlato con loro e poi tirato le somme in una conferenza stampa coi vertici del carcere (il direttore Francesco Cacciola, il suo vice Giovanni Battaglia), i delegati sindacali e i semplici agenti che fanno sindacato e si sporcano le mani: “Siamo qui col vestito buono a parlare di problemi, per risolverli. Diciamo che siamo pochi perché non ce la facciamo, perché vogliano lavorare meglio”. E alla provocazione sul “chi ve lo fa fare” - fare 40 ore di straordinario al mese per averne pagate solo 10; trasferte da Ferrara a Palermo (in 7), in scorta a collaboratori di giustizia e anticipare vitto e alloggio per 3/400 euro per riaverli dopo 6 mesi e un anno, quando ne guadagni 1200/1400 al mese - ti rispondono: “Lo facciamo perché ci piace”. “In questo carcere - spiega Durante - dei 492 detenuti, 247 sono stranieri (oltre il 50%), i definitivi 305, in attesa di giudizio 180/190, con 170 agenti che operativi diventano 120”. “E questa è una situazione ottimale - spiega con l’assenso dei presenti - perché qui in carcere riescono a gestire tutto con sacrifici personali, rinunciando a ferie, riposi: ci sarebbe bisogno di altri 50 agenti”. Ma se per gli agenti c’è troppo lavoro, manca per i detenuti. Se non ci sono soldi per gli straordinari, sono un’utopia per i corsi ai detenuti. “Il lavoro è elemento fondamentale in un carcere per un detenuto: se sta 20 ore in cella, crea tensione e non può che aggravare il lavoro degli agenti”. E il carcere scoppia. E fa scoppiare. Como: nelle celle 6 detenuti in 8 metri quadrati, carcere sempre più invivibile Corriere di Como, 21 febbraio 2011 Il convegno. Ieri mattina in carcere a Como sono stati analizzati i dati di una ricerca affidata ai volontari del terzo settore. “È fondamentale far entrare nel carcere il terzo settore, le associazioni di volontariato. I soggetti che possono creare un primo contatto tra detenuti e realtà esterna - dicono gli autori dell’indagine Andrea Aliverti, Alessandra Bellandi, Luca Morici, Monica Mordente e Mauro Oricchio - Soltanto così da una prima forma di integrazione in carcere si potrà poi passare all’inclusione nella società”. I numeri più di ogni altra considerazione servono per capire il problema. “La capienza complessiva degli istituti penitenziari italiani è di 44mila posti. Prima dell’indulto i detenuti erano 61.400. Con il condono del 2006 ne sono usciti 26mila. A gennaio 2010 erano 64mila - ha detto nel suo intervento il giudice Maria Luisa Lo Gatto - Non è da meno il carcere di Como che vive una situazione di emergenza. La struttura è nata per accogliere 175 detenuti. Poi la capienza è stata aumentata a 400. Oggi ne ospita 600. Fino a 6 detenuti in 8 metri quadrati”. Una situazione difficile. “Un aumento eccessivo di detenuti significa una diminuzione esponenziale delle opportunità che ogni carcere può offrire - aggiunge Maria Luisa Lo Gatto - In un simile contesto è basilare puntare sulla giustizia riparativa. Fondamentale è intervenire per reinserire nella società, progressivamente, il detenuto. Il terzo settore svolge un ruolo decisivo”. Un ragionamento che affida sempre maggior importanza alle attività extramurarie e interne che si possono organizzare coinvolgendo i carcerati. “A partire dal sostegno iniziale che viene offerto a chi entra in carcere - spiegano gli autori della ricerca - con i numerosi colloqui con i detenuti compresi tra i 18 e i 25 anni”. L’avvicinamento tra carcere e terzo settore ha coinvolto, nei mesi dello studio, “47 carcerati e oltre 50 soggetti disposti ad accoglierli - dice il direttore del Csv Como (Centro Servizi per il Volontariato) Martino Villani - Vengono selezionate le persone che si ritengono idonee e l’associazione adatta, quindi si avvia il processo di recupero”. Oltre le mura del carcere Como adesso fa scuola “L’aula bunker potrebbe diventare un laboratorio