Giustizia: Bernardini (Ri); dramma di bambini in carcere non risolto da questa legge-spot Agenparl, 18 febbraio 2011 Dichiarazione di Rita Bernardini, deputata radicale eletta nelle liste del Pd, membro della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati. Con il testo approvato mercoledì scorso dalla Camera dei Deputati sulla tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori lo slogan “mai più bambini in carcere” lanciato dal Ministro Alfano due anni fa è destinato a rimanere lettera morta. Questo provvedimento infatti non risolve certo il problema di quelle detenute madri, magari nomadi e recidive, che stanno in carcere in attesa di processo o perché condannate in via definitiva. I loro bambini, infatti, continueranno a rimanere chiusi all’interno degli istituti di pena, perché in relazione a questa tipologia di detenute esisterà sempre l’esigenza cautelare di eccezionale rilevanza o il pericolo di reiterazione di ulteriori delitti o quello di fuga che non consentirà loro di scontare la custodia cautelare o la reclusione presso un istituto a custodia attenuata o presso una casa famiglia. Peraltro anche in questa delicata materia, quella cioè della tutela del rapporto tra detenuta madre e minore, i deputati della maggioranza e della opposizione hanno pensato bene di confermare l’infame regime del doppio binario processuale sulla base del quale una detenuta madre condannata per un delitto di cui all’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario non potrà scontare in nessun caso il primo terzo della pena al di fuori delle mura di un istituto penitenziario, come se i bambini di queste donne fossero colpevoli per i delitti, per quanto gravi, commessi dalle loro madri. Ma ammettiamo pure che una detenuta avesse tutti i requisiti soggettivi e oggettivi richiesti da questo provvedimento, anche in quel caso madre e figlio non potrebbero mai uscire dal carcere per andare negli istituti a custodia attenuata, visto e considerato che fino al 2014 ciò sarà possibile solo nei limiti dei posti disponibili. Il rischio insomma è che anche nei suoi aspetti positivi questo provvedimento non potrà essere pienamente applicato a causa della scarsa copertura finanziaria. Le Associazioni che abbiamo audito in Commissione Giustizia ci avevano ammonito soprattutto sull’aspetto della recidiva di nomadi e tossicodipendenti e su quanto fosse importante seguire percorsi individualizzati (e meno costosi per le casse dello Stato e delle istituzioni locali) di reinserimento sociale per queste madri e i loro bambini, ma un’impostazione securitaria che nulla ha a che fare con la vera sicurezza dei cittadini, ha impedito di ascoltare quelle parole di saggezza. Per tutti questi motivi come radicali - pur avendo la nostra delegazione presentato una proposta di legge su questa materia elaborata in collaborazione con l’Associazione Il Detenuto Ignoto - ci siamo astenuti al momento della votazione. Insomma, rimane poco più del titolo del tema “mai più bambini in carcere”, manca lo svolgimento e, soprattutto, una convincente e giusta soluzione del problema. Giustizia: Unione Camere Penali; detenute madri, verso una carcerazione più umana Comunicato Ucpi, 18 febbraio 2011 La Giunta dell’Unione delle Camere Penali esprime soddisfazione per il testo approvato dalla Camera, un passo avanti nella tutela dei diritti delle madri detenute e dei minori. Infatti “la pena”, dice l’art. 27 della Costituzione Italiana, “non deve mai consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”. L’Aula della Camera approva quasi all’unanimità, con la sola astensione dei radicali, la proposta di Legge che prevede alle detenute madri di scontare la pena fuori dal carcere . Il testo, che ora dovrà passare all’esame del Senato, prevede che quando imputati siano una donna incinta o una madre di prole di età inferiore a sei anni (prima il tetto di età era tre anni) che conviva con lei (ovvero padre, qualora la madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole) non ne possa essere disposta la custodia cautelare in carcere, salvo che sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, e solo in quel caso è possibile disporre la custodia cautelare presso istituto a custodia attenuata per detenute madri. Altra importante novità per gli arresti domiciliari delle condannate in stato di gravidanza o madri di figli di età non superiore a dieci anni: potranno espiare condanne fino a quattro anni presso una casa famiglia protetta; e in caso si accerti che non sussista un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti e si riscontri la possibilità di ripristinare la convivenza con i figli, le detenute madri potranno espiare la pena nella propria abitazione, o in altro luogo privato o in un luogo di cura dopo aver scontato almeno un terzo della pena o almeno quindici anni nel caso di condanna all’ergastolo. L’ Unione delle Camere Penali seguirà con attenzione la prosecuzione dell’esame del testo al Senato, soprattutto in relazione alla copertura finanziaria della proposta di legge. Giustizia: dossier Fp-Cgil; nelle carceri del Lazio c’è un’emergenza umanitaria Redattore Sociale, 18 febbraio 2011 Sovraffollamento al 137%, la carenza di personale negli istituti supera il 35%: il rapporto tra educatori e detenuti è 1 a 76, ridotte le ore degli psicologi del 30% nell’ultimo anno. Dossier di Fp Cgil. In sei anni nel Lazio i detenuti sono aumentati del 70%, ma il personale che se ne occupa è sempre di meno, così come le risorse messe a disposizione per gestirli calano costantemente, tanto da risultare dimezzate negli ultimi dieci anni. “Lavorare in carcere è sempre più simile alla espiazione di una pena”, denuncia la Fp Cgil di Roma e Lazio, che diffonde un dossier sulla drammatica situazione delle carceri laziali, afflitte al contempo da sovraffollamento e carenza di personale. I dati sono impressionanti: i 14 istituti di pena laziali ospitano il 137% in più di detenuti rispetto alla loro capienza, mentre il personale di polizia penitenziaria in servizio è inferiore del 20% rispetto alla pianta organica, ma all’interno degli istituti la carenza sale ad oltre il 35%, perché sono tantissime le unità di personale “distolte” dall’attività all’interno delle strutture carcerarie per svolgere altre mansioni. Sottodimensionati anche gli organici operatori che svolgono il cosiddetto lavoro trattamentale (educatori, assistenti sociali, psicologi): il rapporto tra educatori e detenuti è oggi 1 a 76 contro il rapporto di 1 a 25 previsto dalle piante organiche. A Viterbo questo rapporto arriva addirittura a un educatore ogni 143 detenuti. Non stanno meglio gli assistenti sociali, con un organico del 40% inferiore rispetto alle disposizioni di legge. Drammatica anche la situazione degli psicologi, che hanno visto ridurre le ore si servizio del 30% solo nell’ultimo anno. Più nello specifico, la capienza regolare dei 14 carceri laziali è di 4.461 persone, mentre i detenuti effettivi sono 6.398 (al 15.2.2010). E mente alcuni istituti letteralmente scoppiano, come quello di Cassino, dove il sovraffollamento arriva quasi all’82%, altri sono sottoutilizzati per carenza di personale, come quello di Rieti (- 66% di utilizzo a fronte di un - 97% di scarto tra il personale previsto e quello effettivamente presente). Inoltre se il personale penitenziario previsto è di 4.136 unità, in realtà ce ne sono 3505. Gli assistenti sociali dovrebbero essere 117, ma in realtà sono 66. Gli educatori previsti sono 181, ma in realtà sono 88, con gli istituti di Rebibbia e Viterbo segnalati in emergenza con rispettivamente 1 educatore ogni 105 detenuti, e 1 ogni 143. Rebibbia, Latina e Civitavecchia gli istituti maggiormente in difficoltà a causa dell’aumento del numero di detenuti e la carenza di personale, mentre quelli con maggiore carenza di personale sono Viterbo e Civitavecchia, oltre alla paradossale situazione di Rieti. 800 le unità di personale in meno nel solo carcere di Rebibbia, considerando il personale impiegato all’esterno pur risultando formalmente presente nell’istituto. Così il personale effettivamente impiegato a Rebibbia è di 400 unità, con il risultato che, anche a causa del sovraffollamento, di notte spesso un solo agente si trova a gestire almeno 200 detenuti, quando dovrebbero essere almeno in tre. Da notare che nelle carceri laziali, il 46% dei detenuti è ancora in attesa di giudizio. E solo nel Lazio, nel 2010 sono state 21 le aggressioni da parte di detenuti a personale della polizia penitenziaria. Italia prima in Ue per detenuti stranieri Sono 67.437 i detenuti contro una capienza regolamentare di 45.281. Le proposte: riportare dentro le carceri il personale assegnato a funzioni esterne, piani di formazione del personale e sostegno psicologico. La situazione delle carceri del Lazio rispecchia la situazione nazionale. In Italia i detenuti sono 67.437, contro una capienza regolamentare di 45.281: cifre che valgono al nostro paese il primato europeo di sovraffollamento delle carceri. La denuncia nel dossier di Fp Cgil sulla condizione degli istituti penitenziari del Lazio. L’Italia risulta seconda in Europa per numero di detenuti imputati, e dunque non ancora giudicati colpevoli in via definitiva (i detenuti in attesa di giudizio sono il 44%), e prima, almeno tra le nazioni più grandi, per percentuale di stranieri detenuti. Per alleviare la situazione la Cgil propone di riportare dentro le carceri il personale impropriamente assegnato a funzioni esterne, oltre