Giustizia: l’inchiesta di “Presa diretta” sulle carceri usate come discariche sociali di Gian Carlo Zanon Articolo 21, 14 febbraio 2011 Chi ieri sera ha visto su Rai 3 l’inchiesta televisiva di Riccardo Iacona, sul problema carceri in Italia, questa notte non avrà dormito molto bene. Iacona, con le giornaliste Raffaella Pusceddu e Francesca Barzini, ha affrontato il problema del sovraffollamento nelle carceri, cercando una risposta a molte domande drammatiche: perché ci sono tanti suicidi nelle carceri italiane? Per quale motivo devono stare in carcere anche quelli non socialmente pericolosi? Si potrebbe evitare il sovraffollamento anche senza costruire decine di nuove carceri? Da queste domande politicamente scomode inizia la ricerca dei giornalisti di Rai 3 che ha poi portato alla realizzazione di questa interessante e appassionate inchiesta. I risultati sono sorprendenti ma anche avvilenti per chi ha ancora mantenuto una identità umana e il senso dello stato sociale. Da questo documento televisivo risulta che le carceri italiane sono delle “discariche sociali” usate dal malaffare esattamente come il problema rifiuti viene usato dalla criminalità organizzata e dalla complicità dei politici che ne ricavano utili sia in termini di denaro sia in termini di voti. Anche il clamore e lo starnazzamento sulla “problema sicurezza” sembra architettato appositamente per perseguire i propri fini criminali. Le carceri sono sovraffollate per far sì che si costruiscano nuove prigioni-discariche dove sversare migliaia di cittadini, delle categorie meno protette, che vengono messi in carcere in virtù di leggi fatte ad hoc per riempire le carceri. Se malati mentali e tossicodipendenti, i quali divengono piccoli spacciatori unicamente per potersi comprare la droga, venissero seguiti da psichiatri ed esperti assistenti sociali, le carceri si svuoterebbero dell’70%. Se ai detenuti in attesa di giudizio, che tra l’altro al 40% vanno assolti, non pericolosi, venissero dati gli arresti domiciliari la popolazione carceraria diminuirebbe di un altro 20%. Non dimentichiamo poi che chi ha problemi di droga ha, sempre, un problema psichiatrico evidente che tiene a bada con gli stupefacenti. Inoltre la indubbia connessione tra crimine e malattia mentale non viene neppure presa in considerazione. Come non vengono prese in considerazione le cause sociali che portano alla criminalità. Secondo queste considerazioni e queste percentuali rimarrebbero in carcere cica il 10% dei detenuti. E allora perché questo stato delle cose sconvolgente? Perché, partendo da questi dati, non si affronta seriamente e onestamente il problema sicurezza e il problema carcerario? Semplice non conviene. Conviene invece la legge Fini- Giovanardi che fa mettere in carcere persino il consumatore di droga. Conviene la legge Cirielli che, con l’articolo 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale, che prevede l’aumento della pena per la recidiva, riempie le carceri. Conviene la legge sul delitto di clandestinità che riempie le carceri. Ora c’è da chiedersi a chi convengono tutte queste leggi che riempiono da sole circa il 65% della capienza carceraria. Eppure è semplice, queste leggi convengono ai “furbetti del quartierino” che non hanno nessun problema etico a speculare sul dolore di donne e uomini costretti a viver in condizioni disumane come si è visto ieri sera nell’inchiesta di Riccardo Iacona. I “furbetti del quartierino” stanno, ora, adesso, costruendo carceri d’oro in tutta Italia mentre quelle già costruite e pronte per essere utilizzate vengono lasciate a marcire. E sono sempre gli stessi, non cambiano nemmeno più nome. E così negli appalti milionari delle carceri in Sardegna ecco il nome dell’Anemone Costruzioni e soci, che si erano già spartiti, con la benedizione della Protezione civile - quell’istituzione che ci dovrebbe proteggere dagli insulti della natura ma non da gli insulti della Furbetti & Company - gran parte della torta dei lavori del G8, 327 milioni di euro. Giustizia: il dramma delle carceri… 22 ore al giorno rinchiusi a non far niente di Riccardo lacona Il Fatto Quotidiano, 14 febbraio 2011 Tutti gli “inchiestisti” di tv e carta stampata sanno che ci sono dei lavori che ti cambiano dentro, ti tanno fare un passo avanti, ti fanno capire meglio e più in profondità come sta diventando l’Italia. Il viaggio nelle carceri italiane che vi presentiamo stasera è stato per me uno di questi lavori. Sì, avevo letto delle carceri sovraffollate, delle condizioni disumane in cui vengono tenuti i detenuti, dell’alto tasso di suicidi ed ero preparato psicologicamente a vedere di persona come sono le celle, come si vive in carcere. Anche se una cosa è leggerlo sul giornale e un’altra è starci dentro. E mi ha turbato vedere i padiglioni di Poggioreale con le celle chiuse a chiave per 22 ore al giorno. E siccome a Poggioreale ci sono anche più di 500 definitivi, ci sono detenuti che passano anni della loro vita così, senza fare niente, senza attività di formazione, senza lavorare, in una cella che è talmente piena che tutti in piedi non si può stare, chiusi a chiave per 22 ore al giorno, persone trattate come bestie in gabbia. Sarà per questo che nelle carceri italiane si fa un consumo esagerato di psicofarmaci e calmanti. Ma quello che non ero preparato a vedere è che la maggioranza di quelli che stanno dentro sono poveri, emarginati e sofferenti. Pensate, dei 68 mila detenuti che abbiamo il 30 per cento sono tossicodipendenti, un altro trenta per cento è fatto da stranieri e 17 mila reclusi, quasi il 20 per cento, sono sofferenti psichici. Come mai sono in carcere? Ci sono naturalmente delle leggi che hanno contribuito a riempire le carceri di poveracci, la legge Fini-Giovanardi sulla droga, la legge sull’immigrazione Bossi-Fini e la ex Cirielli e questa sera vi spiegheremo in dettaglio perché. Ma soprattutto c’è una enorme responsabilità politica di chi sulle politiche della sicurezza ha lucrato voti e consenso. È più facile inasprire le pene, inventare nuovi reati che fare prevenzione e cura sul territorio. Così le carceri sono diventate l’altra faccia nascosta dell’Italia, il tappeto sociale sotto il quale mettere la polvere che nessuno vuole davanti a casa propria, delle vere e proprie discariche sociali. Ma almeno funzionano? I dati ci dicono di no. Il 67 per cento dei detenuti che passano la loro intera pena nelle celle delle nostre prigioni torna a delinquere. La missione principale, iscritta nell’articolo 27 della Costituzione e cioè che “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato” viene largamente disattesa. Ma almeno costano poco i detenuti? No, dai 120 ai 150 euro al giorno, per ognuno dei 68 mila reclusi negli istituti italiani. Molto di più di quanto costa un tossicodipendente in una comunità che riesce a curarlo. Portano tanti voti ai partiti “dell’ordine e della “sicurezza”? Sì, ma questo è anche colpa nostra. Giustizia: nelle carceri di Velletri, Chieti e Sanremo, tre giovani detenuti morti in un solo giorno Ristretti Orizzonti, 14 febbraio 2011 Velletri Ha tagliato le lenzuola e, dopo averle annodate, ne ha fatto un cappio con cui si impiccato alle sbarre della sua cella del carcere di Velletri. Ha deciso di togliersi la vita così Gianluca Corsi, 37 anni, da oltre sette mesi detenuto in attesa di giudizio. La notizia del primo suicidio del 2011 nelle carceri della regione è stata resa nota in un comunicato dal garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni. A quanto appreso dai collaboratori del garante l’uomo - originario della provincia di Roma, che lascia anche una bambina piccola - era stato arrestato lo scorso luglio per ricettazione ed era in attesa di giudizio. Per sua espressa volontà aveva scelto di passare questo periodo di detenzione in una cella di isolamento, per evitare contatti con gli altri detenuti, spiega la nota. Ieri mattina a trovarlo senza vita all’interno della sua cella sono stati gli agenti di polizia penitenziaria durante un normale controllo. Il primo suicidio del 2011 nella regione si registra all’interno di un carcere, quello di Velletri, che vive una grave situazione di sovraffollamento, continua la nota. Realizzato per ospitare 208 detenuti ne conteneva, alla fine di gennaio, quasi 166 in più. Una situazione, questa, resa ancor più grave dal fatto un nuovo padiglione pronto ad ospitare oltre 200 detenuti, da tempo ultimato, è chiuso anche per le gravi carenze di organico fra gli agenti di polizia penitenziaria (70 in meno rispetto a quanto previsto). Una carenza che, di fatto, riduce anche la possibilità di osservare i comportamenti dei detenuti ed eventualmente di prevenire gesti come questo. “Quello di ieri è un suicidio figlio del sovraffollamento e delle difficilissime condizioni di vita che si è costretti ad affrontare nelle carceri - ha detto il garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni. E gli annunciati tagli di risorse agli istituti penitenziari non faranno altro che aggravare la situazione, con conseguenze terribili per le attività di trattamento e, soprattutto, per quelle di assistenza e di tutela psichica per moltissime persone recluse. Tutti soggetti psichicamente deboli che, senza un adeguato sostegno, corrono il rischio concreto di commettere gesti estremi”. Ugl: ennesimo suicidio conferma lo stato d'emergenza "L'ennesimo suicidio nel carcere di Velletri conferma ancora una volta l'emergenza del sovraffollamento e dell'invivibilità delle carceri italiane". Lo ha dichiarato il segretario nazionale della Polizia Penitenziaria Ugl, Giuseppe Moretti, sottolineando