per il potenziamento dell’attività lavorativa dei detenuti”: la proposta, concreta e percorribile in tempi immediati, è stata lanciata ieri dalla direttrice del carcere di Como Maria Grazia Bregoli a conclusione del convegno organizzato all’interno della stessa casa circondariale sul progetto “Oltre le mura - verso percorsi di inclusione sociale” finanziato dalla Fondazione Cariplo e realizzato dalla Cooperativa Questa Generazione di Como, Associazione del Volontariato Comasco - Centro Servizi per il Volontariato di Como (Csv) e Acli. L’intenzione lampante è stata quella di proporre un’idea che potrebbe essere raccolta da imprenditori, operatori economici, soggetti coinvolti nel terzo settore: “Circa mille metri quadri saranno disponibili in comodato per chi intende sviluppare un’attività che offra occupazione ai carcerati “ ha precisato la Bregoli fornendo così una chiave per entrare fattivamente nel tentativo, affrontato in quattro ore di interventi, teso a delineare un ponte fra il luogo di reclusione e il territorio, fra la pena intesa solo in senso repressivo e la prospettiva di trasformarla in occasione educativa volta al reinserimento sociale. Questo del resto, il tema del convegno che ha documentato un significativo coinvolgimento delle realtà di volontariato in progetti che sottolineano la valenza riabilitativa della detenzione attraverso misure alternative al carcere e la giustizia riparativa. “Si è utilizzata una politica repressiva abbandonando le politiche sociali. L’attuale normativa continua ad innalzare le pene per reati che non hanno pericolosità sociale” ha affermato il magistrato Maria Luisa Lo Gatto sottolineando l’insostenibilità del sovraffollamento delle strutture (il Bassone costruito per 175 soggetti oggi ne contiene 600), ma soprattutto l’inefficacia di un sistema passato dai 26mila detenuti nel 1991 agli attuali 70mila e che registra una recidività nel 70% dei casi, dato che si riduce a un 18% quando si ricorre a misure alternative. La vera sicurezza sociale - questo il messaggio - passa da un diverso approccio alla persona, da una reale integrazione che chiede il sostegno dell’intera comunità: se la presenza di una scolaresca dell’istituto Ciceri è stata letta come un segnale positivo, una lacuna è stata invece rimarcata in tal senso da Adriano Sampietro. “Il Csv si fa carico di queste aspirazioni - ha affermato - mancano però le istituzioni e gli enti locali. Questa assenza pesa: non può mancare il coordinamento svolto dall’ente pubblico”. Alessandria: un laboratorio di scrittura e narrazione in carcere diventa video Redattore Sociale, 21 febbraio 2011 Il risultato dei lavori è raccolto nel video “Piccolo dizionario cattivo”, presentato domani al cinema teatro Ambra. “L’uso di parole chiave significative ha portato i detenuti a sciogliersi e a tirare fuori qualcosa di sé”. Un laboratorio di scrittura e narrazione durante le ore di italiano di due classi elementari e medie. Niente di speciale, se non fosse che la scuola è quella interna alla Casa di reclusione di San Michele di Alessandria, e che il 90% dei partecipanti era di origine straniera. Il risultato è raccolto nel video “Piccolo dizionario cattivo”, che viene presentato domani sera al cinema teatro Ambra di Alessandria. L’idea è partita da Ines Rossi e Fulvia Praglia, due insegnanti del Centro territoriale permanente di Alessandria, che lavorano nelle scuole interne al carcere, ed è stata realizzata grazie all’assessorato alle Politiche sociali della Provincia. “Volevamo inserire nella normale didattica un momento in cui i detenuti potessero mettere in campo la loro capacità di immaginare, di pensare che cosa desiderano, di rielaborare la loro condizione” spiega Ines Rossi. Fabio Bosco, che ha gestito il laboratorio insieme alle due insegnanti, ha risolto il problema della