alla creazione di piani di formazione del personale e sostegno psicologico. Inoltre bisognerebbe intraprendere, con enti locali e regioni, percorsi per l’integrazione dei detenuti e il miglioramento della sanità penitenziaria. Giustizia: Nieri (Sel): da rapporto Cgil un quadro drammatico, ripensare intero sistema Dire, 18 febbraio 2011 “I dati contenuti nel dossier sulle carceri del Lazio presentato oggi dalla Cgil sono tanto drammatici quanto prevedibili. Si tratta di una vera e propria emergenza umanitaria”. Lo dice in una nota Luigi Nieri, capogruppo di Sinistra Ecologia Libertà nel Consiglio regionale del Lazio, che aggiunge: “Proprio ieri sono stato nuovamente in visita a Rebibbia, dove ho riscontrato la solita grande generosità degli operatori che vi lavorano, sia fra gli agenti di polizia penitenziaria che nell’area trattamentale. Ma la generosità del personale non basta, se i tagli colpiscono in maniera così violenta”. Nieri ricorda che “negli ultimi sei anni nel Lazio i detenuti sono aumentati del 70%, ma gli agenti in servizio sono fra il 20% e il 35% in meno rispetto alla pianta organica; il rapporto tra educatori e detenuti è 1 a 76, anziché 1 a 25, come previsto dalla pianta organica. Stesso discorso per psicologi e assistenti sociali. Lavorare in carcere, a queste condizioni, può essere paragonabile a espiare una pena. Intanto il sovraffollamento ha raggiunto dimensioni ormai fuori controllo, si parla addirittura del 137% in più di presenze rispetto alla capienza regolamentare. È come provare a fare entrare cinque persone in una Smart da due posti, e purtroppo non per un breve viaggio”. Secondo Nieri “bisogna riflettere seriamente su questi dati, e trovare soluzioni a breve termine, per tamponare l’emergenza, e a più lungo raggio, ripensando all’intero sistema carcere. Guai a credere che i problemi legati alla detenzione siano confinati ai margini della società, perché è l’esatto contrario: il grado di civiltà di un Paese si misura proprio all’interno degli istituti di pena”. Giustizia: Tenaglia (Pd); Alfano intervenga sul sovraffollamento delle carceri Il Velino, 18 febbraio 2011 Il deputato democratico, Lanfranco Tenaglia ha depositato questa mattina un’interrogazione parlamentare per sapere dal ministro Alfano “come intende intervenire per superare la situazione di generale sovraffollamento delle carceri italiane che sta comportando un sensibile deterioramento delle condizioni di vita dei detenuti e la compressione di diritti fondamentali, con conseguente, inevitabile annullamento della funzione rieducativa della pena”. In tale quadro di per sè drammatico, Tenaglia ha segnalato” l’assoluta emergenza nella quale versa il carcere di Sulmona, nel quale si avvertono generali difficoltà di gestione originate dal sovraffollamento e situazioni critiche e peculiari connesse alla tipologia della popolazione ristretta”. Il democratico ha chiesto al ministro di “intervenire affinché l’Amministrazione Penitenziaria modifichi i criteri di destinazione dei detenuti, prevedendo una più equa distribuzione in ambito nazionale dei soggetti più pericolosi e affinché vengano stanziate più risorse per la casa lavoro così da garantire lo svolgimento dell’attività lavorativa a tutti gli internati, come la misura di sicurezza prevede”. Giustizia: Vitali (Pdl); l’Osapp incarna il pensiero dell’opposizione, perciò attacca il Governo Il Velino, 18 febbraio 2011 “L’Osapp quando attacca il governo sulla politica per le carceri o non sa di cosa parla o vuole incarnare a tutti i costi il pensiero dell’opposizione alla maggioranza parlamentare”. È quanto ha dichiarato l’on Luigi Vitali responsabile nazionale del Pdl per l’ordinamento penitenziario, replicando alla presa di posizione dell’organizzazione sindacale degli agenti di polizia penitenziaria. “Questo governo ed il ministro Alfano in quasi tre anni hanno fatto molto più di quello che è stato realizzato negli ultimi 20 anni e non riconoscerlo è solo frutto di pregiudizio. Ciò non toglie - ha concluso Vitali - , che restano ancora dei problemi e che ci sarà bisogno di tempo per completare il piano carceri ma, grazie allo straordinario impegno della polizia penitenziaria e di tutto il personale che opera negli istituti, e grazie anche alla preziosa collaborazione dei sindacati più responsabili, il Paese uscirà da questa emergenza”. Giustizia: Franco Corleone nominato coordinatore dei Garanti territoriali per i detenuti Ristretti Orizzonti, 18 febbraio 2011 Franco Corleone è il nuovo Coordinatore dei Garanti territoriali per i diritti dei detenuti. È stato eletto dall’assemblea che si è tenuta il 16 febbraio a Bologna e sostituisce nell’incarico Desi Bruno, già Garante del Comune di Bologna e che ha svolto l’incarico con efficacia e ricchezza di iniziative. Sono stati nominati Vice Coordinatori, Maria Pia Brunato, Garante del Comune di Torino e Giuseppe Tuccio, Garante del Comune di Reggio Calabria. L’assemblea ha messo in luce le difficoltà che derivano dalla drammatica situazione delle carceri e dalla scarsa attenzione che a questo tema viene riservata dalla politica e dal Governo. È stata individuata una agenda di temi sui quali impegnarsi, per definire un cambiamento nelle pratiche dell’Amministrazione Penitenziaria. Franco Corleone ha dichiarato: “La presenza dei Garanti in molte città italiane negli ultimi anni ha costituito l’unico elemento di novità in quello che si può definire un deserto culturale. Il carcere è sempre più un luogo rimosso, nonostante il sovraffollamento che determina condizioni di vita bestiali e il numero di suicidi e di atti di autolesionismo, che rendono evidente lo stato di sofferenza di questa istituzione totale. La crisi economica e i tagli agli Enti Locali rendono sempre più difficili anche quegli interventi di supplenza, rispetto all’inadempienza dell’Amministrazione Penitenziaria, che davano sollievo quotidiano e speranza in una vita diversa per i detenuti. La trasmissione di Iacona di Rai 3, ha sicuramente fatto vedere a molte persone le contraddizioni inaccettabili della discarica sociale. C’è molto da fare e per quanto mi riguarda la priorità assoluta riguarda l’individuazione di una alternativa alla presenza dei tossicodipendenti in carcere, la verifica del funzionamento della Sanità in carcere, una riforma che rischia di essere ridimensionata e il superamento degli Opg. Il Coordinamento dei Garanti intende lavorare con il Terzo Settore, per rafforzare il sistema dei diritti e il Welfare nel nostro Paese e rafforzare i rapporti con le Camere Penali e con l’Associazione dei Magistrati. Giustizia: serve maggiore garantismo e un’amnistia per i reati minori e gli “anni di piombo” di Sandro Padula Ristretti Orizzonti, 18 febbraio 2011 Silvio Berlusconi ammette di essere un peccatore e, così facendo, porta l’essere di un governante italiano dal cielo sacralizzato della Politica alla Terra di un’autocritica comunicata sul piano sociale. Senza dubbio il premier non svolge una vita sobria ma non è affatto l’incarnazione del Demonio. Potrebbe essere, come succede a parecchi della sua età, un uomo che ha molto bisogno di affetto. In ogni caso è una persona e, in quanto tale, ha una dignità che va sempre tutelata. Il 15 febbraio Cristina Di Censo, gip di Milano, ha disposto il giudizio immediato per Silvio Berlusconi per i reati di concussione e prostituzione minorile nell’ambito del caso Ruby. Il processo inizierà il 6 aprile alla quarta sezione penale del Tribunale di Milano, ma prima di eventuali sentenze di condanna e, al contrario di quanto è avvenuto e avviene con le gogne mediatiche nei suoi confronti, non può essere considerato colpevole. La presunzione d’innocenza è sancita nel comma 2 dell’articolo 27 della Costituzione Italiana: “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”. Le forze politiche dell’opposizione parlamentare hanno di conseguenza il dovere di abbassare i toni delle polemiche, rispettare l’articolo 27 della Costituzione e criticare ogni forma di gogna mediatica. Hanno l’obbligo di non cadere nelle sabbie mobili di uno Stato Etico e di un Nuovo Medio Evo populistico e giustizialista. Il centocinquantesimo anniversario dello Stato italiano non merita di passare alla storia come l’anno più violento del conflitto interno alla classe dominante e dirigente italiana della Seconda Repubblica. La situazione è ingarbugliata e obiettivamente difficile. Di certo non può essere superata delegando alla magistratura il compito di decidere chi governa in Italia, come successe ai tempi di “Mani pulite”. D’altra parte, rimarrebbe sostanzialmente inalterata nel caso in cui Berlusconi, come gli consigliano diversi collaboratori, facesse ricorso a Strasburgo. In primo luogo, le decisioni della Corte di Strasburgo dei diritti dell’uomo sono sempre riferite a fatti giuridici precisi e conclusi. In Italia poi, a differenza della Francia e di altri paesi europei, esse hanno solo un valore simbolico. Negli ultimi dieci anni il Bel Paese è stato condannato da Strasburgo numerose volte per il 41 bis (carcere duro) ma il 41 bis esiste ancora per il semplice motivo che nel nostro paese, sulla base di una specifica decisione politica bipartisan, non hanno valore legale le decisioni di Strasburgo ed esiste invece il più arcaico codice penale europeo, un codice rimasto al 1930, per la verità addirittura peggiorato negli ultimi tre decenni, che ancora prevede il “fine pena mai”. Il conflitto interno alla classe dominante e dirigente italiana può