Giustizia: “edilizia e braccialetti”… ecco il programma del nuovo governo per le carceri di Elisabetta Laganà (presidente Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia) Ristretti Orizzonti, 5 dicembre 2011 Nel piano previsto dalle misure del governo riemerge la possibilità di affrontare l’emergenza carceri aprendo la strada per la realizzazione di nuove strutture ricorrendo alla privatizzazione. I costi di realizzazione degli edifici potrebbero essere finanziati con capitale privato, secondo un modello di partenariato pubblico-privato per il quale i costi di realizzazione della struttura sono reperiti da finanziamenti privati attraverso strutture bancarie. Analoga proposta fu lanciata dal Consiglio dei Ministri nel 2009, che approvò il “piano carceri”, creato per dare risposta all’emergenza del sovraffollamento penitenziario, per poter ampliare la capienza degli istituti fino ad oltre 60mila detenuti (a fronte degli attuali 43mila posti). La copertura economica di questo piano prevedeva che una parte dei fondi fosse tratta dalla Cassa delle Ammende, ed il Governo aprì già allora anche ai finanziamenti privati attraverso lo strumento del “project financing” per la costruzioni dei nuovi edifici. Già quella volta questa decisione sollevò non poche proteste da parte del volontariato. Si decise di destinare 150 milioni di Euro della Cassa Ammende, la cui destinazione, istituita presso il Dipartimento della Amministrazione Penitenziaria era riservata al Consiglio di aiuto sociale per le attività dello stesso art. 74 Ord. Penit., comma 5, n.1; attività individuate dai successivi articoli 75 e 76: assistenza penitenziaria e post-penitenziaria ai detenuti e alle loro famiglie, nonché soccorso e assistenza alle vittime del delitto. I dubbi sollevati da tutti coloro che protestarono su tale utilizzo, sollevando dubbi sulla legittimità della diversa destinazione di tali fondi decisa dal ministro, vennero rapidamente appianati tramite un decreto “mille proroghe”, in cui venne modificata la normativa sulla Cassa Ammende, prevedendo in tal modo che con le stesse risorse si potessero costruire anche le carceri. In tal modo si garantiva il reinserimento della persona: ovviamente, solo in carcere. Definimmo la proposta di finanziare i nuovi istituti “leggeri” con questi fondi come una applicazione alla rovescia della riforma. Ciò che avrebbe dovuto essere destinato per la risocializzazione veniva utilizzato per la reclusione; ciò che avrebbe potuto favorire la rieducazione del condannato, la sua possibilità di integrazione e quindi la minore recidiva, era ridotto o tolto. Alla base, c’è una contraddizione politica profonda. Affermare di voler “combattere il sovraffollamento” costruendo nuove carceri è come sostenere di voler “costruire la pace” attraverso la corsa agli armamenti. Il filo che lega i due fenomeni non è la lotta alla criminalità, è invece l’opzione a favore di politiche punitive in campo sociale e, conseguentemente, di politiche di sicurezza in campo penale. Per questa ragione si costruiscono nuove carceri, anche se la metà dei reclusi è in attesa di giudizio, si limita l’accesso alle misure alternative e si continua a imprigionare in massa migranti, tossicodipendenti, senza dimora. Le cui tragiche conseguenze sono evidenziate dalle drammatiche tre morti di questi giorni. L’aumento dei posti letto ha sempre rappresentato una spinta alla crescita dell’incarcerazione: ha rafforzato l’identificazione della pena con le sbarre del carcere e, immobilizzando centinaia di milioni di euro negli edifici penitenziari, ha impedito il finanziamento di percorsi alternativi alla detenzione. Alla luce di tanti anni di esperienza, come volontariato possiamo tranquillamente fare questa dichiarazione: i piani carceri sono inefficaci, addirittura dannosi. Più si edifica, più si creano posti per coloro che necessiterebbero di altre risposte. A questa affermazione ne aggiungiamo un’altra: siamo decisamente contrari a ogni forma di presenza di privati nella gestione penitenziaria, anche perché sorge una inevitabile domanda: perché un soggetto privato dovrebbe essere disponibile ad investire fondi per l’edilizia carceraria? Forse semplicemente perché ritiene di poterne trarre vantaggi dalla gestione (peraltro fortunatamente impedita dalle vigenti leggi)? La gestione pubblica della pena ne garantisce infatti la sua trasparenza. Insomma, l’ingresso di privati, come annunciato, rischia di mettere ombre al sistema di garanzie che il pubblico deve detenere; è invece alle articolazioni istituzionali che vanno chiesti mezzi e risorse. Quella dell’edilizia è una impostazione tutta italiana, molto più arretrata rispetto ad altre esperienze di altri paesi europei. Gli stessi Stati Uniti, pur precedentemente pervasi da una compulsiva spinta bulimica all’edilizia, hanno fatto marcia indietro rivedendo il programma, se non altro, per ragioni di costi. Quindi quasi solo l’Italia sembra insistere sull’ennesima “colata di cemento” sulle disastrate condizioni della nostra popolazione penitenziaria. Secondo punto: il braccialetto elettronico. Chiunque abbia a che fare con il carcere sostiene che così non è possibile andare avanti e quindi ci vuole il braccialetto. Il ragionamento andrebbe articolato ed approfondito. Bisognerebbe innanzitutto analizzare i motivi e le cause di questa situazione. Legare il braccialetto al potenziamento delle misure alternative rischia di portare su una strada fatta di tecnicismi, anziché di rapporti, di relazioni, di presa in carico dei soggetti, di progetti sociali. Rischia di riportare tutte le risposte sul piano della sicurezza percepita, di vanificare gli sforzi di chi cerca di sostenere le misura alternative, di dare concreto sostegno ad esse. Realizzare un effettivo sistema di misure richiede d’altronde un investimento di operatori dell’area educativa e sociale, che sono sempre gli ultimi ad essere posti in organico. Nella legge Simeone-Saraceni-Fassone era stato previsto un grande aumento di assistenti sociali e di operatori del servizio sociale, ma in realtà l’incremento andò davvero a rilento. L’organizzazione del sistema, si sa, ha