l'assenza "di fondi adeguati e di leggi capaci di abbattere le mura dell'emergenza permanente. Invece continuiamo a constatare un assordante silenzio e il rinvio di provvedimenti capaci di risolvere in modo definitivo un problema divenuto ormai una piaga sociale". "Il personale di Polizia Penitenziaria - conclude Moretti - non riesce ad evitare i molteplici tentativi di suicidio realizzati da chi non ha un concreto supporto psicologico e una condizione detentiva dignitosa". Chieti Un detenuto è morto nella Casa circondariale di Chieti, in via Janni. Aveva 27 anni, si chiamava Raffaele Busiello ed era originario di Napoli. Il giovane, detenuto a Chieti da circa 4 mesi, è presumibilmente morto tra le 23 di sabato 12 febbraio e le 4 del mattino di domenica 13. Lo hanno scoperto senza vita i compagni di cella. Domani l’autopsia chiarirà le cause del decesso, al momento l’ipotesi è quella di “infarto”. Subito, oltre che i familiari, sono stati informati il direttore del carcere, il comandante, il magistrato di sorveglianza. Con la morte di Busiello e il suicidio di Gianluca Corsi nel carcere di Velletri da inizio anno salgono a 8 i suicidi in carcere e a 15 il totale dei detenuti morti: 6 di loro avevano meno di 30 anni e altri 7 un’età compresa tra i 32 e i 39 anni. Sanremo “La notizia della morte nel carcere di Sanremo di un detenuto italiano intristisce ed amareggia tutti, specie coloro che il carcere lo vivono quotidianamente nella prima linea delle sezioni detentive, come le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria. Verso le ore 14.00 un detenuto appartenente al circuito collaboratori di giustizia ha perso la vita mentre svolgeva attività fisica sul campo di calcio interno all'istituto. A nulla sono serviti i vari soccorsi posti in essere dallo sparuto numero di poliziotti penitenziari in servizio, in quanto il recluso mentre correva si è accasciato a terra senza neppure poter chiedere aiuto. Molto probabilmente si è trattato di un infarto poichè pare che lo stesso avesse avuto dei problemi cardiocircolatori anche nell'istituto di provenienza. Solamente alla vigilia di natale scorso un altro detenuto di 26 anni moriva nello stesso penitenziario a causa della forte obesità. Una prima soluzione al pesante sovraffollamento penitenziario può essere la concreta definizione dei circuiti penitenziari differenziati e, in questo contesto, la costruzione di carceri per così dire 'leggerè per i detenuti in attesa di giudizio o con gravi disabilità destinando le carceri tradizionali a quelli con una sentenza definitiva da scontare. Secondo i dati recentemente diffusi, è infatti emerso che l'80% dei circa 70 mila detenuti oggi in carcere in Italia ha problemi di salute, più o meno gravi. Il 38% versa in condizioni mediocri, il 37% in condizioni scadenti, il 4% ha problemi di salute gravi e solo il 20% è sano. Un detenuto su tre è tossicodipendente. Del 30% dei detenuti che si è sottoposto al test Hiv, il 4% è risultato positivo. E ancora, il 16% soffre di depressione o altri disturbi psichici, il 15% ha problemi di masticazione, il 13% soffre di malattie osteoarticolari, l'11% di malattie epatiche, il 9% di disturbi gastrointestinali. Circa il 7% è infine portatore di malattie infettive. Tutto questo va ad aggravare le già pesanti condizioni lavorative delle donne e gli uomini del Corpo di Polizia Penitenziaria, oggi sotto organico di ben 6mila unità. Il dato importante da considerare è che i detenuti affetti da tossicodipendenza o malattie mentali, come ogni altro malato limitato nella propria libertà, sconta una doppia pena: quella imposta dalle sbarre del carcere e quella di dover affrontare la dipendenza dalle droghe o il disagio psichico in una condizione di disagio, spesso senza cure adeguate e senza il sostegno della famiglia o di una persona amica. Forse è il caso di ripensare il carcere proprio prevedendo un circuito penitenziario differenziato per queste tipologie di detenuti.” è quanto dichiara Roberto Martinelli, segretario generale aggiunto e commissario straordinario per la Liguria del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria, il più rappresentativo della Categoria, in relazione alla morte nel carcere di Sanremo Valle Armea di un detenuto. Martinelli, che proprio questa mattina a Sanremo ha incontrato il direttore del carcere Francesco Frontirrè, torna a denunziare per l’ennesima volta le criticità del penitenziario di Valle Armea: “A Sanremo mancano ben 85 agenti di Polizia Penitenziaria mentre i detenuti sono costantemente oltre la capienza regolamentare: 370/380 i presenti (il 60% dei quali stranieri) a fronte di 209 posti letto. E’ dunque necessario intervenire anche incrementando concretamente gli organici dei Baschi Azzurri in servizio a Valle Armea”. Giustizia: Sappe; nelle carceri si continua a morire, la politica dov’è? Adnkronos, 14 febbraio 2011 “Il mondo della politica è in tutt’altre faccende affaccendato e nelle sovraffollate carceri italiane si continua a morire. Come a Pavia, dove ieri è morto inalando gas da una bomboletta un detenuto rumeno di 38anni. O come era avvenuto qualche giorno fa a Genova Marassi, in cui in analoghe circostanze era morto un altro detenuto rumeno. Il suicidio in carcere è sempre - oltre che una tragedia personale - una sconfitta per lo Stato”. È quanto dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria, alla notizia dell’ennesimo suicidio di un detenuto, questa volta nel carcere di Pavia. “Il Comitato nazionale per la bioetica ha autorevolmente sottolineato che il suicidio costituisce solo un aspetto di quella più ampia e complessa crisi di identità che il carcere determina, alterando i rapporti e le relazioni, disgregando le prospettive esistenziali, affievolendo progetti e speranze. La via più netta e radicale per eliminare tutti questi disagi - si legge in una nota - sarebbe quella di un ripensamento complessivo della funzione della pena e, al suo interno, del ruolo del carcere, argomento rispetto al quale il Sappe è da tempo impegnato nonostante la colpevole indifferenza di vasti settori della politica nazionale”. Capece sottolinea che ‘con un sovraffollamento di 68mila detenuti in carceri che ne possono contenere a mala pena 43mila, accadono purtroppo questi episodi. A Pavia, ad esempio, dove i posti regolamentari nelle celle sono circa 245, abbiamo quasi 500 detenuti presenti. E se la situazione non si aggrava ulteriormente è grazie alle donne e agli uomini del Corpo che, in media, sventano ogni mese 10 tentativi di suicidio (molte centinaia ogni anno) di detenuti nei penitenziari italiani”. Giustizia: Uil; troppe morti in carcere, il governo è incapace di proporre soluzioni Ristretti Orizzonti, 14 febbraio 2011 "Mentre il pallottoliere delle morti per suicidio in cella non arresta la sua tragica conta, chi è preposto a gestire il sistema penitenziario italiano si contraddistingue per indifferenza, distanza e insensibilità. Il riferimento non è solo al ministro Guardasigilli, quant'anche all'intero Governo incapace di proporre la benchè minima soluzione alla tante, troppe, criticità che affogano l'universo carcere nel mare dell'inefficienza, della disumanità, della dignità umana vilipesa, sopraffatta e dei diritti negati". Così, in una nota, il segretario generale della Uil Pa penitenziari, Eugenio Sarno, commenta la notizia del suicidio di un detenuto italiano nel carcere di Velletri. "Noi continuiamo a credere- prosegue Sarno- che vi sia una diretta connessione tra il degrado ed il sovraffollamento delle nostre prigioni e il terrificante fenomeno dei suicidi in carcere. A Velletri sono presenti circa 375 detenuti a fronte di una disponibilità ricettiva massima pari a 208. Non a caso, nella nostra visita dell'ottobre scorso dichiarammo che la Casa Circondariale di Velletri era persa nella sua storia, pur importante nel passato, mentre oggi appare un relitto alla deriva e quasi prossimo all'affondamento". "Purtroppo- aggiunge- una regione complessa dal punto di vista penitenziario, come il Lazio, sconta anche la mancanza di un provveditore regionale a tempo pieno (oggi il Lazio è gestito ad interim dal provveditore del Piemonte per due giorni a settimana). Anche questo elemento denota una gestione politica ed amministrativa molto discutibile del sistema penitenziario". "La Uil Pa Penitenziari continua a monitorare gli eventi critici attraverso la pagina web Diario di Bordo, pubblicata sul sito www.polpenuil.it- ricorda Sarno nella nota- Questo è già l'ottavo suicidio in cella di questo 2011, in media un suicidio ogni sei giorni. Se a questi otto suicidi si coniugano i circa cento tentati suicidi di questo 2011 (26 le vite salvate in extremis dai suicidi da parte delle Polizia Penitenziaria) si ha ben chiaro il quadro di violenza, degrado e morte che impera nelle nostre prigioni". "Il Governo per due anni consecutivi ha deliberato lo stato di emergenza nelle carceri- sottolinea- ma per due anni consecutivi ha tagliato fondi e risorse al sistema di cui ha dichiarato lo stato di emergenza. Quindi l'ipocrisia degli annunci viene smentita dalla realtà dei fatti. Questo Governo ha davvero raggiunto molti record nell'ambito penitenziario- conclude- Ma non sono quelli declarati dal ministro Alfano. I record veri sono quelli dei suicidi in cella, degli atti di autolesionismo, del sovraffollamento, degli spazi sottratti, del personale che manca, dei fondi dimezzati". Giustizia: dopo suicidio di un detenuto il Tribunale di Brindisi sequestra le celle “a rischio” www.senzacolonne.it, 14 febbraio 2011 Le celle del carcere di Brindisi sottoposte a sequestro