lingua creando un metodo di lavoro molto semplice e allo stesso tempo evocativo: ciascun partecipante ha scelto da una lista alcune parole (per esempio gabbia, dio, mamma, giallo, come il colore delle porte del carcere di Alessandria) da cui partire per creare una breve riflessione, ripescare un ricordo, esprimere un desiderio per il futuro. I detenuti hanno poi letto i propri testi, e le voci registrate sono state montate in un video insieme a immagini scelte da loro. “In questo modo, è stato possibile far partecipare anche chi ha poca dimestichezza con la lingua scritta, oltre che con l’italiano - spiega Bosco - . Inoltre, l’uso di parole chiave significative, da cui è nato il titolo del film, ha portato i detenuti, anche quelli più chiusi, a sciogliersi, e a tirare fuori qualcosa di sé”. La proiezione, gratuita, è in programma domani alle 21.00 in viale Brigata Ravenna 8 ad Alessandria. Il documentario è visibile anche su Current Tv. Dopo “Piccolo dizionario cattivo”, nella stessa serata, verrà proiettato anche il video “Ti guardo, guardami”, a cura di Giovanni Rizzo, della redazione di Altrove (il periodico del carcere). Pisa: “Kasanza babà”, torna il giornale fatto dai detenuti Il Tirreno, 21 febbraio 2011 Uscirà nei prossimi giorni il primo numero di “Kasanza babà”, il giornalino che dà voce ai detenuti del carcere Don Bosco, la cui pubblicazione era stata sospesa per oltre un anno a causa dell’interruzione dei finanziamenti da parte degli enti locali. In gergo kasanza babà è il vitto che si consuma all’interno del carcere. Il giornalino sarà un bimestrale in bianco e nero di 18 pagine. Realizzato da e per i detenuti, la pubblicazione ha l’obiettivo di far sentire la sua voce anche all’esterno, come già avviene in altri penitenziari italiani. A sollecitare la ripresa della pubblicazione sono stati gli stessi detenuti del Don Bosco, che avevano già preso parte attivamente al progetto iniziale. Del giornalino si erano occupati in passato due operatori Arci, finché, senza stipendio e privi delle risorse per far fronte alle spese del materiale, il progetto era stato abbandonato. Ci ha pensato, a fine estate, “Controluce”, l’associazione di volontariato presente al Don Bosco fin dal 1998, con l’aiuto di una volontaria della Casa delle Donne. Ad illustrare la “rinascita” del giornalino, Luisa Prodi, figlia dell’illustre matematico Giovanni, nipote dell’ex premier Romano e socia fondatrice dell’associazione, insieme a Giulia Piccirilli, responsabile del progetto. “Superate le difficoltà economiche per andare in stampa - ha detto Prodi - le tre volontarie, insieme ad otto detenuti, hanno creato una vera e propria redazione, che darà vita ad un periodico articolato su diverse rubriche: oltre agli aggiornamenti legislativi sulle pene detentive, ci saranno notizie dal mondo ed una serie di interviste al direttore e al personale sanitario. Spazio ai racconti di vita vissuta, alla scrittura creativa, alla cucina e allo sport. Una pagina sarà dedicata agli eventi all’interno del carcere: mostre, concerti e mercatini. Un’altra ai passatempi e ai giochi, senza tralasciare l’alfabeto del detenuto, un vademecum del linguaggio carcerario”. “Come associazione - ha detto Piccirilli - ci siamo fatti carico di tutte le spese per la stampa, a cominciare dalle cartucce dell’inchiostro”. Certo, se uno sponsor si facesse avanti, sarebbe tutto più facile. Catanzaro: nel carcere minorile si impara a fare i pizzaioli, consegnati gli attestati Gazzetta del Sud, 21 febbraio 2011 Si terrà lunedì 21 febbraio alle ore 16, presso il padiglione detentivo dell’Istituto Penale per i Minorenni “Silvio Paternostro” di Catanzaro, la consegna degli attestati dei due corsi di pizzaiolo finanziati lo scorso anno dalla Camera di Commercio di Catanzaro e gestiti dalla CICAS, alla presenza dei rispettivi