Giustizia: oltre 1.500 negli ospedali psichiatrici giudiziari, la mappa degli Opg in Italia Ansa, 16 febbraio 2011 Sono 1.535 (1.433 uomini e 102 donne) i detenuti nei sei ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) italiani, su cui la Commissione d’inchiesta sul servizio sanitario nazionale ha avviato un’indagine e ieri ha presentato un video - choc, presenti il ministro della Salute Ferruccio Fazio e della Giustizia Angelino Alfano. Un tempo chiamati “manicomi criminali”, gli Opg sono strutture dipendenti dal ministero della Giustizia dove si trovano 1.535 detenuti contro una capienza regolamentare di 1.322 posti e un limite di tollerabile di 1.684. L’internamento è una misura di sicurezza di tipo detentivo prevista dal nostro ordinamento giuridico. Su 1.535 detenuti che si trovano nei 6 opg funzionanti (Aversa, Napoli Sant’Eframo, Reggio Emilia, Castiglione delle Stiviere, Barcellona Pozzo di Gotto e Montelupo Fiorentino), la quasi totalità (1.305) non è composta da detenuti in attesa di giudizio né da condannati in via definita, bensì da internati. L’internato non deve scontare una pena relativa ad un reato commesso, ma si trova in un Opg in ragione di una valutazione di pericolosità sociale da parte di un perito o di un esperto, comunque sempre su decisione del giudice. Oltre ai 1.535 in Opg, altri 484 internati sono invece sparsi in case lavoro o case di custodia e cura perché soggetti a misure di sicurezza in quanto per lo più considerati delinquenti abituali o professionali. Ecco, istituto per istituto, il numero dei detenuti nei 6 opg d’Italia suddivisi sulla base della posizione giuridica. Saccomanno (Pdl): superare Opg obiettivo legislazione “I ministri Alfano e Fazio, intervenuti oggi in Commissione d’inchiesta sull’efficacia e l’efficienza del Servizio Sanitario Nazionale, hanno dato piena disponibilità ad avviare un tavolo comune tra Governo, Parlamento e Conferenza Stato - Regioni per far sì che vengano assunte decisioni in merito agli ospedali psichiatrici giudiziari da chi ne ha la responsabilità”. Lo ha evidenziato il senatore Michele Saccomanno, capogruppo Pdl della Commissione parlamentare d’inchiesta sull’efficacia e l’efficienza del Servizio Sanitario Nazionale, a margine della proiezione del filmato sulle drammatiche condizioni di inagibilità e invivibilità dei “manicomi criminali”. “Il loro superamento è già negli obiettivi della legislazione vigente. Chi ha la potestà di decidere si lasci cogliere dalle emozioni e dalle suggestioni del filmato e ridoni la dignità di malato e di persona a chi è stato dimenticato e nascosto nelle carceri più degradate presenti nello Stato. Sono soddisfatto - ha concluso - che il ministro della Salute abbia ribadito le possibilità economiche per affrontare la riabilitazione degli internati e che al più presto saranno emanate linee guida vincolanti in attesa che si giunga al superamento con un cronoprogramma preciso”. Giustizia: Testa (Detenuto Ignoto); assordante silenzio su numero suicidi in carcere Il Velino, 16 febbraio 2011 “È triste constatare l’assordante silenzio di fronte ad un numero tanto elevato di cittadini che in regime di detenzione si tolgono la vita. Si tratta ormai di un suicidio di massa, quello degli ultimi, dello ‘scarto della società, di quelli che non portano un voto e che tanto poco interessano a certa politica, specie a quella più populista che preferisce costruire muri e nascondere il più possibile quelli che ormai diventano i cimiteri dei vivi”. Lo dichiara in una nota Irene Testa Segretario dell’Associazione Radicale Detenuto Ignoto. “Le istituzioni tutte - continua Testa - dovrebbero interrogarsi, indignarsi e scendere persino in piazza di fronte alla strage di legalità che quotidianamente si perpetua nelle carceri italiane, ma la politica - tutta - pensa solo ai bunga bunga veri o supposti del premier. Giustizia: l’ex ministro Conso; non so nulla di intese con la mafia sul 41 - bis Corriere Fiorentino, 16 febbraio 2011 Ottantotto anni, una borsa nera tra le mani, giacca e cravatta. Nell’aula bunker di Firenze dove si celebra il processo contro il boss Francesco Tagliavia sulle stragi, entra un “pezzetto” di storia che si chiama Giovanni Conso, ex ministro di Grazia e Giustizia, come si diceva all’epoca. L’epoca è quella delle bombe e delle stragi di mafia. Il ministro entra in carica il 13 febbraio 1993, si dimette a gennaio del 1994. Un anno, “l’anno orribile”, per dirla con le parole di Conso. Che entra in aula da testimone, ringrazia la corte e racconta il suo ministero, uno dei più delicati, sotto i governi Amato e Ciampi. Conso succedette al dicastero della Giustizia a Claudio Martelli e ha precisato: “Il mio predecessore delegava il capo del dipartimento di amministrazione penitenziaria di infliggere il 41 bis”. Quando nell’autunno del 1993, maturò la sostituzione di Nicolò Amato al vertice del Dap, il Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria, dovendo avere un incarico a Strasburgo, Conso ritirò le deleghe sul 41 bis e cominciò a decidere “in solitaria” sulla proroga o la sospensione del regime di carcere duro. Tutto ruota intorno alla domanda: perché decise di sospendere a novembre del 1993, dopo che già c’erano stati gli attentati di Firenze, Roma e Milano, il 41 bis a 140 boss mafiosi? Pacato ma fermo, Conso risponde: “Di intese con la mafia non ne so nulla assolutamente, io vivevo nel mio bunker. Sentirmi sospettato non dico di sbagli nel mio ruolo di ministro della Giustizia, che ci possono esser stati, ma dire che io possa aver avuto vicinanza con la mafia, non esiste nemmeno lontanamente e mi offende nel profondo”. Alla domanda del difensore di Tagliavia, Luca Cianferoni, su eventuali “mediatori, presentatori” che potessero aver avvicinato il ministro per caldeggiare la revoca dei decreti del 41 bis, Conso ha replicato: “Non mi risultano”. Sul 41 bis, ha poi ipotizzato Giovanni Conso, “non posso escludere che tra due funzionari una sera a cena possa nascere un’intesa (sul 41 bis, ndr), ma io non ci credo”. “Anche di fronte al numero notevole di detenuti suscettibili di essere sottoposti al 41 bis, le prassi erano tante; bisognava andare con cautela, non sciabolare decreti, che andavano motivati” e “mi son trovato a gestire i rinnovi dei decreti sul 41 bis in scadenza su delibere prese da altri”. “Mi sono accorto - ha aggiunto sullo stesso argomento Conso - che dopo aver ritirato le deleghe al Dipartimento di amministrazione penitenziaria, mi sono messo ad esercitare in proprio il potere di emettere i decreti sul 41 bis, mi sono pentito, me ne sono un po’ rammaricato. Perché è più pratico che se ne occupi il Dap. Invece così si rischia di creare tensione tra il personale, come tra gli agenti di custodia; era un momento di grande emergenza”. Conso ha poi ricordato una nota inviatagli dal direttore dell’epoca del Dap, Dipartimento di amministrazione penitenziaria, Nicolò Amato, in cui nel marzo del ‘93 gli suggeriva di revocare il carcere duro. Conso ne ha parlato rispondendo alle parti civili che gli chiedevano di un’eventuale trattativa di Cosa Nostra per revocare il regime di carcere duro (41 bis) a centinaia di detenuti. “Ricordo questa nota - ha detto Giovanni Conso - perché era coerente con uno slogan di Nicolò Amato, cioè “il carcere della speranza”. Amato credeva nel carcere che desse ai detenuti motivo di sperare in qualcosa. Questa idea di fondo corrispondeva a quanto in gran parte anche io condividevo”. “Anch’io pensavo che il carcere non dovesse essere una cosa tremenda, che dovesse servire alla rieducazione - ha proseguito. Il carcere duro aveva aumentato l’astio e il malumore dei detenuti, ma anche tra il personale degli agenti di custodia che operava in condizioni difficili”. Conso ha anche precisato che nel luglio del ‘93 vennero confermati 300 decreti di 41 bis per mafiosi e