essere oltrepassato solo per mezzo di un complessivo rinnovamento politico e culturale nella società. Un balzo in avanti e non certo all’indietro. L’articolo 96 della Costituzione presenta un chiaro articolo a proposito di eventuali reati commessi da un Presidente del Consiglio: “Il Presidente del Consiglio dei ministri e i ministri sono posti in stato d’accusa dal Parlamento in seduta comune per reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni”. In pratica, secondo una corretta interpretazione della carta costituzionale, non è la magistratura che può mettere sotto accusa Berlusconi per dei presunti reati avvenuti nel corso della sua funzione di Presidente del Consiglio ma solo il Parlamento in seduta comune. Se quest’ultimo decidesse di non metterlo sotto accusa, il caso Ruby sarebbe destinato a diventare una bolla di sapone. Il centocinquantesimo anniversario dello Stato italiano dovrebbe pertanto essere l’occasione per difendere una lettura garantista della Costituzione italiana e iniziare un’opera di riequilibrio nei rapporti fra i poteri dello Stato (esecutivo, legislativo e giudiziario). A quest’ultimo scopo, oltre a difendere gli articoli 27 e 96 della carta costituzionale, sarebbe necessario approvare in Parlamento delle riforme della giustizia di carattere libertario (come quella presentata da Sabina Rossa per rendere automatica la concessione della libertà condizionale) e modificare la legge costituzionale 6 marzo 1992 n. 1 affinché in materia di amnistia e indulto non serva più la maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera e sia sufficiente la maggioranza semplice. Come nel 1946 Togliatti fece un’ampia amnistia dopo gli anni della guerra civile, così oggi sembra necessaria un’ampia amnistia, sia per i reati minori che per gli “anni di piombo”, finalizzata a ridurre il carattere ipertrofico dello Stato penale, eliminare il sovraffollamento delle carceri (circa 67 mila detenuti di fronte ad una capienza regolamentare di circa 45 mila posti) e giungere alle prossime elezioni politiche discutendo di programmi, in maniera civile e serena, con il comune obiettivo di salvaguardare la dignità e la sovranità nazionale dell’Italia. Giustizia: 41-bis revocato a 567 mafiosi; in un documento del Dap i nuovi dati sulla “trattativa” di Marco Ludovico Il Sole 24 Ore, 18 febbraio 2011 Non 140 ma 567 sono i provvedimenti di 41-bis, il “carcere duro” per i mafiosi, che nel novembre 1993 non sono stati rinnovati ai mafiosi in carcere. Non solo: la decisione fu presa non dal ministro di Grazia e giustizia, da solo, ma con la Direzione generale delle carceri (Dap), come risulta da un documento riservato del Dap, finora inedito. I numeri della presunta trattativa, dunque, sono molto più alti e comunque diversi da quelli ufficiali forniti dal presidente della commissione, Beppe Pisa - mi. E viene così messa in discussione anche la versione dell’ex ministro della Giustizia, Giovanni Conso, che continua a dire, come ha fatto mercoledì davanti alla procura di Firenze, di aver deciso “tutto da solo”. Il documento, datato 6 dicembre 1993 e firmato dal direttore Adalberto Capriotti - succeduto il 14 giugno di quell’anno a Nicolò Amato - spiega come il 15 settembre 1992 “con decreto dell’allora ministro di Grazia e Giustizia on. Claudio Martelli” il Dap decise di emanare una serie di “provvedimenti ex art. 41 bis, comma 2”. Si trattava, precisa la relazione, di “un regime speciale applicato in totale a n. 567 detenuti”. È una questione di commi, ma non è un cavillo normativo: la differenza è sostanziale. I 140 detenuti di cui parla Conso, e indicati nella relazione del presidente dell’Antimafia, Beppe Pisanu, sono relativi al 41 bis comma 1: carcere duro per i “casi di rivolta o altre gravi situazioni di emergenza” nelle istituzioni pe - nitenziarie. Il comma 2, invece, è il 41 bis per antonomasia, destinato ai detenuti per associazione mafiosa considerati particolarmente pericolosi. E sono proprio “41 bis comma 2” i 567 provvedimenti che non vengono rinnovati l’anno successivo alle stragi di Capaci e via D’Amelio dove morirono Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Mancati rinnovo di 41 bis decisi, tra l’altro, nonostante il parere contrario della procura di Palermo. Il documento del Dap è inviato su richiesta dell’allora presidente dell’Antimafia, Luciano Violante, che chiede il 10 novembre del ‘93 al ministro Giovanni Conso i dati sul 41 bis. Conso il 15 dicembre di quell’anno trasmette la relazione del Dap e precisa a Violante che “la questione è stata ed è sempre oggetto di attento e approfondito esame da parte del competente Dipartimento”. Il rapporto del Dap getta nuova luce sulla presunta trattativa tra stato e Cosa nostra. Ma offre anche nuove incertezze. Dice Laura Garavini (Pd): “A questo punto ogni prematura e strumentale conclusione, fatta finora a più riprese dal Pdl si dimostra avventata, come minimo. È il caso di andare avanti con tutte le verifiche necessarie”. Secondo Filippo Saltamartini (Pdl) “emerge un sistema di livelli dello Stato che reciprocamente non sono in grado di assumersi responsabilità. Ma allora va anche respinta - aggiunge - la tesi di attribuire a un colonnello e a un capitano dei carabinieri (Mario Mori e Giuseppe De Donno, ndr) una trattativa che riguarda organi istituzionali”. Mercoledì Conso aveva ribadito che “a me di intese non risulta assolutamente nulla, anche perché ero chiuso nel mio bunker. L’idea di una vicinanza mafiosa - ha sottolineato - mi offende nel profondo”. Ieri invece è stato sentito l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino. Quella parola, “trattativa”, ha spiegato Mancino, è “un termine che io non posso nemmeno accettare neppure a distanza di anni”. E aggiunge: “Se nella propria responsabilità, qualunque funzionario dello stato o magistrato mi avesse parlato di trattative con la mafia, io le avrei denunciate in Parlamento”. Il ministro comunque ha ammesso di aver avuto consapevolezza che il 41-bis fosse l’obiettivo della mafia in quel momento. “Quando arrivai a Firenze dopo via dei Georgofili avevo chiara la valutazione che la matrice fosse mafiosa. Il movente era certamente il 41-bis. Ma bisognava revocarlo? No, non l’ho mai pensato”. Il documento del Dap Il documento, datato 6 dicembre 1993 e firmato dal direttore Adalberto Capriotti - succeduto il 14 giugno di quell’anno a Nicolò Amato - spiega come il 15 settembre 1992 “con decreto dell’allora ministro di Grazia e Giustizia on. Claudio Martelli” il Dap decise di emanare una serie di “provvedimenti ex art. 41 bis, comma 2”. Si trattava, precisa la relazione, di “un regime speciale applicato in totale a n. 567 detenuti”. I dati di Pisanu I dati ufficiali forniti dal presidente della commissione Antimafia Giuseppe Pisanu parlano di 140 provvedimenti di 41-bis, il “carcere duro” per i mafiosi, che nel novembre 1993 non sono stati rinnovati ai mafiosi in carcere. Giustizia: su revoche del 41-bis e “trattativa” con la mafia Mancino contraddice Conso di Attilio Bolzoni La Repubblica, 18 febbraio 2011 L’ex ministro in aula a Firenze: “Non è vero che me ne parlò, lo appresi dai giornali”. Le due deposizioni al processo stragi La verità sulla trattativa Stato - mafia più lontana. Nessuno sa niente. Nessuno ricorda niente. Tutti che smentiscono gli altri e qualche volta anche se stessi. Sfilano i ministri della Repubblica per le stragi di mafia e va in scena l’omertà di Stato. Da loro non si saprà mai nulla su quanto è accaduto in Italia fra la morte di Falcone e le bombe ai Georgofili, da loro non riusciremo mai a sapere chi ha trattato con Cosa Nostra per fermare gli attentati. Nel bunker di Firenze, dove si celebra il processo con rito immediato a uno degli imputati - il boss Francesco Tagliavia - per i massacri del 1993, è calato un silenzio totale e probabilmente finale. Coloro i quali, più di altri, avrebbero potuto consegnarci frammenti di verità sul movente delle stragi sono stati zitti. In due udienze due ministri testimoni - quello della Giustizia Giovanni Conso, quello dell’Interno Nicola Mancino - e due lunghe deposizioni per avvolgere i fatti criminali di diciotto anni fa dentro una nuvola di fumo. Ministri del tempo che si sono contraddetti uno con l’altro, ministri che non hanno spiegato, ministri che hanno svicolato ogni qualvolta veniva sussurrata la parola trattativa o anche solo intesa. Conso l’altro giorno e Mancino ieri, sono stati fin troppo categorici: “Lo Stato non è mai sceso a patti con la mafia”. E per sostenere ciò si sono avventurati e incartati in improbabili ricostruzioni. Come quella sulla revoca nel novembre del 1993 del 41 bis, il carcere duro, per 143 imputati di mafia. Il primo ha giurato di avere preso “in solitudine” quella decisione pur avendone parlato più volte con il suo collega ministro dell’Interno, Mancino al contrario ha negato di avere mai discusso - proprio mai, neanche in un solo colloquio - di 41 bis con il Guardasigilli “per rispetto della sua autonomia”. Il primo ha dichiarato di non avere seguito i suggerimenti di nessuno (per esempio le relazioni dei capi dell’amministrazione penitenziaria che consigliavano di cancellare il carcere duro), il secondo ha confessato di “essere venuto a conoscenza di quella revoca per caso e dalla stampa”. L’Italia era in “guerra”, le bombe avevano già fatto dieci morti e centosei feriti fra Firenze, Roma e Milano e i due ministri - Giustizia e Interno - raccontano che scelte così importanti sono state