presidenti Paolo Abramo e Giorgio Ventura. Saranno inoltre presenti Angelo Meli dirigente del Centro Giustizia Minorile per la Calabria e la Basilicata, Francesco Pellegrino direttore dell’IPM “Silvio Paternostro” e Salvatore Megna maestro pizzaiolo, quest’ultimo autentico punto di riferimento umano e professionale per i giovani detenuti. Attraverso tali iniziative, confermate dai primi passi autonomi e intraprendenti dimostrati da alcuni ragazzi fuoriusciti dal percorso penale, il Presidente della Camera di Commercio e il Direttore dell’Istituto puntano a potenziare la qualificazione professionale degli ospiti del Paternostro, propedeutica per il loro successivo reinserimento socio - lavorativo, un primo piccolo mattone affinché i ragazzi, nel rispettivo percorso restrittivo della libertà e nell’assunzione consapevole della propria responsabilità penale dinanzi alla societ , possano costruirci sopra il proprio futuro come, nella scorsa edizione, ebbe a dire lo stesso Paolo Abramo rivolgendosi ai giovani detenuti della struttura. Bari: oltre le sbarre con Miloud, i detenuti dell’Ipm diventano giocolieri di Carlo Stragapede Gazzetta del Mezzogiorno, 21 febbraio 2011 Miloud Oukili, il clown franco algerino, paladino dei bambini - barboni di Bucarest, papà della “Fondazione Parada”, diventa faro creativo dei detenuti del carcere minorile “Fornelli”. E anche motore del dialogo oltre le sbarre, fra coetanei provenienti da esperienze diametralmente opposte: in effetti, al “Progetto Incontra”, settimana di stage artistico e circense dietro le sbarre dell’istituto minorile di via Giulio Petroni, hanno partecipato 15 detenuti insieme con 18 ragazzi delle scuole superiori della III Circoscrizione (liceo “Socrate”, istituto “Marco Polo”, istituto “Perotti”, liceo artistico “De Nittis”). Uno dei tanti bei momenti di confronto, nella palestra del “Fornelli”, è la torre umana, composta da ragazzi e ragazze, fusi insieme nella “missione” di reggersi sfidando la forza di gravità. Miloud, 38 anni, silhouette inconfondibile di un metro e 88 centimetri, dirige lo “spettacolo” seduto su un materassino, come se il feeling con i detenuti e gli studenti non si fosse coagulato in pochi giorni ma si fosse stratificato in mesi di prove in teatro. “Non lo chiamate “spettacolo” - dice al termine della performance, in un italiano quasi perfetto - ma “restituzione”. Noi cioè abbiamo “restituito” al pubblico l’esperienza artistica e umana nata in pochi giorni”. Non è facile insegnare a ragazzi, dal passato e dal presente difficili, a fare giocoleria con tre palle colorate che volteggiano sotto il soffitto della palestra. Lui ci è riuscito. Artista di strada dotato di inimitabile energia catalizzatrice, tale da spingere il regista Marco Pontecorvo a raccontare il suo impegno in Romania nel film “Pa - ra - da” del 2008 (dove il clown è interpretato da Jalil Lespert), Miloud Oukili non è nuovo al “Fornelli”. Lo scorso anno fu protagonista di un progetto analogo. Ammette, prima di volare a Parigi e poi di nuovo a Bucarest: “Ormai a Bari sono di casa”. Si congeda con una risata: “Quando ho detto ai ragazzi che sono nato a Parigi, uno dei detenuti mi insegnato il proverbio “se Parigi avesse il mare sarebbe una piccola Bari”“. Il “Progetto Incontra”, organizzato a Bari da Rosa Ferro, è un laboratorio teatrale curato da Miloud Oukili e Flavio Castellazzi di “Teatro Magro” di Mantova, per il “Centro Antonino Caponnetto “. Alla “restituzione” sono intervenuti numerosi insegnanti. A fare gli onori di casa, il direttore del “Fornelli”, Nicola Petruzzelli, e il presidente della III Circoscrizione “Picone - Poggiofranco”, Franco Polemio. Immigrazione: Venezia contro i Cie, assemblea a Santa Maria delle Grazie Il Gazzettino, 21 febbraio 2011 Un’operazione, quella dei Cie, definita “disumana e inefficace” da