camorristi, ma che nel novembre del ‘93, come ministro si occupò direttamente del 41 bis e non prorogò 140 decreti: “Era un mio potere”. “Sui capimafia più pericolosi si era deciso di rinnovare il 41 bis, poi quando c’erano da rinnovare i decreti per detenuti meno pericolosi ci fu una reazione istintiva”, ha detto. “Contava la situazione personale e vedere il comportamento tenuto - ha ricordato ancora l’ex ministro - Ad alcuni si rinnovava il 41 bis, ad altri no”. Sul fatto che gli attentati del ‘93 abbiano potuto pesare sulla sua attività di ministro della Giustizia, Giovanni Conso ha risposto: “Non escludo nulla”. “In quel periodo - ha detto - bisognava smussare, la tensione bolliva in pentola in modo terribile, c’era un omicidio al giorno e poi i terribili attentati. Poi tutto si è fermato. Sono gli eventi che parlano da soli”. “Al momento - ha ancora proseguito l’ex ministro dei governi presieduti da Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi - non siamo in grado di dire nulla di sicurissimo, ma col tempo pezzi di verità verranno tirati fuori”. “Si capiva la matrice di queste stragi? A livello politico si sapeva che quelle stragi – da luglio a novembre 1993 - erano di matrice mafiose?”, chiede il presidente della Corte. “Si poteva capire o non capire. Non si escludeva nulla, dopo Capaci e via D’Amelio c’era lo sconforto più totale”. Su richiesta del pm Giuseppe Nicolosi, il presidente della corte d’assise di Firenze, Nicola Pisano, ha disposto di acquisire agli atti del processo contro il boss Francesco Tagliavia per le stragi del ‘93, in corso a Firenze, l’atto notarile di costituzione del partito Sicilia Libera. Il partito nacque formalmente l’8 ottobre 1993 davanti a un notaio di Palermo e tra i fondatori aveva il collaboratore di giustizia Tullio Cannella. Il nome esatto di questo nuovo movimento era “Sicilia libera nell’Italia libera ed europea”. Il presidente ha disposto, sempre su richiesta del pubblico ministero, anche l’acquisizione della sentenza passata in giudicato il 13 gennaio scorso in Cassazione che conferma la condanna a 5 anni e 4 mesi di carcere per l’ex senatore Vincenzo Inzerillo accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. Diversamente da quanto previsto l’ex direttore del Dipartimento di amministrazione penitenziaria (Dap), Nicolò Amato, non ha deposto come teste al processo di Firenze sulle stragi mafiose del 1993 perché malato. Lo ha comunicato all’apertura dell’udienza odierna il presidente della corte d’assise di Firenze, Nicola Pisano, precisando che Amato ha inviato un certificato medico di 15 giorni di malattia. Emilia Romagna: Sappe; duemila detenuti in più, solo in 4 beneficiano della legge Alfano Ansa, 16 febbraio 2011 Nessun carcerato della Dozza ha trascorso ai domiciliari l’ultimo anno di condanna. In tutta la Regione lo hanno fatto in quattro. Secondo il sindacato autonomo di polizia questi numeri indicano il fallimento della legge che doveva migliorare la condizione di sovraffollamento delle nostre strutture penitenziarie. E, invece, in Emilia Romagna si calcolano duemila persone in più rispetto ai posti disponibili. Una situazione paradossale se si pensa che nel vicinissimo stato di San Marino il carcere è vuoto per la maggior parte dell’anno Zero. È il numero dei detenuti del carcere bolognese (1.200 persone) che hanno beneficiato della legge Alfano, una misura che prevedendo la possibilità di trascorrere l’ultimo anno di pena ai domiciliari anziché dietro le sbarre doveva garantire un miglioramento delle condizioni di sovraffollamento. Quattro, quelli che ne hanno beneficiato in tutta la Regione. Duemila, il numero dei detenuti in eccesso rispetto alla disponibilità di posti nelle case circondariali emiliane. Uno, il numero dei carcerati del vicino stato di San Marino che con l’Italia non c’entrano nulla ma che, vista l’emergenza continua in cui si dibattono i nostri penitenziari, suona paradossale. “Fallita la legge Alfano”. Il Sappe, sindacato autonomo di polizia penitenziaria, torna a suonare l’allarme sovraffollamento: “La legge Alfano non è servita a ridurre il numero dei carcerati: alla fine di gennaio i trasferiti agli arresti domiciliari erano meno di 1.000, dei quali solo 4 in Emilia Romagna”. Una situazione che ovviamente si ripercuote sulle condizioni dei detenuti. Non mancano eventi “critici “(tentativi di suicidio, gesti di auto ed eterolesionismo, aggressioni al personale di polizia penitenziaria). L’ultimo in ordine di tempo, ricorda il sindacato, è stato il tentativo di suicidio di un internato all’ospedale psichiatrico di Reggio Emilia. Lazio: domani la Fp - Cgil presenta un dossier sul lavoro e la vita nelle carceri regionali Adnkronos, 16 febbraio 2011 La Fp Cgil Roma e Lazio presenterà domani alle 10.30 presso la palestra della caserma della Polizia Penitenziaria di Rebibbia un dossier sul lavoro e la vita in carcere nel Lazio. “Mentre esplodono le carceri nella Regione, con oltre 6.400 ristretti, si legge in una nota della Fp Cgil - sono sempre meno gli agenti di polizia penitenziaria, gli educatori, gli assistenti sociali e gli psicologi assegnati ai servizi di istituto e di assistenza ai detenuti”. “Strutture fatiscenti e insicure, - continua la nota - troppi agenti impegnati in servizi esterni alle strutture penitenziarie e, va da sé, carichi di lavoro insopportabili per chi presta servizio nelle carceri. I finanziamenti destinati al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria sono diminuiti negli ultimi 10 anni del 50%, mentre - conclude - sono raddoppiate le presenze dei detenuti a causa dei pacchetti sicurezza del Governo Berlusconi e di leggi liberticide ed inefficaci sull’immigrazione e sulla lotta del mercato degli stupefacenti”. Alla conferenza stampa sarà presente Lorenzo Mazzoli segretario Generale FP Cgil Roma e Lazio, il Garante dei diritti dei detenuti della regione Lazio, l’associazione Antigone, la Consulta Penitenziaria, l’Inmp e il Forum per la salute in carcere. Reggio Emilia: detenuto tenta il suicidio tagliandosi le vene, salvato dalla polizia penitenziaria Dire, 16 febbraio 2011 Un giovane italiano di 30 anni, internato nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia, ha tentato di togliersi la vita domenica sera tagliandosi le vene. Ne dà notizia il sindacato del Sappe in una nota: il giovane “è stato salvato solo grazie all’intervento di un agente della Polizia penitenziaria - scrive il segretario aggiunto Giovanni Battista Durante - che non vedendolo durante il consueto giro di controllo si è insospettito, è entrato nella stanza e lo ha trovato nel letto, coperto dalle lenzuola e in una pozza di sangue”. L’uomo “si era tagliato le vene ed era in fin di vita - prosegue Durante - ma grazie all’intervento immediato prima dell’agente e poi del personale medico, è riuscito a salvarsi”. Non era la prima volta che il 30enne tentava il suicidio, aggiunge il segretario del Sappe, puntando il dito contro la carenza di organico e il sovraffollamento della struttura. Un problema, questo, che è comune a tutte le carceri della regione. Venerdì mattina il Sappe visiterà quello di Ferrara e poi alle 10.30 farà una conferenza stampa. “L’ospedale psichiatrico di Reggio Emilia, una delle sei strutture presenti in Italia, ospita circa 300 internati, a fronte di una capienza di circa 150 posti. Gli agenti in servizio sono circa 80, mentre ne sono previsti 120” denuncia Durante. All’interno dell’ospedale, ricorda il segretario del Sappe, è in atto il progetto sperimentale che prevede la gestione totale del personale medico e paramedico, mentre la Polizia penitenziaria si dovrebbe occupare solo della sicurezza. Così non è: “Cinque reparti sono totalmente affidati al personale medico e paramedico, mentre uno è ancora gestito dalla Polizia penitenziaria”, trovandosi spesso di fronte a soggetti difficili, con