due componenti: quella penitenziaria, che compie le valutazioni sull’ammissione e quella giudiziaria, rappresentata dalla magistratura di sorveglianza, che sappiamo essere in forte sofferenza organizzativa. Difendere le leggi sulle misure alternative significa difenderne il suo funzionamento. Il sistema delle misure, lo sappiamo, può avere una percentuale di rischio, che diminuisce tuttavia proporzionalmente alla capacità e possibilità di presa in carico degli operatori, che svolgono una osservazione dal vero della persona. Il braccialetto rischia di essere uno strumento cieco, che può segnalare dove una persona si trova, ma non misurarne la qualità dei rapporti, la relazione con il suo contesto, la condizione lavorativa. È fondamentale perciò realizzare la conoscenza della persona, così difficile da conseguire all’interno degli istituti a causa della mancanza di personale, e accompagnare questa conoscenza passo per passo nell’esecuzione della misura. Si può quindi fare altro: se il fine della pena è la risocializzazione, bisogna che l’operatività si rivolga verso la società. Ma bisogna essere consapevoli e trasporre queste convinzioni in una ferma decisione di procedere in questo senso. Per la società, questo significa entrare in carcere, prendersi degli impegni concreti, con la certezza che le possibilità di successo saranno maggiori quanto più saranno le forze coinvolte. Giustizia: Franco Corleone; le illusioni sul nuovo Governo stanno evaporando rapidamente Ansa, 5 dicembre 2011 “Le illusioni sul nuovo Governo e sulle priorità per il carcere da parte del ministro Paola Severino stanno rapidamente evaporando. L’annuncio del ripescaggio del braccialetto elettronico, misura inutile e costosa, e ora l’annuncio dell’affidamento ai privati della costruzione di nuove carceri, sono il segno non solo dell’improvvisazione ma dell’assenza di una politica di riforma, che è estremamente urgente”. Lo afferma il garante dei diritti dei detenuti del Comune di Firenze, Franco Corleone, rispetto alle misure del Governo. “Parlare di edilizia carceraria e non di architettura, cioè non affrontare il come costruire nuovi istituti penitenziari, per quali detenuti e per quali funzioni, è improponibile”, prosegue Corleone il quale ha anche ricordato che “il coordinamento dei garanti (una trentina in Italia, ndr), già la scorsa estate, ha inutilmente presentato un pacchetto di misure efficaci ed immediatamente operative; siamo disponibili al confronto per valutare cosa fare nel tempo”. Ma “anziché costruire carceri, ribadiamo la necessità di far uscire 10.000 detenuti tossicodipendenti e di chiudere gli ospedali psichiatrici giudiziari”. Giustizia: quattro detenuti morti in otto giorni, a causa del carcere, del suo degrado di Riccardo Arena www.ilpost.it, 5 dicembre 2011 In soli otto giorni, dal 26 novembre al 4 dicembre, nelle carceri italiane sono morte, tra suicidi e malattie, ben quattro persone detenute. Ovvero un decesso ogni due giorni. Quattro detenuti morti in carcere e a causa del carcere, del suo degrado. Un degrado che rende assai difficile cogliere in tempo un disagio psicologico prima che sfoci nel suicidio. Un degrado che non consente di assicurare il rispetto del diritto alla salute e che determina morti definite poi “improvvise”. Insomma, non sono morti inaspettate, ma sofferenze ignorate e decessi prevedibili: omicidi colposi. Con gli ultimi decessi salgono a 176 le persone detenute morte nel 2011. Un numero che stride con il divieto di infliggere la pena capitale nel nostro Paese. In Italia, infatti, non c’è la pena di morte, ma per una pena di muore. Ecco la triste sequenza delle ultime persone morte per una pena: - Pavia, 26 novembre. Gaye Seydina, 37 anni, si sente male nella sua cella. Un compagno di cella lancia l’allarme, ma l’uomo morirà ospedale, senza riprendere conoscenza. - Trieste, 2 dicembre. Michele Misculin, 33 anni, muore durante la notte nel carcere “Coroneo” di Trieste. A trovarlo privo di vita, riverso sulla branda più alta del letto a castello, sono stati i suoi compagni di cella. Secondo le prime ipotesi le cause della morte potrebbero essere riconducibili a un’overdose di antidolorifici. - Cagliari, 4 dicembre. Monia Bellafiore, 42 anni, si suicida alle 6.50 nel carcere “Buoncammino” di Cagliari. La donna, secondo le prime ricostruzioni, si sarebbe impiccata con un lembo di stoffa nel bagno della cella che condivideva con altre 5 detenute. Sono state proprio loro a dare l’allarme, ma per Monia non c’è stato nulla da fare. - Bologna, 4 dicembre. Said Wadih, 34enne di nazionalità marocchina, è stato rinvenuto cadavere nella sua cella del carcere La Dozza di Bologna. Le cause del decesso sono in corso di accertamento, anche se pare che il detenuto negli attimi prima della morte avesse sniffato gas dalla bomboletta in dotazione per il fornellino da campo usato in cella per cucinare. La domanda ora è: quante persone detenute dovranno ancora morire, prima che il parlamento affronti l’emergenza carceraria e riformi il sistema delle pene? Giustizia: quasi 20mila condannati in misura alternativa, 4mila fuori con “svuota-carceri” Ansa, 5 dicembre 2011 Sono poco più di ottomila i condannati che stanno scontando la pena nella propria casa e quasi 20.000 in tutto quelli che godono di misure alternative alla detenzione; misure sulle quali intende puntare il Guardasigilli Paola Severino per decongestionare le carceri e sulla cui applicazione il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha diffuso gli ultimi dati. Le cifre, aggiornate al 30 novembre scorso, rivelano che per l’esattezza sono 18.876 i condannati che scontano la pena fuori dai penitenziari e che 8.233 sono sottoposti alla detenzione domiciliare. Un conto a parte riguarda invece chi sta usufruendo della cosiddetta “svuota-carceri”, la legge che consente la concessione della detenzione domiciliare ai condannati ai quali rimangono 12 mesi di pena definitiva da scontare: dal 16 dicembre del 2010 al 30 novembre scorso hanno lasciato il carcere quasi in 4.000 (3.965). Tra le misure alternative il maggior ricorso è all’affidamento in prova al servizio sociale, che