Giustizia: torna l’ipotesi delle “carceri private”, ma slitta il pacchetto infrastrutture di Giorgio Santilli Il Sole 24 Ore, 4 dicembre 2011 C’è il piano per le carceri finanziate dai privati e dalle fondazioni bancarie (almeno per il 20%) e c’è la durata minima della concessione a 50 anni per opere superiori al miliardo di euro, la possibilità per le assicurazioni di destinare le riserve tecniche agli investimenti in infrastrutture e una semplificazione degli aggiornamenti delle concessioni per investimenti da tre miliardi, norme tecniche che facilitano la realizzazione della metro C e della variante di valico (con una riduzione di costi di 200 milioni) e la cessione di immobili pubblici per favorire la realizzazione in concessione di un’opera. Il capitolo infrastrutturale è il più corposo tra quelli in preparazione (38 articoli in partenza) ma non è ancora chiaro quali misure finiranno nel decreto legge che sarà varato lunedì: tra i tecnici delle Infrastrutture e quelli dell’Economia - le due squadre sono rimaste immutate - ci sono ancora punti di vista lontani su molte norme e sarà necessario un ulteriore approfondimento e forse un’intesa diretta fra i titolari dei due dicasteri, Corrado Passera e Mario Monti. Una concertazione tra ministro e premier che potrebbe richiedere qualche giorno, o forse qualche settimana, in più: non è escluso così che gran parte del pacchetto possa slittare a una seconda tornata di provvedimenti, forse a gennaio. Il cuore del testo su cui si è discusso in questi giorni restano le regole per favorire la partecipazione privata al finanziamento, alla realizzazione e alla gestione delle opere pubbliche. Il project financing resta la carta vincente per il rilancio, nel senso di favorire la bancabilità dei progetti ma anche con incursioni in settori specifici (oltre alle carceri, gli aeroporti, le metropolitane e i porti). Ci sono istituti fortemente innovativi come il canone di disponibilità (il privato realizza una propria opera e poi garantisce il servizio pubblico all’amministrazione che paga un canone) e la gestione “allargata” delle opere in concessione: un meccanismo che consente di far confluire tra i proventi della gestione anche quelli derivanti da opere “direttamente connesse a quelle da realizzare”. C’è anche l’estensione alle grandi opere della legge obiettivo delle regole con la procedura di gara “monofasica” per il promotore che ha avuto notevole successo nelle opere ordinarie. E ci sono le regole per facilitare il collocamentp di project bond da parte delle società di progetto. Nel testo c’è anche un aiuto alle piccole e medie imprese di costruzioni su cui questo Governo sembra avere idee molto diverse rispetto a quello passato. Se lo “Statuto delle imprese” approvato un mese fa pensava di aiutare le Pmi comprimendo la trasparenza nell’affidamento degli appalti ed estendendo le trattative private senza gara, qui si ripristinano anzitutto le condizioni di trasparenza (la soglia massima per gli affidamenti senza gara per la progettazione e l’architettura viene nuovamente abbassata da 211mila a 100mila euro con una correzione allo “Statuto delle imprese”). Il sostegno alle Pmi arriva piuttosto con una maggiore accessibilità al mercato: in particolare con la norma che prevede la partecipazione alle grandi opere e con la “raccomandazione” alle stazione appaltanti di non esagerare con i maxi lotti drogati. In campo immobiliare, le opere di urbanizzazione secondaria si potranno fare “a scomputo” senza ricorrere agli appesantimenti delle norme sugli appalti. A proposito di trasparenza e rigore nelle regole per gli appalti, il testo fa marcia indietro anche rispetto alla norma che aveva escluso il costo del lavoro dai ribassi in gara, provocando non pochi problemi. Il testo interviene, infine, anche su altri aspetti del “decreto sviluppo” come i tetti imposti su riserve e varianti. Vengono escluse opere e progettazioni già in corso e si escludono dai tetti gli “eventi imprevisti e imprevedibili”. Giustizia: intervista a Luigi Manconi… il “braccialetto elettronico” non convince http://it.peacereporter.net, 4 dicembre 2011 “Recuperare efficienza risparmiando: questo é l’obiettivo ambizioso ma forse sintomatico dell’azione di questo Governo. Lo stato dell’economia ci impone di essere efficienti e di affrontare i problemi in maniera efficace”. Questo è quanto ha dichiarato il ministro della Giustizia Paola Severino durante la sua audizione in commissione Giustizia alla Camera nei giorni scorsi. La soluzione, secondo lei, potrebbe essere il braccialetto elettronico. “Non è mia intenzione rinnovare la convenzione senza una verifica dei costi e dei benefici”, ha dichiarato il ministro, riferendosi al canone annuo di circa 11 milioni di euro che lo Stato paga alla Telecom per 450 kit per il controllo a distanza dei condannati (la convenzione scade a dicembre). “Dalle primissime proiezioni sembra che se riuscissimo ad applicare il braccialetto a un numero significativo di persone, che altrimenti dovrebbero essere detenute in carcere, allora ci sarebbe una convenienza economica”. Sull’argomento Peace Reporter ha intervistato il sociologo Luigi Manconi, presidente di “A Buon Diritto”, associazione da lui fondata nel 2001, che si occupa del mondo del carcere. Cosa ne pensa del braccialetto elettronico? Si sostiene che in alcuni paesi stranieri abbia dato qualche risultato positivo, ma resto comunque estremamente scettico. Il costo di un braccialetto sembra essere assai elevato, la sua manutenzione assai delicata, per questo l’utilizzo non è diffuso come si possa credere. Là dove è utilizzato come negli Stati Uniti, non avviene su scala così ampia come si è detto in questi giorni. Non lo definisco uno strumento degradante, ma mortificante si. Se questo è vero, il ricorso al braccialetto elettronico si può giustificare solo in casi di estrema necessità, quindi non come misura generalizzata, e solo se si rivela l’unico strumento per raggiungere il fine perseguito. Solo che è proprio qui che emerge la contraddizione: qual è il fine perseguito? Se fosse quello di impedire o limitare l’evasione dalla detenzione domiciliare (dopo la sentenza) o dagli arresti domiciliari (prima della sentenza) va tenuto presente che si tratta di un numero di casi irrilevanti da un punto di vista statistico. Tanto quanto è irrilevante la percentuale dei mancati ritorni dai benefici, come i permessi premio. Tentando sempre, disperatamente a volte, di tenere insieme concezione teorica e applicazione pragmatica delle idee, posso prendere in considerazione uno strumento che ritengo pericoloso per la dignità della persona, ma solo quando se ne dimostri l’assoluta necessità. Se però teniamo presente che le persone agli arresti domiciliari che commettono reati o che non ritornano dai permessi sono meno del 2 percento del totale, mi chiedo se valga la pena di compromettere la tutela della dignità delle persone e di affrontare una spesa enorme. Se, invece, venisse detto che a fronte di 68mila persone in carcere se ne mandano alla detenzione domiciliare la metà, con il braccialetto elettronico, prenderei in considerazione l’ipotesi. Perché coloro che stanno in cella 23 ore su 24 preferirebbero certamente stare a casa con il braccialetto. Differente parlare di braccialetto solo per coloro che potrebbero scontare a casa gli ultimi dodici mesi della pena. Il problema è drammatico. Quali sono i numeri dell’emergenza carcere? Abbiamo una presenza nelle carceri, nell’intero sistema penitenziario italiano, attorno alle 68mila persone. Questo rispetto a una capienza regolamentare di 43mila posti previsti. Di questa seconda cifra, inoltre, si fa un indecoroso stiracchiamento, del tutto immotivato, se la si confronta ai dati reali dell’edilizia carceraria, perché quando si dice che la capienza regolamentare è superiore ai 43mila posti si parla di celle dove si è passati da un letto magari a un letto a castello che arriva fino al terzo piano. È evidente che se noi violiamo tutti i più elementari diritti di sopravvivenza degli esseri