don Gianni Fazzini, il quale entra deciso nel merito della discussione che sta infiammando il nostro territorio. “L’Europa dovrebbe farsi carico del problema immigrazione. Della massa di disperati che sta fuggendo dall’Africa e che attraversa l’Italia solo perché è il Paese più vicino dove approdare. È un problema enorme, epocale, ma il nostro governo è debole, non ha credibilità a livello europeo e non basta più gridare che ci hanno lasciati soli, come inutili sono i Cie”. Ma il dissenso verso l’operazione Centro Identificazione ed Espulsione e nuovo carcere a Campalto non arriva solo da alcuni settori della chiesa. È trasversale, popolare, come emerso l’altra sera al centro Santa Maria delle Grazie nel corso dell’incontro tra la cittadinanza, i politici, i sindacati, gli attivisti del Centro sociale Rivolta ed una decina di associazioni di Campalto, in vista della fiaccolata che ieri ha mobilitato Campalto. “Questa è un’operazione calata dall’alto, dal governo centrale sulla città, che dietro ha anche una forte volontà speculativa e non di risolvere il problema del sovraffollamento delle carceri o dell’immigrazione - ha detto il vicesindaco Sandro Simionato alla platea che affollava Santa Maria delle Grazie - Un’imposizione che, di fatto, cozza con 20 anni di politiche d’integrazione messe in atto dalle varie amministrazioni comunali che si sono succedute alal guida di Venezia”. Poi la nota finale, verso i sindaci vicini e favorevoli. “Se il sindaco di Mogliano ci tiene tanto, faccia carcere e Cie sul suo territorio”. E la gente di Campalto la pensa come Simionato. “Il nostro territorio non riesce a trovare pace, dopo l’inquinamento, i problemi di via Orlanda e tutto il resto ora si aggiunge anche questa decisione - dice Pino Sartori - chiediamo che il sindaco si opponga come può al ministro Maroni”. “La prossima iniziativa sarà un’Assemblea cittadina proprio a Campalto - spiega il consigliere comunale Beppe Caccia - tra i residenti, con i residenti, per decidere come proseguire la protesta contro l’idea dei Cie, qui e ovunque”. Libia: amnistia per chi ha scontato metà della pena, liberati buona parte dei detenuti Adnkronos, 21 febbraio 2011 Il Comitato popolare libico per la Giustizia, che corrisponde al ministero della Giustizia di Tripoli, ha emesso ieri pomeriggio un decreto di amnistia per tutti i detenuti libici che hanno scontato più di metà della pena in carcere. Secondo quanto riporta il giornale libico “Oea”, considerato vicino a Siefulislam Gheddafi, l’amnistia riguarda le persone condannate per tutti i tipi di reati e sia per quelli che hanno subito pene detentive importanti che per quelli condannati con pene lievi. Usufruiscono di questo decreto in modo particolare i detenuti che si trovano in carcere da lungo tempo e quelli che hanno subito condanne a più di 10 anni di carcere. Potranno godere di questo provvedimento anche le persone condannate per omicidio solo nel caso in cui siano state perdonate dai familiari delle loro vittime. Secondo il quotidiano “è in virtù di questo decreto che ieri le autorità hanno liberato buona parte dei detenuti che si trovano nel carcere di al - Jadid, fuori Tripoli”. La loro scarcerazione, avvenuta tra i festeggiamenti dei familiari, è stata anche ripresa da una tv satellitare e manda in onda. Egitto: liberati 108 prigionieri politici, ma decine di detenuti uccisi durante le rivolte Ansa, 21 febbraio 2011 L’Egitto ha liberato oggi 108 prigionieri politici, stando a quanto ha annunciato in serata la Tv pubblica. Ieri il premier Ahmed Shafiq aveva detto all’agenzia ufficiale Mena che 222 detenuti per reati di opinione su 487 sarebbero stati scarcerati a breve. Nei moti di piazza iniziati il 25 gennaio che hanno portato alle dimissioni del presidente Hosni Mubarak, secondo Shafiq, è stato arrestato un numero