permette al condannato di scontare la pena nel proprio ambito sociale e familiare o nel luogo di accoglienza, fornendogli la possibilità di sperimentare percorsi di recupero e reinserimento: sono 9.761 le persone ammesse. Mentre sono 882 i condannati sottoposti alla semilibertà, cioè che trascorrono il giorno fuori dal carcere (per lavorare e curare le relazioni familiari e sociali) per farvi rientro la notte. Giustizia: Pannella; amnistia, contro tortura di sistema carcerario che ignora Costituzione Adnkronos, 5 dicembre 2011 Un provvedimento di amnistia costituirebbe “una scossa enorme” per il sistema carcerario contro la drammatica situazione di sovraffollamento. Lo sottolinea Marco Pannella, intervenuto ai microfoni di Radio Radicale, rivolgendosi “a chi dice che non ci sono le condizioni politiche” per un atto di clemenza di questo genere. Nelle condizioni attuali, il sistema carcerario italiano è “una struttura che produce tortura. Ci troviamo - ha aggiunto Pannella - in posizione di flagranza di un comportamento tecnicamente criminale sul piano oggettivo, perché ignora la Costituzione e i diritti umani”. Giustizia: Filippi (Pdl); unico rimedio problema sovraffollamento è costruire nuove carceri Ansa, 5 dicembre 2011 Da un po’ di tempo i radicali ed i cattocomunisti insistono nel chiedere un’amnistia che faccia uscire i criminali dalle carceri, giustificando tale richiesta con l’argomento del sovraffollamento delle carceri stesse. L’unico modo per risolvere il problema del sovraffollamento è quello di costruire nuove carceri. La sola idea di un’amnistia o di un provvedimento d’indulto costituisce un insulto ed una mancanza di rispetto nei confronti di tutti i cittadini che sono state vittime di reati, spesso violenti, da parte dei criminali comuni. Nuove carceri dunque, che consentano una vita decorosa e dignitosa ai carcerati, ma nessuna amnistia o indulto, né ora e né mai. Già in passato un provvedimento d’indulto aveva fatto uscire dalle carceri migliaia di delinquenti; un provvedimento che ha suscitato indignazione e rabbia fra i cittadini. Molti dei delinquenti liberati sono poi stati di nuovo catturati, processati e riportati in carcere, a seguito dei nuovi reati commessi; il problema del sovraffollamento, quindi, è rimasto irrisolto. Tornare a parlare dunque d’indulti o amnistie mi sembra immorale e politicamente indecente. Lo Stato deve, innanzitutto, assicurare ai cittadini onesti che lavorano e pagano le tasse, il rispetto delle leggi e la certezza della pena: se venisse meno a tale dovere, subentrerebbero l’anarchia ed il caos. Giustizia: Sappe; senza risorse adeguate il sistema penitenziario non può funzionare Adnkronos, 5 dicembre 2011 Nell’incontro di ieri mattina a Palazzo Chigi, il Presidente del Consiglio Monti ci ha rassicurato sulla consapevolezza della specificità professionale del Comparto Sicurezza, definendo gli appartenenti alla Forze di Polizia “il cuore pulsante del Paese”. Credo che questo possa e debba essere un importante ed imprescindibile punto di partenza per i provvedimenti che l’esecutivo dovrà adottare, a partire dalla riforma pensionistica che non potrà non tenere nel debito conto la quotidiana attività usurante e logorante del nostro lavoro. È quanto dichiara Donato Capece, segretario generale del Sappe, Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria “Il sistema della sicurezza e quello penitenziario in particolare non possono funzionare se mancano le risorse necessarie. E i tagli operati negli ultimi dieci anni hanno indebolito la funzione e l’azione di polizia, andando ad intaccare l’operatività e in particolare quei servizi che sono di diretta fruibilità da parte dei cittadini. Tanto che - continua - i poliziotti penitenziari già da mesi non si vedono retribuiti servizi di missione fuori sede e moltissime ore di lavoro straordinario obbligati a prestare. Non vi è quindi dubbio che quando scarseggiano i mezzi a disposizione - come la benzina ai mezzi del Corpo impiegati per i trasporti dei detenuti - il malessere emerge prepotentemente ed è il solo primo segnale di un allarme che non va sottovalutato. Di questo l’Esecutivo Monti credo debba tenere conto”. Giustizia: Cappellani delle carceri, una storia di assistenza che percorre il 900 Adnkronos, 5 dicembre 2011 La presenza nelle carceri italiane dei cappellani è radicata da decenni. Fu durante la seconda guerra mondiale, quando i nostri penitenziari si riempirono di detenuti politici e di prigionieri di guerra, che il problema di un coordinamento nazionale dei sacerdoti che operano fra i detenuti venne affrontato anche dal punto di vista legislativo. L’iniziativa di porre all’attenzione delle autorità religiose e civili il problema partì dal cappellano delle carceri “Le Nuove” di Torino, padre Ruggero Cipolla, il quale durante l’ultimo periodo bellico si trovò davanti a svariate e pesanti difficoltà, soprattutto per l’assistenza ai molti detenuti politici. Fu in quel periodo di tempo che accompagnò e confortò fino all’estremo supplizio 72 condannati a morte. Quindi padre Cipolla chiese all’Arcivescovo di Torino, il cardinale Maurilio Fossati, di intervenire chiedendogli di patrocinare come prima cosa un convegno nazionale dei cappellani delle Carceri italiane. Il Cardinale Fossati rispose subito positivamente alla sollecitazione ed affidò a monsignor Ferdinando Baldelli, presidente della Pontificia Commissione Assistenza, l’organizzazione del convegno che fu poi tenuto a Roma nei giorni 11, 12 e 13 novembre 1947 con la partecipazione di oltre 100 cappellani, che per la prima volta ebbero l’occasione di incontrarsi, confrontarsi, consigliarsi. L’Arcivescovo di Torino ne fu il presidente e monsignor Baldelli il programmatore, l’estensore e il coordinatore dei vari ordini del giorno. La proposta dell’ istituzione di un cappellano capo, avanzata e caldeggiata in quella sede da monsignor Baldelli e da tutti i convegnisti, fu accolta dal Ministero di Grazia e Giustizia, allora il liberale Giuseppe Grassi. Non potendo tuttavia il ministro istituire il ruolo di una nuova figura giuridica, che è di competenza del Parlamento, fu deciso il