fatte senza consultare esperti (il caso di Conso) o addirittura di essere stati all’oscuro (il caso di Mancino) delle mosse dei colleghi. Testimonianze che - se vere - rivelerebbero uno Stato allo sbando e in mano a dilettanti allo sbaraglio. Sulla vicenda del 41 bis annullato, Mancino ha anche ricordato di avere negativamente commentato “sui giornali” il provvedimento per quei 143 mafiosi (“Posso esibire copia de La Sicilia di Catania”), ma di non avere mai affrontato neanche in seguito l’argomento in sede istituzionale. Così andavano le cose alla fine del 1993, secondo i due ministri. Totò Riina era in carcere da una decina di mesi, gli investigatori ignoravano i “movimenti” dentro Cosa Nostra e qualcuno sospettava perfino che Bernardo Provenzano fosse morto. Ma prima Conso e poi Mancino riferiscono di avere saputo dell’esistenza di due fazioni di Cosa Nostra, una “terroristica” legata a Riina e l’altra più “politica” con a capo Provenzano. “Informazioni apprese dai giornali”, dicono entrambi. Informazioni segretissime che, 18 anni fa, non erano certo in possesso di cronisti e neanche di poliziotti di prima linea. Solo chi stava “trattando” poteva sapere quali erano gli equilibri della mafia siciliana in quel momento. Dopo gli “smemorati” di Palermo (l’ex Guardasigilli Claudio Martelli, l’ex presidente della commissione antimafia Luciano Violante, l’ex direttore generale degli Affari penali del ministero di Grazia e Giustizia Liliana Ferraro), ecco le offuscate deposizioni di altri due ministri. È sempre più chiaro che la trattativa o le trattative fra Stato e mafia, fra il 1992 e il 1993, non si possano circoscrivere agli incontri fra il generale Mario Mori e all’ex sindaco Vito Ciancimino. C’è molto di più. E non caso ieri, Mancino, ha rievocato a Firenze il nome del capo della polizia Vincenzo Parisi: “Io, da ministro dell’Interno, posso dire che Parisi non espresse mai riserve sul carcere duro”. Circostanza riferita invece, e in un documento ufficiale, dal capo dell’amministrazione penitenziaria Nicolò Amato. Sul 41 bis e quelle revoche - è evidente - qualcuno sta mentendo. Giustizia: il rito abbreviato perde i pezzi, non si applicherà a reati sanzionati con l’ergastolo di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 18 febbraio 2011 No al rito abbreviato, con relativo sconto di pena, per i reati sanzionati con l’ergastolo. Questo il contenuto del disegno di legge approvato ieri mattina dall’aula della camera. Il testo ora passa al Senato per il sì definitivo. E se la Lega Nord, che ha fortemente voluto il provvedimento, esulta (“La ratio è quella di ritenere profondamente ingiusto che per reati particolarmente gravi l’esigenza di accelerare il processo e quindi il motivo deflattivo possa giustificare una riduzione secca di un terzo della pena” spiega Carolina Lussana, leghista e prima firmataria della proposta di legge”), la polemica scuote l’opposizione. Se Pd e Udc hanno votato contro, un sì convinto è arrivato dai deputati dell’Idv. “Mi dispiace tanto - commenta Antonio Di Pietro, leader Idv - ma non é questa la nostra idea di responsabilità politica. Per noi dell’Italia dei Valori si vota secondo coscienza e non per partito preso o per fare dispetto a qualcuno. Siamo sempre stati favorevoli a una politica di rigore, anche nella sanzione. Siamo convinti che chi ammazza una persona debba andare in galera senza poter fare il furbo e ridursi la pena chiedendo il rito abbreviato, e non siamo disposti a tradire le nostre convinzioni per la soddisfazione di mandare sotto una volta la maggioranza”. Polemica Donatella Ferranti, capogruppo Pd in commissione Giustizia: “La maggioranza, purtroppo con il supporto di Di Pietro, ha approvato un provvedimento demagogico che serve solo a dare al governo un’apparente facciata di rigore, a far dimenticare ai cittadini l’inconsistenza delle politiche finora messe in campo. La maggioranza e Di Pietro hanno allungato i tempi dei processi e condannato le vittime ad una giustizia più lenta senza, peraltro, evitare la riduzione di un terzo della pena che potrà ugualmente avvenire con il gioco delle attenuanti generiche”. Ma per il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, l’approvazione del provvedimento, insieme con quella avvenuta solo 24 ore prima di un altro disegno di legge che vieta di scontare la pena in carcere alle madri con figli fino a 6 anni, è il segnale che governo e parlamento lavorano con efficacia anche in materia penale, in un ambito cioè dove le polemiche e gli scontri sono all’ordine del giorno. Fortemente critici gli avvocati penalisti, con l’Unione camere penali per la quale l’abolizione del rito abbreviato per i reati puniti con l’ergastolo è “l’ennesimo provvedimento settoriale, dettato non da un’esigenza di sistemazione coerente del nostro sistema giuridico, ma dall’intento di trasmettere ai cittadini vuoti messaggi sul piano della sicurezza”. “Se il metodo - precisano ancora le Camere penali - è quello tristemente consueto degli ultimi anni, la legge appena approvata alla Camera presenta ulteriori spunti di critica. Il mondo civile si interroga sul senso di una pena senza fine e le moderne costituzioni fanno sì che l’ergastolo rimanga solo sulla carta, eppure proprio adesso, invece di mettere mano alla sua abrogazione anche formale, si fa passare l’ennesima leggina che ha l’unico intento plausibile di esaltarne la forza simbolica. Nella pratica nessun passo avanti, sul piano della civiltà e delle idee”. Giustizia: Cassazione; la liberazione anticipata va concessa al detenuto che in carcere ha lavorato www.diritto.net, 18 febbraio 2011 Nel valutare la domanda di liberazione anticipata, il giudice di sorveglianza non può non tenere conto del fatto che il detenuto abbia svolto attività lavorativa all’interno del carcere. Secondo infatti la Cassazione l’aver svolto in carcere attività di lavoro dimostra che il soggetto ha aderito alle proposte di “rieducazione” del carcere. Tale principio di diritto è stato messo nero su bianco dalla prima sezione penale con la sentenza n. 4522 dell’otto febbraio 2011. Secondo la ricostruzione della vicenda, il Tribunale di Sorveglianza di Palermo, riconosceva un periodo di tempo come valutabile ai fini della liberazione anticipata mentre negava tale richiesta in riferimento ad un altro periodo, spiegando che in capo al condannato risultasse solo la condotta scevra da rilievi disciplinari, quindi formalmente corretta, ma come tale insufficiente al chiesto beneficio per il quale si rendeva necessaria una fattiva adesione alle proposte rieducative. Il detenuto impugnava così l’ordinanza del Tribunale di sorveglianza eccependo che non fosse stata valutata, ai fini della liberazione anticipata, il suo lavoro all’interno del carcere. La Corte di Cassazione, prima sezione penale, accogliendo la domanda del ricorrente e annullando l’ordinanza, spiegava che “risulta dunque che il Tribunale di competenza ha omesso di valutare la posizione del detenuto - per il periodo oggetto di diniego - con riferimento al lavoro svolto in carcere dallo stesso, come dalla relativa documentazione che risulta essere stata versata in atti. Tale omessa valutazione configura vizio di motivazione, posto che sia del tutto pacifico che l’attività lavorativa svolta in carcere non possa essere ignorata ai fini in parola onde stabilire se dalla stessa - per qualità, durata, svolgimento a richiesta, ecc. - sia positivamente desumibile, in una con ogni altro elemento di pertinente valutazione, l’inizio di un percorso partecipativo di risocializzai zone meritevole ex art. 54 Ord. Pen. L’impugnata ordinanza va dunque per tal motivo annullata in parte qua. Il giudice di rinvio si atterrà, nel nuovo esame, eventualmente anche previ ulteriori accertamenti (richiedendo relazione), ai principi dettati dalla presente decisione di legittimità”. Sicilia: il Garante dei detenuti presenta la relazione 2010; nelle carceri situazione insostenibile Dire, 18 febbraio 2011 “La Sicilia contribuisce alla popolazione carceraria per circa il 10 per cento. Nell’Isola la situazione è drammatica ma quello del sovraffollamento non è l’unico problema delle carceri siciliane”. Lo ha affermato il garante per la tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e per il loro reinserimento sociale Salvo Fleres, presentando stamane a Catania la relazione sull’attività svolta nel 2010. Tra i dati evidenziati gli 8.017 detenuti a fronte di una capienza normale di 4.500 posti e di quella cosiddetta tollerabile di 5.393. “Il numero di agenti di polizia penitenziaria - ha proseguito Fleres - è molto più basso di quello previsto e i detenuti patiscono disagi incredibili come se fossero cittadini di serie B perché l’assistenza sanitaria non è ancora transitata dal Dap alla Regione. Fleres ha anche definito la situazione legata al lavoro in carcere “assolutamente precaria e insufficiente rispetto a quelle che sono le esigenze”. Il garante per la tutela dei diritti dei detenuti ha anche avanzato alcune proposte per migliorare la situazione: “avviare o completare strutture penitenziarie perché quelle esistenti non sono adeguate, completare l’organico di polizia penitenziaria e intervenire sull’aspetto del codice di procedura penale”. “La recente legge che consente la detenzione domiciliare per l’ultimo anno - ha spiegato Fleres - si sta rivelando poco efficace, non ha svuotato per niente le carceri e sono pochi i detenuti che ne stanno usufruendo. È necessario intervenire nelle