problemi motori e non autosufficienti. Il carcere di Reggio Emilia è al terzo posto in Italia per quel che riguarda la frequenza dei suicidi, ma è al primo per il tasso di sovraffollamento. È quanto è emerso da una recente ricerca dell’Osservatorio permanente sulle morti in carcere. L’Osservatorio ha anche stabilito che esiste una relazione fra sovraffollamento delle carceri e frequenza dei suicidi. Se questo fosse vero, il dato reggiano non è certo di buon auspicio. Il nostro carcere di via Settembrini (2 suicidi su 314 detenuti) è al terzo posto nella frequenza di suicidi, ma anche al primo posto per tasso di sovraffollamento, che raggiunge il 188%. Più in generale l’Osservatorio fa notare che a livello nazionale i suicidi in carcere fanno registrare un calo rispetto al 2009 (63 casi contro 72), ma rimangono superiori alla media del decennio (57 casi l’anno). Sono i giovani a togliersi la vita con maggiore frequenza: 17 dei detenuti suicidi avevano meno di 30 anni, 21 tra i 30 e i 40 anni, 15 tra i 40 e i 50 anni, 7 tra i 50 e i 60 anni e 2 oltre i 60 anni. Gli stranieri suicidi sono 15 (24%), mentre i detenuti stranieri sono il 36% della popolazione detenuta. Riguardo al metodo utilizzato per i suicidi, l’impiccagione è al primo posto (53 casi), mentre 7 detenuti si sono uccisi asfissiandosi con il gas, 2 avvelenandosi con i farmaci, 1 tagliandosi le vene. Aversa (Ce): interrogazione di Rita Bernardini sulle condizioni dell’Opg www.camera.it, 16 febbraio 2011 Al Ministro della giustizia, al Ministro della salute. Per sapere - premesso che: la struttura Ospedale psichiatrico giudiziario “Filippo Saporito”, sito in via San Francesco, Aversa (Caserta), dislocato in aria urbana sotto la sorveglianza del tribunale di Napoli (ufficio di sorveglianza: Santa Maria Capua Vetere), costruita nel 1881, si articola attraverso vari corpi separati ed uniti da corridoi o cortili ed ha una capienza regolamentare di 150 posti anche se ospita attualmente circa 300 pazienti (tutti di sesso maschile); la struttura risulta in un avanzato stato di abbandono, soprattutto l’area riservata ad attività ricreative all’aperto, le condizioni igieniche sono precarie, con pazienti abbandonati a loro stessi; le stanze ospitano anche più di 6 (sei) pazienti contemporaneamente, con il rischio di creare reazioni violente fra pazienti e personale della struttura; in queste condizioni frequenti sono gli incidenti avvenuti ai pazienti; lo scorso mese di agosto, ad esempio, un paziente ha aggredito un altro paziente, il quale ha subito un trauma cranico con una sutura di svariati punti; il 4 gennaio 2011 all’interno della predetta struttura un paziente si è suicidato impiccandosi nella sua cella (vedi interrogazione a risposta scritta 4 - 10288, presentata dall’interrogante e dai suoi colleghi della delegazione radicale nel gruppo parlamentare del PD e pubblicata lunedì 10 gennaio 2011, seduta n. 414); in relazione al citato suicidio sono state iscritte nel registro degli indagati 14 persone per omicidio colposo, tra i quali il personale in servizio in reparto, medici, psichiatri e i dirigenti della struttura, in particolare Adolfo Ferraro, direttore sanitario, e Carlotta Giaquinto, direttrice penitenziaria; lo scorso mese di novembre i carabinieri dei Nas della commissione d’inchiesta del Senato sul servizio sanitario nazionale hanno sequestrato la farmacia dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa per le “gravi irregolarità riscontrate”. Il predetto sequestro è avvenuto nell’ambito dell’inchiesta sulla salute mentale. L’iniziativa di polizia giudiziaria è stata presa per l’individuazione e il rischio del protrarsi di alcuni reati, segnatamente l’esercizio abusivo della professione medica e la detenzione e l’erogazione illegali di stupefacenti; nell’ambito dell’inchiesta condotta dalla procura di Santa Maria Capua Vetere, sono stati notificati avvisi di garanzia all’ex commissario straordinario dell’ASL di Caserta Ferdinando Romano e alla direttrice del dipartimento di salute mentale ex Asl Caserta 2 Tiziana Celani, per omissione d’atti d’ufficio, nonché alla direttrice penitenziaria Carlotta Giaquinto e al direttore sanitario Adolfo Ferraro per omissione d’atti d’ufficio e maltrattamenti e per truffa per assenza sul posto di lavoro: se, con riferimento al suicidio avvenuto il 5 gennaio 2011, sia stata avviata o si intenda avviare un’indagine amministrativa interna al fine di verificare l’esistenza di eventuali responsabilità del personale in servizio presso la struttura psichiatrica giudiziaria di Aversa; se si intenda avviare un’indagine amministrativa interna al fine di valutare eventuali profili di responsabilità disciplinare in capo ai soggetti coinvolti nell’inchiesta condotta dalla procura di Santa Maria Capua Vetere; quali misure amministrative i rispettivi Ministri intendano assumere, per quanto di loro competenza, in tempi immediati, per affrontare le condizioni di insostenibile degrado, di repressiva segregazione, anche laddove immotivata da diagnosi psichiatrica, di abbandono civile ed etico, cui sono sottoposti gli internati nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa. Saliceta (Mo): Sel-Verdi chiedono la riforma della normativa sulle Case di lavoro Ansa, 16 febbraio 2011 La Casa di lavoro di Saliceta è un luogo che non dovrebbe esistere e gli internati vivono ogni giorno un paradosso: hanno finito di scontare la pena, sono reclusi in una “casa di lavoro” finché non troveranno un vero lavoro e un luogo dove vivere, ma intanto hanno limitatissime possibilità di lavorare. Così i consiglieri regionali Sel-Verdi, Gian Guido Naldi e Gabriella Meo, in una nota diffusa dopo aver visitato sia Saliceta che il carcere S. Anna a Modena. La casa lavoro alle porte di Modena (una delle quattro in Italia con Castelfranco Emilia, sempre nel Modenese, Sulmona in Abruzzo e Favignana in Sicilia) è sovraffollata di internati, persone che già hanno scontato condanne ma sono ancora considerate pericolose e quindi rinchiuse, per periodi che possono essere reiterati a tempo indeterminato. “Abbiamo apprezzato il lavoro della direttrice - aggiungono i consiglieri - ma la casa di lavoro è una struttura ormai obsoleta (risale a una legge di 80 anni fa) e va sicuramente riformata”. Il Sant’Anna è poi abbastanza fatiscente, aggiungono: contiene tre o quattro detenuti in una cella pensata per una sola persona anche se è cominciata la costruzione di una nuova ala dell’edificio, che però rischia di restare chiusa per mancanza di personale. Ci sono evidenti difficoltà di rapporti tra detenuti e guardie carcerarie e gli educatori sono in numero insufficiente. Naldi e la Meo hanno anche incontrato il volontariato delle tre strutture di Modena, Castelfranco e Saliceta che denuncia la poca possibilità di attività: per circa 20 ore al giorno - osservano i due consiglieri - i detenuti del S. Anna sono chiusi in cella. Nell’ottobre 2010 i due consiglieri hanno avviato visite nei luoghi di detenzione dell’Emilia - Romagna e sono quasi alla fine del percorso, dopo essere stati all’Ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia e a Rimini, Ravenna, Piacenza, Parma e Bologna. Al termine, intendono elaborare proposte mirate per ogni istituto e anche per possibili miglioramenti applicabili alle diverse strutture. Lecce: detenuto 51enne morì in carcere nel 2007, disposta perizia per accertare le cause Ansa, 16 febbraio 2011 Vincenzo Fazio, catanese di 51 anni, morì in cella il giorno dopo aver assunto un antipiretico. Due consulenti nominati dal giudice faranno chiarezza sull'accaduto. Saranno due consulenti nominati dal giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Lecce, Alcide Maritati, a far luce, attraverso un'articolata perizia, sulla morte di Vincenzo Fazio, il 51enne di origini siciliane deceduto nel carcere di Borgo San