limitato di manifestanti. Alcuni gruppi per la difesa dei diritti umani sostengono tuttavia che i prigionieri politici in Egitto sono diverse migliaia e che centinaia di persone risultano disperse dopo le recenti manifestazioni. Almeno 43 persone morte nel penitenziario di al-Qatta el-Gadeed Amnesty International teme che decine di prigionieri e un familiare in visita a un detenuto siano stati uccisi dal personale di guardia sulle torrette del carcere di al-Qatta el-Gadeed, nei pressi del Cairo, durante una rivolta scoppiata il 29 gennaio. I detenuti del carcere hanno fornito ad Amnesty International i nomi di 43 compagni di prigionia che sarebbero stati uccisi. Secondo gli avvocati, altri 81 detenuti sarebbero rimasti feriti. Tra i deceduti, vi sarebbero anche un familiare che si trovava in visita nel carcere e un agente della sicurezza. "Le autorità egiziane devono porre immediatamente fine all'uso della forza contro i prigionieri, consentire cure mediche immediate a chi ne ha bisogno e aprire un'indagine indipendente su quanto accaduto nel carcere di al-Qatta al-Gadeed, che stabilisca in quali circostanze è stato fatto ricorso alla forza letale", ha dichiarato Malcolm Smart, direttore del Programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty International. I cadaveri di alcuni detenuti di al-Qatta al-Gadeed sono stati rinvenuti all'obitorio di Zenhom, al Cairo, tra i 115 corpi provenienti da almeno quattro distinte prigioni. Secondo quanto dichiarato da un medico legale, che ha chiesto di rimanere anonimo, molti di essi presentavano fori di proiettile sulla fronte, sulla nuca e sul petto. Cio' coincide con quanto dichiarato dai familiari dei prigionieri deceduti, una volta restituiti loro i corpi. La rivolta nel carcere di al-Qatta al-Gadeed era scoppiata il 29 gennaio, al rifiuto della direzione della prigione di liberare i detenuti. Questi, alla notizia che i reclusi di altre carceri erano stati rilasciati nel contesto delle manifestazioni che avrebbero poi portato alla caduta del presidente Mubarak, avevano chiesto che venisse adottato lo stesso provvedimento. Dopo il diniego da parte della direzione, il personale civile ha lasciato il carcere il cui controllo è stato assunto dalle guardie penitenziarie, che si sono rese responsabili delle uccisioni delle decine di detenuti. Le ultime due hanno avuto luogo l'11 e il 12 febbraio. Nel carcere di al-Qatta al-Gadeed si trovano ancora centinaia di prigionieri e la loro incolumità è a rischio. I feriti, a decine, vengono curati come possibile dai compagni di cella, in assenza delle benchè minime cure mediche da parte delle autorità penitenziarie. Le scorte di medicine di prima necessità, come l'insulina, sono state esaurite. I prigionieri e i loro familiari lamentano anche la fornitura insufficiente di cibo, acqua e altri generi di prima necessita' nella prima settimana dalla rivolta. Solo il 7 febbraio i soldati hanno lanciato pane, marmellata e burro dell'esterno della prigione. Francia: Jacques Fesch, condannato a morte per omicidio, verso la beatificazione Agi, 21 febbraio 2011 Dopo il processo diocesano celebrato a Parigi, stanno per arrivare a Roma gli atti della causa di beatificazione di Jacques Fesch, un giovane francese ghigliottinato 53 anni fa per aver ucciso un poliziotto e ferito un cambiavalute durante una rapina. Nella Chiesa Cattolica c’è un solo precedente di condannato a morte per delitti comuni salito all’onore degli altari, ed è quello del Buon Ladrone crocifisso sul Calvario accanto a Gesù. Questo spiega l’estrema prudenza con la quale è stata affrontata la causa introdotta a circa 40 anni dalla morte di Fesch, cioè dopo una lunghissima riflessione, dall’allora arcivescovo di Parigi, e autorizzata dalla Congregazione delle Cause dei Santi alla quale compete ora la seconda fase del