conferimento dell’incarico di Ispettore con un decreto ministeriale nell’ambito del già esistente organico dei Cappellani delle Carceri. Così primo Ispettore fu nominato mons. Giovanni Cazzaniga, fino ad allora Cappellano del Carcere “San Vittore” di Milano, che iniziò le sue nuove mansioni nel febbraio 1948, con ufficio prima presso la sede centrale in Piazza Cairoli nella Pontificia Commissione Assistenza, che mise a disposizione i locali e le strutture, e poi in via Giulia 52, in locali ministeriali al quarto piano. Nel 1963 si arrivò all’approvazione parlamentare della legge istitutiva di un posto di Ispettore fuori dell’organico dei Cappellani. È la legge numero 323 del 5 marzo, che istituisce un posto di Ispettore dei cappellani presso il Ministero di Grazia e Giustizia, Direzione Generale degli Istituti di Prevenzione Pena, per la vigilanza sul servizio di assistenza religiosa negli istituti. Toscana: Radicali; l’Icam non apre, detenute madri prigioniere della burocrazia Agenparl, 5 dicembre 2011 Oggi una delegazione di Radicali guidati dalla Senatrice Donatella Poretti, ha visitato i locali della Madonnina del Grappa dove dovrebbe esser inaugurato l’Istituto a custodia attenuata per detenute madri Icam. “Dovrebbe” hanno affermato i Senatori Radicali Poretti e Perduca, perché “I frutti del “mai più bambini in carcere”, e le lacrime di coccodrillo della commozione di vedere un bambino recluso in un penitenziario a scontare la condanna della madre potrebbero finalmente finire se solo si trasformassero le parole e i documenti sottoscritti da tutte le amministrazioni coinvolte in fatti. La Regione Toscana ha previsto e accantonati le somme necessarie, il progetto del Dap è pronto e in pochi mesi la casa sarebbe in grado di accogliere le detenute e i bambini. Ogni giorno che passa senza far partire i lavori è un giorno in più per i bimbi dietro le sbarre e un po’ di degrado in più da recuperare per quei locali che 5 anni fa ospitavano donne e bambini, ma che oggi sono in stato di abbandono - avendo anche sopportato alcune occupazioni abusive e qualche atto vandalico da recuperare. Da 5 anni la ex casa per ragazze madri gestita dalle suore della Madonnina del Grappa è stata offerta in comodato d’uso al Dap e alla Regione per farne un Icam, ma malgrado le firme dei protocolli tutto è fermo, Perché? Ci appelliamo al Presidente Rossi perché si possa sbloccare questa paralisi burocratica e in poco tempo si “facciano uscire” da Sollicciano le detenute madri. Bologna: detenuto suicida, il 61esimo dall’inizio dell’anno… serve un’amnistia, subito Redattore Sociale, 5 dicembre 2011 Ieri sera un detenuto di origine marocchina, 34enne, Wadih Said, arrestato lo scorso luglio ed in attesa di primo giudizio per spaccio di stupefacenti nel carcere bolognese della Dozza, è stato trovato cadavere nella sua cella, che condivideva con un’altra persona. Si ipotizza il suicidio: il detenuto avrebbe inalato gas dalla bomboletta in dotazione per il suo fornellino da campo. “Amnistia subito”. È la richiesta urgente che arriva dall’associazione di detenuti Papillon Emilia-Romagna, dopo il secondo suicidio in pochi giorni nel carcere di Bologna. La vittima è un detenuto di 34 anni di origine marocchina, in attesa di giudizio alla Dozza per spaccio di stupefacenti: si è tolto la vita stanotte inalando il gas di una bomboletta. Due settimane fa un altro detenuto si era ucciso impiccandosi nella sua cella. Dall’inizio dell’anno sono 61 i detenuti che si sono tolti la vita e 175 le morti in carcere, quattro solo nell’ultima settimana. Ristretti Orizzonti, l’organo di informazione carceraria, riepiloga i decessi, facendo notare come si tratti spesso di persone tossicodipendenti o con problemi psichiatrici. Il 26 novembre a Pavia, un detenuto di origine senegalese con problemi psichiatrici è morto per cause ancora da accertare. Il 2 dicembre a Trieste, probabilmente per un’overdose di farmaci, è morto un detenuto 33enne e tossicodipendente. Il 4 dicembre a Cagliari una donna di 42 anni, anche lei tossicodipendente, si è impiccata nella sua cella. “In carcere si muore”, spiega Valerio Guizzardi di Papillon Emilia-Romagna, “e in questo momento l’unico modo per fermare questa strage è l’amnistia. Bisogna dire chiaramente che i politici che si oppongono a questa soluzione portano sulle spalle la responsabilità di queste morti e di quelle che verranno”. La situazione nelle carceri italiane, e il loro perenne sovraffollamento, “è peggiorata e continuerà a peggiorare, perché i problemi non vengono meno: andiamo verso il collasso”. Così anche l’ultimo caso di suicidio in carcere non sorprende: “Siamo affranti e addolorati”, continua Guizzardi, “ma sappiamo che non sarà l’ultimo caso”. Gli ultimi decessi riguardano inoltre detenuti che secondo Papillon non dovrebbero stare in carcere, come i tossicodipendenti: “Hanno bisogno di cure e di luoghi protetti, il carcere non è posto per loro”, spiega Guizzardi. Troppe anche le persone in attesa di giudizio, proprio come l’uomo che si è tolto la vita alla Dozza. “In Italia si continua a fare un uso spregiudicato della custodia cautelare”. Neppure le misure ipotizzate dal nuovo ministro della Giustizia, Paola Severino - braccialetto elettronico e maggiore ricorso agli arresti domiciliari - potrebbero risolvere la situazione. “Tutti sanno che il braccialetto non funziona”, spiega Guizzardi, “ma il punto è che l’amnistia è l’unica soluzione per deflazionare il numero di detenuti presenti nelle carceri: significherebbe salvare decine di vite. È chiaro che da sola non risolverebbe tutti i problemi, ma intanto facciamola, poi bisognerà riformare l’intero settore”. Bologna: la Garante dei detenuti “i tossicodipendenti non possono stare in carcere” Redattore Sociale, 5 dicembre 2011 L’uomo che si è ucciso ieri notte alla Dozza si era dichiarato tossicodipendente. Per Elisabetta Laganà, garante dei detenuti a Bologna, “bisogna riflettere sulla legge Fini-Giovanardi”. “Una morte che impone una riflessione sulla presenza dei tossicodipendenti in carcere”. Così la garante dei detenuti di Bologna, Elisabetta Laganà, commenta il suicidio (il