Nicola il 17 dicembre del 2007. Il giudice ha nominato come consulenti i professori Vittorio Fineschi e Matteo Di Biase dell'Università di Foggia, il primo specializzato in Medicina legale e il secondo in Cardiologia. Il giorno della morte Vincenzo Fazio, trasferito tre giorni prima a Lecce dal carcere di Catania, su provvedimento del Tribunale di sorveglianza, accusò forti dolori al petto. Fu quindi visitato nell'infermeria del carcere leccese, dove gli fu prescritto un comune antipiretico. Terminata la breve visita il detenuto fu rispedito in cella, dove, la mattina dopo, fu trovato privo di vita. L'autopsia, disposta dal sostituto procuratore della Repubblica, Maria Cristina Rizzo (oggi procuratore minorile), evidenziò un arresto cardiocircolatorio, oltre a una serie di patologie di cui il detenuto era già affetto. Nella successiva consulenza medica richiesta dal pubblico ministero, il consulente stabilì che la morte dell'uomo sarebbe sopraggiunta comunque in maniera repentina, anche se al termine della visita in infermeria fosse stato disposto il ricovero in ospedale. Per due volte l'accusa ha chiesto l'archiviazione del procedimento, in cui risultano iscritti come indagati due medici in servizio presso il carcere di Lecce. L'istanza è stata respinta in entrambi casi, ad aprile 2008 e gennaio 2010, dal gip. Alla richiesta di archiviazione si sono sempre opposti anche i parenti del detenuto, assistiti dall'avvocato Tania Rizzo, che chiedono sia fatta giustizia sulla morte del 51enne catanese. E' stato proprio il gip Maritati a respingere, a gennaio scorso, l'ultima richiesta di archiviazione, chiedendo che fosse ricostruita rigorosamente la storia medica dell'uomo e le sue condizioni di salute all'arrivo nel carcere di Lecce, e di conoscere i nomi degli infermieri e del personale medico che lo visitarono. Da qui la necessità di affidare ai due consulenti l'analisi delle cartelle cliniche, dell'esame autoptico e di tutti gli altri accertamenti medici sostenuti da Fazio prima della morte. Livorno: la madre di Marcello Lonzi non si arrende, il suo ricorso arriva in Cassazione Ansa, 16 febbraio 2011 Finisce davanti alla Corte di Cassazione il caso di Marcello Lonzi, il detenuto morto nel carcere livornese delle Sughere l’11 luglio 2003. La madre del ventinovenne livornese, Maria Ciuffi, aveva annunciato che si sarebbe rivolta ai giudici romani già subito dopo la sentenza di archiviazione pronunciata a maggio dal gip di Livorno Rinaldo Merani che accolse la richiesta della Procura. Sulle circostanze del decesso di Lonzi (che si trovava recluso per tentato furto e con un residuo di 4 mesi di pena da scontare) era stata condotta una inchiesta terminata con la richiesta d’archiviazione delle posizioni di tre indagati (due guardie carcerarie e il compagno di cella). Secondo i magistrati livornesi Lonzi morì a causa di un malore. Già nel 2004 una prima inchiesta era terminata con un’archiviazione. “Ci sarà un giudice in tutta Italia che mi ascolterà? - dice Maria Ciuffi, che da 8 anni si batte per la verità sulla morte del figlio - Se neanche la Cassazione lo farà, sono pronta ad andare fino a Strasburgo, alla Corte dei diritti dell’uomo. Se ci va Berlusconi, posso andarci anch’io, no?”. “Nonostante tutto - conclude Ciuffi - non ho perso la speranza”. Enna: “FiloDritto”, una coop al femminile per manufatti tessili dal carcere Ansa, 16 febbraio 2011 È nata “FiloDritto”, in Sicilia la prima cooperativa sociale tessile al femminile cui partecipa una detenuta. Produrrà, in un laboratorio all”interno della Casa Circondariale di Enna, manufatti tessili. Alla presenza del notaio, Graziella Fiorenza, le socie hanno firmato l’atto costitutivo. La cooperativa sociale è costituita da donne. A partire dalla neo presidente Ninni Fussone, sociologa con la passione per i tessuti che dal 2007 entra al carcere di Enna come volontaria per insegnare l’antica tecnica del feltro alla detenute. E poi c’è Agata Blanca, la vice presidente, ex direttore del carcere ennese, Loredana Sammartino, detenuta, Marica Cacciato ed Elisabetta Gervasi, animaliste, Antonia Teatino, architetto e Pierelisa Rizzo, giornalista, assistente volontario del carcere di Enna. Ognuno di loro dà il proprio apporto a sostegno di un progetto creato, principalmente da Loredana, una lunga carcerazione alle spalle, madre di 5 figli. La cooperativa produce prevalentemente manufatti in feltro. La lana, cardata, lavorata con acqua calda e sapone di Marsiglia, rollata a mano o con bastoni di legno, dà vita ad una produzione di pregio che ora, grazie alla cooperativa, potrà essere commercializzata. Come le coppole e le coperte, punti di forza della produzione insieme ad arazzi, testate di letto, cuscini, tessuti per arredo e plaid. Potenza: Belisario (Idv) interviene a sostegno della protesta agenti penitenziari Ansa, 16 febbraio 2011 “Oggi e domani l’Italia dei Valori manifesterà al fianco degli agenti penitenziari di Potenza, ormai esasperati da una situazione lavorativa degradante. Esprimiamo il nostro pieno sostegno alle ragioni delle protesta, ho già interpellato formalmente il Ministro Alfano chiedendo di aumentare gli stanziamenti e finanziare l’edilizia carceraria, per il rispetto che si deve al lavoro dei poliziotti, per ripristinare le adeguate misure di sicurezza e migliorare la qualità della vita dei detenuti”. Lo afferma Felice Belisario, Capogruppo dell’Idv al Senato, in riferimento ai sit-in di protesta organizzati da sindacati e agenti di polizia penitenziaria nel capoluogo lucano. “Le pesanti carenze di personale - prosegue - impongono agli agenti turni insostenibili e il pessimo stato delle strutture li costringe ad operare in condizioni rischiose. È necessario intervenire con urgenza per aumentare il personale e finanziare improrogabili interventi di messa a norma degli ambienti. Il Governo - conclude Belisario - ha il dovere di intervenire per tutelare la professionalità dei poliziotti e risolvere le gravissime problematiche del carcere di Potenza”. Firenze: soppressa fermata dell’autobus al carcere, difficoltà per dipendenti e parenti dei detenuti Corriere di Firenze, 16 febbraio 2011 Una fermata in meno di qua, una fermata soppressa di là. I tagli alle linee di Ataf in città hanno fatto molti scontenti, e fra loro i parenti dei (tanti) detenuti del carcere di Sollicciano, che non arriveranno più in autobus all’istituto penitenziario. Il piano di ristrutturazione partite lo scorso 5 febbraio infatti riguarda anche la linea 27, che raggiungeva il carcere di Sollicciano. Le parole di denuncia arrivano dal garante dei detenuti Franco Corleone e il consigliere del gruppo Misto Stefano Di Puccio le ha fatte proprie aggiungendo una sollecitazione per “il presidente dell’Ataf Filippo Bonaccorsi a rivedere questo piano penalizzante per le famiglie dei detenuti che si recano al carcere per i colloqui. La soppressione della fermata per Sollicciano - aggiunge Di Puccio - è assolutamente inaccettabile”. Secondo quanto scrive il garante Corleone “il taglio colpisce anche gli operatori che lavorano in carcere, soprattutto la Polizia Penitenziaria. Il mondo di Sollicciano comprende mille detenuti e un numero equivalente tra personale e volontari. Mi auguro - commenta Corleone - che la Provincia di Firenze e il Comune di Scandicci intervengano per ripensare una scelta che danneggia persone già svantaggiate e soprattutto che dà un segnale di abbandono e trascuratezza verso il carcere”. Venezia: la Regione accorda al Comune un mini rinvio sull’area alternativa per il nuovo carcere La Nuova Venezia, 16 febbraio 2011 Nuovo carcere, più tempo al Comune per proporre un’area alternativa al sito di Campalto. Il vicepresidente del consiglio regionale Marino Zorzato, nei giorni scorsi ha risposto al sindaco di Venezia, Giorgio Orsoni, che aveva inviato a palazzo Balbi e al capo