umani, la capienza regolamentare può essere espansa artificialmente. Il risultato è comunque semplice: abbiamo 43mila posti regolamentari, occupati da 68mila persone. Questi sono i numeri, che non possono essere contestati. Il sovraffollamento emerge come l’aspetto più grave? Il sovraffollamento non è una categoria che funziona allo stesso modo per il sistema penitenziario italiano e per le spiagge dell’Adriatico in estate. Quest’ultimo comporta una libera scelta e prevede un termine. Sovraffollamento, in carcere, significa non solo una promiscuità di corpi che si affollano, si addensano, si ostacolano reciprocamente. In carcere, sovraffollamento vuole dire che lo standard dei servizi offerti da quella struttura, pensata per 43mila persone, diventano nel tempo destinati a un numero di persone tale da determinarne la caduta rovinosa in termini di qualità. L’assistenza sanitaria, la scuola, le attività di socializzazione, di formazione e di ricreazione, fino agli incontri con i familiari diventano un bene scarso. Una risorsa che perde qualità e che peggiora sensibilmente e in maniera irreparabile. Diventa impossibile parlare di qualità della vita all’interno del carcere. C’è, come diceva Hannah Arendt, la nuda vita. Resta la mera sopravvivenza, corpi reclusi, che continuano a stare reclusi, nutrendosi malamente, sopravvivendo a stento a malattie e fatiche, alla miseria crescente e alla mancanza di igiene. Questo è il sovraffollamento e non lo si risolve, come ha pensato il governo Berlusconi, annunciando la creazione di 2mila posti letto in più, perché in tre anni non siamo riusciti a sapere con certezza quanti ne siano stati occupati e quanti sono stati solo ricavati da strutture precedenti, magari non utilizzabili per carenza di personale. Il governo Berlusconi, dopo aver dichiarato l’emergenza carceri, ha annunciato un piano carcere per ben tredici volte. L’unico risultato raggiunto dal precedente esecutivo, è stato quello di prevedere l’apertura del carcere di Gela, progetto che risale al 1957. Questo la dice lunga rispetto a cosa significhi affidare la soluzione del sovraffollamento alla costruzione di nuove carceri. Il sovraffollamento è l’unico problema? Nell’universo carcere hanno trovato la morte, nell’arco di dieci anni, 1900 persone. Di queste, una percentuale rilevantissima ha trovato la morte suicidandosi. Questi sono i numeri del carcere, che possiamo esemplificare anche in altri modi. Una carenza assoluta di personale, non solo di polizia penitenziaria, ma educatori, operatori sociali, psicologi. In molte carceri italiane, il tempo che lo psicologo può destinare al detenuto - in relazione al proprio orario di lavoro retribuito- è di circa un minuto al mese. Questi sono i dati. In questa spaventosa situazione, dove i corsi scolastici si riducono, dove la miseria crescente priva alcuni istituti anche della carta igienica, acquistata in proprio dai detenuti, dove l’assistenza sanitaria peggiora a vista d’occhio, si deteriora la condizione di vita anche degli agenti di polizia penitenziaria. È cresciuto in maniera rilevante, tra questi, il numero dei suicidi. Qual è la soluzione? È vero che il carcere ha bisogno di riforme strutturali, come hanno sempre detto tutti quelli che studiano per davvero il mondo del carcere, compreso il presidente della repubblica Giorgio Napolitano a luglio di quest’anno. Per me gli interventi sono due: ridurre il numero dei comportamenti e degli atti che sono definiti reato e diminuire il numero dei reati che comportano come sanzione la detenzione in cella. Depenalizzazione e decarcerizzazione. Queste sono le due sole vie capaci di riformare il mondo del carcere sul lungo periodo. Per fare tutto questo, però, è prima necessario conquistare un minimo di normalità. Che si ottiene, oggi, solo con l’amnistia e l’indulto. La legge 241/2006 sull’indulto, diffamata e vilipesa, ha dato risultati credibili producendo una riduzione - seppur temporanea - del sovraffollamento e una recidiva dei beneficiari che si attestò sul 33,92 percento, rispetto a quella ordinaria del 68 percento. Giustizia: don Virgilio Balducchi; serve un’amnistia, il sovraffollamento viola i diritti Adnkronos, 4 dicembre 2011 Il sacerdote dal 2012 assumerà l’incarico di Ispettore generale dei cappellani delle carceri: “Sarebbe un atto di giustizia, molte persone stanno subendo limitazioni dei diritti fondamentali, pensiamo alla salute, alla malattia mentale, al degrado della dignità umana”. Il sovraffollamento nelle carceri italiane sta provocando gravi violazioni dei diritti fondamentali delle persone e della loro dignità, per questo l’amnistia, in questo momento, “sarebbe un atto di giustizia”. È quanto sottolinea all’Adnkronos don Virgilio Balducchi, che si appresta ad assumere, da 1 gennaio prossimo, l’incarico di Ispettore generale dei cappellani delle carceri al posto di don Giorgio Caniato. Balducchi da oltre vent’anni opera nel carcere di Bergamo e conosce da vicino la realtà dei penitenziari italiani. “L’amnistia - spiega - ora ha un senso perché molte persone in carcere stanno subendo limitazioni dei diritti fondamentali, pensiamo alla salute, alla malattia mentale, al degrado della dignità umana. Molti diritti vengono limitati, l’amnistia sarebbe un atto di giustizia”. E tuttavia, osserva don Balducchi, “la politica su questo discorso non è disponibile. Se però questo governo riuscisse a far muovere la situazione a partire da quello che già ora si può fare, sarebbe molto. Se tutti i tossicodipendenti che chiedono di andare in comunità potessero farlo, se i malati mentali fossero accolti in strutture adeguate e gli stranieri che vogliono andare a casa li si lasciasse andare, credo che si abbatterebbe la presenza nelle carceri del 20-30%”. “Il punto - spiega ancora il sacerdote - è che bisognerebbe depenalizzare i reati minori, quelli fino a tre anni. In questi casi, certo se la persona non è pericolosa, la pena andrebbe scontata sul territorio. Servirebbe anche un codice penale nuovo” . Il Papa il prossimo 18 dicembre andrà ad incontrare i detenuti nel carcere romano di Rebibbia. “Un bel gesto” commenta don Balducchi, che poi spiega quale sia la situazione delle carceri: “in carcere c’è una realtà distrutta, un’umanità che versa in condizioni disastrose, persa, con problemi sociali, tossicodipendenti, senza fissa dimora, malati mentali”. “È un’umanità - prosegue - già di per sé molto debole e abbastanza sfasciata che non dovrebbe trovarsi in carcere per essere curata dal punto di vista sociale. Bisogna evitare di continuare a fare leggi che favoriscono la carcerazione, come quella sull’immigrazione, con il reato d’immigrazione clandestina, o la cosiddetta recidiva. Non si può mettere in carcere qualcuno solo perché si trova sul nostro territorio e non riesce ad arrabattarsi per venirne fuori”. “In realtà - afferma ancora il sacerdote che presto assumerà l’incarico di ispettore generale dei cappellani delle carceri - abbiamo una legislazione buona, ma i tagli sociali di questi anni hanno colpito anche il mondo dei detenuti e delle comunità di accoglienza. Poi c’è un problema culturale, perché la gente rischia di non capire questi discorsi. Uno sbaglia, deve pagare. Il punto è come possa riparare a quest’errore”. Esiste poi un’ altra questione particolarmente delicata: “c’è il tema dei manicomi criminali - afferma don Balducchi - qui la condizione è più disastrosa che nelle altri carceri. I detenuti si trovano in condizioni da brivido. Molti di loro rimangono dentro non perché pericolosi ma perché non ci sono strutture pronte ad accoglierli comunità per curarli, così si perpetua un circuito di permanenza in queste strutture”. Giustizia: Giovanni Battista Durante (Sappe)… quegli altri uomini dentro le prigioni www.agoravox.it, 4 dicembre 2011 La scandalosa situazione delle carceri italiane e la dolorosa situazione che è costretto a vivere chi vi è rinchiuso - ma anche chi vi opera - è un tema che sta particolarmente a cuore alla nostra rivista. Ce ne siamo occupati in numerose circostanze, a partire dalla