processo. All’atto di aprire la causa, il card. Lustigier fece precisare dal suo portavoce che “dichiarare qualcuno santo non significa per la Chiesa far ammirare i meriti di questa persona ma dare l’esempio della conversione di qualcuno che, quale che sia il suo percorso umano, ha saputo ascoltare la voce di Dio e convertirsi. Non esistono peccati tanto gravi da impedire che Dio raggiunga l’uomo e gli proponga la salvezza”. Parole analoghe il porporato le aveva pronunciate il 23 novembre ‘86, in un discorso ai detenuti della Santè, evocando per la prima volta in pubblico la possibile beatificazione dell’omicida. “Beatificare Jacques Fesch non significa riabilitarlo sul piano morale, né dargli un certificato di buona condotta o un’onorificenza tipo la Legion d’Onore. La sua conversione è d’ordine spirituale. Beatificare Jacques Fesch sarebbe riconoscere che la comunità cristiana può pregare qualcuno che sta al lato di Gesù”, ha scritto il teologo Andrè Manaranche in risposta alle polemiche sollevate in Francia all’inizio della causa e che da in questi anni ciclicamente sono state riproposte dai media. Il 2 dicembre 2009 il card. Angelo Comastri ha accompagnato in Vaticano da Benedetto XVI la sorella di Feschi, Monique, che confida al Papa: “con mio fratello ci intendevano alla grande. Di otto anni più grande, sono stata sua madrina di battesimo e andandolo a trovare in prigione ho seguito da vicino la sua straordinaria conversione”. Il card. Comastri ha poi raccontato all’Osservatore Romano: “è stato un detenuto, quando ero cappellano a Regina Coeli, a farmi conoscere la storia affascinante di Fesch, una testimonianza unica: giovane sbandato di ricca famiglia, diventa assassino e viene condannato a morte. Aveva ventisette anni. In carcere vive una conversione radicale, folgorante, raggiungendo alte vette di spiritualità”. In Italia, nei giorni scorsi, è stata Radio Maria a raccontare la storia di questo sfortunato giovane di origine belga, rampollo di una famiglia dell’alta borghesia. Serbia: italiano in carcere da 16 mesi verso libertà su cauzione Ansa, 21 febbraio 2011 Giovanni Accroglianò, il cittadino italiano in carcere da 16 mesi a Belgrado con l’accusa di turbativa d’asta e che dalla scorsa settimana attua uno sciopero della fame, potrebbe presto essere rilasciato su cauzione. Grazie all’interessamento dell’Ambasciata d’Italia a Belgrado, un importante documento su una ispezione ipotecale è arrivato stamane all’Avvocatura dello Stato della capitale serba. Come riferito dal portavoce dell’Ambasciata Andrea Arnaldo, si tratta di una comunicazione dell’Ufficio catastale del Comune di Novi Sad, relativo all’ispezione ipotecale effettuata su due immobili di proprietà della moglie di Accroglianò, situati nella località di Novi Sad e Irig. Tali immobili sono stati offerti come cauzione per la scarcerazione del cittadino italiano, cauzione che è stata definitivamente accettata dalla Corte d’appello di Belgrado il 26 gennaio scorso. L’Avvocatura dello Stato trasmetterà il documento sull’ispezione ipotecale al Tribunale di Belgrado, e se il Tribunale darà parere positivo Accroglianò potrà essere rilasciato su cauzione. Venerdì scorso la moglie dell’italiano, signora Milena, annunciando lo sciopero della fame del marito, a suo avviso detenuto ingiustamente, aveva lanciato un appello alle autorità italiane a fare qualcosa per risolvere la vicenda. Giovanni Accroglianò è in carcere a Belgrado dal 21 ottobre 2009 con l’accusa di aver fatto parte di una organizzazione criminale che avrebbe lavorato per falsare un’asta di mobili per ospedale. Con l’italiano erano finiti in carcere altri cinque cittadini serbi, rilasciati, come riferito dalla signora Milena, dopo pochi mesi. Secondo la legge serba, essendo Accroglianò straniero, si pone il pericolo di una sua possibile fuga.