dipartimento del ministero della Giustizia Franco Ionta (commissario per le carceri), l’ordine del giorno del consiglio comunale di gennaio. Nel documento votato da Cà Farsetti, i consiglieri chiedevano più tempo per valutare un sito diverso da quello del Quartiere di gronda lagunare, ma anche maggiori informazioni in merito al tipo di struttura e lumi sull’utilizzo futuro della Casa circondariale di Santa Maria Maggiore. “Per quanto di competenza della Regione - scrive il vicepresidente Zorzato - nulla osta a differire per un breve periodo i termini dell’esecuzione dell’intesa, purché la proroga non superi le tre settimane e non vada ad inficiare le tempistiche del Ministero, al quale rivolgeremo una richiesta in tal senso”. Il Comune insomma, non ha molto tempo per trovare un nuovo sito, si tratta di pochi giorni. Il vicepresidente della Regione, nella lettera, ribadisce anche di rimanere in attesa di una nuova proposta del consiglio comunale, sottolineando che l’indicazione dell’area “è di competenza dell’amministrazione comunale di Venezia”. Per quel che riguarda invece gli standard richiesti, vale a dire la tipologia del sito, le caratteristiche (i metri quadri, la grandezza e soprattutto la proprietà, privata o demaniale), il Comune si deve rivolgere direttamente al Ministero, così come per quanto è invece inerente all’utilizzo futuro della Casa circondariale. La Regione insomma, è in attesa di una scelta da parte del Comune, che deve decidere se l’area di Campalto, alla luce della ricerca effettuata su altre aree simili (forti, ex caserme etc) è adeguata, o se deve battersi per un altro sito. Casson (Pd) ridicolo far fronte all’emergenza con 300 posti Dopo l’interrogazione al ministro della Giustizia Angelino Alfano sulla localizzazione del nuovo carcere a Campalto, il senatore del Pd Felice Casson ha presentato ieri un’altra interrogazione urgente, questa volta al ministro degli Interni Roberto Maroni sul Centro di identificazione ed espulsione che dovrebbe sorgere sempre a Campalto. Dopo aver ricordato che la scelta di inserire il nuovo carcere a Campalto escludendo dalle consultazioni e dalla decisione la comunità locale, compromettendo tra l’altro le scelte urbanistiche del piano integrato per l’area della Regione, “ora - si legge nell’interrogazione del parlamentare veneziano - ad aggravare notevolmente la situazione si viene a sapere che il ministro degli Interni vorrebbe affiancare alla struttura carceraria un nuovo Cie, senza alcuna consultazione con i cittadini, con le forze politiche e con le amministrazioni locali”. Casson ricorda che anche le forze politiche di centro - destra “si rendono conto del rischio di creare una enclave molto particolare, di degrado, che distruggerà il territorio e le migliori intenzioni della comunità locale”. Inoltre, il senatore Pd, sottolinea che l’idea di creare un nuovo Centro per i clandestini si scontra “con quelle che appaiono essere attualmente le normative europee, quelle che prevedono l’arresto solo come ultima ed estrema soluzione, visto che l’Italia ha l’obbligo di adeguarsi e i magistrati - come del resto già fanno - di ottemperare a quelle direttive”. “Già i Centri sono peggiori delle carceri - spiega Casson - comunque è ridicolo credere di poter far fronte all’emergenza di questi giorni costruendone un altro da 300 posti, la situazione attuale di immigrazione di massa non può essere affrontata con carceri e Centri di espulsione, ma in un’ottica e con la collaborazione internazionale, soprattutto europea”. Infine, l’ultima stoccata al ministro Maroni: “Lui continua a incontrare i prefetti, ma dovrebbe ascoltare i rappresentanti dei Sindacati di Polizia, che conoscono la situazione e il territorio meglio di qualsiasi prefetto”. Murer (Pd): scelta governo su carcere e Cie è sbagliata “Quella di Maroni sul nuovo Cie di Campalto è una decisione sbagliata nel merito e inaccettabile nel metodo”. Lo dichiara Delia Murer, deputata veneziana del Pd, a proposito dell’annuncio del Ministro Maroni sull’apertura di un Centro di identificazione ed espulsione alla periferia di Mestre. L’on. Murer, a questo proposito, ha presentato una interrogazione al Ministro. Con l’atto ispettivo, la deputata ha chiesto conto al Governo sia della decisione, molto contestata, di aprire a Campalto un nuovo carcere sia dell’annuncio dell’apertura, in un’area contigua, di un Cie. “Una decisione di tale portata - dice l’on. Murer - non può essere presa senza aver mai avviato alcuna consultazione con i cittadini, con le forze politiche e con le amministrazioni territoriali locali. Il metodo è inaccettabile. Ma anche il merito delle scelte lascia tante perplessità, sia per il luogo scelto sia per la natura dei Cie, che sono una risposta sbagliata”. Cagliari: detenuto abbandonato da tutti, disperato ingoia 7 pile e altri vari oggetti di metallo Agi, 16 febbraio 2011 È stato salvato dagli agenti di polizia penitenziaria e dai medici un detenuto marocchino di 38 anni del carcere di Buoncammino Cagliari, che, per disperazione, ha ingoiato sette pile e oggetti di metallo, mentre era rinchiuso nel centro diagnostico terapeutico. A riferire l’episodio, avvenuto un mese fa, è Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme” che ha incontrato il detenuto, sottolineando “la condizione di particolare solitudine in cui vive la maggior parte dei cittadini stranieri extracomunitari dentro le strutture detentive”. “La disperazione espressa drammaticamente dal detenuto marocchino - sottolinea Caligaris - nasce da una somma di incongruenze di un sistema penitenziario che non solo non rieduca ma allontanando le persone dalle poche relazioni umane e sociali costruite arrivando in Italia, ne annulla ogni possibilità di reinserimento sociale. La territorialità della pena è un principio che deve essere rispettato anche per gli extracomunitari radicati in aree territoriali della Nazione. Nel caso specifico il detenuto, arrestato a Milano, pur in possesso del permesso di soggiorno, non ha una casa né un amico o un parente che possa ospitarlo. A. K. non ha potuto mantenere i rapporti con i conterranei che vivono nel Milanese anche perché privo di mezzi economici”. “Gli è in pratica preclusa la possibilità di lavorare - spiega la presidente di SdR - perché ha necessità da un anno di un intervento chirurgico a un ginocchio ma la sua richiesta giace in una cartella di ospedale in attesa che si liberi qualche posto per un ricovero. L’uso delle stampelle condiziona fortemente la sua possibilità di movimento, costringendolo a non uscire mai dalla cella, senza contare le fistole che lo torturano costantemente. In queste condizioni e senza alcuna prospettiva la depressione diviene uno stato cronico e la tendenza ad atti autolesionistici una prassi al punto che non c’è parte del suo corpo senza segni evidenti di lacerazioni”. “Il caso del giovane marocchino - conclude Caligaris - è anche emblematico del fallimento del decreto “svuota carceri”. Pur dovendo scontare una pena residua di 10 mesi e quindi poter avere accesso ai domiciliari, l’uomo non può fruirne perché, al pari di alcune centinaia di reclusi sardi, italiani e stranieri, non ha una casa, non ha un reddito, non è in grado di bastare a se stesso”. Sulmona: negati permessi per incontrare familiari, detenuto ingerisce farmaci per protesta Il Centro, 16 febbraio 2011 Ha ingerito un sostanzioso quantitativo di psicofarmaci per denunciare le difficoltà che ha nel comunicare con i suoi familiari. A evitargli forti malori il tempestivo intervento degli agenti di polizia penitenziaria che lo hanno soccorso e trasportato in ospedale per le cure del caso. Protagonista di questo nuovo episodio autolesionistico nel carcere di Sulmona, un detenuto siciliano di 40 anni, collaboratore di giustizia. L’uomo è stato tenuto sotto osservazione per alcune ore nella cella dell’ospedale