pubblicazione di un vero e proprio dossier e di uno spunto satirico del nostro direttore. Abbiamo inoltre più volte ospitato testimonianze di detenuti come Vincenzo Andraous e Mario Trudu. Abbiamo incontrato Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sindacato autonomo polizia penitenziaria (Sappe) dell’Emilia-Romagna. Da tempo denuncia la mancanza di fondi e di personale che rende sempre più difficile il compito degli agenti e sempre più scarse le attività lavorative che potrebbero diminuire la percentuale di recidiva tra i detenuti in Italia. Ecco il testo dell’intervista che ci ha gentilmente concesso. Ci può spiegare quali siano le odierne condizioni di lavoro degli agenti penitenziari italiani? I numeri parlano chiaro: la media nazionale è di un agente ogni 100 detenuti. In alcune sezioni si arriva ad affidarne 150 ad un solo poliziotto. Mancano i soldi per il rifornimento di carburante per accompagnare i detenuti ai processi, le auto sono datate e alcune hanno più di 450 mila chilometri, compromettendo la sicurezza di chi le guida. Il nostro contratto di lavoro sarà bloccato per quattro anni. A Bologna mangiano meglio i detenuti. Poco tempo fa abbiamo scioperato per denunciare le pessime condizioni igieniche dei locali della mensa. Alla penuria di mezzi si aggiunge lo stress da lavoro, gli affetti lontani e il vivere in una grande città. Infatti, la maggior parte degli agenti proviene da paesi del Centro-Sud ed è costretta a lasciare le famiglie per lavorare in qualche carcere del nord Italia e, poiché con uno stipendio di 1.200-1.300 euro al mese non riesce a pagarsi un affitto, vive in caserma. Lavora otto ore in una sezione con 100 detenuti, la maggior parte dei quali stranieri, con cui è difficile comunicare e che spesso non rispettano le regole. Si calcola che negli ultimi dieci anni i suicidi tra la polizia penitenziaria siano stati 90, il tasso più alto tra i dipendenti pubblici. Perché il sistema penitenziario italiano funziona male? Come si può intervenire per migliorare le condizioni dei detenuti? Il carcere oggi può essere equiparato ad un contenitore sociale. Immagine lontana dal contenuto dell’art. 27 della Costituzione italiana, in cui si legge: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Il 38% dei detenuti sono stranieri, al nord si arriva a una percentuale pari al 55%. Il 25% sono tossicodipendenti. Quasi il 40% deve scontare una pena residua inferiore a un anno. Giustizia: Lisiapp; nelle carceri il 37% dei detenuti è straniero, velocizzare i rimpatri Agi, 4 dicembre 2011 Sono 24mila i detenuti stranieri nelle nostre carceri, il 37% dei presenti ed è necessario incrementare concretamente le espulsioni anche dal carcere torinese. L’appello viene da Luca Frongia, segretario generale aggiunto del Libero Sindacato Appartenenti Polizia Penitenziaria Lisiapp, che ricorda come debba essere resa operativa la norma che prevede l’applicazione della misura alternativa dell’espulsione per i detenuti stranieri i quali debbano scontare una pena, anche residua, inferiore ai due anni; potere che la legge affida alla magistratura di sorveglianza”. I numeri sono incontrovertibili, dice il numero due del Lisiapp. “Oggi abbiamo in Italia quasi 68.000 detenuti: ben oltre le 24mila (il 37% circa del totale) sono stranieri: 4.500 sono i comunitari detenuti (3.953 gli uomini e 380 donne) mentre quelli extracomunitari sono ben 19.666 (18.827 uomini e 839 donne). In alcuni Istituti la percentuale di presenza di detenuti stranieri è davvero altissima: nella Casa Circondariale di Padova e Rovigo sono l’83(!), al Don Soria di Alessandria il 72% come per il Lo Russo di Torino, ma anche a Brescia e Verona mentre nella sarda Is Arenas Arbus sono il 73% e buona parte dei penitenziari del Nord hanno una presenza varia che oscilla tra il 60 ed il 70%. Questo accentua - per le difficoltà di comunicazione e per una serie di atteggiamenti troppo spesso aggressivi - le criticità con cui quotidianamente devono confrontarsi le donne e gli uomini della Polizia penitenziaria. Il Lisiapp chiede dunque al nuovo esecutivo Monti - prosegue Frongia - di recuperare il tempo perso in questi anni di dimenticatoio su questa significativa criticità penitenziaria e di avviare rapidamente le trattative con i Paesi esteri da cui provengono i detenuti - a partire da Romania, Tunisia, Marocco, Algeria, Albania, Nigeria - affinché scontino la pena nei Paesi d’origine. Si tratterebbe anche di un buon affare anche per le casse dello Stato, con risparmi di centinaia di milioni di euro che in questo periodo di quasi austerity non guasterebbe, nonché aumenterebbe anche la significativa sicurezza dei cittadini. Un detenuto - ricorda Frongia - costa infatti in media circa 300 euro al giorno allo Stato italiano. Giustizia: caso di Novi Ligure; nel 2001 il delitto, domani Erika De Nardo torna libera Adnkronos, 4 dicembre 2011 Tornerà libera domani, all’età di 27 anni, Erika De Nardo, condannata insieme al fidanzato, Omar Favaro, per aver ucciso a coltellate, il 21 febbraio del 2001, la madre e il fratellino di 11 anni nella loro villetta a Novi Ligure, nell’alessandrino. A dieci anni di distanza dal delitto che aveva sconvolto il Paese, non sembra che nel futuro da libera di Erika ci sia un incontro con il suo fidanzato di allora, Omar: “Lo escludo - dice all’Adnkronos l’avvocato Vittorio Gatti, legale di Omar - non credo che Omar abbia intenzione di rivederla”. Omar aveva 17 anni all’epoca dei fatti e ora, dopo aver lasciato il carcere a inizio marzo 2010, ha una nuova fidanzata e sta cercando di dimenticare il passato. Erika e Omar erano stati condannati rispettivamente a 16 e 14 anni di reclusione, una pena che si è ridotta grazie alla buona condotta e all’indulto. Erika, che all’epoca del duplice omicidio aveva 16 anni, ha scontato la sua pena in diverse carceri del nord d’Italia e da qualche tempo è ospitata in una comunità di Don Mazzi nel bresciano. Da domani Erika potrà decidere da donna libera cosa fare della sua vita e non è escluso che continui sulla strada del volontariato, intrapresa in questi mesi nella comunità di Don Mazzi. Mentre si trovava in carcere ha preso il diploma e si è laureata avendo sempre accanto il padre, Francesco, che ha continuato ad andarla a trovare. E con lui, per la prima volta dopo dieci anni, trascorrerà il suo primo Natale di libertà. Sono passati quasi 11 anni da quel 21 febbraio 2001. Ecco cosa accadde quella sera. Sono passate da poco le 20 quando una ragazzina di 16 anni esce urlando terrorizzata da una bella villetta del quartiere residenziale Lodolino del paese in provincia di Alessandria. Corre a piedi nudi lasciando impronte insanguinate, si rifugia dai vicini e ai carabinieri arrivati poco dopo racconta che suo padre era uscito per la consueta partita di calcetto. La ragazza dice: “Due albanesi sono entrati in casa per rapinarci. Quando mia madre li ha sorpresi, loro hanno ucciso lei e il mio fratellino”. Comincia una vera caccia all’uomo, o meglio a due presunti rapinatori albanesi ai quali Erika , così aveva raccontato, era riuscita a sfuggire per miracolo mentre i corpi di sua mamma e suo fratello cadevano martoriati sotto decine di coltellate. Un racconto che scatena la rabbia di tutto il paese, e non solo, contro gli immigrati. Un racconto che, però, fin dalle prime ore non convince gli investigatori. Un racconto che solo due giorni più tardi crolla sotto il peso delle contraddizioni, di una scena del delitto che non combacia con il racconto della ragazza, fino a disintegrarsi in una stanza della caserma dei carabinieri dove Erika, che non sospetta di essere intercettata, mima di fronte a Omar tutte quelle coltellate e lo rassicura che il loro segreto di morte non sarà mai scoperto. Centoventi coltellate, dunque, inferte con ferocia inaudita da Erika insieme ad Omar su sua madre Giusy Cassini e sul fratellino undicenne Gianluca De Nardo. Un assurdo massacro per il quale la ragazza sarà arrestata insieme al suo giovane amico. Il fermo per i due ragazzi viene disposto il 23 febbraio del 2001 dal