secondo in pochi giorni) avvenuto ieri sera alla Dozza. La vittima era un 34enne marocchino, entrato in carcere nel luglio del 2011, e in attesa di giudizio per spaccio: si è ucciso inalando il gas di una bomboletta. L’uomo si era dichiarato tossicodipendente, ma non era in carico al Sert, rende noto la garante. Il primo dicembre era stato visitato dallo psichiatra, aveva ricevuto una terapia farmacologica ma non aveva mostrato segnali che potessero far pensare a un suicidio. “La dinamica della morte purtroppo è piuttosto frequente”, commenta Laganà, “e impone una domanda: che ci fanno i tossicodipendenti in carcere? È ora di pensare davvero a un piano di dismissione dei tossicodipendenti dal carcere. Come il caso di Adama (la donna rinchiusa al Cie dopo aver denunciato le violenze del marito perché irregolare, ndr) impone una riflessione sulla legge Bossi-Fini, questa morte deve far riflettere sulla legge Fini-Giovanardi”. Per Desi Bruno, la neo garante regionale dei detenuti (in attesa di insediamento), la presenza dei tossicodipendenti “è inaccettabile”, ma il problema da risolvere è anche la forte quota di persone in attesa di giudizio, come l’uomo che si è tolto la vita ieri notte. “Il 40% dei detenuti non ha una posizione processuale definitiva”, spiega Bruno, “il tema del ricorso alla custodia cautelare va affrontato”. Come? Per la garante “l’amnistia è qualcosa su cui tutti stanno cominciando a ragionare, anche i sindacati di polizia penitenziaria, ma non si devono ripetere gli errori fatti con l’indulto”. Sappe: basta sottovalutare la situazione Il segretario Durante: “Non comprendiamo come l’amministrazione continui a non proporre la modifica del regolamento penitenziario al fine di evitare che i detenuti detengano le bombolette”. Un altro suicidio alla Dozza. A pochi giorni di distanza dalla morte di un detenuto, impiccatosi nella sua cella, il carcere bolognese registra un altro decesso. Lo rende noto il Sappe, il sindacato di polizia penitenziaria. Ieri sera verso le 22, un detenuto di origine magrebina, detenuto nel reparto giudiziario del carcere bolognese della Dozza, si è tolto la vita inalando il gas della bomboletta che legittimamente deteneva nella stanza. L’uomo, in cella insieme ad un altro detenuto, è stato trovato dagli agenti che sono intervenuti prontamente, anche se a nulla sono valsi i soccorsi. “Non comprendiamo come l’amministrazione continui a non proporre la modifica del regolamento penitenziario”, spiega Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe, “al fine di evitare che i detenuti detengano le bombolette che, soprattutto i tossicodipendenti, spesso usano come sostitutivo della droga”. Secondo il sindacato si tratta del 60esimo caso di suicidio dall’inizio del 2011, il terzo in Emilia-Romagna e il secondo in una settimana nel carcere di Bologna: “Troppi perché si continui a sottovalutare la grave situazione delle carceri italiane, dove il sovraffollamento ha raggiunto cifre elevatissime”. Secondo il Sappe sono circa 68 mila i detenuti presenti nelle carceri italiane e sarebbero oltre 70 mila “se non ci fosse stata la legge 199 del 2010, che ha consentito a circa 4 mila detenuti con fine pena inferiore a un anno di ottenere gli arresti domiciliari. È la prova che le misure alternative alla detenzione, se applicate a soggetti meritevoli e non socialmente pericolosi, contribuiscono a deflazionare le carceri e facilitano la rieducazione”. Pm dispone autopsia su detenuto morto La pm Morena Piazzi della Procura felsinea affiderà l’incarico per l’esecuzione dell’autopsia e degli esami istologici sul detenuto marocchino di 34 anni che nella tarda serata di ieri è morto nel carcere della Dozza respirando il gas del fornelletto che aveva in cella. L’uomo, arrestato in luglio e in attesa di giudizio per spaccio di stupefacenti, è stato trovato privo di vita nella cella che condivideva con un altro detenuto. In base alle prime informazioni il marocchino poco prima aveva sniffato gas dalla bomboletta in dotazione per il fornellino da campo. Gli agenti di polizia penitenziaria e il personale sanitario, allertati dal compagno, sono intervenuti subito ma non hanno potuto fare nulla per salvarlo. A metà novembre si era tolto la vita alla Dozza un colombiano di 48 anni. L’uomo si era impiccato nella sua cella al secondo reparto giudiziario. Era stato arrestato nell’operazione “Due Torri connection” della squadra mobile di Bologna che aveva portato in carcere una quindicina di persone tra esponenti del clan Mancuso di Vibo Valentia e narcotrafficanti colombiani che si stavano accordando per fare arrivare a Bologna una tonnellata e mezzo di cocaina. Bologna: interrogazione di Rita Bernardini sulla morte in carcere di Wadih Said Ristretti Orizzonti, 5 dicembre 2011 Al Ministro della Giustizia. Per sapere - Premesso che: secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa Agenparl dello scorso 05 dicembre, un detenuto di origine marocchina, Wadih Said, 34enne, arrestato lo scorso luglio, in attesa di essere processato per reati connessi allo spaccio di sostanze stupefacenti, è stato rinvenuto cadavere nella sua cella ubicata al terzo Piano Giudiziario del carcere bolognese della Dozza; sulla vicenda il Segretario Generale UIL Penitenziari, Eugenio Sarno, ha diramato la seguente nota: “Le cause del decesso sono in corso di accertamento, anche se pare che il detenuto negli attimi prima della morte avesse sniffato gas dalla bomboletta in dotazione per il fornellino da campo che aveva in cella. Il personale di polizia penitenziaria ed il personale sanitario allertati dal compagno di detenzione, pur essendo intervenuti con immediatezza, non hanno potuto fare nulla per salvare la vita allo sventurato. Purtroppo questa ennesima tragedia non solo allunga la lista delle morti in carcere quanto ripropone quella prepotente urgenza di soluzioni più vote richiamata a gran voce, e con autorevolezza, dal Capo dello Stato. Proprio la Dozza, con i circa 1.100 detenuti presenti in luogo dei 480 che potrebbe ospitare, è uno dei luoghi emblematici del sovraffollamento penitenziario. Così come il penitenziario bolognese rappresenta