riservata ai detenuti, poi quando gli esami clinici sono rientrati nella norma è stato riportato in carcere. Tra l’altro i medici hanno deciso di non sottoporlo a lavanda gastrica, proprio perché la situazione è stata sempre sotto controllo. Secondo quanto si è appreso, il collaboratore di giustizia siciliano ha messo in scena la protesta dopo che gli sarebbero stati negati alcuni permessi per tornare a casa e per poter incontrare i suoi familiari. Da diverso tempo, l’uomo non ha contatti con la moglie detenuta anche lei in un altro carcere della Penisola, e ha chiesto al giudice di sorveglianza del tribunale dell’Aquila, di poter tornare a casa in Sicilia per alcuni giorni, per poter incontrare i suoi familiari e avere notizie anche della moglie. Evidentemente il giudice ha ritenuto non opportuno e pericoloso concedergli una licenza premio e ha risposto negativamente. Da qui è partita la protesta del detenuto. Firenze: “Parole di libertà”, la voce degli scrittori in carcere Na Nazione, 16 febbraio 2011 Lunedì 21 febbraio, alle 16.30, nella Sala Pistelli di Palazzo Medici Riccardi (via Cavour 1), la presentazione di “Parole di libertà”. Interviene Sebastiano Grasso, Presidente del Pen Club. Dietro le sbarre, nelle carceri nel mondo senza libertà, spesso vi sono scrittori. La voce di alcuni di loro, magari noti nei loro Paesi, non sempre ci raggiunge. ‘Parole di libertà’, edizioni Se, è un’antologia voluta dal Pen Club Italia, che queste voci le raccoglie e le fa sentire, in alcuni casi per la prima volta, o direttamente o attraverso loro colleghi più conosciuti. Il volume verrà presentato lunedì 21 febbraio, alle ore 16.30, nella Sala Pistelli di Palazzo Medici Riccardi, a Firenze in via Cavour 1, da Sebastiano Grasso, presidente del Pen Club, Paolo Ciampi, Presidente dell’Associazione Stampa Toscana, da Michele Brancale e da Paola Lucarini che guida l’associazione ‘Sguardo e sognò, all’origine dell’incontro nella sede della Provincia di Firenze. “La vita in prigionia è una lotta incessante contro la distruzione dell’anima - scrive l’intellettuale iraniano Ramin Jahanbegloo - C’è una strana interdipendenza fra la mancanza d’anima e il male. C’è metodo nella malvagità del male; cresce per gradi di distruzione dell’anima dell’altro. Lo scherzo maggiore che il male dell’isolamento possa fare a un prigioniero è convincerlo che il male non esista. Il male al massimo livello è quando diventa rispettabile e gestisce il rapporto fra le cose. Il male è l’autore della confusione”. Tre le sezioni del libro, prefatto da Umberto Eco: “Scrittura e potere” (con interventi di José Saramago, Adonis, Azar Nafisi, Ismail Kadare, Abdellatif Laabi); “Persecuzione e prigionia” (Julia Dobrovolskaja, Nguyen Chi Tien, Ramin Johanbegloo, Jack Mapanje, Grigorij Pas’ko, Visar Zhiti, Zhou Qing, Angel Cuadra e Lydia Cacho); “Esili e asili” (Hamid Skik, Easterine Kire Iralu, Younis Tawfik e Carlos A. Aguilera). Parma: o la borsa di studio o la vita… una laurea per “cambiar rotta” Gazzetta di Parma, 16 febbraio 2011 Il piano migliore per non finir più oltre i cancelli di via Burla? È tutto da studiare. No, niente a che vedere con il delitto perfetto, con l’alibi inossidabile, con la fuga programmata al secondo. Si tratta davvero di studiare, studiare e studiare, con un obiettivo preciso: fino alla laurea, per provare a costruirsi un futuro migliore. Anche se i tempi sono quelli che sono un pò per tutti, e il lavoro non abbonda, il cosiddetto “pezzo di carta” sembra la lima migliore per segare quelle sbarre che rischiano di ricomparire a rate, per l’intera esistenza. A dimostrarlo sono i dati del Ministero di grazia e giustizia: nelle carceri in cui si tengono corsi di recupero attraverso il lavoro o lo studio, la recidiva a delinquere, una volta usciti, è solo del 19 per cento, contro il 68 di chi ne è stato escluso. Ma la mente e l’impegno dei detenuti non basta. Servono soldi (che in genere chi sta dentro non ha): serve l’aiuto del mondo di fuori, per studiare. Servono “complici”, per rifarsi una vita. Cinque, finora, si sono fatti avanti: la Caritas, la Fondazione Mario Tommasini, il Comune, la Provincia e l’Opera Pia Santissima Trinità. Ognuno finanzierà una borsa di studio da duemila euro all’anno, sufficiente a pagare le tasse e i testi necessari per preparare gli esami. “E la nostra speranza - dicono i rappresentanti della Consulta del carcere di via Burla - è che altri si aggiungano, per permettere a un numero sempre maggiore di detenuti di iscriversi ai corsi del nostro ateneo”. A questo proposito, l’iniziativa gode dell’avvallo dell’Università, che ha predisposto un protocollo ad hoc a disposizione di enti o associazioni interessati. “Non si tratta solo di un gesto di alto valore umanitario - proseguono i volontari della Consulta - ma di un importante contributo a quella fondamentale azione di recupero che deve stare alla base del sistema carcerario. Questo, tra l’altro, nell’interesse della stessa collettività”. Anche se non sempre c’è in ballo una nuova prospettiva professionale, perché non sempre è prevista la fine della pena. A volte, si tratta di un “riscatto interno”: non per questo meno importante. Undici, prima della creazione di queste borse di studio, erano gli universitari di via Burla. Sei di loro, ergastolani, sono soggetti al regime del 41 bis, di massima sicurezza. Tra loro, due studenti d’Economia, mentre gli altri quattro si dividono tra Scienze giuridiche, Giurisprudenza, Scienze politiche e Psicologia. Cinque, invece, sono quelli che - con scadenze diverse - verranno scarcerati: due sono iscritti a Scienze politiche, gli altri a Ingegneria informatica, Economia politica, Scienze gastronomiche e a Scienze politiche. Studenti particolari, che possono godere della facilitazione della riduzione delle tasse (concessa a chi ha un reddito basso). Per affrontare gli esami, non sono loro ad andare in Università, ma sono i docenti a varcare la soglia del carcere. “Ora il loro numero crescerà - sorridono i volontari - . Aumenterà la schiera di chi cerca di mettere a frutto il tempo trascorso all’interno del carcere nel modo migliore”. Perché non sia solo una pena, ma anche un’occasione di “studiare” una vita diversa. Trieste: “Vite sospese”, venerdì incontro sul carcere presso il Centro Veritas Comunicato stampa, 16 febbraio 2011 “Vite sospese”, venerdì 18 febbraio 2011 alle ore 18.30 presso il Centro Veritas, con Enrico Sbriglia (funzionario dell’Amministrazione Penitenziaria con esperienza quasi trentennale e direttore della Casa Circondariale di Trieste dal 1990). L’incontro sarà moderato dall’avv. Alessandro Deboni, civilista di Gorizia. Per chi creda nel lavoro penitenziario, esserci nel sistema è immedesimarsi anche in tutti gli avvenimenti che lo riguardano, addirittura confondendosi con il grigiore degli ambienti che, quando riusciamo a portare avanti i mille progetti di reinserimento che pure pullulano nelle carceri italiane, ai nostri occhi perdono la loro disumanità e bruttezza, e non sono più fatte di sole grate e cancelli, di mura scrostate o dipinte con i colori di fortuna, di stanze sovraffollate dalle temperature tropicali d’estate e rigide d’inverno, ma luoghi di incontro, di scommessa, di speranza, di visi e di occhi che si intrecciano e che cercano, insieme, il recupero della dignità nella responsabilità”. In un accorato intervento sulla Rivista “Social News” significativamente intitolato “Il carcere che vorremmo” il dott. Enrico Sbriglia si espresse in questi termini, a seguito di fatti drammatici accaduti alla fine del 2009 che riportarono all’attenzione dei mass media il cosiddetto “pianeta delle carceri” e che condussero nuovamente a definire “sospetta” la morte di un giovane nel carcere di Regina Coeli a Roma. Il tema, sul quale il relatore potrà di certo offrire la sua specifica competenza ma