procuratore di Alessandria Carlo Carlei: sulle loro teste pende l’accusa di omicidio volontario in concorso, un duplice omicidio che, forse, doveva avere tre vittime, oltre a Susy e Gianluca, anche Francesco De Nardo, il papà di Erika. Quel padre che nonostante tutto ha voluto mettere anche il nome della figlia sui necrologi e che non l’ha mai abbandonata, standole accanto durante i 9 mesi di indagini, il mese di processo, i tre gradi di giudizio che hanno sempre confermato le stesse pene per entrambi, e andandola a trovare sempre in carcere dopo essere tornato a vivere da solo in quella villetta del Lodolino. A ricostruire che cosa è successo quella sera in quella villetta a due piani sono le confessioni dei due ragazzi, che dall’arresto in poi cominciarono ad accusarsi a vicenda sui rispettivi ruoli, e le analisi dei Ris. Quello che emerge è una scena agghiacciante, che inizia quando Susy Cassini rientra in casa, saluta Erika e Omar e va verso la cucina. La donna viene aggredita alle spalle e colpita con le prime coltellate, mentre supplica la figlia di non ucciderla e di lasciarla vivere. Poi è la volta del piccolo Gianluca, che viene trascinato in bagno dove viene colpito a morte con 57 coltellate dopo un tentativo di annegamento non riuscito. Sono 11 i periti che vengono nominati per cercare di scandagliare la mente e la personalità dei due ragazzi, Erika “dominatrice” e Omar “soggiogato e succube”, per cercare di dare un senso a quel massacro e dare una risposta all’interrogativo che, in casi come questi, si ripropone a ogni processo. Erika e Omar erano capaci di intendere e di volere al momento del delitto? E, come inevitabile, si scatena la guerra fra i periti che arrivano a conclusioni opposte, sani di mente per l’accusa, incapaci e bisognosi di cure per la difesa sostenuta dagli avvocati Mario Boccassi e Cesare Zaccone per Erika e da Vittorio Gatti e Lorenzo Repetti per Omar. L’11 dicembre dello stesso anno, in un’aula del tribunale dei minori di Torino, dove Erika e Omar che affrontano il giudizio con rito abbreviato non si sono mai guardati, il pm Livia Locci chiede una condanna di 20 anni per la ragazza e 16 per l’ormai ex fidanzato. Tre giorni dopo arriva la condanna di primo grado, 16 e 14 anni, pene che vengono confermate in appello il 30 maggio 2002 e, infine, dalla Cassazione il 9 aprile dell’anno successivo. Fino ai 21 anni i due ragazzi restano detenuti in carceri minorili, il “Beccaria” di Milano per Erika, che il 28 aprile 2005 viene trasferita a Brescia, e il Ferrante Aporti di Torino per Omar che passerà poi nel penitenziario di Quarto d’Asti. Per un po’ di loro non si parla più, anche se ogni tanto compare qualche sporadica notizia che riporta in prima pagina “il massacro di Novi Ligure”, come il riconoscimento dell’invalidità al necroforo che ebbe il compito di ricomporre le salme delle due vittime oppure, il 7 maggio 2006, la decisione della Suprema Corte di respingere la richiesta di Erika di essere trasferita in una comunità per ricevere cure psicologiche. Negli anni la tragedia di Novi Ligure è tornata spesso sulle pagine dei giornali e i telegiornali . Fece discutere l’immagine di un’Erika cresciuta che, come qualunque altra ragazza della sua età, si diverte per qualche ora giocando a pallavolo con delle coetanee in un oratorio di un paese del bresciano. Le polemiche si riaccendono, Novi tornò al centro del dibattito su quelle immagini che per qualcuno stridono con il ricordo delle due vittime. Immagini che anche Omar vede nella sua cella. Dal giorno dell’arresto fra i due ragazzi si è creata una frattura piena di risentimento, si sono lanciati accuse, lei gli ha detto di avere un altro fidanzato, sono diventati indifferenti uno all’altro. “Erika? - ha detto- non voglio più sentir parlare di lei. I periti avevano stabilito che io ero suo succube, ma i giudici ci hanno trattato allo stesso modo”. Poi, nell’ultima recente intervista a Matrix, Omar ha ammesso: “Non ho avuto la forza di aiutarla nel modo giusto”. Oggi l’ultimo capitolo con la richiesta di Erika a Omar di “spegnere i riflettori” e di “smetterla di speculare” sulla sua famiglia. Giustizia: caso Bilancia; il serial killer chiede di poter “fare il nonno” e scoppiano le polemiche di Massimo Zilio Il Gazzettino, 4 dicembre 2011 “Bilancia nonno? È una vergogna”. Sta facendo discutere l’appello lanciato dal carcere Due Palazzi di Padova. Parla chi ha perso un fratello e la cognata dopo il viaggio di nozze. Infuriati i familiari delle vittime del serial killer dopo la richiesta di affetto: “Siamo amareggiati, in tanti anni non ha mai dimostrato pentimento” Più che ferito, dice di essere “amareggiato”. Perché non è la prima volta in questi anni che Donato Bilancia fa parlare di sé attraverso la stampa, questa volta con una lettera con cui si dice pronto ad “adottare un nipotino, anche disabile”. “Deve dimenticarsi di noi. Se ha qualcosa da dire di nuovo, e non credo, si rivolga ai giudici. In tanti anni non ha mai mostrato segni di pentimento, dunque non chieda perdono, perché non lo avrà. La verità è che cerca solo un modo di far parlare di sé”. Umberto Parenti accetta suo malgrado di ritornare a commentare queste nuove dichiarazioni dell’uomo che uccise suo fratello Maurizio e la moglie Carla Scotto. Le vittime “due” e “tre” di una serie impressionante di diciassette omicidi seriali commessi dal serial killer genovese. I due sposini furono ammazzati nella loro casa di piazza Cavour il 24 ottobre del 1997. Erano appena tornati dal viaggio di nozze. La lettera di Donato Bilancia inviata al Gazzettino fa discutere. “Si tratta di un grido d’aiuto, di una richiesta di attenzione - è la riflessione di Nicola Boscoletto, presidente del consorzio Rebus che, attraverso la cooperativa Giotto, opera da ventun anni all’interno del carcere Due Palazzi. Questo modo eclatante di farsi sentire deve aiutare tutti a riflettere che anche dietro a chi ha commesso tanto male c’è una persona con delle difficoltà. Non ci si può mai dimenticare delle persone”. Un grido forte, che va ascoltato, ma sulla vicenda poi secondo Boscoletto è necessario cambiare atteggiamento: “Giusto far sentire questo “Ci sono!” in maniera così “spettacolare”, ma sul prosieguo del percorso si deve usare discrezione e riservatezza. Solo la competenza di magistrati, educatori, operatori che conoscono oggi Donato Bilancia possono aiutarlo trovare e seguire il percorso giusto per lui e la sua vicenda, a fare dei passi per restituire alla società il male che ha fatto”. Secondo Boscoletto, il fine ultimo è in qualche modo la redenzione: “Il caso specifico deve essere valutato con attenzione, ma in generale sono convito che su certe persone e certe vicende non sia possibile semplicemente chiudere gli occhi. Anche per lui ci deve essere la possibilità di redimersi. Ogni redenzione mancata è una sconfitta per lo stato, per la società”. Anche Franco Corleone, sottosegretario del ministero della Giustizia dal 1996 al 2001 (gli anni in cui Donato Bilancia ha compiuto i suoi delitti ed è stato poi condannato), autore del libro “Contro l’ergastolo”, sottolinea come i principi generali debbano in qualche maniera essere rapporti con intelligenza alle vicende particolari. “Non è mai possibile generalizzare - spiega. Ogni caso deve essere esaminato attentamente, valutando anche i comportamenti dopo la detenzione. Di per se una condanna, anche all’ergastolo, non pregiudica il futuro. A nessuno deve essere negata una seconda possibilità, ma l’attenzione deve essere massima anche perché una valutazione sbagliata mette a rischio non solo una persona, ma tutto il sistema delle pene alternative”. Questa attenzione deve crescere anche in relazione al tipo di percorso che Bilancia chiede di intraprendere: “Una richiesta così particolare deve essere valutata molto bene soprattutto se mette in gioco affetti, equilibri famigliari, in particolare in relazioni a dei minori, come avviene in questo caso. Credo comunque che magistrati di sorveglianza intelligenti, capaci e sensibili possano affrontare nella