hanno una irregolarità strutturale. L’intero settore deputato alla reclusione delle persone a rischio di autolesionismo è stato considerato inadeguato a garantire la sicurezza dei detenuti ed è stato chiuso. Ed è la prima volta che accade in Italia. Il provvedimento di sequestro disposto venerdì mattina dal tribunale del Riesame di Brindisi è frutto dell’indagine condotta dal pm Raffaele Casto avviata all’indomani del suicidio del 43enne tunisino Mohamed Hattabi che sei mesi fa, caduto nello sconforto per l’impossibilità di vedere i figlioletti di 6 e 9 anni, si suicidò nel bagno di una dei quelle celle utilizzando una maglietta. Il sequestro dell’intero settore ha prodotto la necessità di trasferire i detenuti che stazionavano in quell’area. “Non erano moltissimi - spiega Giuseppe Levante, comandante della polizia penitenziaria in servizio in via Appia - Qui c’era posto per circa una cinquantina di persone. Quelli che c’erano sono stati tutti trasferiti in strutture carcerarie pugliesi e tutti rimessi nelle medesime condizioni in cui erano qui: sorvegliati ventiquattr’ore su ventiquattro”. Levante, nominato responsabile dei “sigilli” apposti dalla Procura al settore, rileva la sostanziale correttezza del provvedimento e sottolinea il grande sforzo con cui i suoi uomini, fino a quel momento, avevano ridotto i problemi alzando la soglia di attenzione. “Le celle sequestrate - spiega - presentano delle “zone d’ombra” che potrebbero non consentire agli agenti di monitorare sempre quel che accade”. Ed è rintracciabile in questa ragione la chiusura precauzionale. I suicidi o gli atti di autolesionismo lì, in quelle condizioni strutturali, potrebbero ripetersi. “Conosciamo il problema ed è per quello che storicamente siamo stati sempre attentissimi - prosegue il comandante Levante. Lo stesso tunisino per compiere il suicidio utilizzò la maglietta, unica cosa a sua disposizione che, per la verità, teoricamente avrebbe dovuto rendere difficilissimo il buon esito di una impiccagione. La situazione di emergenza strutturale era stata percepita dal sostituto procuratore Raffaele Casto, titolare delle indagini pe l’omicidio del tunisino, il quale, lo scorso agosto, aveva immediatamente chiesto la chiusura dell’area di sicurezza. Il gip rigetto la richiesta. Il ricorso del pm al Tribunale del Riesame ha poi sbloccato le cose. Fino a quanto accaduto venerdì mattina. Senza preavviso uomini dell’Arma si sono presentati presso la struttura e, alla presenza dello stesso comandante, hanno proceduto alla delimitazione dell’area in questione. Il provvedimento, in realtà, rischia di peggiorare ulteriormente la condizione di lieve sovraffollamento del carcere brindisino che nei mesi scorsi è stato all’attenzione dei sindacati di polizia penitenziaria che ne avevano evidenziato problemi strutturali e logistici. Giustizia: da Torino a Venezia, quando le carceri sono amiche dell’ambiente di Eleonora Anello Nuova Società, 14 febbraio 2011 Educare chi è recluso e aiutare l’ambiente è possibile. Lo dimostrano le numerose iniziative promosse nelle carceri italiane. In uno scenario difficile, in cui i fondi diminuiscono mentre i detenuti aumentano, così come il numero di suicidi, non è semplice raggiungere buoni risultati. Eppure per i prodotti made in carcere sembra essere il momento clou: catalizzano l’attenzione dell’opinione pubblica e si impennano le vendite. L’ultima tendenza legata al lavoro recluso, attività dalla forte valenza sociale, sono le linee sostenibili, quelle che strizzano l’occhio all’ambiente. Le associazioni e le cooperative che esercitano in questo settore possono contare su significativi sgravi fiscali e contributivi e, per far quadrare i conti, si affidano spesso a quegli oggetti caduti in disuso e destinati ad essere cestinati. Quindi riuso sì, non tanto per virtù quanto piuttosto per necessità. Molti di questi laboratori che operano dietro la sbarre hanno trovato fortuna nel settore dell’abbigliamento e degli accessori. Le borse riutilizzabili la fanno da padrone. Ne vengono realizzate in carta, in stoffa ed anche in pvc, quello colorato dei vecchi cartelloni pubblicitari dismessi. È il caso delle “malefatte...di città di Venezia”, per cui, grazie ad un accordo, il Comune dona alla cooperativa “Rio Terà dei Pensieri” i grossi manifesti dismessi di campagne ormai passate. Il rifiuto altamente impattante, soprattutto in fase di smaltimento, arriva ai detenuti dell’istituto di pena maschile di Santa Maria Maggiore, per dare vita a pezzi unici, sostenibili e che, senza fare facile ironia, vanno a ruba. Il riciclo diventa fashion anche a Torino anche grazie a “Fumne” (donne in dialetto piemontese), vero e proprio marchio nato 3 anni fa all’interno del carcere femminile “Le Vallette”. La casa di Pinocchio, l’associazione culturale che gestisce il laboratorio tessile artigianale, si dedica alla rimessa a nuovo di abiti e accessori donati da chi li ha archiviati in cassetti strabordanti o da chi semplicemente se ne vuole disfare. Le stiliste-detenute rimodernizzano capi e gioielli adatti per essere sfoggiati in ogni occasione. In alcuni casi si tengono anche lezioni aperte a partecipanti esterni. “Privilegiamo un rapporto diretto con ogni donna, che viene considerata una persona che merita prima di ogni altra cosa di essere valorizzata, apprezzata e ascoltata - raccontano Monica Gallo e Sara Battaglino della Casa di Pinocchio. È un lavoro che richiede tempo e dedizione e che punta a ridare dignità alle donne”. E il laboratorio funziona. Tant’è vero che sarà realizzato anche un profumo a marchio Fumne, in vendita dal prossimo 4 marzo, in occasione della festa della donna. E per chi vuole dedicarsi a uno shopping etico, il Ministero della giustizia ha allestito “Vetrina prodotti dal carcere”, una piattaforma web in cui sono esposti i manufatti ottenuti dal lavoro recluso. È possibile scegliere tra abiti, giocattoli, prodotti enogastronimici, arredamento e molto altro. Articoli artigianali di alta qualità corredati di prezzo e di tutte le informazioni per acquistarli. Lettere: caso Cucchi… del bene solo l’ombra di Andrea Boraschi (Sociologo della comunicazione) L’Unità, 14 febbraio 2011 Il detto “Il meglio è nemico del bene” è di ambigua interpretazione. Qui vorrei impiegarlo, invece, con massima chiarezza: per descrivere uno scenario istituzionale - e un paese - in cui una qualsivoglia eccezione a una ingiustizia consueta appare immancabilmente positiva, confortante, meritoria. Anche quando quella eccezione riproduca a sua volta storture, ribadisca solo attenuato il senso del torto dal quale si discosta. Per capire meglio ciò a cui mi riferisco si può fare riferimento alla sentenza che pochi giorni or sono ha condannato una persona a due anni di reclusione e ne ha rinviate a giudizio altre 12 in merito alla morte di Stefano Cucchi, un giovane detenuto scomparso un anno e mezzo fa, morto in ospedale senza cure dopo essere stato brutalmente picchiato dagli agenti che lo avevano in custodia. La sentenza costituisce un passo avanti. Certo. In un paese in cui di norma i maltrattamenti e persino le uccisioni dei detenuti rimangono impuniti (posso confortare questa affermazione con un ricco archivio di casi), che si istituisca un processo, che vengano emessi rinvii a giudizio e condanne è - appunto -un’eccezione. Come tale viene salutata e accolta, positivamente. E, tuttavia, rimane da spiegare la reazione dei familiari e della difesa (corroborata persino da alcuni passaggi della sentenza) : sono disposti ad annullare tutto, a ricominciare da capo, ad archiviare 18 mesi di iter giudiziario per tornare a una semplice udienza preliminare pur di vedere gli agenti di custodia imputati di omicidio (almeno preterintenzionale) e non di semplici lesioni e abuso d’autorità. Le foto del corpo di Stefano, massacrato di botte, le ricordano in molti: a fronte di quelle immagini, una perizia medico-legale spiega che quel giovane è morto per mancata assistenza medica, come di una patologia pregressa e mal curata. Ovvero, la risultante del processo appena celebrato misconosce la relazione tra il pestaggio, il ricovero d’urgenza -anomalo per moltissimi aspetti procedurali, vero e proprio “nascondimento” di un “quasi cadavere” - e la morte del giovane in ospedale. “Stefano è stato ucciso dalle botte che l’hanno portato all’ospedale dove non è stato curato come doveva”, dice a commento della sentenza sua sorella Ilaria. “È rimasta l’idea che le percosse non siano collegate con la fine di Stefano, come se fosse finito in ospedale per chissà quali motivi”. Già, chissà quali. Perché, al momento, gli agenti che lo hanno ridotto in fin di vita sono accusati di qualche scapaccione o poco più. Però Gianni Alemanno e Renata Polverini hanno espresso la loro soddisfazione per la sentenza; ed Enrico Letta ha parlato di “segnale positivo”. Certo: “meglio” della consueta impunità che trionfa in casi come questi; ma del “bene”, solo l’ombra. Milano: viaggio nell’Icam, l’istituto a custodia attenuata dove le detenute vivono con i figli di Delia Cosereanu www.lettera43.it, 14 febbraio 2011 Immaginatevi dei bimbi più piccoli di tre anni in una cella. La vita tra sbarre, porte metalliche, guardie carcerarie e detenute tossicodipendenti in crisi d’astinenza. Non è un incubo né un sadico esercizio di immaginazione. Fino al 2007 era la realtà del carcere milanese di San Vittore, dove le madri condannate venivano rinchiuse assieme ai loro figli sullo stesso piano delle donne con problemi di dipendenza dalle droghe. Un oltraggio, secondo Francesca Corso, prima assistente sociale nell’istituto