anche raccontare situazioni occorse nella sua lunga esperienza sul campo, è quello che agli organizzatori degli incontri è piaciuto definire come delle “vite sospese”, ritenendo che la “parentesi” della detenzione possa definirsi appunto - in prima approssimazione - come una sorta di “sospensione” nel corso dell’esistenza della persona che vive in quella particolarissima condizione. Sarà tuttavia dall’intervento del dott. Sbriglia, che senza dubbio toccherà anche le tematiche del senso e dell’efficacia della pena nella nostra società, e dal dibattito che ne seguirà che potrà venire uno scrutinio migliore e più concreto dell’esattezza della stessa definizione del titolo scelto per l’incontro. Centro Veritas Telefono: 040-569205 Fax: 040-5705639. mail: centroveritas@gesuiti.it Sede: Via Monte Cengio 2/1a - Trieste Immigrazione: il Cie in provincia di Venezia, una proposta fuori tempo massimo di Silvano Filippi (Segretario generale del Siulp) Il Gazzettino, 16 febbraio 2011 Il 14 aprile dello scorso anno, nella seduta del Comitato Parlamentare sull’immigrazione il Ministro Maroni aveva dichiarato che grazie alle politiche del Governo gli sbarchi di immigrati clandestini erano divenuti men che fisiologici. In quella medesima seduta l’onorevole Strizzolo aveva però osservato che “nel visitare diversi Cie ci siamo resi conto che, accanto a persone con un retroterra non corretto, ci sono persone che ... stavano svolgendo un lavoro regolare in Italia ma, non avendo avuto la possibilità di rinnovare il permesso scaduto, sono state rinchiuse in questi centri”. Cioè badanti e operai licenziati per effetto della crisi. Per quale ragione, dunque, proprio nel momento in cui il fenomeno sarebbe, come dichiara Maroni, in fase recessiva, si insiste per realizzare un Cie nel Veneto? E poi, ancora, perché, invece di costruire nuovi Cie, se davvero di volesse operare per limitare l’incidenza della criminalità, non si individuano criteri per la “selezione” dei soggetti da internare? Che senso ha parlare con enfasi di esigenza di contrastare l’immigrazione clandestina nel momento in cui si immagina di rinchiudere nei nuovi Cie anche un considerevole numero di badanti e di operai che sono “colpevoli” di aver perduto il lavoro? Insomma, l’ipotesi che dietro al nuovo Cie ci sia null’altro che demagogia allarmista è un sospetto più che fondato. Un sospetto confermato se ci si sofferma a ragionare sul rapporto costi benefici che in concreto si possono pensare di ottenere. Tanto per cominciare le quotidiane insurrezioni e rivolte che scoppiano nei vari Cie in giro per la penisola dimostrano l’infondatezza delia tesi che l’istituzione di un nuovo Centro porti ad un aumento del livello di sicurezza. In secondo luogo, non essendo previste nuove assunzioni di Poliziotti, per la vigilanza al Cie non si potrebbe far altro che andare a “pescare” tra le risorse umane dei già asfittici organici delle Questure del Veneto. Organici che allo stato sono inferiori a quelli previsti nel lontano 1989. Che nel frattempo in questa regione qualcosa sia successo non mi pare debba essere spiegato. In terzo luogo è quantomeno sospetto il rigoroso silenzio serbato sull’effettivo numero di immigrati internati in un Cie che vengono poi concretamente rimpatriati. In ogni caso, se si immagina che in un anno il Cie che dovrebbe sorgere a Venezia riesca - sia ben chiaro: - ottimisticamente a “produrre” 300 allontanamenti effettivi, combinando i costi per gli stipendi del personale, le spese vive correnti per vitto e mantenimento dei trattenuti e le spese di gestione della struttura, si può stimare che per ciascuna espulsione si avrebbe un costo pari a circa 50 mila euro. Va peraltro osservato che, come già accaduto per il naufragio degli analoghi progetti immaginati per Verona e Rovigo, ancora una volta sono proprio gli stessi alleati della Lega a nutrire le maggiori perplessità - e ad esercitare la più consistente resistenza - rispetto alla realizzazione di un Cie a Venezia. E quindi è probabile - ed auspicabile - che anche il Cie di Campalto sia destinato a subire la medesima sorte. San Marino: sei celle e un unico detenuto, ecco il carcere della solitudine di Stefania Parmeggiani La Repubblica, 16 febbraio 2011 Dimenticatevi l’Italia con i suoi uomini ammassati in pochi metri quadrati, i materassi a terra, le crisi d’ansia e le processioni infinite in infermeria. A pochi chilometri da Rimini esiste un penitenziario dove il pranzo si ordina al ristorante e dove, per la maggior parte dell’anno, vive un solo detenuto. Adesso è l’ora di un trentenne che deve scontare un anno per maltrattamenti e violenze in famiglia. Dimenticatevi i materassi a terra, gli asciugamani alle inferriate per soffocare l’alito rovente del caldo o i maglioni indossati come coperte, uno sopra l’altro, per sfuggire al freddo. Dimenticatevi le crisi d’ansia e i ricoveri, le processioni infinite in infermeria e gli atti di autolesionismo. Dimenticatevi le carceri italiane con il loro carico di sofferenza e disonore. Esiste un penitenziario, a pochi chilometri da Rimini, dove il pranzo si ordina al ristorante e dove il nemico peggiore è la solitudine. È il carcere dei Cappuccini, stato di San Marino, per la maggioranza dell’anno un solo ospite. Attualmente l’unico detenuto della Repubblica è un trentenne incarcerato il 24 gennaio per una brutta storia di maltrattamenti e violenze in famiglia. Deve scontare un anno e potrebbe trascorrere i suoi giorni dietro le sbarre senza incontrare anima viva, eccezion fatta per avvocati, visitatori e gendarmi. Fino a oggi lo spazio dell’ex convento è tutto suo: due piani e sei celle alle quali si deve il soprannome con cui è apostrofato con invidia dai carcerati della vicina Italia: Seychelles. È un po’ difficile ammazzare il tempo, ma c’è sempre la biblioteca, una piccola palestra, il cortile, la sala tv, il cucinotto per il te e la sala pranzo in cui ogni giorno gli vengono serviti i pasti, ordinati al vicino ristorante, il popolare “ristoro dei lavoratori”. L’isolamento forzato dell’unico detenuto aveva rischiato di andare in frantumi prima ancora di cominciare: colpa di un italiano arrestato per furto e danneggiamento il 10 gennaio, ma la giustizia è stata più veloce rimettendolo in libertà una settimana dopo, una manciata di giorni prima che la sua condanna diventasse esecutiva. Proprio oggi è atteso un nuovo detenuto, si soffermerà per un breve periodo. Capita di tanto in tanto, ma non dura mai molto. Ad esempio, nel 2010, il Carcere dei Cappuccini ha ospitato sette detenuti, sei uomini e una donna per un totale di 83 giorni di detenzione. In pratica il carcere è rimasto vuoto per la maggioranza dell’anno. Nel 2009 era andata decisamente peggio: 14 detenuti, 13 uomini e una donna, per un totale di 743 giorni. Nel 2008, anno horribilis - si fa per dire - del carcere sanmarinese, erano transitati nelle sei celle 12 uomini e una donna per un totale di 939 giorni dietro le sbarre. Numeri a loro modo impressionanti, soprattutto se confrontati con quelli italiani, dove il sovraffollamento ha le caratteristiche di una emergenza cronica. E giustificati non solo dalle dimensioni dello Stato, trentamila residenti, ma anche dal corpo di leggi e pene che vige “nell’antica patria delle libertà”. Tanto per cominciare a parità di reato si sta in carcere meno anni, l’ergastolo non esiste e anche l’omicidio più efferato fatica a superare i 30 anni di condanna. Poi o si viene colti in flagranza di reato oppure, se il processo viene celebrato in contumacia e il trasgressore è uno straniero, ad esempio italiano, riacciuffarlo diventa impresa ardua. Infine, la carcerazione preventiva è scarsamente applicata nei confronti dei sammarinesi per il semplice fatto che una delle tre condizioni per cui in Italia si finisce dietro le sbarre, qui è rara a verificarsi: il pericolo di