plasticamente la necessità di prevedere un piano straordinario di manutenzione degli edifici penitenziari attivi. Lo stato di fatiscenza strutturale e il pericolo costante rappresentato da alcuni luoghi di lavoro è stato più volte denunciato dalla Uil Penitenziari, ma dalla stessa Amministrazione Comunale. Tra l’altro l’Emilia Romagna è priva di un Provveditore Regionale effettivo e questo ritarda, se non impedisce, quelle attività di controllo e coordinamento, quanto mai necessarie ed indispensabili per indagare a fondo sui malesseri operativi e gestionali che si appalesano nella struttura di Via del Gomito. Proprio ieri a margine dell’incontro a Palazzo Chigi con il premier Monti, il Ministro Severino ci ha comunicato il suo intento di convocare i sindacati. Auspichiamo che tale incontro avvenga a breve perché le questioni sul tappeto, inerenti la prepotente urgenza, sono davvero tante: dalla necessità di implementare gli organici, alla indifferibile necessità di deflazionare le presenze detentive per finire agli stanziamenti utili alla funzionalità del sistema. Intendiamo porre a disposizione del Ministro Severino la nostra esperienza e competenza in materia, avendo anche qualche soluzione, a costo zero, da proporre. Il degrado strutturale può essere limitato destinando alla manutenzione quota parte dei 650milioni di euro già stanziati per la costruzione di nuove carceri; una incisiva riforma di alcune norme quali la 199 (la c.d. svuota carceri) e la Cirielli sulla recidiva consentirebbe un deflazionamento delle presenze; un ricorso meno sistematico alla custodia cautelare impedirebbe il fenomeno delle sliding doors (porte girevoli) per cui moltissimi detenuti sono ristretti solo per poche ore prima di essere rimessi in libertà; soprattutto bisogna riscoprire e recuperare l’alto senso della Legge Gozzini con le alternative alle pene e alle sanzioni. Ovviamente bisogna rivedere gli organici del personale della polizia anche in relazione alle nuove esigenze ed alle nuove aperture. penitenziaria. Non si può continuare ad aprire padiglioni ed istituti nuovi senza assumere una sola unità in più”:- quali siano le informazioni del Ministro sui fatti riferiti in premessa e, in particolare, se non intenda avviare, nel rispetto e a prescindere dalla eventuale inchiesta che sulla vicenda aprirà la magistratura, un’indagine amministrativa interna volta a verificare le cause che hanno cagionato la morte del detenuto Wadih Said; se non ritenga urgente riferire sulla reale consistenza delle morti in carcere in modo che possano essere concretamente distinti i suicidi dalle morti per cause naturali e da quelle avvenute per cause sospette; se ritenga necessario assumere iniziative normative volte a modificare il regolamento sull’ordinamento penitenziario al fine di assicurare, attraverso una maggiore personalizzazione del trattamento, una “detenzione giusta”, rispettosa del diritto alla vita e degli altri diritti fondamentali degli individui, se del caso, istituendo in ogni carcere degli appositi presidi specializzati per prevenire il rischio-suicidi e le altre emergenze legate ai disagi psicologici delle persone recluse negli istituti di pena; quali provvedimenti ritenga opportuno e urgente adottare per ricondurre il carcere bolognese della Dozza - e, più in generale, le strutture penitenziarie emiliane - in condizioni rispettose della normativa, così da assicurare condizioni di vita dignitose sia ai detenuti che al personale di polizia penitenziaria; per quale motivo l’Emilia Romagna non disponga di un Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria e se non intenda provvedere urgentemente alla sua nomina effettiva; se, più in generale, intenda ovviare al degrado strutturale che contraddistingue i nostri istituti di pena, destinando alla loro manutenzione una quota parte dei 650milioni di euro già stanziati per la costruzione di nuove carceri. Cagliari: Sdr; donna suicida al Buoncammino, ennesima sconfitta per istituzioni Ristretti Orizzonti, 5 dicembre 2011 “Ogni vicenda umana deve far riflettere, anche quelle che apparentemente appaiono scontate. Togliersi la vita è una decisione dolorosa e imprevedibile. Nasce talvolta forse dal bisogno di riappacificarsi con se stessi. Dentro un carcere però è l’ennesimo tragico attestato di una sconfitta delle Istituzioni”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, che in mattinata con i volontari ha incontrato alcune donne private della libertà ristrette nella Casa Circondariale cagliaritana. “Abbiamo raccolto le dolorose drammatiche testimonianze di alcune compagne di detenzione di Monia Bellafiore. Abbiamo registrato lo sgomento delle Agenti, degli educatori e dei diversi operatori. È la prima volta che una donna si toglie la vita dietro le sbarre a Buoncammino. Quando il numero dei detenuti cresce in maniera esponenziale - aggiunge Caligaris - diventa impossibile valutare e controllare l’inevitabile disagio che peraltro aumenta a dismisura quando si avvicinano le Festività. Aldilà del caso specifico, a Buoncammino dentro le celle si moltiplicano le difficoltà con altissimi rischi di episodi di autolesionismo. Il più delle volte il quotidiano pesante lavoro degli Agenti riesce ad evitare il peggio. Non sempre ciò è però possibile”. “Quella femminile al pari delle altre sezioni - ricorda la presidente di SDR - è sovraffollata. Il numero delle donne in divisa è insufficiente. Complessivamente a fronte di una media di 530 detenuti si registra un numero di Agenti inadeguato. Mancano infatti 70/80 unità per garantire la sicurezza e prevenire episodi drammatici. Né si può ignorare che lo stato di salute di molti detenuti è grave e che l’inattività moltiplica il senso di inutilità dell’esistenza”. “Lo stato psicologico delle persone tossicodipendenti e/o con disturbi psichici o della personalità - afferma ancora l’esponente socialista - richiede condizioni particolari di attenzione e assistenza specializzata che una struttura detentiva in queste condizioni non può offrire. Pagare il debito con la giustizia è un dovere ma affinché sia efficace occorre farlo in modo adeguato. Spesso i detenuti