maniera più giusta anche queste situazioni”.Diversa la visione della vicenda che dà il deputato del Pdl Filippo Ascierto: “Il perdono è un sentimento cristiano, spirituale, che però di fronte a 17 omicidi può arrivare ad avere degli ostacoli. La riabilitazione civile invece è inconcepibile di fronte a tali efferatezze”. Per Ascierto la richiesta di un rapporto con un bambino poi è un fatto particolarmente controverso: “Bilancia non è la persona che può dare sentimenti e valori ad un qualsiasi essere umano. Ormai non credo più alla voglia di redenzione di nessun criminale. Bilancia deve scontare fino all’ultimo giorno della sua pena e pensare solo alle famiglie delle persone che ha ammazzato”. Giustizia: i clan dietro le sbarre si riconoscono dalla griffe, ogni “famiglia” ha i marchi preferiti di Antonio Salvati La Stampa, 4 dicembre 2011 Armani, Hogan, Prada. Ma anche Rolex, Cartier e Samsonite. Il dress-code della camorra è rigido e spesso serve a distinguere una fazione da un’altra. Perché al padrino della camorra, a differenza del capomafia, piace ostentare la sua ricchezza. Come ai boss dei Casalesi che costruiscono ville simile a quelle viste nel film “Scarface”, oppure lastricano il giardino di casa con il simbolo del dollaro, o come il narcotrafficante napoletano che in casa aveva della carta igienica con sopra impresse banconote da cento dollari. Se spesso i gusti in fatto di arredamento sono particolarmente kitsch, i guardaroba dei camorristi sono sempre pieni di abiti raffinati e accessori di lusso. Prendete ad esempio il boss Eduardo Contini, forse il primo a trasformare la camorra in una multinazionale in grado di fatturare milioni di euro. Al giorno s’intende. Il padrino, latitante e ricercato dalle forze dell’ordine di mezzo mondo, fu sorpreso il 31 dicembre dai carabinieri mentre si preparava ad una festa in uno degli alberghi più lussuosi della zona. Da quel giorno divenne il boss in smoking, visto il capo firmato che indorsava. E poi Maria Licciardi, una delle prime lady della camorra partenopea: in uno dei covi della latitante, furono ritrovati abiti da sera firmati, scarpe con tacchi vertiginosi e un lussuoso pianoforte a coda. Chiedete poi al collaboratore di giustizia Nicola Cangiano, ex affiliato al clan dei Casalesi. Per il pentito gli abiti e gli accessori sono utilizzati per distinguere gli affiliati di una “famiglia” dagli altri. Mentre le gang utilizzano borchie e tatuaggi, le bande della camorra indossano scarpe Hogan o Samsonite. “Nell’ambiente - afferma Cangiano - certe cose si capiscono subito ed il gruppo Zagaria anche nel carcere ha un modo di comportarsi e di stare insieme che si nota subito ed è diverso da tutto il resto della platea dei detenuti. Peraltro è anche un gruppo all’interno del quale anche per noi alleati è difficile entrare”. “Stanno sempre fra di loro - prosegue nel racconto Cangiano - e tendono a non aprirsi con gli altri. Addirittura nel vestiario si distinguono. Vestono tutti scarpe Samsonite, vestiti di marca e finanche calzini di cachemire. Si vede in sostanza che continuano a percepire cospicui stipendi da parte del clan”. Se il gruppo Zagaria, il cui capo Michele è l’ultimo latitante di spessore del clan dei Casalesi, ha adottato una sorta di divisa ufficiale, “le Hogan - spiega Cangiano - sono prerogativa degli Schiavone come la barba curata e i capelli senza gelatina, come imposto da Schiavone Nicola (figlio di Francesco detto Sandokan)”. Il potente narcotrafficante Cesare Pagano, considerato una sorta di ministro degli esteri del gruppo degli scissionisti, era soprannominato Angioletto e soprattutto Paciotti, visto la vera e propria passione che aveva per le scarpe firmate dallo stilista. E sempre restando tra le fila degli scissionisti, molti affiliati si riconoscevano tra di loro perché al polso indossavano Rolex da diversi migliaia di euro. Ma per alcuni non bastava, tanto che iniziarono a spuntare sui polsi tatuaggi “a corona”, il simbolo della casa svizzera. Restando in tema di tatuaggi, proprio in quel periodo, quando si ammazzavano i familiari per cercare di stanare il nemico, molte camorristi di Secondigliano si fecero tatuare sull’avambraccio la scritta “Don’t touch my family”. Lettere: falsa notizia di “pratiche aperte” per autorizzazione lavoro all’esterno in attesa di esame di Francesco Maisto Ristretti Orizzonti, 4 dicembre 2011 È assolutamente falsa la notizia pubblicata da “Sesto Potere” del 2 dicembre 2011 secondo la quale, tra l’altro, si afferma che presso il Tribunale di Sorveglianza di Bologna vi sono una “serie” di “pratiche aperte” di autorizzazione di lavoro all’esterno in attesa della firma del Magistrato di Sorveglianza da me delegato e competente per la Casa Circondariale di Bologna. Da un attento esame degli archivi non risultano procedimenti per art. 21 O.P. pendenti e senza decisione del Magistrato. Basilicata: aggiornamento Protocollo per adeguare i servizi socio-sanitari a favore dei detenuti www.basilicatanet.it, 4 dicembre 2011 Il presidente della quarta Commissione del Consiglio regionale plaude all’aggiornamento del protocollo d’intesa fra Regione e Amministrazione penitenziaria. “La decisione di aggiornare il protocollo d’intesa sottoscritto nel 2010 dalla Regione con il sistema delle Amministrazioni penitenziarie e della Giustizia minorile, per adeguare i servizi socio-sanitari a favore dei detenuti, è un passo significativo dell’iniziativa avviata dalla Quarta Commissione Consiliare che avrà come punto di arrivo la convocazione di una seduta specifica del Consiglio sui problemi della popolazione carceraria”. È il commento del presidente della quarta Commissione permanente del Consiglio regionale (Politiche Sociali) Rocco Vita (Psi), il quale ricorda che “si dà attuazione agli impegni che il Consiglio e la Giunta hanno assunto con l’approvazione, nel mese di ottobre scorso, della mozione sulle carceri”. “Con essa - dice Vita - abbiamo dato uno sbocco all’appello di Marco Pannella e ai continui richiami del Presidente della Repubblica Napolitano, nella consapevolezza che uno Stato civile deve togliere la libertà a chi ha commesso un reato ed è stato giudicato colpevole, ma non può anche togliere la dignità e attentare alla salute di queste persone con situazioni igienico-sanitarie che potrebbero comprometterne la salute”. “Dopo aver impegnato il Consiglio e la Giunta su questi temi - aggiunge - continueremo l’iniziativa nelle carceri lucane, come stiamo facendo da tempo con visite periodiche, (l’ultima in ordine di tempo il 30 novembre scorso) anche per rafforzare l’attività di formazione professionale dei detenuti e per favorirne il reinserimento sociale. Voglio ricordare che nel Piano dello Sport abbiamo individuato prime iniziative positive per favorire la promozione della pratica sportiva nelle carceri. Sui temi specifici della salute siamo convinti - conclude Vita - che l’Osservatorio per la sanità penitenziaria costituito, all’indomani del passaggio delle funzioni dal ministero di Grazia e Giustizia alle Regioni, per verificare l’efficacia degli interventi effettuati dalle Aziende sanitarie regionali a tutela della salute degli oltre 500 detenuti negli istituti lucani, ha un ruolo importante da svolgere, a partire dalla prossima riunione, fissata per il 21 dicembre”. Cagliari: detenuta di 42 anni si suicida in carcere, era accusata di avere ucciso la madre Ansa, 4 dicembre 2011 In carcere per l’omicidio della madre, Monia Bellafiore si è suicidata stamane all’alba nella sua cella del penitenziario di Buoncammino a Cagliari. La donna, secondo le prime ricostruzioni, si sarebbe impiccata con un lembo di stoffa nel bagno della cella che condivideva con altre 5 detenute. Sono state proprio loro a dare l’allarme ma per la giovane non c’era più niente da fare. Il decesso risalirebbe alle 6.50 ed è stato certificato dal medico del carcere. Monia Bellafiore era stata arrestata insieme al compagno. Monia Bellafiore aveva 42 anni ed era in carcere, assieme al marito Giuseppe Oliva, di 39, dal 4 novembre scorso. Omicidio