sedi di giudizio evitando che per pene poco significative si finisca in carcere, che non è l’unico modo in cui contrastare il crimine”. Sicilia: il Garante dei detenuti chiede l’applicazione della riforma della medicina penitenziaria La Sicilia, 18 febbraio 2011 Un’ennesima disperata denuncia contro il trattamento inumano riservato ai carcerati siciliani, con cifre precise sul sovraffollamento, sulle strutture carenti e fatiscenti, sui dolorosi fenomeni dei suicidi e degli atti di autolesionismo, sulle mancate opportunità di lavoro, sui diritti umani violati e su tanti altri problemi che meriterebbero attenzione immediata: tutto questo, e altro, è contenuto nella relazione annuale che il senatore Salvo Fleres, Garante per la tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e per il loro reinserimento sociale, ha illustrato oggi alla stampa nell’ex Palazzo Esa di via Beato Bernardo a Catania. Ma la battaglia che Fleres intende portare a compimento, con ancora più vigore, nel 2011, è quella della sanità, ovvero assicurare alla popolazione carceraria isolana l’assistenza del Servizio sanitario nazionale, attualmente dipendente dal Dap, in applicazione del decreto legge del 1° aprile 2008 (già operativo nel resto del Paese). Sull’argomento Fleres ha presentato interrogazioni al ministro della Giustizia, cui hanno fatto seguito innumerevoli segnalazioni al presidente della Regione, all’Assessore regionale alla Sanità e al presidente dell’Ars, senza ottenere alcuna risposta. La Regione motiva il ritardo col fatto che prima di attuare il cambiamento bisogna nominare una commissione paritetica Stato - Regione per definire i costi. “La commissione paritetica è un organismo - spiega il Garante - a cui sono demandati vari compiti, come quello di quantificare il trasferimento di risorse dallo Stato alla Regione in occasione di un passaggio di competenze”. Ma la motivazione burocratica, a detta dello stesso Garante, non è convincente “perché nel caso della sanità penitenziaria il costo del trasferimento di competenze è già individuato nel bilancio del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, dunque non è necessario negoziarlo”. “Credo che - conclude Fleres - per fare due “conticini” ed una riunione, mentre la gente muore per la scarsa assistenza, tre anni di ritardo siano davvero troppi”. Nell’incontro odierno, il Garante, oltre a presentare una serie di proposte impellenti, ricorderà le “cifre” che fanno delle carceri siciliane un comparto di cui vergognarsi. Tra i “numeri” di Catania spiccano quelli del sovraffollamento. In piazza Lanza, ad esempio, sono ristretti 561 detenuti, contro una capacità regolamentare di 245 persone e un livello di tollerabilità massima di 324. Quanto ai suicidi dei detenuti (che a livello nazionale, nel 2010, sono stati 66), a Catania e provincia se ne sono verificati tre, dei quali due a Bicocca e uno a Giarre. E 19 sono stati gli atti di autolesionismo: 4 a Bicocca, uno a Giarre e 14 a Caltagirone. Solo in un caso, a Bicocca, è stato aggredito un agente di polizia penitenziaria. Pisa: il carcere Don Bosco cade a pezzi; alcune parti già chiuse, altre in condizioni precarie La Nazione, 18 febbraio 2011 Parti del carcere chiuse per infiltrazioni d’acqua, altre puntellate per pericolo di crolli, altre ancora in condizioni precarie per l’assenza di manutenzioni che rendono difficili e pericolosi i compiti degli agenti di custodia e degli addetti alla sorveglianze dei detenuti. “In queste condizioni è difficile lavorare. Anzi, la casa circondariale don Bosco cade a pezzi”. È l’allarme lanciato dai sindacalisti della polizia penitenziaria. Claudio Caruso e Romeo Chierchia (delle sigle autonome Osapp e Fsa) e Massimo Pietranera (federazione nazionale sicurezza della Cisl) fanno l’elenco delle cose che non funzionano. Un esposto circostanziato, lungo e doloroso: “Nelle aree di accesso ad alcune sezioni gli intonaci si sgretolano, mentre una parte dello spogliatoio è stata chiusa per le infiltrazioni d’acqua e il distacco di materiale inerte”. Umiliati i “rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza: le loro segnalazioni sono inascoltate ormai da tre anni”. Due su tutte: il filo spinato collocato sul muro di cinta, pericoloso in caso di temporali, o l’ufficio realizzato nella sezione “terreno b”, dotato di sola luce artificiale e non di aereazione, se non quella che proviene dalla finestra del bagno. Praticamente assenti “gli ispettori del Servizio di vigilanza sull’igiene e sicurezza dell’amministrazione della giustizia (Visag)”. Nessuno - è la denuncia dei sindacalisti - “organizza corsi di formazione per gli addetti alle squadre antincendio - e per il personale tutto - per informar e adeguatamente chi lavora dentro il don Bosco li sui comportamenti da tenere in caso di eventi critici. Costantemente violata la normativa sul divieto di fumo: le sanzioni sono ridicole, ciascuno, in pratica, può fumare sempre e ovunque. E ancora: “Nella zona interna dell’area di ingresso alla sezione penale e nell’area di passeggio ci sono muri e solai puntellati per scongiurare crolli. Prima, almeno, un geometra di una ditta privata impegnata nella costruzione del nuovo padiglione esterno, ogni tanto veniva a controllare. Ora la ditta non c’è più, i lavori al padiglione (quasi concluso) si sono fermati, mentre il resto dell’istituto cade a pezzi”. Poi i rappresentanti della polizia penitenziaria puntano il dito sulle condizioni in cui vengono svolti i turni di guardia: “Accedere alle postazioni riservate alle sentinelle non è facile. I passamano sono arrugginiti e la sera non si può contare sull’ausilio dell’illuminazione. Al buio il personale rischia di ferirsi: bulloni e ferri vari escono dal muro di cinta”. Non si contano le perdite d’acqua e le infiltrazioni negli uffici e nei corridoi. In generale “alcune sezioni dovrebbero essere chiuse e ricostruite ex novo, così come dovrebbe essere rifatta la pavimentazione al penale e nel piazzale antistante lo spaccio aziendale. Qui - concludono i sindacalisti - c’è un’area delimitata per il crollo di parte del cornicione di un balcone. Nessun cartello, mentre la zona è stata isolata semplicemente con delle piante”. Reggio Calabria: la Camera Penale; carcere sovraffollato, saltano i colloqui con i difensori di Paolo Toscano Gazzetta del Sud, 18 febbraio 2011 Il carcere di Reggio sta scoppiando. Parlare di sovraffollamento sembra quasi un eufemismo. A fronte di una situazione auspicabile di 160 detenuti, infatti, la struttura di via San Pietro ne ospita 360, ovvero duecento in più di quella che dovrebbe essere la capienza massima. Con una popolazione carceraria più che raddoppiata rispetto a livelli standard, dunque, le condizioni di vita e operative nell’istituto penitenziario risultano veramente precarie. Anche i più elementari diritti vengono messi in discussione. Basti pensare ai colloqui avvocati - assistiti che saltano sistematicamente per mancanza di un numero sufficiente di box. Proprio questo problema è stato nuovamente sollevato nei giorni scorsi dalla Camera penale “Sardiello” con una lettera inviata dal presidente Carlo Morace al Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria e alla direttrice della casa circondariale reggina Maria Carmela Longo. Morace esordisce ricordando la precedente denuncia, contenuta nella lettera inviata il 14 ottobre scorso: “Nonostante quella segnalazione - scrive il presidente della Camera penale - relativa alla grave situazione esistente nel carcere di Reggio, ad oggi la situazione è immutata, anzi si è aggravata. I detenuti sono in numero abnorme rispetto alla capienza massima. Addirittura, i detenuti che si trovano a Reggio in transito finiscono per fermarsi per un periodo di gran lunga superiore a quello necessario. Sembra per carenza di mezzi e personale adeguati a effettuare gli spostamenti”. Morace aggiunge che è già stata presentata una denuncia alla Procura della Repubblica per segnalare le condizioni di grave degrado nelle quali si trovano a vivere i detenuti e annuncia che un’altra sarà depositata nei prossimi giorni. Il presidente della “Sardiello” affronta poi la questione relativa ai box destinati ai colloqui difensore - assistito: “Sono in numero insufficiente - sostiene - e finiscono per impedire gli stessi colloqui con grave nocumento per il diritto di difesa. Si pensi che il carcere di Palmi dispone di 12 box, a Reggio Calabria ve ne sono soltanto 4. I difensori, spesso, sono costretti a rinunciare a recarsi nell’istituto penitenziario ben sapendo di non riuscire a effettuare, comunque, il colloquio con l’assistito per impossibilità di espletarlo nei limiti dell’orario”. Già con la lettera inviata in autunno era stata segnalata l’anomalia consistente nel fatto che esiste uno stanziamento di 110 mila euro per il rifacimento della sala magistrati e avvocati ma, purtroppo, non si è proceduto ad affidare l’incarico per l’esecuzione dei lavori. “Eppure, altri lavori hanno avuto inizio - scrive Morace - e nulla avrebbe impedito di fare coincidere l’inizio degli stessi anche con il rifacimento della sala avvocati. Ancora una volta la burocrazia si muove in modo schizofrenico e ad essere ignorati sono i diritti dei detenuti. La Camera penale “Sardiello” non può che denunciare la situazione al fine di consentire di verificare se esistono anche responsabilità penali dei dirigenti del Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria, già raggiunti da diffide e che, nonostante la gravità