dissimulano i momenti di grave difficoltà con un’apparente serenità che solo la professionalità e la sensibilità degli Agenti, le persone più prossime a loro, il più delle volte riescono a percepire intervenendo preventivamente. I miracoli però non possono essere la norma”. “È tempo che il Governo, il Ministero della Giustizia e il Dap assumano una risoluzione positiva al problema sicurezza. Il sistema penitenziario va rivisto. Deve essere l’ultima ratio. Occorrono investimenti per creare una rete inter istituzionale interna ed esterna. È indispensabile un coordinamento delle azioni rieducative e di prevenzione. In questo modo si creerebbero posti di lavoro e l’infrastruttura dei servizi ridurrebbe drasticamente la recidiva a vantaggio della vera sicurezza. In attesa di questi interventi è comunque improcrastinabile, vista anche la manovra del Governo di pesanti sacrifici, un provvedimento di amnistia che consentirebbe - conclude Caligaris - di alleggerire il sovraffollamento, le tensioni e gli episodi di autolesionismo”. Monia Bellafiore era in cella da un mese Non ha retto al peso devastante delle accuse - aver ucciso e bruciato il corpo della madre, oppure all’angoscia e al rimorso per quanto accaduto. Questa mattina all’alba, Monia Bellafiore, 42 anni di Assemini, si è svegliata poco dopo le 6, prima delle sue cinque compagne di cella del carcere cagliaritano di Buoncammino: è andata in bagno e lì si è tolta la vita, impiccandosi con un lembo di stoffa. Quando le altre donne l’hanno trovata e hanno dato l’allarme, per lei, accusata del delitto assieme al marito Giuseppe Oliva, di 39 anni, non c’erano più speranze. Il medico del penitenziario ha certificato il decesso alle 6.50. Una vita difficile, quella di Monia Bellafiore, sprofondata nell’incubo della droga e, probabilmente, con qualche disagio mentale che la Procura aveva deciso di approfondire con una perizia, ordinata subito dopo l’arresto avvenuto il 4 novembre scorso. Una svolta arrivata dopo un lungo interrogatorio da parte dei Carabinieri e un precedente malore per overdose che aveva costretto la donna ad un ricovero d’urgenza all’ospedale di Is Mirrionis. Era finita in carcere assieme al marito con l’accusa di omicidio premeditato pluriaggravato. Secondo i militari, coordinati dal pubblico ministero del tribunale di Cagliari, Alessandro Pili, sarebbero stati loro ad uccidere la madre di Monia, Maria Irene Sanna, di 64 anni, ex infermiera e badante, nell’abitazione di Assemini dove vivevano tutti e tre. Il corpo della donna fu trovato poi carbonizzato il 28 ottobre scorso sulle sponde della diga del Cixerri, nel cagliaritano. Nei primi giorni le indagini sembrarono dirigersi verso il mondo della prostituzione, con la convinzione che il cadavere fosse quello di una giovane donna. Tutto rimesso in discussione dopo l’autopsia del medico legale e la denuncia di scomparsa della badante fatta da un’altra figlia della vittima che vive in Toscano e risalente a qualche giorno prima. La pista investigativa si era quindi indirizzata all’ambiente familiare: confermata prima con l’interrogatorio della coppia, poi con il sopralluogo dei Ris nell’abitazione di Assemini e la scoperta di tracce di sangue nell’appartamento e della sparizione del materasso della camera da letto, dove la badante sarebbe stata uccisa con un corpo contundente mentre dormiva. Stamane per Monia, che martedì prossimo avrebbe dovuto incontrare lo psichiatra forense per l’avvio della perizia, la decisione di farla finita. “Un gesto inaspettato, che non potevo prevedere - commenta l’avvocato difensore Gianluca Aste - Proprio ora che era apparsa più tranquilla e avevamo deciso assieme che si poteva rispondere alle domande dei magistrati”. In precedenza, infatti, i due arrestati, durante gli interrogatori, si erano sempre avvalsi della facoltà di non rispondere, pur dichiarandosi innocenti. Asti: presunti soprusi su due detenuti, domani a giudizio 5 agenti di polizia penitenziaria Ansa, 5 dicembre 2011 I fatti risalgono al 2004. Secondo l’accusa i detenuti Claudio Renne ed Andrea Cirino oltre ad essere picchiati erano stati tenuti per diversi giorni d’inverno in una cella di isolamento senza vetri alla finestra. Cinque agenti della polizia penitenziaria del carcere di Quarto d’Asti, dovranno comparire martedì in Tribunale con l’accusa di avere picchiato ripetutamente e torturato due detenuti. I fatti risalgono al 2004. Secondo l’accusa i detenuti Claudio Renne ed Andrea Cirino oltre ad essere picchiati erano stati tenuti per diversi giorni d’inverno in una cella di isolamento senza vetri alla finestra. I maltrattamenti sarebbero proseguiti fino a quando una educatrice che pretese di incontrare Renne per un colloquio, vedendolo malconcio, segnalò il caso alla direzione. Gli imputati sono Cristiano Bucci, Marco Sacchi, Gianfranco Sciamanna, Davide Bitonto ed Alessandro D’Onofrio. L’indagine della magistratura astigiana è partita quando un ex agente, arrestato per spaccio di sostanze stupefacenti ha raccontato tutto alla polizia. Il motivo che avrebbe spinto i cinque ad inveire contro il Renne ed il Cirino era da ricercarsi nel fatto che i reclusi in precedenza avrebbero aggredito un agente carcerario entrato nella loro cella per un controllo. Nella precedente udienza, il giudice ha accettato la costituzione di parte civile chiesta dall’avvocato Simona Filippi di Roma per l’associazione “Antigone” che come noto assiste e cura gli interessi dei reclusi. La prossima settimana saranno sentiti come testimoni tre reclusi che nell’inverno del 2004 erano nel carcere astigiano. Como: porta cocaina per il fratello detenuto al Bassone, finisce anche lui in cella La Provincia di Como, 5 dicembre 2011 Una dimenticanza o, come sospettano invece gli agenti della polizia penitenziaria, il tentativo di un regalo prenatalizio al fratello detenuto in carcere? Regalo che, per inciso, ha finito per costare caro al protagonista. Gli uomini della polizia penitenziaria in servizio alla casa circondariale del Bassone hanno fatto scattare le manette ai polsi di Daniele Cavaliere, 41 anni, residente a Osio Sotto, in provincia di Bergamo. Venerdì