premeditato pluriaggravato: questa l’accusa contestata alla coppia. Secondo gli inquirenti, i due avrebbero ucciso la madre della Bellafiore, Maria Irene Sanna, di 64 anni, ex infermiera e badante, nell’abitazione di Assemini dove vivevano tutti e tre. Il corpo della donna fu trovato carbonizzato il 28 ottobre scorso sulle sponde della diga del Cixerri, nel cagliaritano. Conosciuti entrambi come tossicodipendenti, Bellafiore e Oliva avrebbero commesso il delitto al termine di un violento litigio per questioni di soldi e droga. Dopo l’arresto, i due non hanno mai parlato con gli inquirenti: si sono sempre avvalsi della facoltà di non rispondere durante gli interrogatori a cui sono stati sottoposti. Ma attraverso i loro legali avevano fatto sapere di essere innocenti. La difesa aveva anche presentato istanza di scarcerazione, respinta però dai giudici del Tribunale del riesame. L’ex infermiera, che pur essendo in pensione lavorava come badante proprio per aiutare la figlia tossicodipendente e il genero, sarebbe stata colpita con un oggetto contundente morendo per una lesione alla base del cranio. L’omicidio, probabilmente, è avvenuto durante la notte, mentre la donna dormiva, e il suo corpo sarebbe stato poi trasportato vicino al lago del Cixerri, dove è stato dato alle fiamme. In casa sono state trovate tracce di sangue ed era sparito il materasso del letto: estremo tentativo della coppia, secondo gli inquirenti, di eliminare le prove del delitto. Trieste: detenuto di 33 anni trovato senza vita nella sua cella, sospetta overdose di antidolorifici Il Piccolo, 4 dicembre 2011 A dare l’allarme per Michele Misculin, 33 anni, sono stati altri detenuti. Inutile l’intervento del 118 L’uomo sarebbe dovuto restare al Coroneo fino al febbraio 2013. Tra le ipotesi quella del suicidio. di Corrado Barbacini Si chiamava Michele Misculin. Aveva 33 anni. È morto l’altra notte nella cella in cui era rinchiuso, nel secondo braccio del Coroneo. A trovarlo privo di vita, riverso sulla branda più alta del letto a castello, sono stati i suoi compagni di cella. Secondo le prime ipotesi del medico legale Fulvio Costantinides le cause della morte potrebbero essere riconducibili a un’overdose di farmaci antidolorifici. Ma sarà l’autopsia disposta dal pm Pietro Montrone a fare chiarezza. Misculin stava scontando una pena definitiva. Recentemente era stato raggiunto in carcere da un ordine di carcerazione per un periodo di 9 mesi. Sarebbe dunque dovuto rimanere in cella fino al 24 febbraio del 2013. Quella del suicidio è una delle ipotesi al vaglio. L’allarme è scattato l’altra notte attorno alle 23. Il silenzio è stato rotto dall’urlo dei quattro compagni di cella di Misculin. Sono arrivati gli agenti della polizia penitenziaria, poi il direttore del carcere Enrico Sbriglia e il medico del Coroneo. Dopo poco sul posto anche i sanitari del 118. Hanno fatto di tutto per poterlo rianimare, ma non c’è stato nulla da fare. Misculin, tossicodipendente, veniva sottoposto a terapia con il metadone. Secondo la ricostruzione degli stessi agenti si era coricato circa mezz’ora prima della tragedia senza dare alcun segnale di malessere. Ma stando alle prime ricostruzioni degli investigatori, gli sarebbe stato fatale il sovradosaggio di pastiglie antidolorifiche. È emerso che l’uomo, dichiarando di soffrire di vari dolori, si faceva regolarmente consegnare i relativi farmaci dal dottore dell’infermeria. Ma mentre fingeva di prendere quelle pillole, in realtà le metteva da parte per poi ingurgitare assieme alle sue quelle di altri reclusi. Così avrebbe fatto anche l’altra sera. Michele Misculin era finito in carcere il 3 giugno scorso. I poliziotti della Mobile lo avevano raggiunto nella casa dove abitava con i genitori in via San Pasquale 131. In quella stessa abitazione, nel febbraio del 2008, aveva accoltellato il padre Gianfranco, 71 anni, con due fendenti a una coscia. Quella volta, secondo la ricostruzione dei carabinieri, all’origine dell’aggressione c’era stato il rifiuto del genitore di dargli i soldi per la droga. L’episodio drammatico era avvenuto davanti agli occhi della madre Graziella Giosento. Era stata lei stessa a chiamare i carabinieri. Di fronte al figlio che impugnava il coltello aveva temuto il peggio. Michele Misculin era poi stato bloccato mentre cercava di fuggire approfittando della confusione sorta nell’appartamento. Da lì il processo e la condanna. Ma nel frattempo aveva avuto altre vicissitudini giudiziarie. Era finito in cella assieme ad altri quattro reclusi nel secondo braccio del Coroneo. Dove l’altra notte è morto. Tre decessi in carcere negli ultimi cinque anni Tre detenuti morti in carcere negli ultimi cinque anni. E poi una quarantina di casi di autolesionismo. “Qui a Trieste la situazione è pesante. Molti aspetti sono preoccupanti”, dice Alessandro Penna, segretario provinciale della Uil penitenziari. “Molte di queste tragedie hanno riguardato persone che avevano a che fare con la droga”. Di qualche anno l’episodio più clamoroso. Dirompente al punto che ne aveva parlato anche l’allora presidente della Corte d’Appello Carlo Dapelo in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario: un recluso era morto dopo essersi inalato il gas propano di una bomboletta utilizzata per scaldarsi il cibo. Lo scopo di quello che alla fine si era rivelato un vero e proprio suicidio era quello di “farsi”, come aveva rilevato lo stesso procuratore Dapelo. Michele Misculin, morto in queste ultime ore, viveva in una cella di pochi metri quadri assieme ad altre quattro persone, tutti ex tossicodipendenti. Secondo gli ultimi dati nel carcere del Coroneo vivono 246 uomini e 30 donne, a fronte di una capienza totale che è di appena 180 persone. Ci sono detenuti che dormono distesi sui pavimenti e a volte sono privati anche del posto in branda. Così uomini con il morale sotto i tacchi, psicologicamente fragili e talvolta vinti dalla tossicodipendenza, costretti a convivere in celle che di detenuti dovrebbero ospitarne la metà. Fisici debilitati dalle malattie a corto di assistenza medica. E una tensione latente, accompagnata da un elevato tasso di multietnicità compresso in pochissimo spazio, che rischia di tradursi in violenza contro gli altri e anche contro se stessi. Qualche tempo fa per fare entrare una dose di droga una detenuta aveva baciato appassionatamente il suo fidanzato nella sala colloqui del carcere. Ma quel bacio - aveva intuito un agente - era troppo appassionato e soprattutto troppo lungo. Così, quando la detenuta è rientrata nella parte off-limits del carcere, è scattato il controllo. Una guardia le ha chiesto di aprire la bocca ed è saltata fuori la bustina di cellophane contenente una polverina di colore marrone, appunto eroina. Venezia: la Procura indaga sul carcere, chiesti all’Asl 12 più controlli sul sovraffollamento La Nuova Venezia, 4 dicembre 2011 C’è un indagine della Procura sulle condizioni igienico sanitarie, aggravate dal sovraffollamento, del carcere di Santa Maria Maggiore. A rivelarlo è stato ieri il direttore del Dipartimento di Prevenzione dell’Asl 12 Rocco Sciarrone durante il convegno “Il sovraffollamento di Santa Maria Maggiore: quale via d’uscita?” organizzato dalla Funzione pubblica della Cgil e dall’associazione “Il granello di senape”. Il dirigente sanitario ha spiegato che il procuratore Luigi Delpino ha voluto sul suo tavolo le relazioni dei sanitari del suo Dipartimento che svolgono le attività di controllo sul carcere. Del resto, non è una novità, nonostante le ristrutturazioni e le migliorie volute dai direttori che si sono succeduti nel carcere lagunare, che i detenuti vivano in condizioni quasi disumane. E, ieri, si sono confrontati i due punti di vista per uscire dall’emergenza: il primo, sostenuto al microfono dai direttori di Santa Maria Maggiore e della Giudecca Salvatore Pirruccio e Gabriella Straffi, afferma che un nuovo carcere a Venezia è necessario. “Deve essere utilizzato non per aumentare il numero dei detenuti, altrimenti la situazione di sovraffollamento si perpetuerebbe - ha