della situazione, continuano a mantenere un contegno omissivo”. Il problema dei colloqui avvocati - detenuti che saltano era già stato sollevato nelle scorse settimane da alcuni penalisti che si erano recati in carcere e avevano dovuto rinunciare a parlare con i loro assistiti perché la sala colloqui era rimasta chiusa dopo che l’addetto, per carenza di personale, era stato destinato al servizio scorte dei detenuti. Brescia: De Toni (Idv); il carcere è in estremo degrado, il Governo intervenga subito Agenparl, 18 febbraio 2011 “La situazione di degrado del carcere di Brescia è inaccettabile, il Ministro Alfano intervenga subito perché non siamo più un ducato ai tempi del regno Longobardo: la città ha il diritto di disporre di una struttura detentiva degna di un Paese moderno come l’Italia”. Il senatore bresciano Gianpiero De Toni, Capogruppo dell’Italia dei Valori in Commissione Lavori pubblici, ha inviato un’interrogazione al Ministro della Giustizia per denunciare la condizione di estremo disagio e pericolosità esistente all’interno della casa circondariale di Brescia. “Il Presidente della Corte d’Appello - prosegue - ha giustamente definito la situazione allarmante. L’enorme sovraffollamento penalizza tanto i detenuti, esposti a gravissimi disagi, quanto gli agenti, costretti a turni di lavoro insostenibili. Inoltre, non sono affatto rispettate le adeguate condizioni di igiene e sicurezza e per questo il carcere necessita di urgentissimi interventi di ristrutturazione. Tali scandalose carenze sono lesive della dignità e dei più elementari diritti del personale e dei detenuti, il Governo deve intervenire rapidamente per ripristinare nel carcere di Brescia le dovute condizioni di vivibilità. Siamo la Leonessa d’Italia - conclude De Toni - e nell’anniversario dei 150 anni dell’Unità è un gesto dovuto curare questa insopportabile piaga che offende il decoro della cittadinanza”. Chieti: Sclocco (Pd); troppe morti in carcere, ci vuole il garante dei detenuti Il Centro, 18 febbraio 2011 “Istituire subito il garante dei detenuti”. È quanto chiede la consigliera regionale del Pd Marinella Sclocco dopo la morte del giovane detenuto Raffaele Busiello nella casa circondariale di Chieti. Il caso del decesso nel carcere teatino ripropone il problema del sovraffollamento negli istituti penitenziari. Ma anche “anche dell’assistenza sanitaria” dice Sclocco, “che rientra nei compiti delle regioni”. La consigliera di opposizione ricorda che nella regione si sono registrati moti alti casi di morti anomale. “Troppo spesso i detenuti” osserva, “non seguiti nel loro percorso di reinserimento nella società, cedono psicologicamente, si ammalano e muoiono per la totale assenza di personale specializzato che possa seguire costantemente la loro riabilitazione al fine del reinserimento nella società”. Busiello stava male ma certamente l’assistenza sanitaria non certo per colpa delle professionalità impiegate avrebbe dovuto essere più specialistica per un caso complesso considerato che il giovane aveva una serie di patologie. “Non si possono affidare casi delicati come quelli dei detenuti a personale che opera in spazi ristretti”, continua la consigliera del Pd, “in condizioni davvero difficili e sotto costante stress. Personale che viene assunto a tempo determinato e che quindi ruota in continuazione, senza garantire così una continuità terapeutica tale da consentire il recupero psicologico dei detenuti. Il mondo penitenziario, in Abruzzo, andrebbe costantemente monitorato, magari attraverso l’istituzione della figura del garante dei detenuti, che altre Regioni già hanno. In Italia, per fortuna” conclude Marinella Sclocco, “non vige la pena di morte, i detenuti vanno seguiti, istruiti, riabilitati, curati. Solo così potranno reinserirsi nella società da uomini fisicamente e psicologicamente sani”. Vicenza: solo 9 detenuti fuori con la “svuota-carceri”, la direzione chiede aiuto al volontariato Ristretti Orizzonti, 18 febbraio 2011 La direzione della Casa Circondariale di Vicenza ci ha inviato la seguente lettera. “Oggetto: Legge 26 novembre 2010 n. 199. Disposizioni relative all’esecuzione proprio domicilio delle pene detentive non superiori ad un anno. Come è noto, con la legge in oggetto, il Legislatore ha posto in essere una misura in parte risolutiva dell’emergenza del sovraffollamento che affligge gli istituti di pena italiani. A partire dal mese di gennaio 2011 sono avvenute le prime scarcerazioni a seguito della nuova disciplina ed in particolare sono stati dimessi nove detenuti di cui tre stranieri. Con la presente si intende attirare l’attenzione su questo dato numerico poiché le scarcerazioni effettivamente avvenute rappresentano solamente una minima parte dei soggetti che astrattamente potrebbero aspirare all’applicazione del beneficio fino al 2013. La riduzione dei beneficiari della misura che si sta realizzando di fatto rischia di comportare una vanificazione dello spirito del provvedimento, consentendo l’ammissione alla detenzione domiciliare solamente a quei soggetti forniti di idoneo ed effettivo domicilio e che pertanto erano già teoricamente destinatari delle misure previste dal Capo IV dell’Ordinamento Penitenziario (“Misure alternative alla detenzione”). Per tale ragione si intende sensibilizzare le S.S.L.L. rispetto alla necessità di mettere in atto interventi volti a garantire a chi non ha risorse l’accesso alla detenzione domiciliare, con particolare riferimento ai soggetti extracomunitari o cittadini senza fissa dimora a cui sarebbe altrimenti preclusa questa possibilità, realizzando di fatto una discriminazione basata sulle condizioni socio - economiche della persona. La scrivente è certa dell’interessamento da parte di codesti Enti considerata la sensibilità sempre dimostrata nell’affrontare le disagiate problematiche della popolazione detenuta. Ringrazia sentitamente”. Il Direttore della Casa di Reclusione Il Responsabile dell’area Pedagogica Brucoli (Sr): lettera di un detenuto; aspetto da un anno il ricovero per essere operato per un’ernia La Sicilia, 18 febbraio 2011 Un detenuto nel carcere di Brucoli ha scritto una lettera al nostro giornale ritenendoci “L’ultima spiaggia” per la soluzione dei suoi problemi, non avendo trovato riscontro, evidentemente, attraverso i canali istituzionali. Giuseppe Reito lamenta alcuni disagi sofferti dalla popolazione detenuta nella Casa di pena augustana, oltre che, scrive nella sua lettera, l’inefficacia delle attenzioni per le sue condizioni di salute. “In questo istituto - si legge ancora nella missiva di Reito - ci sono molti disagi. Prima di tutto non esiste un dirigente sanitario al quale rivolgersi. Il risultato è che attendo da circa un anno il mio trasferimento in una struttura ospedaliera per l’ernia inguinale di cui soffro e che ha raggiunto una certa gravità”. Gli altri punti sollevati dal detenuto riguardano problemi generali e non personali. Tra questi la mancanza di acqua calda per le docce: “L’acqua calda non c’è e siamo costretti a lavarci tutti i giorni con acqua gelida”. Questo è l’unico punto sul quale è voluto intervenire il direttore del carcere, Antonio Gelardi. Il dirigente, tuttavia, si è riservato di rispondere a tutte le lamentele sollevate dal Reito ma in modo formale. Risposte che però non sono arrivate in tempo per la redazione di questo articolo e che, eventualmente, pubblicheremo successivamente. Il dirigente ha ammesso che l’acqua calda non è sempre disponibile e che la stessa è concessa a “singhiozzo”. Un problema che il direttore fa ricondurre alla scarsezza delle risorse economiche disponibili che non consentono una gestione puntuale e completamente efficiente della struttura penitenziaria. “La matricola non funziona - continua Reito nella sua lettera. Un esempio è che non si riescono a trovare i moduli di richiesta per alcuni servizi. È così che non riesco a frequentare nemmeno la scuola e non riesco a fare domanda di trasferimento in un altro istituto”. Una situazione, in definitiva, quella rappresentata dal detenuto, che lascerebbe spazio a varie interpretazioni sulle condizioni carcerarie in Italia. Non ultimi il sovraffollamento che limita di molto anche la stessa azione giudiziaria penale e la capacità di rieducazione e reinserimento nella società del nostro sistema penitenziario. “Qui succede di tutto - conclude il detenuto - tranne che inserirmi nella società. Da parte mia sto scontando la pena, come è giusto che sia, ma non mi sembra altrettanto giusto che venga trattato come un animale. Sono un ragazzo solo e senza nessuno che mi aiuta. Mi rivolgo a voi che siete la mia ultima spiaggia”. Venezia: il Sindaco Orsoni; nessuna imposizione dall’alto per carcere e Cie Asca, 18 febbraio 2011 Nessuna imposizione dall’alto per il nuovo carcere e, quindi, per il Cie. Lo ribadisce il sindaco di Venezia, Giorgio Orsoni. “Pare evidente che i due parlamentari della Lega, Callegari e Forcolin, in palese difficoltà, fingano di non conoscere la normativa sui Centri di Identificazione ed Espulsione in vigore in Italia - scrive Orsoni rispondendo ai due esponenti del Carroccio. Questa, prevede sia un decreto del Ministro dell’Interno ad individuare la provincia in cui ubicare i Cie. Dovrebbe apparire chiaro a tutti, dunque, che il Comune di Venezia può fare ben poco non solo per suggerire un sito più idoneo, ma anche per impedire che si costruisca un Cie su quello sbagliato. Sul nuovo carcere, suggerisco poi di leggere attentamente la normativa Piano