penitenziario, poi, dal 2002 al 2009, assessore ai Diritti e alla tutela sociale della provincia di Milano con delega alle carceri. Dopo una lunga battaglia, Corso è riuscita a dare vita al primo progetto sperimentale europeo di una struttura che potrebbe cambiare la vita di tanti bambini e, forse, anche delle loro mamme. Una casa famiglia per detenute con figli piccoli È l’Icam, l’Istituto di custodia attenuata per madri detenute con figli minori di tre anni. Una casa, non un carcere, dove si può far finta di non essere rinchiusi. Un regalo per i bambini, costretti a scontare una pena senza averne colpa. In una via centrale di Milano, l’amministrazione provinciale ha allestito, in un edificio di sua proprietà, una casa famiglia. Un progetto unico in Italia il cui scopo è permettere a mamme e bambini di vivere serenamente. “Abbiamo voluto creare un ambiente accogliente, per garantire il diritto fondamentale delle relazioni affettive e il sostegno alla genitorialità”, ha spiegato a Lettera43.it Stefania Conte, ispettore di polizia penitenziaria e responsabile dell’Icam. Insieme a lei lavorano all’Icam altri cinque agenti. Tutti rigorosamente in borghese, per non spaventare i bambini. E dei medici che assicurano assistenza tutti i giorni, 24 ore su 24, uno psicologo, una volta alla settimana, e un pediatra. All’interno, la struttura sembra tutt’altro che un carcere. L’unica porta che rimane chiusa è quella principale, all’entrata. Poi, due corridoi colorati, una lavanderia, una stanza per le attività ludiche, dove i bambini giocano con le educatrici in attesa che le mamme finiscano di pulire o cucinare. Di fronte a una grande cucina si trova la stanza dei colloqui, dove le donne incontrano i familiari la domenica, e, accanto, una sala studio, dove le detenute imparano a leggere e a scrivere oppure studiano per conseguire un titolo di studio, con l’aiuto di tre insegnanti. È in progetto un nuovo corso di lingua inglese, per le ragazze istruite. C’è anche chi impara a cucire e chi vorrebbe dedicarsi all’arte culinaria una volta uscita dal carcere. Ogni mercoledì, Stefano, lo chef, insegna nella grande cucina dell’Icam come preparare torte, dolci o salate, risotti o condimenti per la pasta. “La domenica, invece, possiamo preparare le pietanze tipiche delle nostre regioni”, racconta Rosa, una delle sei ragazze ospiti dell’istituto. A una condizione: che il cibo venga condiviso con le coinquiline. Si socializza, ma non si fa amicizia Per i bimbi, la dieta alimentare è stabilita dal pediatra. I più grandi vanno all’asilo all’esterno e, dopo pranzo, “tornano a casa”, come dice Rosa, 21 anni, di origine bosniaca ma nata e cresciuta in Italia. Con sua figlia Valentina Vittoria, di 2 anni e 4 mesi, parla in italiano. “So il bosniaco, ma qui ci impongono di parlare in italiano per non escludere chi arriva da altri Paesi”, spiega. “Con i figli possiamo parlare la nostra lingua perché siamo libere di educarli alla nostra cultura, ma io sono troppo abituata a parlare in italiano”. Rosa ha frequentato per due anni un corso di ripresa e montaggio audio-video, ma poi ha abbandonato per fare una scuola professionale per parrucchiere, a Milano, città dove è cresciuta. Ha anche lavorato per più di un anno. “Però poi…”. Alza le spalle e abbassa lo sguardo. “Ho chiesto l’espulsione. Voglio andare in Bosnia. Sono cresciuta qui, è vero, lì non ci sono mai stata, però ho ricordi troppo brutti legati all’Italia. Paese nuovo, vita nuova”. In attesa della decisione del tribunale, Rosa vive all’Icam ed è responsabile dell’organizzazione dei turni. “C’è sempre qualcuno che si lamenta”, dice, “per dei lavori che non vuole fare. Capita di litigare per delle cavolate, per esempio perché una ragazza non vuole pulire il bagno. Ma le regole sono regole, bisogna rispettarle”. Nel suo tempo libero, “il poco che ci rimane”, preferisce leggere libri. “Sono romanzi rosa che mi porta mia madre la domenica”. Sorride. “A me piacciono. Non abbiamo la tv in stanza e non ho altro da fare quando mia figlia dorme. Parlo con la mia compagna di stanza, ma qui dentro non ti puoi affezionare a nessuno perché poi esci e ognuno va per la sua strada”. Il televisore in una sala pranzo comune è stata una scelta dei responsabili, per stimolare le ragazze a vivere insieme e a socializzare, consapevoli della difficoltà a farlo in situazioni del genere. Inoltre, “se avessero la tv nelle stanze”, spiega Stefania Conte, “la guarderebbero anche di notte. Di giorno poi sarebbero troppo stanche per fare altro”. Tra otto mesi Valentina Vittoria dovrà lasciare l’istituto e sarà affidata ai familiari di Rosa, che sarà trasferita a San Vittore. “Sarà difficile stare senza lei, ma a quel punto mi mancheranno pochi mesi per uscire. Non vedo l’ora”. Meglio non vedere i figli che rinchiuderli Jaklina, 21 anni, genitori macedoni ma nata in Italia, ha una figlia con lei e altri due bambini “fuori”. Ha imparato da poco a scrivere il suo nome in stampatello. È arrivata all’Icam analfabeta, ma sta facendo progressi. Fa lezioni di 2-3 ore tutti i giorni con un’insegnante e la sera si esercita. Non vede mai i bimbi più grandi, che da otto mesi vivono con il papà e con il resto della famiglia. “Non hanno documenti”, spiega, “e qui dentro non può entrare nessuno senza essere identificato”. Eppure uno dei due figli all’esterno ha meno di tre anni. La legge impedisce a Jaklina di vederlo durante i colloqui, ma le permetterebbe di tenerlo dentro l’istituto. Un paradosso che la donna non capisce. Ma si adegua: “Preferisco non vederlo che rinchiudere anche lui. Voglio che i miei bambini crescano liberi”. Gorizia: Casa circondariale fuori da piano carceri; Cisl protesta, il Sindaco chiama Alfano Il Piccolo, 14 febbraio 2011 “Nel Piano-carceri non c’è nemmeno un euro per il carcere di Gorizia. La Casa circondariale di via Barzellini resta una struttura fatiscente, degna di un Paese del terzo mondo”. Massimo Bevilacqua della Fp-Cisl lancia il sasso. E non nasconde la mano. Nonostante gli appelli a fare qualcosa, nonostante gli impegni del mondo politico a risistemare la sede attuale o a individuarne addirittura una nuova, la situazione è rimasta tale e quale. Di degrado assoluto. “Ricordate le denunce di due anni fa? E quelle di dieci mesi fa? Ebbene, nulla è cambiato. Anzi, il passare del tempo ha portato a peggiorare le condizioni del carcere di Gorizia. Nei prossimi giorni - attacca Bevilacqua - contatterò un ingegnere, un architetto e un geometra. Assieme faremo un sopralluogo in via Barzellini e chiederò loro di quantificare economicamente un eventuale intervento di sistemazione almeno della seconda sezione. Voglio capire se la spesa è davvero così immane. Così, non si può più andare avanti”. Bevilacqua parla di dignità. “Quella struttura non è agibile. Piove dentro, è inadeguata e non è degna di una città come la nostra. Le mie non sono esagerazioni. È giunto il momento che si cominci a fare qualcosa”. Assai poco incoraggianti anche le parole di Ivano Signor, segretario regionale della Fns-Cisl. “In realtà, come sindacati, non conosciamo nemmeno il contenuto del nuovo “Piano carceri”. Sappiamo che ci dovrebbero essere 700 milioni disponibili per l’edilizia carceraria a livello nazionale ma dove verranno costruite nuove strutture, dove saranno sistemate quelle già esistenti è un mistero. Le forze sociali - ammette amaramente Signor - non hanno nemmeno una carta in mano, sono all’oscuro di tutto. In Friuli Venezia Giulia il problema dell’edilizia carceria è enorme e, in questo panorama, Gorizia e Pordenone stanno peggio di tutti: sì, hanno strutture da Paese del terzo mondo”. Il segretario regionale della Fns sottolinea, senza mezzi termini, che il carcere di via Barzellini “è una priorità perché la situazione si trascina ormai da troppi anni. Abbiamo tentato delle iniziative per tenere alta l’attenzione su quella struttura ma non c’è stato verso di smuovere la situazione”. Da non sottovalutare, poi, il problema-sovraffollamento. “La casa circondariale di Gorizia potrebbe ospitare circa 35, 40 persone. C’è stato un momento in cui si è sfiorato il doppio dei detenuti. E in una struttura simile lascio immaginare le loro condizioni, senza dimenticare i disagi immani per chi lì ci lavora”. Anche il presidente della Camera penale, avvocato Riccardo Cattarini ha molte cose da dire sul carcere. Nel giugno scorso, inviò un esposto alla Procura della Repubblica. “Al di là delle condizioni igienico-sanitarie, verosimilmente contra legem - si leggeva nella documentazione - anche il profilo della sicurezza degli ambienti e di ogni impianto tecnologico merita attenzione. Sembra, infatti, indispensabile effettuare tutte le verifiche e accertamenti del caso anche quanto alla rispondenza degli impianti elettrici, idraulici e quant’altro alla normativa vigente, per tutelare sia i detenuti sia gli addetti della polizia penitenziaria che svolgono la loro attività all’interno degli ambienti carcerari”. Rispetto a quell’esposto-denuncia, è cambiato qualcosa? “In quel documento si esponevano precise situazione di competenza della Procura della Repubblica. Sono certo che sono state debitamente approfondite. Il carcere è molto degradato - spiega Cattarini -. Parlo ora a titolo personale: la ristrutturazione, per conto mio, sono soldi buttati via. La mia proposta è di venderlo e realizzarne uno nuovo, sfruttando magari un edificio demaniale. Pensiamoci. Così non si avanti”. Il Sindaco Romoli chiama Alfano “Nei prossimi giorni mi metterò in contatto con il ministro Alfano per verificare se quanto è stato denunciato dai sindacati corrisponde a