scorso l’uomo si è presentato alle porte del carcere comasco per andare a trovare il fratello, detenuto per reati contro il patrimonio. Con lui Cavaliere portava una scatola, con all’interno gli indumenti da consegnare al fratello. All’ingresso della sala colloqui l’agente addetto ai controlli ha effettuato un’accurata perquisizione nel pacco con gli indumenti. Controlli che hanno permesso di trovare, all’interno di un giubbotto destinato al detenuto, un involucro contenente della cocaina. Pochi dosi, ma comunque sufficienti per far scattare l’arresto. Gli agenti, comandati dal commissario Aldo Scalzo, hanno immediatamente bloccato Daniele Cavaliere e hanno avvisato il magistrato di turno alla procura di Como, che ha disposto il suo arresto. Anche perché gli inquirenti non sembrano nutrire dubbi sul fatto che lo stupefacente fosse finito nella tasca non perché “dimenticato” dal proprietario del giubbetto, ma perché lì nascosto dal fratello che lo era andato a trovare e aveva avuto l’autorizzazione al colloquio. Roma: Vic-Caritas; artisti e artigiani per la libertà... una raccolta fondi per i detenuti Adnkronos, 5 dicembre 2011 Artisti e artigiani per la libertà. Parte domani a Roma la raccolta fondi a favore delle donne e degli uomini detenuti, promossa dall’associazione Vic-volontari in carcere. Grazie al contributo di artisti e maestri artigiani che hanno donato all’associazione un’opera o un manufatto sarà possibile acquistare una creazione sostenendo così i progetti del Vic e aprire la porta a chi cerca di ricominciare. L’appuntamento per la mostra mercato è al Caffè 33 a Piazza di Pietra domani e mercoledì 7 dicembre dalle 17 alle 22 e giovedì 8 dicembre dalle 10 alle 22. Il Vic, nato nel 1994, è presente a Roma con un centinaio di volontari nei Centri di Ascolto attivi in tutti i reparti dei quattro carceri di Rebibbia e nel reparto protetto dell’ospedale Pertini: oltre 3000 persone, tra i quali una trentina di bambini sotto i tre anni di età e molti anziani, ultrasettantenni che non hanno più una casa. L’associazione sostiene due progetti: una casa alloggio per ospitare le donne e gli uomini detenuti durante i permessi premio e la distribuzione di generi di abbigliamento e per l’igiene personale per chi in carcere non ha neanche l’indispensabile. In Italia sono 206 le carceri con circa 67 mila detenuti contro i 45mila posti previsti: più della metà è in attesa di giudizio, uno su tre è straniero e uno su quattro tossicodipendente. Nel Lazio si contano circa 6 mila detenuti in 14 penitenziari contro 4 mila posti. “In carcere - denuncia l’associazione - si suicida un detenuto ogni mille, fuori dal carcere una persona ogni ventimila”. Pescara: trionfo dei detenuti-attori in scena con lo spettacolo “Natale in casa Cupiello” www.abruzzo24ore.tv, 5 dicembre 2011 “Niente e nessuno potrà mai cancellare il desiderio di bellezza che c’è dentro ognuno di noi”. Cristian Di Marzio, che poco prima aveva indossato i panni di Nicolino, ha parlato a nome di tutti i sedici detenuti-attori del carcere di Chieti che sono saliti sul palco dell’auditorium De Cecco di Pescara sabato 3 dicembre, per mettere in scena “Natale in casa Cupiello”. Ha parlato solo lui, esprimendo però ciò che tutti gli altri detenuti-attori hanno vissuto e trasmesso l’altra sera alle oltre cinquecento persone presenti: la persona che si sente voluta bene, anche se ha sbagliato, può tornare a sperare. E questo è senz’altro un successo. Così, gli applausi a scena aperta, ripetuti e insistenti, hanno certificato questa doppia vittoria, di chi torna a sperare ma anche di uno spettacolo grandioso, capace di suscitare il riso e calamitare l’attenzione dei presenti per oltre due ore, in un ritmo vertiginoso di gag, scenette, intrighi, congetture tipici della commedia napoletana. Al termine, sul palco sono saliti Mauro Moretti, presidente del Csv Pescara, Giuseppina Ruggero, direttrice della Casa Circondariale di Chieti, Maria Rosaria Parruti, magistrato di sorveglianza, Valentino Di Bartolomeo, comandante della Polizia Penitenziaria. Al termine della serata, Moretti ha anche consegnato un buono spesa in giocattoli del valore di 500 euro al carcere di Chieti, come omaggio in vista di Natale. Lo spettacolo, per la regia di Paola Capone (anche lei tra gli attori, nella veste di Concetta), è stato promosso proprio dalla collaborazione tra il Csv Pescara e il carcere di Chieti, ed ha rappresento il momento conclusivo di Volontariamente, evento rivolto al mondo del volontariato, che si è svolto nella giornata di sabato sempre a Pescara. Oltre allo spettacolo, Volontariamente ha visto altri due momenti importanti. Un convegno, sul titolo generale dell’evento “Siamo stati visitati da qualcuno molto grande”, con la partecipazione di Riccardo Ribera D’Alcalà, che ha raccontato la sua storia di padre di Giulia, che per i medici non doveva nascere visto che aveva una grave malformazione e che invece è diventata un grande segno del Mistero nella vita sua e di tanti amici che hanno iniziato a frequentare la loro casa, Pietro Del Vecchio, volontario della mensa della Caritas e detenuto, che nel carcere ha incontrato la fede e con il volontariato ha scoperto di non sentirsi solo, Valentina Palleri, autrice del libro “Come ali di farfalla”, in cui racconta la sua storia di madre con una figlia malata ma capace di suscitare in lei una grande fede, e infine Mariagrazia Figini, della Fondazione Cometa di Como, che ha rimarcato come l’incontro con ciò che compie il desiderio di ogni uomo è in grado di cambiare la vita, e di renderla utile per sé e per gli altri. A seguire, Maria Pia Di Sabatino, presidente di Anffas Pescara, Francesco Grilli, presidente del Banco di Solidarietà di Pescara, e Domenico Trozzi, presidente di Prossimità alle Istituzioni, hanno ricevuto i riconoscimenti Volontariamente, consistenti in un buono spesa di 200 euro, e consegnati dal presidente del Csv, Mauro Moretti, Angelo D’Ottavio, assessore provinciale, Ermanno Di Bonaventura, presidente del Coordinamento dei Csv dell’Abruzzo, e Nazario Pagano, presidente del Consiglio regionale, coordinati dalla giornalista Cristina Mosca.