Carceri, dove sia Callegari sia Forcolin, troveranno scritto in chiaro che il Comune di Venezia non sceglie nulla, ma sono il Commissario straordinario, d’intesa con il Presidente della Regione, sentiti i Comuni, a decidere. Il Comune di Venezia non ha partecipato all’Intesa sul nuovo carcere a Venezia firmata da Regione Veneto e Commissario governativo, così come dice la norma. L’Amministrazione di Venezia - è evidentemente necessario ribadire - non ha indicato alcun sito, ed il Consiglio comunale ha dato mandato al sottoscritto di individuare alcune alternative rispetto la scelta fatta da altri. Così sto facendo, sapendo che qualsiasi ultima decisione spetterà ad altre Istituzioni e non al Comune. Continuo a considerare il nuovo carcere una scelta di civiltà per Venezia, ma sono e saremo contrari a qualsiasi imposizione che dall’alto cada sulla testa dei cittadini di Venezia”. Bollate (Mi): l’esperienza dello Sportello salute e la rivista “Salute inGrata” Ristretti Orizzonti, 18 febbraio 2011 Lo Sportello Salute nasce quattro anni orsono da una progettazione e programmazione (unico esempio in Italia) condivisa con la Direzione, la Dirigenza sanitaria e gli Educatori Ministeriali della 2° Casa di Reclusione Milano - Bollate. La funzionalità si articola all’interno dell’istituto basandosi sulla partecipazione attiva della popolazione detenuta al loro stesso benessere in tema di salute. Questo modo di procedere applica, prima nella formulazione dell’Associazione promotrice Gli amici di Zaccheo - Lombardia e poi nell’adesione responsabile ed entusiasta dei detenuti, il Progetto Bollate inserendosi anche in un ganglio così delicato e sensibile come la prevenzione di malattie e una dettagliata informazione di quanto ottenibile sui diritti a tutela della salute in istituto e quanto dal Servizio Sanitario Nazionale per le persone in stato di detenzione. Tre sono i Centri di Ascolto, uno per i reparti maschili situato in Infermeria, uno al reparto femminile, uno per il reparto dei ristretti con reati a sfondo sessuale. Con cadenza settimanale continuativa, pervengono domandine per richiesta di colloquio con i volontari dell’Associazione e i detenuti referenti dello Sportello. A seguito di tali colloqui si provvede ad inoltrare le richieste all’Area Sanitaria, dandone in contemporanea informazione alla Direzione, agli Educatori, alla Polizia Penitenziaria. Questo procedere garantisce al detenuto paziente che la sua richiesta o lamentela pervenga a tutti gli organi preposti alla tutela del diritto alla salute. Nei reparti, in ogni singolo piano, vi sono i referenti detenuti che provvedono costantemente a informare i compagni di detenzione sulla possibilità di rivolgersi allo Sportello Salute e trasmettono tutte le informazioni che la Dirigenza Sanitaria ci fa pervenire in tema di prevenzione, burocrazia, informazione su singole tematiche di volta in volta concordate. Attualmente concorrono 25 detenuti/e per lo Sportello Salute e 25 redattori interni per la testata Salute inGrata. Le persone che hanno aderito volontariamente al Progetto Salute sono dunque 50 più i volontari esterni. A Bollate vi sono circa 1.080 detenuti/e. Salute inGrata Tre sono le redazioni (maschile, femminile, reparto per reati a sfondo sessuale) del periodico d’informazione sulla Salute della 2° Casa di Reclusione Milano Bollate, testata registrata al Tribunale di Milano, nata anch’essa su progettazione e programmazione dell’Associazione Gli amici di Zaccheo - Lombardia che ne è editore. Per la completezza, diversificazione e adeguatezza dell’informazione, il giornale si avvale per i contributi scritti della fattiva collaborazione della Polizia Penitenziaria, degli Educatori Ministeriali e della Direzione d’Istituto. Il lavoro redazionale è impostato con parametri funzionali e operativi tipici di un periodico mensile e si avvale delle competenze esterne di giornalisti che hanno trasmesso le loro conoscenze per formare i redattori, i grafici, i segretari di redazione, i fotografi, i traduttori in lingue estere, etc. Tutto il lavoro però è completamente svolto dai detenuti e dalle detenute che oltre a impostare la tematica mensile, ricercano i contributi scritti in istituto da Medici, Polizia, Educatori, Direzione, Volontari, Cappellani, compagni ristretti. Le differenti tematiche mensili sono formulate sulla base delle esigenze concrete che l’istituto vive in tema di salute e si ricercano, dunque, numerosi contributi esterni professionalmente qualificati: medici specialisti, Ser.T., Asl. Attenzione particolare viene posta anche al contributo di persone ristrette in infermeria e per i limitati nell’abilità fisica. Gli apporti legislativi e giuridici, per attenersi rigorosamente a quanto previsto dalla Legge e dall’Ordinamento Penitenziario, pervengono da professionisti della materia. Il notevole miglioramento della testata è specchio dell’ottimo lavoro di ricerca e colloquio con la classe medica e la Polizia Penitenziaria che, contribuendo a fornire informazione, agisce in termini di prevenzione e miglioramento sullo stato di salute e sulle patologie più frequenti in un istituto di reclusione. La linea editoriale di Salute inGrata si pone come strumento di cultura, sia intramurale sia esterna, interagendo come ponte fra i detenuti, l’istituzione, i cittadini liberi. La copiosa e capillare diffusione cartacea (12.000 copie) e anche on-line, ne fa oggi un valido apporto alla partecipazione e conoscenza del Progetto Bollate in ambito territoriale locale e più in generale nazionale. L’Associazione Gli amici di Zaccheo - Lombardia agisce da sempre senza alcun tipo di finanziamento pubblico e privato ma unicamente con le risorse economiche raccolte fra i volontari soci, i simpatizzanti esterni e i detenuti che, liberamente, si offrono per sostenere l’iniziativa. Pescara: grazie a Telefono Azzurro una ludoteca per i figli dei detenuti Il Centro, 18 febbraio 2011 Si chiama Casetta azzurra la ludoteca nel carcere di San Donato. È un luogo nel quale si ritrovano i figli e le mogli dei detenuti in attesa di colloquio. Un’oasi, curata dai volontari di Telefono azzurro, per attenuare l’impatto con la dura realtà carceraria. Il modello pescarese sarà attivato anche nelle carceri di Napoli - Secondigliano e Pagliarelli a Palermo. Del progetto carcere del Telefono azzurro si parlerà sabato alle 10 nella sala Figlia di Iorio della Provincia. Il Convegno, organizzato dalla sede pescarese del Telefono azzurro e patrocinato dalla Provincia, è il primo di una serie di incontri che l’associazione si propone di organizzare per divulgare un messaggio: tutelare i diritti dei bambini. A questo primo incontro parteciperanno Carmen Piciulo, referente nazionale del progetto carcere di Telefono azzurro, Franco Pettinelli, direttore della carcere San Donato, Maria Lucia Avvantaggiato, dirigente aggiunto della casa circondariale di Pescara, Alfonso Grimaldi, magistrato di sorveglianza, e Giulia Amodio, responsabile della sede pescarese del Telefono azzurro. Dal 1999, Telefono azzurro gestisce il progetto Bambini e carcere, nato come impegno dei volontari e rivolto alla tutela di quei bambini che hanno uno o entrambi i genitori detenuti: il Nido, per bambini da zero a tre anni; la Ludoteca per attenuare l’impatto con la realtà carceraria prima, durante o dopo il colloquio con il genitore. Attualmente Telefono Azzurro è presente con le sue ludoteche e i suoi nidi in più di venti istituti di pena. Al San Donato, esiste una ludoteca chiamata Casetta azzurra nella quale si intrattengono i figli e le mogli dei detenuti in attesa di colloquio, sempre alla presenza di volontari dell’associazione. Gli istituti di pena nei quali è presente il progetto Bambini e carcere sono: San Vittore a Milano e II casa di reclusione di Milano Bollate, Sanquirico a Monza, Le Vallette a Torino, Sollicciano a Firenze, La Dogaia a Prato, Dozza a Bologna, Rebibbia Nuovo complesso a Roma, casa di reclusione e casa circondariale a Padova, casa di Reclusione di Massa Carrara, casa circondariale La Pulce a Reggio Emilia, casa circondariale di Modena, casa circondariale di Verona. Il progetto è in via di attivazione alla casa circondariale Napoli - Secondigliano e alla casa circondariale Pagliarelli a Palermo, casa circondariale di Opera (Milano), casa circondariale di Parma. Nei prossimi incontri di Telefono azzurro a Pescara si discuterà di altri temi che interessano la tutela dell’universo dei minori: bullismo, separazioni e divorzi, sicurezza in Internet, social network. Venezia: bruciata la barca del Presidente della Coop che si occupa del reinserimento dei detenuti La Nuova Venezia, 18 febbraio 2011 Hanno bruciato un’altra volta la barca a Gianni Trevisan, 75 anni, il presidente della “Cooperativa il Cerchio” che da decenni si occupa di inserire nel mondo del lavoro ex detenuti. L’imbarcazione - la seconda che gli viene distrutta dal fuoco negli ultimi quattro anni - è stata incendiata l’altra notte in Rio San Biagio a Sacca Fisola dove era ormeggiata. L’allarme è scattato intorno alle 2.30 quando un abitante di Sacca Fisola ha segnalato al 113 che in prossimità della remiera di Rio San Biagio era scoppiato un incendio. L’uomo ha spiegato che vedeva le fiamme alte anche se non riusciva a capire cosa stesse bruciando. La volante lagunare, subito intervenuta, ha accertato che il fuoco stava divorando un’imbarcazione tipo semicabinato della lunghezza di oltre 6 metri con motore da 150 cavalli. Sul posto sono intervenuti