verità. Voglio capire se realmente, nel Piano-carceri, non c’è un euro per risistemare la casa circondariale di via Barzellini. Sarebbe una doccia fredda”. Il sindaco Ettore Romoli replica alla denuncia formulata ieri dai sindacati. Come si ricorderà, Massimo Bevilacqua (Fp-Cisl) in particolare aveva puntato il dito sulle condizioni assolutamente degradate in cui versa l’edificio carcerario. “Non lo scopriamo certamente oggi che la casa circondariale di via Barzellini è in pessime condizioni. Ribadisco e continuerò a farlo sino alla nausea che si dovrebbe ragionare sulla sistemazione dell’attuale struttura. Individuare somme importanti per costruirne uno nuovo significa perdere altri trent’anni e Gorizia non può perdere altro tempo”. Romoli non lo dice apertamente ma riqualificare l’attuale edificio risparmierebbe le istituzioni di trovarsi di fronte al dilemma di individuare una nuova sede con tutte le (facilmente) prevedibili prese di posizione dei contrari e dei “professionisti” delle raccolte di firme. Ci sarà, dunque, un supplemento di indagine. Qualche tempo fa, a disegnare il “ritratto” della sgangherata Casa circondariale di via Barzellini fu il consigliere regionale (ed ex presidente della Provincia) Giorgio Brandolin. Non le mandò a dire e illustrò una situazione davvero al limite. “Dopo il carcere di Pordenone, quello di Gorizia è uno dei peggiori d’Italia. È fatiscente, inadeguato e nessuno sembra interessarsene”. Sì, fu il consigliere regionale Giorgio Brandolin a lanciare l’allarme. E ricordò il sopralluogo effettuato nell’agosto del 2010. “Tutta la politica comunale e provinciale deve prendere posizione: quel carcere deve essere chiuso e individuata una nuova sede. Capisco che ci sono tanti problemi da risolvere ma questo è, sino a prova contraria, uno Stato civile. E quel carcere è una struttura in cui regna l’inciviltà”. Ad accogliere la delegazione in quella visita agostana fu il comandante del reparto Polizia penitenziaria Alessandro Bracaglia. L’ispezione evidenziò che nel carcere goriziano, la cui capienza è di 30 posti, erano ospitati a quella data 47 detenuti: di questi, 30 erano detenuti comuni, 7 con condanna definitiva, 27 in attesa di giudizio, 7 in appello e 6 ricorrenti. Venti i tossicodipendenti, sei dei quali sotto metadone. Il questionario compilato nel corso della visita rivelò poi che nella popolazione carceraria sono due i casi di epatite C, sette quelli psichiatrici, 24 gli stranieri e 9 i detenuti dipendenti dall’amministrazione penitenziaria. “Le condizioni dall’ambiente carcerario si sono rivelate difficili: ogni cella ha 21 metri quadrati, con bagno separato, acqua calda e luce naturale (ma le condizioni generali sono definite “cattive”). Buone le docce comuni, appena rifatte. Le ore passate in cella sono 20, le ore d’aria 4”. Una denuncia sempre attuale. Purtroppo. Siracusa: Osapp; carcere sovraffollato e organico carente, situazione ormai al collasso La Sicilia, 14 febbraio 2011 Sale a cinque il numero di suicidi, tra riusciti e tentati, negli ultimi sei mesi alla casa circondariale di Cavadonna. Una condizione di disagio annunciata, come precisa Mimmo Nicotra, vicesegretario dell’Osapp (organizzazione sindacale autonoma della polizia penitenziaria). “L’ennesimo tentativo di suicidio per impiccagione di un detenuto extracomunitario è stato sventato solo grazie all’attenzione da parte del personale di polizia penitenziaria. Il detenuto si trovava all’interno della sezione lavoranti, che al piano terra ha un repartino per i detenuti più problematici e per quelli isolati per motivi sanitari. Si stava per ripetere ancora una volta un episodio che ha fatto balzare all’attenzione del Dipartimento l’Istituto di contrada Cavadonna, per il quale pochi mesi fa è stata inviata un’ispezione conoscitiva coordinata da Fabozzi (quattro morti impiccati in due mesi di cui tre extracomunitari)”. Da allora nulla è cambiato, precisa ancora Nicotra: ne le condizioni di sovraffollamento (150 detenuti per sezioni da 50, e12 per cella), ne la carenza del personale hanno trovato soluzione. Eppure le condizioni di quasi invivibilità, sia per i detenuti sia per gli agenti penitenziari, sono da tempo denunciate da tutte le sigle sindacali. Brescia: l’Idv visita il carcere; realtà disumana, le istituzioni hanno il dovere di ribellarsi Brescia Oggi, 14 febbraio 2011 I penalisti hanno presentato un esposto in Procura. La presidente della Corte d’Appello di Brescia l’ha definita una situazione “allarmante”. Meno di un mese dopo sono i rappresentanti dell’Italia dei Valori a denunciare, dopo averlo visitato, le condizioni di Canton Mombello. “Disumane. La città può e deve fare qualcosa, noi per primi porteremo la questione in Regione”, esordisce Sergio Piffari, deputato e coordinatore regionale Idv. Parla di un “momento drammatico” il collega in Senato, Gianpiero De Toni, dove alla presa di coscienza deve seguire “un atto di ribellione, diretto in primis alle istituzioni bresciane”. Primo punto, come sempre, i numeri: 540 detenuti (a fronte di una capienza di 290), di cui 230 in attesa di giudizio. “In una cella da 15 metri quadrati stanno in 6, con un bagno di 40 centimetri e un tavolo per due - denuncia De Toni: un conto è la certezza della pena, altro è scontarla nel rispetto dei diritti”. Non dimentica l’altra faccia della medaglia il coordinatore provinciale Idv, Salvatore Palmirani, focalizzando sulle guardie penitenziarie “costrette a turni massacranti e senza riconoscimenti economici, vittime di frustrazioni tali da incidere sullo stato psicologico”. “Basta poco - precisa il consigliere regionale Francesco Patitucci - per i rimedi immediati: aumentando, per esempio, l’infermeria di 4 posti letto per le emergenze sanitarie o sistemando impianti e rete fognaria fino a quando a Canton Mombello non subentrerà il presunto nuovo carcere a Verziano”. Dagli atti pratici agli appelli: “Chiedere al Governo il trasferimento di alcuni detenuti e alla Regione uno scatto d’orgoglio”, rileva Piffari. Un primo passo per Idv potrebbe essere, ricorrere ai finanziamenti privati con accordi di programma per le prime manutenzioni. “Ma bisogna anche valorizzare gli spazi e sostenere le associazioni”: da un mese, per esempio, sembra che il prestito libri sia bloccato. Una forma di “punizione”, dopo la protesta di 40 detenuti che, in forma anonima, avrebbero consegnato alla direzione un documento per rivendicare i requisiti previsti dall’ultimo dlgs per uscire. “In realtà non c’è stata alcuna discriminazione dall’alto - spiega Piffari, ma togliere la lettura non è la risposta migliore”. Una risposta, ma su più fronti : “Dal Senato presenteremo un’interrogazione al ministro Alfano affinché venga a vedere le carceri - tuona De Toni -. Per di più, solo il 18 per cento dei detenuti non è recidivo: alla carenza strutturale corrisponde un problema di recupero, ma il territorio deve farsene carico, come del resto il Governo, che passa il tempo a bloccare il Parlamento invece di affrontare i problemi del Paese”. Potenza: celle stracolme, ma a Genzano esiste un carcere “dimenticato” Gazzetta del Mezzogiorno, 14 febbraio 2011 Carceri inutilizzati e carceri stracolmi. Paradosso tutto lucano. L’allarme è stato lanciato a più riprese dal Sappe, sindacato di polizia penitenziaria. Le situazioni più gravi si registrano a Potenza e Matera. Tanto è vero che si parla di riaprire le strutture di Viggiano e Pisticci. In tutto questo c’è la casa mandamentale di Genzano mai entrata in funzione. Costata la bellezza di circa quattro miliardi delle vecchie lire. Con progetto del 1981 è stata realizzata con tutti i requisiti circa venti anni fa. Da quella data è desolatamente vuota. Alla mercé dei volatili che ne hanno eretto domicilio e all’usura e al degrado del tempo. La questione è stata sollevata anche dal coordinatore cittadino del Pdl, Peppino Vertulli, e da semplici cittadini che vedono una struttura faraonica a perdersi nel nulla. “Va trovata assolutamente una soluzione - sottolinea Vertulli - un patrimonio strutturale non può rimanere inutilizzato. Oltretutto l’avvio del carcere alle sue funzioni darebbe una mano d’aiuto ad un’economia locale che langue sempre più”. La struttura carceraria di Genzano sorge su viale XXIV Maggio su una superficie di circa 8 mila metri quadri. Solo la parte antistante è utilizzata come casa-alloggio (ma anche su questa ci sono voci di trasferimento). La casa mandamentale dispone di 27 celle divise su due ali, tutte con Wc. Zona d’aria con bagni. Sale attesa magistrati e avvocati, alloggi per assistenti. Dispensa, cucina lavanderia e magazzino. Cabina Enel e centrale termica. Oggi, ovviamente tutto nell’abbandono. E visto la destinazione della struttura non è mai stata esaudita, si è pensato nel 2005 d’intesa col comando provinciale dei vigili del fuoco di istituire in quei locali un distaccamento permanente dei vigili del fuoco a Genzano. Ma anche quel proposito è andato a monte. Se non si pone rimedio non rimane che assistere al lento inesorabile degrado del carcere. Cagliari: Sdr; preoccupazione a Buoncammino per minacce al Cappellano Agenparl, 14 febbraio 2011 “Invitiamo Padre Massimiliano a restare al suo posto, a non abbandonarci. Abbiamo bisogno della sua presenza in questo carcere. Per noi è un punto di riferimento insostituibile. Non possiamo accettare che qualche disperato comprometta il lavoro del nostro cappellano. Ci rivolgiamo quindi all’arcivescovo Mani, sempre vicino ai detenuti di Buoncammino affinché dissuada Padre Massimiliano a lasciare l’incarico”. Sono alcuni sentimenti espressi ai volontari dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme” da un cospicuo numero di detenuti di Buoncammino alla notizia delle minacce al cappellano dell’Istituto Penitenziario, il frate cappuccino Padre Massimiliano Sira, oggetto di sms e telefonate intimidatorie. “Le detenute e i detenuti - sottolinea Maria Grazia Caligaris, presidente di Sdr - al pari degli operatori volontari della Casa Circondariale cagliaritana, hanno manifestato preoccupazione, sconcerto, incredulità. Dalle loro parole emerge la difficoltà ad accettare l’idea che il frate venga sostituito da un altro incaricato. Lo sconcerto accomuna tutti i lavoratori dell’Istituto”. “Il grave episodio che ha avuto come vittima Padre Massimiliano - afferma Caligaris - ha accentuato il disagio all’interno di Buoncammino dove il clima è tutt’altro che sereno proprio per l’intreccio di problematiche irrisolte dai vertici del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Alla pesante situazione di sovraffollamento, rimasta quasi inalterata nonostante il decreto “svuota carceri” anche per il costante arrivo di detenuti dal Continente, e all’ormai insostenibile gravame di lavoro per gli Agenti di Polizia Penitenziaria, il cui contingente è del tutto inadeguato, si è aggiunta la questione della sanità penitenziaria, ferma al palo per la mancata approvazione da parte del Consiglio dei Ministri della norma statutaria per il passaggio alle Aziende Sanitarie Locali delle competenze”. “L’Istituto - conclude la responsabile regionale di Socialismo Diritti Riforme - sta vivendo un momento di difficoltà anche perché sono ormai improcrastinabili alcuni interventi di ristrutturazione per migliorare le condizioni di vivibilità ma non ci sono i fondi necessari per realizzarli e soprattutto non ci sono gli spazi per trasferire i detenuti durante i lavori. Insomma la situazione a Buoncammino è emblematica delle difficoltà in cui trovano i detenuti e delle tensioni che animano gli Istituti penitenziari dell’isola”. Bologna: uno spettacolo che racconta tre anni di teatro all’Ipm del Pratello Redattore Sociale, 14 febbraio 2011 In scena giovedì 17 febbraio detenuti, ex detenuti e rappresentanti delle istituzioni per una narrazione poetica degli spettacoli e dei progetti realizzati al carcere minorile. Detenuti, ex detenuti e nomi noti delle istituzioni cittadine insieme sul palco per un racconto corale dei tre anni di teatro al carcere minorile di Bologna. “Voci e immagini dal Teatro del Pratello”, in scena giovedì 17 febbraio alle 16,30 all’auditorium Biagi della biblioteca Sala Borsa di Bologna (l’ingresso è gratuito) ripercorre attraverso reading, testimonianze, fotografie, video e musica i tanti progetti realizzati dal regista teatrale Paolo Billi e dalla cooperativa sociale Teatro del Pratello insieme ai giovani detenuti, ai ragazzi seguiti dai servizi della Giustizia minorile e agli studenti. “Quello di giovedì - racconta Billi - è uno spettacolo insolito, una narrazione poetica che attraversa tre anni di lavoro per far affiorare i fili rossi che si intrecciano in uno sguardo d’insieme”: lo spettacolo racconta infatti i frutti della programmazione triennale realizzata grazie alla convenzione, scaduta alla fine del 2010, tra la cooperativa, la Provincia, il Comune e il Centro di giustizia minorile dell’Emilia-Romagna. Uno strumento che ha permesso di aprire le porte del carcere al pubblico, che nel corso dell’ultima stagione ha premiato l’iniziativa con mille e 400 presenze per 15 repliche. In attesa del rinnovo dei vertici dell’amministrazione comunale, è in via di definizione una convenzione “ponte” della durata di un anno che vedrà anche il coinvolgimento della Regione Emilia-Romagna. “Il teatro in carcere è un’esperienza artistica, educativa e formativa grazie alla quale avviene l’incontro tra l’interno e l’esterno del carcere, tra giovani detenuti, ragazzi seguiti dai servizi di Giustizia minorile, studenti e adulti - spiega Billi -. Quest’anno, per la prima volta, i laboratori di teatro all’interno del carcere saranno aperti ai ragazzi delle scuole”. “Grazie a queste attività - dice il dirigente del Centro giustizia minorile Giuseppe Centomani - si dà ai giovani l’opportunità per una graduale e costruttiva riscoperta di sé, dei propri talenti e delle proprie capacità”. I reading, realizzati da detenuti e ex detenuti, riguarderanno una scelta tra i copioni scritti dai ragazzi dell’istituto penitenziario per gli spettacoli allestiti in questi anni all’interno del carcere (da “L’ultimo viaggio di Gulliver, nel 2008 a “Don Chisciotte collapse”, del 2010), i testi partoriti nel corso dei laboratori di scrittura e video narrazione realizzati con studenti e ragazzi seguiti dai servizi della Giustizia minorile (tra cui il recente “Dialoghi sul limite”) e la rassegna teatrale estiva che viene realizzata nel cortile del carcere in via del Pratello. Alle letture si alterneranno le testimonianze di spettatori illustri, come il presidente del consiglio comunale Gianni Sofri, e le voci dell’assessore alla cultura della provincia di Bologna Giuliano Barigazzi, dell’assessore alle Politiche sociali della Regione Emilia-Romagna Teresa Marzocchi, del direttore dell’area cultura del Comune di Bologna Mauro Felicori e del dirigente del Centro giustizia minorile Giuseppe Centomani. In scena anche le foto di Marco Caselli e Alessandro Zanini, i video di Agnese Mattanò e le musiche di Carlo Maver. Porto Azzurro (Li): artigianato e minerali in carcere per riscoprire le tradizioni locali Il Tirreno, 14 febbraio 2011 Si chiama “Porto l’azzurro dentro: carcere, minerali e territorio”. È il progetto che ha redatto la Misericordia, in collaborazione con la direzione della Casa di Reclusione. Progetto che è stato finanziato dal Cesvot. Una dozzina di detenuti saranno istruiti in un corso teorico-pratico per la durata di 250 ore al fine di realizzare all’interno della Cittadella carceraria un laboratorio artigianale, per trasformare minerali (la maggior parte dei quali rinvenuti nelle miniere dell’isola) in souvenir o bigiotteria da esporre o vendere nei negozi autorizzati. “L’obiettivo del progetto - dicono i responsabili dell’associazione - è quello di recuperare un’attività artigianale tipica e tradizionale, offrendo un’opportunità di lavoro agli stessi detenuti. Ma non solo. Si vuole far conoscere la realtà penitenziaria ricca di potenzialità e professionalità, creando percorsi formativi al fine di favorire il ritorno in società di chi ha scontato la pena detentiva”. “Nonostante il difficile momento vissuto dagli Istituti di Pena italiani - concludono dal carcere di Porto Azzurro - l’iniziativa della Misericordia assume particolare rilevanza visto che non è mai mancata da parte della dirigenza carceraria la volontà del rispetto delle finalità istituzionali previste dalla normativa vigente”. Nuoro: a Badu ‘e Carros, detenuti “Liberi nello sport” La Nuova Sardegna, 14 febbraio 2011 Stavolta i detenuti di Badu ‘e Carros dovranno vedersela direttamente con i loro avvocati. Gli uni contro gli altri schierati, nel campetto del penitenziario. Eppure sono proprio i legali di fiducia a sponsorizzare la squadra dei reclusi. Sono gli Ordini forensi di Nuoro e di Sassari, infatti, a sostenere gli avversari, la ciurma dei galeotti. Sedici fortunati, scelti dal ministero della Giustizia tra i 150 reclusi dell’istituto di pena nuorese. Sedici atleti alla sbarra chiamati a difendere... beh, sì, a difendere i colori del carcere. In un triangolare di calcio a otto che li vedrà schierati contro le formazioni che porteranno in campo l’avvocato Priamo Siotto, presidente dell’Ordine forense barbaricino, e l’avvocato Francesco Milia, presidente dell’Ordine turritano. Tre compagini agguerrite che stavolta se le daranno di santa ragione, a calci nel pallone, all’ombra del muro di cinta, dentro la gabbia di rete metallica che delimita ogni lato e persino il cielo azzurro del campo sportivo di Badu ‘e Carros. Sarà questo il momento conclusivo di un nuovo percorso che ha già preso piede da qualche settimana. L’amministrazione penitenziaria, in primis la direttrice del carcere nuorese Patrizia Incollu, ha aperto i cancelli, infatti, a un progetto tanto innovativo quanto pionieristico per Badu ‘e Carros. “Liberi nello sport”: questo il titolo dell’iniziativa appena decollata e destinata a chiudere battenti a fine giugno, una proposta portata avanti dall’Unione sportiva Acli di Nuoro, che gode anche del patrocinio della presidenza nazionale della stessa sigla che raggruppa le Associazioni cristiane dei lavoratori italiani. “Il nostro obiettivo - spiega a chiare lettere Salvatore Rosa, presidente del comitato nuorese Us Acli - è cercare di migliorare la qualità della vita, delle persone e della società, attraverso lo sport, a partire da una realtà particolarmente esposta al rischio di isolamento sociale quale è il carcere”. “Certo, un’iniziativa come questa non deve essere occasionale... sarebbe bene, magari, che proseguisse di anno in anno” aggiunge Rosa. Intanto “Liberi nello sport” è già un ottimo risultato. E non solo perché sarà l’occasione per mettere su una squadra di calcio, ma anche, e forse soprattutto, perché il progetto coinvolge pure le donne, quindici detenute che potranno fare ginnastica di mantenimento nella palestrina del penitenziario con tanto di personal trainer. Sono finiti, insomma, i tempi del fitness fai da te: l’Us Acli mette a disposizione del carcere due tecnici titolati Isef in Scienze motorie, Maria Antonietta Sanna e Massimo Becconi. La prima a disposizione della sezione femminile, il secondo chiamato a guidare i