spiegato il primo - ma per distribuire i detenuti e farli star e meglio”. Anche loro, comunque, sono convinti che innanzitutto si debbano incentivare le misure alternative alla carcerazione. “In carcere devono andarci i veri delinquenti” ha concluso Pirruccio, rivelando che almeno il 55 per cento di chi viene arrestato e finisce a Santa Maria Maggiore dopo tre giorni torna libero, un turn-over che crea problemi enormi alla struttura. “Prima di costruire nuovi carceri - ha invece affermato don Dino Pistolato, direttore della Caritas veneziana - cerchiamo di far funzionare la fantasia”. Una delle relatrici, Michele Vincenzi, delegata Cgil presso l’Ufficio di esecuzione penale esterna ha spiegato che neppure il nuovo carcere veneziano riuscirebbe a coprire il fabbisogno in Veneto con i suoi 450 posti. “Ma allora è una strategia davvero efficace quella della costruzione di nuove carceri?” si è chiesta. Per il senatore Pd Felice Casson, non lo è sicuramente: per l’ex magistrato è necessario imboccare la strada, indicata anche dall’intervento di Fabrizio Ramaciotti, direttore del Dipartimento di Psichiatria, delle misure alternative alla detenzione, mettendo mano ad una serie di leggi in Parlamento. “Innanzitutto mutuando dalle legislazione per i minori la messa in prova anche per gli adulti - ha sostenuto Casson - quindi allargando la legge svuota carceri, facendo uscire anche coloro a cui mancano due anni e non soltanto uno da scontare, ampliare la possibilità della concessione degli arresti domiciliari”. Anche perché, ha concluso il senatore Pd, l’emergenza esiste davvero e riguarda, oltre che le norme che vanno cambiate al più presto, anche le risorse che sono sempre più scarse. Agenti trattati peggio dei detenuti “Sono convinto che un serio processo di umanizzazione della pena per i detenuti sia possibile approfondendo i temi legati al loro trattamento, ma la sua concreta realizzazione non può prescindere dal miglioramento delle condizioni di lavoro e del trattamento della Polizia penitenziaria. A dirlo, ieri al convegno, è stato Gaetano Panebianco, un ex agente penitenziario e coordinatore per la Cgil. E non va certo in questa direzione, tanto che sono in molti tra gli agenti a lamentarsene, l’ordine della nuova comandante nel quale si prevede che chi di loro è in servizio per sei ore non potrà più mangiare nella mensa, provocando un disagio notevole per molti di loro. Panebianco a spiegato che i suoi colleghi a Santa Maria Maggiore, a causa del sovraffollamento dei detenuti e della carenza di organico tra gli agenti , “sono costretti a operare in circostanze di estrema precarietà, mettendo a repentaglio il puntuale adempimento dei loro compiti”. Ha aggiunto che anche tra la Polizia penitenziaria si sono registrati suicidi, ben 100 in dieci anni e sette negli ultimi mesi. L’altra relatrice, Michela Vincenzi, ha riferito che cosa, qualche giorno fa, le ha raccontato un amico agente: “Pensa - le ha detto - che montando in servizio ai piani l’ultima volta mi hanno consegnato le chiavi di due sezioni (oltre 100 detenuti) e contemporaneamente mi hanno detto che dovevo controllare a vista un detenuto a grande sorveglianza . Tutto da solo”. Vincenzi ha snocciolato qualche dato su l carcere lagunare: su 360 detenuti presenti in media, solo 26 lavorano, sempre meno rispetto agli anni precedenti, lo scorso anno i tentati suicidi sono stati quindici, nei primi tre mesi 2011 sono stati dieci. E nonostante la difficile e complessa realtà di Santa Maria Maggiore dal 2009 si sono succeduti tre o quattro direttori diversi e si sono alternati 4 comandanti. Siena: l’On Evangelisti visita il carcere; struttura carente, isolata dalla città e sovraffollata Il Tirreno, 4 dicembre 2011 “È ben lontano da essere un carcere modello, ma rispetto a molte altre realtà della Toscana è una struttura di detenzione senza dubbio più accettabile, grazie, in particolare, all’ottimo rapporto umano che sembra essersi instaurato tra i detenuti e il personale di guardia”. Con queste parole, l’on. Fabio Evangelisti, Segretario Idv Toscana, ha commentato a caldo la visita effettuata questa mattina a capo di una delegazione Idv nella Casa Circondariale Santo Spirito di Siena, nell’ambito della campagna di sopralluoghi in numerose carceri della Toscana che Italia dei Valori ha lanciato il Primo Dicembre per far luce, in particolare, sui detenuti affetti da Aids. “Per fortuna - ha spiegato Evangelisti al termine della visita - nella struttura senese non vi sono casi accertati di reclusi sieropositivi. Ciò nonostante, le criticità sono molte, sia per quanto riguarda i detenuti sia per il personale di sorveglianza. Come sempre, infatti, se il sovraffollamento è la piaga che maggiormente affligge la popolazione carceraria, di contro la carenza di organico è il principale problema con cui è costretto a fare i conti il personale di polizia penitenziaria”. “Secondo i dati forniti dall’Amministrazione del Santo Spirito - ha aggiunto Evangelisti - i detenuti attualmente in custodia sono 85 (di cui 20 già passati in giudicato) a fronte di una capienza prevista di 65 persone. Inferiore, rispetto agli altri istituti toscani, il numero dei detenuti stranieri (40%) e tossicodipendenti (40%). Per quanto riguarda il personale, invece, dei 40 agenti previsti dal Ministero, ve ne sono in forza soltanto 21, oltre 9 del nucleo di traduzione. Secondo l’ultimo rapporto di Antigone, la Casa Circondariale di Siena si distingue per il basso numero di assenteismo del personale e per percentuali molto basse di autolesionismo tra i detenuti, e questo è senz’altro un indice di uno stato di salute accettabile della struttura”. “Certo - ha concluso Evangelisti - carenze strutturali e situazioni emergenziali non mancano: penso alle docce, che sono soltanto tre, penso alle condizioni fatiscenti delle zone d’aria e alla totale assenza o quasi di spazi formativi e ricreativi, penso agli stanzoni dove sono ammassati fino a otto detenuti in condizioni al limite della tollerabilità fisica e della dignità umana. Le solite drammatiche incongruenze che affliggono le nostri carceri, insomma. Per questo tornerò a sollecitare il Ministro della Giustizia con un’interrogazione, la prossima settimana alla Camera, per sollecitare lo sblocco dei 55mila euro promessi all’Amministrazione che potrebbero garantire qualche intervento di ammodernamento, seppur insufficiente. Per fare un esempio: se la struttura non avesse ricevuto in dono circa 50 water, infatti, oggi avremmo dovuto raccontare di una situazione igienica insostenibile”. Della delegazione faceva parte anche Antonio Giudilli, Capogruppo Idv in Provincia di Siena. “Ho letto sul giornale la denuncia di un detenuto sulle drammatiche condizioni del carcere - spiega Giudilli - e sono voluto venire a toccare con mano la situazione”. “Ciò che più salta all’occhio - continua il Consigliere Idv - è il totale isolamento del carcere rispetto alla vita della città. È quanto mai urgente che gli Enti Locali, a partire dal Comune, che hanno la responsabilità della gestione del territorio, si facciano promotori di un progetto per trasformare la Casa Circondariale in un vero e proprio Quartiere della città, valorizzandone, con il sostegno del volontariato, le vocazioni culturali, ludiche e ricreative, tornando a far vivere quei luoghi di integrazione e pregio che anche il Santo Spirito possiede, come il chiostro e soprattutto il vecchio teatro, che oggi versa invece in uno stato di impietoso abbandono”. Agrigento: accordo tra Comune di Canicattì e Ministero, diciotto ex detenuti avviati al lavoro La Sicilia, 4 dicembre 2011 Per migliorare le condizioni di vita ed agevolare il reinserimento sociale dei detenuti, il comune di Canicattì, grazie al protocollo firmato con il ministero del lavoro ed il ministero della Giustizia, ha avviato un progetto rivolto a favorire l’attività lavorativa di persone che in passato hanno avuto problemi con la giustizia. Saranno 18 i disoccupati che percepiranno un compenso di circa 400 euro per un periodo di 4 mesi. Le persone