anche i vigili del fuoco. Ai poliziotti è bastato poco per risalire al proprietario, e cioè a Gianni Trevisan, che non si era accorto di nulla e che è stato informato dell’accaduto dagli stessi agenti. L’imbarcazione è andata completamente distrutta. Le fiamme hanno inoltre danneggiato il tendalino di una seconda imbarcazione che si trovava ormeggiata vicino a quella di Trevisan, e di proprietà della Cooperativa il Cerchio. Sul posto sono intervenuti anche gli agenti della polizia scientifica, che hanno effettuato i rilievi tecnici. Sono in corso le indagini, da parte degli investigatori del commissariato di San Marco, per individuare i responsabili dell’incendio doloso. Non è stato ancora individuato l’innesco usato per accendere il fuoco, molto probabilmente è stato impiegato del liquido infiammabile. “Sono amareggiato. In quattro anni è la seconda imbarcazione che mi bruciano. Era una barca vecchia di plastica, l’unico mio divertimento dell’estate. Per fortuna non sono state danneggiate le altre barche della cooperativa - ha detto Gianni Trevisan. “Io non so nulla di certo, ma posso immaginare da dove proviene l’incendio. La situazione in questo momento è pesante. Tanta gente mi chiede lavoro anche persone normali, 50enni con famiglia. Ma in questo momento non è facile trovare lavoro”. Libri: Scarceranda 2011, l’agenda realizzata dai detenuti delle carceri milanesi Vita, 18 febbraio 2011 Per il quinto anno consecutivo, l’agenzia di comunicazione “Gramma” ha curato il progetto grafico dell’agenda realizzata dai detenuti delle carceri milanesi. Realizzata grazie alla partnership tra le cooperative sociali Teseo, La Meridiana, e.s.t.i.a. e Gramma, Scarceranda è un’agenda, un quaderno e qualcosa di più. È l’occasione di intraprendere un percorso di integrazione sociale per i detenuti e le detenute delle carceri milanesi, mantenendo desta l’attenzione sui temi dell’esecuzione penale e producendo un reddito onesto. Ogni pagina dell’agenda contiene infatti riflessioni e aforismi tratti da due spettacoli teatrali ideati e realizzati nell’ambito del carcere milanese di Bollate. Da sempre sensibile ai temi della responsabilità sociale e dell’inclusione, Gramma ha fornito anche quest’anno il proprio apporto al progetto, sviluppando una linea grafica dal look fresco e contemporaneo, in cui la “mela marcia” simbolo di Scarceranda recita il ruolo da protagonista. Per un’agenzia “responsabile” come la nostra - ha commentato Valentina Gabutti, presidente di Gramma - Scarceranda rappresenta un’opportunità per essere doppiamente coerente con la propria natura, impegnandosi in un progetto socialmente utile. Siamo molto soddisfatti di questa partnership consolidata nel tempo e orgogliosi di poter contribuire ogni anno a far crescere questo piccolo seme di libertà. Immigrazione: vere emergenze solite frasi di Emma Bonino L’Unità, 18 febbraio 2011 Di fronte agli ultimi sbarchi dei tunisini sulle nostre coste il governo ricorre ad un evergreen, quello di chiamare in causa l’Europa facendo finta di non sapere che se una politica comune in materia di immigrazione non esiste ciò è dovuto alle resistenze degli Stati membri. Ma cosa si chiede esattamente all’Europa? A parte soldi e pattugliamenti dell’agenzia europea Frontex, su cui Bruxelles si è resa disponibile, anche una condivisione dei rifugiati? In questo caso occorre capire di che parliamo: nel 2010 l’Italia ha accolto meno di 7 mila richieste di asilo, mentre Germania e Francia ne hanno accolte 40 mila ciascuno, Svezia 30 mila, Belgio 20 mila. Anche di fronte all’emergenza umanitaria di questi giorni si continua ad ignorare questo diritto fondamentale, che non permetterebbe di trattare i profughi tunisini come semplici clandestini. Ma anche volendo considerare questi profughi come normali immigrati irregolari, si dovrebbe applicare lo stesso la legge europea. Infatti la direttiva rimpatri, che non è stata per ora recepita nella Legge comunitaria a causa di un blitz della maggioranza al Senato, prevede - come riconosciuto dalla circolare del ministero dell’Interno del 17 dicembre 2010 - una serie di garanzie che vedono la reclusione nei Cie come una extrema ratio. Invece i primi provvedimenti per molti degli arrivati sono stati proprio il trasferimento nei Cie. In tale difficilissimo frangente è irrinunciabile un ritorno alla legalità delle nostre istituzioni. Per questo i Radicali hanno lanciato un appello al Parlamento, che in questi giorni continua a discutere della Legge comunitaria alla Camera, perché venga recepita la direttiva rimpatri e quella altrettanto importante sul lavoro nero degli immigrati. All’appello, firmato da numerose associazioni di immigrati, è possibile aderire scrivendo a: appellomigranti@gmail.com. Infine, poiché i sommovimenti nati dalla “rivoluzione dei gelsomini” in Tunisia avranno ripercussioni sull’intera regione, il ministro Frattini ha evocato un altro evergreen, quello di un Piano Marshall. A parte chiedersi da chi finanziato, siamo sicuri che questo approccio all’insegna della triade crescita - sviluppo - stabilità sia la risposta adeguata? Da parte nostra ripetiamo quello che sosteniamo da anni: la gamba economica deve essere abbinata a quella istituzionale, vale a dire ad un progetto - questo sì europeo - a sostegno della libertà, della democrazia e dello stato di diritto. Senza i quali non si capisce come si possa parlare di una visione a medio e lungo termine. Libia: rivolta nel carcere di Bengasi, molti i detenuti evasi; decine di morti nelle piazze in protesta Ansa, 18 febbraio 2011 Numerosi detenuti sono evasi oggi dal carcere di Bengasi, la seconda città più importante della Libia, teatro di violenti scontri tra manifestanti anti - regime e forze di sicurezza. Lo ha reso noto un giornalista locale. “C’è stata una rivolta nella prigione di al-Kuifiya e un gran numero di prigionieri è scappato”, ha dichiarato Ramadhan Briki, a capo del giornale “Quryna”. I detenuti avrebbero poi incendiato l’ufficio del procuratore generale, una banca e un commissariato della città. Il giornale è vicino a Seif Al-Islam, figlio del colonnello Gheddafi. Almeno 50 morti negli scontri di ieri, il governo minaccia i manifestanti Sarebbero una cinquantina, secondo fonti dell’opposizione, le persone uccise durante la “Giornata della collera”, che ieri ha portato per le strade migliaia di manifestanti contro il regime di Muammar Gheddafi in almeno otto città libiche, secondo l’agenzia Misna. La situazione oggi resta tesa, con i comitati rivoluzionari, pilastro del potere, che hanno minacciato i “gruppuscoli” che manifestano contro il potere di rispondere in maniera “violenta e fulminante”. Le informazioni dalla Libia filtrano a singhiozzo. Con l’aiuto dell’attivista libico Al Djahmi Hassan, che dalla Svizzera riesce a mantenersi in contatto con le piazze, la Misna è riuscita a tracciare un bilancio. Con almeno 30 vittime, la città orientale è stata senz’altro quella che ha pagato il più altro tributo nella repressione delle proteste. A intervenire è stato un battaglione delle forze speciali appartenente al figlio del colonnello Gheddafi, Hamis. Secondo fonti della dissidenza, il corpo militare era giunto in città da alcuni giorni e comprendeva “mercenari africani”. La brutalità e le modalità adoperate dal battaglione avrebbero scioccato le regolari forze di sicurezza presenti sul posto, che si sarebbero schierate con i manifestanti, ingaggiando uno scontro e spingendo le forze di Hamis fuori città, fino alla vicina Shabhat. Bengasi - Sarebbero almeno 14 le persone rimaste uccise ieri nelle proteste scoppiate nella seconda città del Paese, storicamente vicina alla dissidenza. Secondo le fonti ospedaliere dell’Afp, le persone morte negli scontri sarebbero quattordici. Ieri, secondo il resoconto della Misna, circa 10.000 persone si sono radunate per chiedere un cambiamento al potere nella piazza del Tribunale del Nord, ribattezzata dagli abitanti di Bengasi “piazza Tahrir”. I dimostranti dicono di voler rimanere in piazza per la preghiera del Venerdì, invitando il resto della popolazione ad andare in piazza, invece che nelle moschee. È stato anche rivolto un appello al mondo intero a pregare oggi in memoria delle vittime della rivolta. Darnah - La città portuale orientale è stata teatro di una manifestazione con circa 2000 partecipanti. Secondo la Misna, scontri con le forze dell’ordine si sono conclusi con quattro morti e diversi feriti. Alle armi delle forze del regime i dimostranti hanno risposto con lanci di pietre. Tripoli - Anche nella capitale si è svolta una manifestazione antigovernativa, nel quartiere di Faslhum, sulla “via del muro”. Si riferisce di scontri dalla mezzanotte a stamattina. Non si ha un bilancio preciso. Zenten - A poca distanza da Tripoli, la località è sotto stretto controllo delle forze del regime, che hanno interrotto la distribuzione di acqua ed elettricità come mezzo di pressione sulla popolazione. Tobruk - Clima teso, alcuni uffici del potere incendiati. Sabhra - Nella città originaria della tribù di Gheddafi, controllata da esponenti armati, sono stati uditi nella notte colpi di arma da fuoco. Minacce dal potere - “Chi tenta di toccare le quattro linee rosse - Muammar Gheddafi, l’integrità territoriale, l’Islam e la sicurezza del Paese - gioca con il fuoco e rischia il suicidio”: così i comitati rivoluzionari, sul sito internet del loro giornale, Azzahf Al-Akhdar (la marcia verde), hanno cercato di minacciare e intimorire i dimostranti.