maschi. Che non avendo per ora a disposizione il campo sportivo (a causa dei lavori in corso nella nuova ala del penitenziario), cominciano la preparazione atletica in palestra. Generosamente attrezzata dal Coni di Nuoro; è il suo presidente Sandro Floris infatti che ha procurato i macchinari necessari. Ai due allenatori, invece, il compito di preparare le schede personali per ogni atleta detenuto che tra quattro mesi scenderà in campo e per ogni atleta detenuta alle prese, magari per la prima volta in assoluto, con il total body e la social dance. Detenuti calciatori a lezione di tattica, dribling, passaggio e tiro in porta. Chiamati in classe, poi, per studiare le regole del gioco. Davanti ai professori che la Figc e la sezione arbitri manderà a Badu ‘e Carros. Mentre per le donne detenute, dopo gli allenamenti a corpo libero e le sessioni finalizzate alla tonificazione muscolare, ci sarà l’opportunità, a fine marzo, di mettersi alla prova in un saggio conclusivo che le vedrà impegnate in un ballo di gruppo. Sanremo: detenuto si sposa in carcere nel giorno di San Valentino Sanremo News, 14 febbraio 2011 Accanto ai due promessi sposti, c’erano soltanto i testimoni. Nessun invitato o parente e nessuno delle Istituzioni, perché come afferma il direttore del penitenziario di Valle Armea, Francesco Frontirrè: “Era un momento lor”. C’è chi festeggia il San Valentino al ristorante, chi con un viaggio romantico in qualche meta esotica; chi ancora come la coppia Belen e Corona, “pizzicata”, la scorsa notte, a litigare in piazza Bresca e chi come un detenuto genovese di 56 anni, che oggi, in carcere a Sanremo, si è sposato con la sua amata, una donna poco più che trentenne, abitante nel genovese. Il fatidico ‘sì è avvenuto, intorno alle 13, nelle forme del rito civile, al cospetto dell’assessore comunale Alessandro Il Grande, che ha sposato la coppia in una stanzina solitamente utilizzata per i colloqui dei detenuti. Accanto ai due promessi sposi, c’erano soltanto i testimoni. Nessun invitato o parente e nessuno delle Istituzioni, perché come afferma il direttore del penitenziario di Valle Armea, Francesco Frontirrè: “Era un momento loro e non c’era bisogno della nostra presenza”. Per il carcere di Sanremo, si tratta del secondo matrimonio, dopo quello celebrato nel 2004. Il brindisi è avvenuto rigorosamente con bevande analcoliche: aranciata e coca cola, accompagnate da qualche pezzo di pizza e focaccia. ‘Nel 2000 vietai gli alcolici in carcere - racconta Frontirrè - perché molti detenuti esageravano, creando scompigliò. Per i due novelli sposi, nessuno viaggio di nozze, ma soltanto la promessa di fedeltà per tutta la vita. Il che non è poco, coi tempi che corrono. Dopo il consueto scambio delle fedi e un momento di vicinanza con la nuova moglie, il detenuto ha fatto ritorno in cella, dove deve ancora scontare circa quattro anni per una serie di reati, tra i quali rientra anche la truffa. Libri: “La pena di morte italiana” di Samanta Di Persio www.beppegrillo.it, 14 febbraio 2011 La pena di morte in Italia non esiste più dal 1° gennaio 1948, come recita la Costituzione italiana. C’è ancora, è vero, la libertà di tortura, in quanto il nostro codice penale non la contempla e qualcuno se ne approfitta, come durante il G8 di Genova a Bolzaneto e alla scuola Diaz. In carcere le sentenze capitali sono eseguite con discrezione, senza dare nell’occhio. Il pestaggio si chiama infarto o emorragia cerebrale. Lo strangolamento è sempre un suicidio. Il carcere, il luogo per definizione più sicuro e custodito del mondo, è un braccio della morte che si estende lungo tutta la penisola, da Genova, a Firenze, a Rovereto. Ogni anno muoiono in carcere circa 180 detenuti. Un terzo sono suicidi. Chi si toglie la vita è di solito un ragazzo alla prima detenzione. Nel 2009 vi sono stati sessantanove suicidi, un record storico, un tasso superiore di ventuno volte a quello della popolazione italiana non detenuta. Si potrebbe pensare che sia normale che ciò succeda, in Italia come altrove. Invece il Canada ha un tasso quattro volte più basso di quello italiano e il ministro della Giustizia polacco si è dovuto dimettere a causa di un suicidio. Questo libro è un coro dolente di voci che ci racconta di gironi infernali dove la pena di morte è inflitta senza sentenza, senza colpe, senza testimoni e soprattutto senza colpevoli. La pena di morte non è mai stata abolita, si è evoluta. Chi, con sorpresa generale, viene trovato morto nella sua cella, con la faccia tumefatta, gli organi interni devastati, è solo un “diversamente suicida”. Prefazione di Beppe Grillo “In Italia, come tutti sanno, non esiste la pena di morte. C’è, è vero, ancora la libertà di tortura, in quanto il nostro codice penale non la contempla e qualcuno se ne approfitta, come durante il G8 di Genova a Bolzaneto e alla scuola Diaz. Ma la pena di morte non esiste più dal 1° gennaio 1948 come recita la Costituzione italiana. Ragion per cui in carcere le sentenze capitali sono eseguite con discrezione, senza dare nell’occhio. Il pestaggio si chiama infarto o emorragia cerebrale. Lo strangolamento è sempre un suicidio, spesso con i lacci delle scarpe con cui non si impiccherebbe neppure un criceto. Si muore in cella e durante l’agonia, che può durare ore come per Aldo Bianzino o per Stefano Cucchi, non è presente nessuno, il secondino è immancabilmente altrove, il medico di servizio in ritardo. Quando arriva, rassicurante, con la borsa, non nota mai i segni delle percosse, dei lividi, delle ferite. Il decesso è naturale. Le diagnosi fotocopia dei medici attestano lesioni auto inferte. Si fanno sempre male da soli. Il detenuto era depresso, non ha retto. I segni del male oscuro che affliggeva i carcerati defunti sono le lettere-testimonianza inviate ai parenti, in particolare alle madri poco prima della loro morte. Sono annunci funebri, di ragazzi che gridano in una grafia incerta, disperata, che stanno per morire ammazzati. Le madri chiedono un colloquio, un trasferimento a un altro carcere, che vengono però negati fino alla morte, come nel caso di Niki Aprile Gatti. Il carcere, il luogo per definizione più sicuro e custodito del mondo, è un braccio della morte che si estende lungo tutta la penisola, da Genova, a Firenze, a Rovereto. Ogni anno muoiono in carcere circa 180 detenuti. Un terzo sono suicidi. Chi si toglie la vita è di solito un ragazzo alla prima detenzione. Nel 2009 vi sono stati sessantanove suicidi, un record storico, un tasso superiore di ventuno volte a quello della popolazione italiana non detenuta. Si potrebbe pensare che sia normale che ciò succeda, in Italia come altrove. Invece il Canada ha un tasso quattro volte più basso di quello italiano e il ministro della Giustizia polacco si è dovuto dimettere a causa di un suicidio. In galera chi sopravvive e non si suicida o viene suicidato diventa un delinquente abituale, un pericolo per la società quando ritorna in libertà. L’affidamento ai servizi sociali è stato di fatto eliminato. L’affidamento è una misura di rieducazione a tutela della sicurezza dei cittadini. I detenuti affidati ai servizi sociali, infatti, quasi mai compiono altri reati e ritornano in carcere: sono solo tre su dieci. Chi sconta tutta la detenzione in carcere invece continua a delinquere: ben sette su dieci. Questo libro è un coro dolente di voci che ci racconta di gironi infernali dove la pena di morte è inflitta senza sentenza, senza colpe, senza testimoni e soprattutto senza colpevoli. Il carcere, come la divisa, non si processa e chi finisce dietro le sbarre è solo un numero senza più diritti. La pena di morte non è mai stata abolita, si è evoluta. Chi, con sorpresa generale, viene trovato morto nella sua cella, con la faccia tumefatta, gli organi interni devastati, è solo un “diversamente suicida”. Libri: Sappe; sulle morti in carcere, da Beppe Grillo sterile demagogia Comunicato stampa, 14 febbraio 2011 “Beppe Grillo parla di carcere e delle morti in carcere ma non sa quello che dice. Un concentrato di ipocrisia e demagogia come si rileva dalle sue affermazioni contenute in un libro sulla presunta pena di morte che a suo avviso ci sarebbe in Italia, nelle prigioni italiane, non è facile trovarlo. Non possiamo accettare una falsa rappresentazione delle carceri italiane come luogo fuori dalle regole democratiche e dal rispetto dei diritti umani in cui quotidianamente e sistematicamente avverrebbero violenze in danno dei detenuti ed ogni decesso è quindi sospetto, come insinua Grillo. Non accettiamo che al duro, difficile e delicato lavoro che quotidianamente le donne e gli uomini della Polizia penitenziaria svolgono con professionalità, zelo, abnegazione e soprattutto umanità vengano associati i terribili vocaboli di violenza, indifferenza, cinismo e omertà. Nessuno può dare giudizi superficiali o attribuire frettolosamente responsabilità senza alcuna prova, men che meno Beppe Grillo, che della vita in carcere non ci sembra sapere proprio nulla: è la Magistratura che deve accertare – e lo fa come sempre con serenità, equilibrio e pieno rispetto dei valori costituzionali - gli elementi di cui è in possesso quando si verificano in carcere questi tragici eventi critici. Ma è invece importante per il Paese conoscere il lavoro svolto dai poliziotti penitenziari, è importante che la Società riconosca e sostenga l'attività risocializzante della Polizia Penitenziaria e ne comprenda i sacrifici sostenuti per svolgere tale attività, garantendo al contempo la sicurezza all'interno e all'esterno degli Istituti. Il nostro Corpo, negli oltre 200 penitenziari italiani, è