fuga. Come si fa a diventare latitanti in uno stato che per attraversarlo ci si impiegano pochi minuti? Abbandonarlo e rinunciare a ogni proprietà, ma il gioco non sempre vale la candela. “E poi abbiamo un sistema di pene alternative alla carcerazione - spiega Stefano Palmucci, funzionario della Segreteria di Stato alla Giustizia - molto più esteso di quello italiano. Esiste un Consiglio di aiuto che studia soluzioni individuali per ogni condannato, si va dal lavoro controllato ai colloqui con gli psicologi”. La situazione è così paradossale che il comitato europeo per le torture faticava a crederlo: “Sono venuti una o due volte e all’inizio non avevano trovato neanche un carcerato. Erano perplessi, non sapevano chi interrogare. Alla fine - ricorda Palmucci - hanno incrociato un detenuto e dopo avere steso il loro verbale ci hanno inseriti all’ultimo posto della classifica sulla crudeltà delle condizioni carcerarie nel mondo”. Egitto: attivisti diritti umani denunciano; centinaia di persone arrestate Asca, 16 febbraio 2011 Sono centinaia le persone che risultano scomparse in Egitto durante le proteste che hanno rovesciato il regime di Hosni Mubarak e secondo i gruppi di attivisti per i diritti umani la gran parte sarebbe stata arrestata dai militari. “Ci sono centinaia di detenuti, ma le informazioni sul loro reale numero non sono complete”, ha detto Gamal Eid, avvocato e leader del gruppo Arabic Network for Human Rights Information, il quale ha sollecitato le forze armate a pubblicare la lista delle persone detenute e le motivazioni che hanno portato al loro arresto. Anche la stampa locale ha iniziato a parlare degli arresti, con il quotidiano indipendente Al-Masry Al-Youm che ha pubblicato una lista di persone che risultano scomparse, la maggior parte delle quali di età compresa fra i 15 e i 48 anni. Libia: scarcerati oggi 110 detenuti islamici, ma continuano gli scontri di piazza con morti e feriti Aki, 16 febbraio 2011 Le autorità libiche disporranno oggi la scarcerazione di 110 detenuti islamici, la cui liberazione era stata preannunciata la scorsa settimana. Lo riferisce la tv satellitare al-Arabiya. Nei giorni scorsi Abu Suhayb al - Libiy, uno dei leader del gruppo radicale combattente Jamaa Islamiya, aveva reso noto che i servizi di sicurezza libici avevano comunicato ai suoi compagni in prigione che sarebbero stati rilasciati tra ieri e oggi, in occasione delle festività per la nascita del Profeta. Secondo il giornale al-Hayat, nelle prigioni libiche sono detenuti circa 345 estremisti islamici, tra cui alcuni membri della Jamaa Islamiya. Nel 2009, tra i leader del gruppo e il colonnello Muammar Gheddafi è stato avviato un dialogo, con cui i combattenti si sono impegnati ad abbandonare la violenza e prendere le distanze dal terrorismo. Gruppi di detenuti sono già stati rilasciati nel corso del 2010. La tempistica di queste nuove scarcerazioni fa pensare a un gesto destinato anche a placare la popolazione, che per il 17 febbraio ha convocato una manifestazione di protesta sulla scia di quelle in Egitto e in Tunisia. Almeno 38 i feriti negli scontri a Bengasi È salito ad almeno 38 feriti il bilancio degli scontri scoppiati la notte scorsa tra manifestanti e forze di sicurezza a Bengasi, seconda città della Libia: lo ha riferito Abdelkarim Gubeaili, direttore dell’ospedale locale Al Jala. In precedenza il quotidiano Quryna aveva parlato di 14 feriti, nessuno dei quali in gravi condizioni. Lo stesso direttore sanitario ha confermato che per tutti si tratta di lesioni lievi. I tumulti hanno fatto seguito alle proteste inscenate dai familiari di un gruppo di detenuti, morti nel 1996 durante una sparatoria nel penitenziario Abu Salim di Tripoli: i congiunti reclamavano il rilascio del loro avvocato. Prove di rivolta contro il regime Si estende anche in Libia l’ondata di rivolte antigovernative che negli ultimi giorni ha investito gran parte del Medio Oriente e del Nord Africa: scontri fra manifestanti infuriati per l’arresto di un attivista dei diritti umani da una parte, polizia e sostenitori del governo dall’altro, sono scoppiate la scorsa notte in Libia, nella città di Bengasi. Dove, secondo quanto riporta il sito web Libia al-Youm, la polizia libica ha cercato di disperdere con la forza un sit-in di familiari di alcuni detenuti uccisi in una sparatoria nel 1996 nel carcere di Abu Slim, a Tripoli, radunatisi per chiedere il rilascio del loro coordinatore, l’avvocato Fethi Tarbel, arrestato per motivi ancora sconosciuti. Tuttavia, fonti locali riferiscono anche che la folla dei familiari sarebbe poi stata raggiunta da nuovi dimostranti, spingendo la polizia ad intervenire nuovamente. La Bbc, citando testimoni, parla invece di un lancio di pietre da parte dei manifestanti antigovernativi nei confronti della polizia libica, che ha risposto con gas lacrimogeni, idranti e proiettili di gomma. Intanto, alcune centinaia di manifestanti a favore del leader libico, Muammar Gheddafi, sono radunate nella centrale Piazza Verde, a Tripoli. Tunisia: evasi 36 detenuti a Gabes, sono ancora circa 10mila gli ex carcerati a piede libero Ansa, 16 febbraio 2011 Trentasei detenuti per reati comuni sono fuggiti ieri dal carcere civile di Gabes, in Tunisia, e 16 sono ancora in fuga: lo ha riferito un ufficiale della polizia di questa cittadina nel sud del paese ancora in preda al caos e all’insicurezza. “Trentasei detenuti sono scappati martedì nel tardo pomeriggio. Le forze dell’ordine ne hanno arrestati 20, 16 sono ancora in fuga. I nostri uomini stanno rastrellando la zona per ritrovarli” ha dichiarato un ufficiale della polizia locale, citato dalla France Presse. L’esercito è stato dispiegato davanti al carcere, che si trova 4 chilometri dalla città. Il 26 gennaio il ministero della Giustizia aveva indicato che oltre 11mila detenuti erano riusciti a scappare dalle prigioni (che ospitavano in tutto 31mila carcerati) durante i giorni della cosiddetta “rivoluzione dei gelsomini”, che ha rovesciato il presidente Ben Alì. Dopo un appello a consegnarsi alle autorità, solo 1.500 detenuti hanno fatto ritorno in carcere, mentre circa 9mila 500 sono ancora in fuga. Ieri il governo tunisino ha prolungato lo stato d’emergenza nel paese, espressione di persistenti timori sull’ordine pubblico nonostante sia stato revocato il coprifuoco. Il governo ha d’altronde deciso di richiamare i riservisti e i coscritti dell’esercito, che oggi si sono presentati ai centri di arruolamento. Stati Uniti: Guantanamo; un capo di al-Qaeda davanti al tribunale militare si dichiara colpevole Apcom, 16 febbraio 2011 L’ultimo detenuto di Guantanamo a essere giudicato secondo il sistema dei tribunali militari attualmente in vigore per i prigionieri accusati di far parte di al Qaeda si è dichiarato colpevole. Noor Uthman Mohammed, sudanese accusato di essere stato capo del campo di addestramento di al Qaeda di Khaldan in Afghanistan, potrebbe essere condannato all’ergastolo, ma anche uscire dal carcere tra quattro anni se la giuria lo condannerà al minimo possibile secondo il patteggiamento che l’imputato ha scelto. L’uomo era stato catturato in Pakistan nel 2002 insieme ad Abu Zubaydah, uno dei principali organizzatori degli attentati dell’11 settembre 2001. Si era trattato del primo arresto di figure di spicco di al Qaeda dopo gli attentati. Mohammed era difeso da una squadra di legali guidati da una ufficiale dell’esercito, di fronte a una giudice capitano della marina, nell’aula - bunker di Guantanamo, dove gli osservatori e la stampa seguivano l’udienza su un circuito chiuso con un ritardo di 40 secondi. Questo per consentire a un agente dei servizi di intelligence di tagliare l’audio nel caso in cui venissero rivelate informazioni ritenute un segreto militare. Nella base militare Usa sulla costa sud di Cuba rimangono detenute 168 persone accusate di terrorismo.