costituito da persone che nonostante l’insostenibile, pericoloso e stressante sovraffollamento credono nel proprio lavoro, che hanno valori radicati e un forte senso d’identità e d’orgoglio, e che ogni giorno in carcere fanno tutto quanto è nelle loro umane possibilità perché nessuno perda la vita, sventando ogni anno centinaia e centinaia suicidi di detenuti (quasi mille all’anno!). Invito Grillo ad incontrare il primo e più rappresentativo Sindacato della Polizia Penitenziaria, il Sappe: molto volentieri gli racconteremo qual è la realtà nelle carceri italiane”. è quanto dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa organizzazione dei Baschi Azzurri, in relazione ad alcune affermazioni di Beppe Grillo sulle morti in carcere. “Noi, che rappresentiamo il primo e più rappresentativo Sindacato della Polizia Penitenziaria, siamo i primi a sostenere che il carcere deve essere una casa di vetro, proprio perché non abbiamo nulla da nascondere. Ma non è accettabile il gioco al massacro dell’onorabilità della Polizia penitenziaria e dei suoi appartenenti. Ci offendono le sollecitazioni a fare piena luce su alcune morti avvenute in carcere quasi a instillare il dubbio (a gente che nulla sa di carcere e delle reali dinamiche penitenziarie) che questi tragici eventi fossero stati seguiti e gestiti con leggerezza e disinteresse o, peggio ancora, con omertà. Beppe Grillo, che con il movimento Cinque Stelle si prefigge di dare nuovi stimoli all’asfittica politica italiana, non può fare sterile demagogia sulla triste tragedia delle morti in carcere. Ci incontri e comprenderà davvero come si vive nelle nostre prigioni”. Immigrazione: sul progetto di costruire un Cie a Venezia infuria la polemica La Nuova Venezia, 14 febbraio 2011 L’annuncio è di quelli con il botto: accanto al nuovo carcere che sarà realizzato nella terraferma mestrina - e che già ha scatenato la reazione degli abitanti di Campalto e dintorni, dove è stata individuata l’area per la nuova struttura penitenziaria - sorgerà anche il Cie veneto, il Centro identificazione ed espulsione per immigranti clandestini. Un centro da 300 posti per ricevere i fermati di tutta la regione. A dare la notizia è stato il ministro degli Interni Roberto Maroni, ieri, a Venezia. “Un Cie a Vicenza, a Verona o Treviso? Tutte chiacchiere”, aggiunge ancora il ministro leghista, “nel Piano delle carceri era già prestabilito che laddove si realizzeranno nuove strutture penitenziarie - accanto a queste, separati, ma vicini - si edificheranno anche i Cie, uno per regione. Questo proprio per ottimizzare l’uso delle risorse umane e finanziarie e garantire maggiore sicurezza, senza disperdere le forze dell’ordine: naturalmente ci sarà anche una maggiore dotazione di agenti penitenziari”. L’annuncio è destinato a far rumore, dal momento che già l’indicazione del ministero di Giustizia - affidata poi alla Regione per l’identificazione definitiva dell’area per la costruzione del nuovo carcere, destinato a pensionare lo straripante Santa Maria Maggiore - della zona di Campalto come sito ha scatenato le vibrate proteste della popolazione, confluite in un ordine del giorno approvato all’unanimità dal Consiglio comunale (pur con forti tensioni) che definisce “la scelta di via Orlanda a Campalto è assolutamente inopportuna”, chiedendo al ministero di Giustizia di differire i tempi della decisione. Tempi, di fatto, già scaduti. Ora il carico da 90: accanto al nuovo carcere da 450 posti, un centro per 300 immigrati destinati all’espulasione. “Capisco i timori della popolazione circa la sicurezza, ma sono infondati”, commenta il ministro Maroni, “perché laddove c’è una struttura penitenziaria la sicurezza cresce. Inoltre, se oggi la Questura ferma un clandestino lo deve trasportare al Cie di Milano o di Bologna e - se come spesso accade, non c’è posto - deve liberare l’immigrato e “invitarlo” a lasciare l’Italia: cosa che naturalmente non fa”. Tempi di realizzazione della nuova struttura? “Non prima di un anno”. Il ministro è anche intervenuto sull’interpretazione della legge Bossi-Fini assunta dalle Procure venete che - alla luce della direttiva europea del 2008 sull’immigrazione - hanno deciso di non arrestare ed espellere i clandestini fermati (come invece autorizza la legge italiana), applicando la gradualità prevista della direttiva, che al primo punto prevede l’invito a lasciare il paese entro un mese. “È un’interpretazione che non condivido e che snatura l’essenza della Bossi-Fini”, commenta il ministro Maroni, “ma la direttiva europea lascia spazi di interpretazione agli stati membri e non impedisce l’arresto. Sto predisponendo un decreto urgente in tal senso, per la lettura autentica della Bossi-Fini che autorizza arresto ed espulsione per quegli immigrati clandestini che sono in Italia per delinquere e ai quali non si può chiedere semplicemente di andarsene”. Il centro per immigrati? Motore di degrado sociale, di Ennio Fortuna (Il Gazzettino) “L’annuncio del Ministro Maroni, uno dei pochi dell’attuale governo generalmente apprezzato ha gelato la città. Si tratta di un messaggio duplice: il carcere si farà a Campalto e accanto sorgerà il centro di accoglienza per immigrati. Il Consiglio Comunale si era già espresso contro l’ubicazione del nuovo carcere a Campalto, sia per la sua vicinanza all’abitato sia per oggettivi problemi urbanistici, e non c’è dubbio che farà altrettanto per il centro di accoglienza. A maggior ragione, si può dire, e senza tema di sbagliare. Perché un centro per immigrati è un motore di assoluto degrado sociale già in termini generali e poi per la particolare e inadatta ubicazione prescelta. Spero che la decisione non sia definitiva. Per la mia passata esperienza professionale sono anch’io persuaso che nella nostra regione debba essere impiantato e reso operante un adeguato centro per immigrati, ma non c’è ragione che la scelta cada su Campalto che già dovrebbe tollerare la presenza di una nuova casa di reclusione per oltre 500 detenuti. Questa sembra invece, paradossalmente, l’unica motivazione addotta da Maroni: siccome si costruirà un carcere a Campalto, è giusto che accanto sorga anche la struttura per immigrati. Doppio errore, almeno mi sembra. Campalto è un luogo assolutamente inadatto per un carcere tanto grande, di sicuro è del tutto inaccettabile che oltre alla casa di reclusione la località sia gravemente e ulteriormente penalizzata dalla presenza di un centro di accoglienza. Certamente nel Veneto non mancano luoghi più adatti. Un centro di accoglienza funzionale per le esigenze della giustizia e dell’ordine pubblico va ubicato tra Vicenza e Verona dove potrebbe svolgere la sua attività con maggiore efficacia e precisione. Non si tratta quindi di tutelare solo le ragioni di Campalto e dell’intera città, il che sarebbe comunque un ottimo motivo per dire di no. Si tratta di contribuire ad una scelta più opportuna e razionale in termini obiettivi e generali. Spero che Comune, Provincia e Regione si esprimano nello stesso senso a voce unanime e sollecita”. Il Governatore Zaia: il Cie non è assolutamente sicuro Il Cie annunciato dal ministro Maroni a Mestre “non è assolutamente sicuro”. Lo ha precisato il governatore regionale Luca Zaia, dopo le polemiche di questi giorni. “Questo - ha spiegato il presidente della Regione, parlando a margine dell’inaugurazione dell’ospedale di Montebelluna - visto e considerato che prima dovremmo avere l’indicazione dal sindaco di Venezia, Giorgio Orsoni, su dove localizzare il futuro carcere, ed ancora non si è deciso su Campalto”. Secondo Zaia, il ministro Maroni “ha voluto porre la questione nazionale di affiancare i Cie alle carceri, ed ho l’impressione che in questo caso si sia accostato un po’ troppo”. Per Zaia, in ogni caso, “la partita del Cie in Veneto dev’essere una partita che discuteremo ascoltando i cittadini”. Tunisia: arrestate più di mille persone che tentavano di emigrare clandestinamente Ansa, 14 febbraio 2011 Le autorità tunisine hanno arrestato negli ultimi giorni oltre mille persone intenzionate ad emigrare clandestinamente verso l’Europa. Lo riporta il quotidiano domenicale tunisino Effabah, citando fonti della sicurezza. Solo nell’isola di Djerba sono stati bloccati - riferisce la fonte - quattro tentativi di emigrazione con l’arresto di 200 immigrati clandestini provenienti dai centri di Tataouine, Gafsa, Ben Guerdane e Medenine. Negli ultimi cinque giorni - conferma il quotidiano - sono stati circa 5.000 gli immigrati clandestini, in gran parte tunisini, a sbarcare a Lampedusa. Cuba: liberati due dissidenti, detenuti ancora 7 dei 52 di cui era stata decisa scarcerazione Ansa, 14 febbraio 2011 Altri due dissidenti sono stati rilasciati dalle autorità cubane: di tratta di Hector Maseda e Angel Moya. Il primo è il marito di Laura Pollan, la leader delle “Dame in bianco”, l’organizzazione che riunisce le mogli dei dissidenti in carcere. Maseda, 68 anni, giornalista e ingegnere, era stato condannato nel 2003 a 20 anni di prigione. Liberato nella notte e condotto nella sua casa dell’Avana, Maseda ha fatto sapere che resterà a Cuba. Padre di quattro figli e fondatore del Partito liberale, vietato a Cuba, Maseda ha lavorato per diversi anni per Reporters sans frontieres ed è stato collaboratore di Le Monde e del New York Times. Un secondo prigioniero, Angel Moya, è stato liberato qualche ora dopo, ha annunciato la moglie Berta Soler, numero due delle Dame in bianco. Anche lui si rifiuta di partire in esilio. Nelle carceri cubane restano ancora 7 dei 52 dissidenti che il governo cubano di Raul Castro si era impegnato a liberare.