selezionate, in base alle attestazioni reddituali, inizieranno a lavorare a partire dal prossimo mese nelle aziende che hanno dato la loro disponibilità all’inserimento lavorativo dei soggetti selezionati. Circa 50 le domande arrivate all’assessorato ai Servizi sociali, guidato dall’assessore Calogero Capobianco, che ha già espletato una serie di progetti socialmente utili dedicati a categorie particolarmente disagiate. I lavori da eseguire variano in base alle esigenze delle ditte e associazioni che hanno dato la disponibilità. Se i fondi comunali lo permetteranno, sarà rinnovato il progetto in modo che tutti coloro che hanno presentato la domanda possano usufruire di questa opportunità. Il comune di Canicattì, è il secondo comune della provincia ad attivare il progetto. L’amministrazione comunale ha voluto offrire a questi giovani una possibilità di riscatto sociale. Sono stati coinvolti i soggetti in stato di libertà per fine detenzione; soggetti sottoposti a pena alternativa alla detenzione o a misura di sicurezza e beneficiari dell’indulto. Alghero: lite in carcere, detenuto ferito al collo con delle forbicine da un compagno La Nuova Sardegna, 4 dicembre 2011 Momenti di altissima tensione nel carcere di San Giovanni. Un detenuto è stato ferito all’addome e al collo con delle forbicine. Non è in pericolo di vita. Tutto è accaduto mercoledì mattina intorno all’ora di pranzo, quando Gianni Tavera, 39 anni, residente in città e in attesa di scontare suppergiù un anno a causa di svariati reati, si sarebbe avvicinato alla zona cucina del penitenziario, pare per assicurarsi gli avanzi del pasto. Fatto sta che proprio in quel momento un detenuto marocchino, Akhdim Ahmed, 35 anni, gli avrebbe drasticamente bloccato il passaggio. Al punto che tra i due è partita un’accesa discussione nella quale sono volate parole di troppo, così che alla fine la lite verbale è degenerata in una vera e propria zuffa con tanto di aggressione (non è chiaro, però, chi abbia alzato le mani per primo). Da quanto si è appreso, tuttavia, forse per replicare a qualche insulto o per difendersi dai colpi, Ahmed avrebbe tirato fuori all’improvviso delle forbicine, di quelle che solitamente si usano per tagliare le unghie ai bambini e il cui uso è generalmente concesso agli ospiti del carcere. Il marocchino ha colpito ripetutamente Tavera ferendolo all’addome e al collo, rischiando così di procurargli lesioni e tagli molto seri, se non addirittura mortali. Di sicuro il detenuto algherese è stato immediatamente soccorso e portato d’urgenza all’ospedale civile, dove è stato medicato e dopo accurati i controlli dimesso con alcuni giorni di prognosi. L’uomo - che è tornato nella sua cella - non è dunque in pericolo di vita, ma stando sempre a quanto si è saputo il taglio avrebbe sfiorato la giugulare. In attesa dei risvolti penali, la direzione del carcere ha aperto un’inchiesta amministrativa e - come afferma il direttore del penitenziario Elisa Milanesi - per adesso non sono stati presi provvedimenti nei confronti dei due. Intanto, sempre nel carcere di San Giovanni, qualche giorno fa un detenuto tunisino si è cucito la bocca con ago e filo per protestare contro l’impossibilità burocratica di chiamare i suoi familiari. La situazione è stata risolta ieri dalla stessa direttrice Milanesi. “Questi episodi - commenta Antonio Sanna, segretario provinciale del Sappe, il sindacato di polizia penitenziaria - dimostrano che le nostre richieste di rafforzare il personale non sono campate per aria. Ci auguriamo che si provveda subito”. Firenze: detenuto aggredisce due agenti di polizia penitenziaria Adnkronos, 4 dicembre 2011 Un detenuto ha aggredito ieri sera nel carcere fiorentino di Sollicciano due agenti di polizia penitenziaria. Lo rende noto il sindacato autonomo di polizia penitenziaria Sappe. Il detenuto albanese, che poche settimane fa era rimasto coinvolto in una rissa in un cortile interno, dopo aver concluso il suo periodo di isolamento disciplinare è stato ricondotto nella sezione ordinaria, ma prima si è rifiutato di rientrare in cella e subito dopo ha aggredito al volto l’agente addetto alla vigilanza. Anche un collega dell’agente, giunto in aiuto, è stato poi colpito dal detenuto. L’albanese è stato poi nuovamente portato nel reparto isolamento e i due agenti sono ricorsi alle cure dei sanitari. “Ancora una volta - commenta il Sappe - si registra un episodio di violenza ingiustificabile ai danni della polizia penitenziaria di Sollicciano. Non può esserci trattamento penitenziario senza la sicurezza dell’istituto e il regime penitenziario va gestito alla stessa velocità del trattamento”. Reggio Emilia: nuova aggressione all’Opg, la Cgil lancia l’allarme Gazzetta di Reggio, 4 dicembre 2011 Il raptus di un internato ha provocato mercoledì scorso il ferimento di tre persone all’interno dell’Opg di Reggio. Il detenuto, giunto da pochi giorni nella struttura di via Settembrini, era ancora in osservazione e, quindi, non se ne conoscevano precisamente le condizioni di salute. Durante l’ora d’aria si è scagliato come una furia, senza apparenti motivi, contro un compagno, colpendolo con calci e pugni e provocandogli ferite lacerocontuse poi medicate dal medico di guardia. Due agenti del reparto Cassiopea sono immediatamente intervenuti ma, prima di riuscire ad immobilizzare l’aggressore, hanno subito l’uno una frattura alla mano destra guaribile in trenta giorni e l’altro una sospetta frattura, sempre alla mano. “Si tratta - denuncia Nicolò Mazzara per conto dell’esecutivo regionale del sindacato Funzione pubblica della Cgil - della seconda aggressione nel giro di un mese all’interno dell’Opg. Questi fatti avvengono a causa dell’abbandono da parte dell’amministrazione centrale, del sovraffollamento degli istituti penali e dell’ormai atavica carenza di personale e mezzi atti ad affrontare situazioni di emergenza che si verificano sempre più spesso”. La situazione dell’Opg è migliorata negli ultimi mesi dopo la visita della commissione parlamentare guidata dal senatore del Pd Ignazio Marino: da 320 internati si è scesi a 230 che però, secondo la Cgil, sono ancora troppi per una struttura che ne dovrebbe contenere 120. Difettano, invece, gli agenti: su un organico teorico di 120 ce ne sono in servizio 80, “demoralizzati e demotivati”, costretti a fare mediamente 30 ore di straordinario. “Occorrerebbe - dice Mazzara - aumentare l’esecuzione penale esterna, soprattutto per i reati minori, potenziando l’affidamento in prova e alle comunità”. Don Daniele Simonazzi, cappellano dell’Opg, punta invece il dito sulle condizioni della detenzione: “Su 25 celle - riferisce - solo 13 hanno lo sciacquone del water funzionante. Manca un locale idoneo per fumare. I sindacati glissano sulla manutenzione e sulle condizioni igieniche, mentre esagerano sulla carenza di personale. A Reggio sono appena arrivati 13 nuovi agenti. Qui ne mancano ancora parecchi, ma si verificano esuberi nel Meridione”. Milano: in Consiglio comunale una mozione per la rilevazione delle condizioni di vita nelle carceri Il Giorno, 4 dicembre 2011 Tutti i gruppi politici, ad eccezione della Lega, hanno presentato in Consiglio una mozione che propone la nascita di una Commissione tecnica composta da funzionari di vari Assessorati che avrà il compito di rilevare le condizioni oggettive di tutti coloro che vivono negli istituti di prevenzione e pena nel Comune di Milano (Opera, S. Vittore, Bollate, Istituto per i minorenni “Cesare Beccaria” e il Centro di identificazione ed espulsione di via Corelli). Roberto Biscardini, Consigliere Socialista, eletto nelle liste del Pd e primo firmatario della mozione, ha dichiarato: “L’obiettivo della mozione, sollecitata dall’associazione Nessuno Tocchi Caino, si propone di fornire all’amministrazioni comunale un quadro oggettivo della condizione carceraria della nostra città. Sulla base di questi dati certi dovranno essere presi poi dal Sindaco e dalle Autorità competenti i provvedimenti conseguenti per evitare il protrarsi di condizioni inumane e degradanti della vita nelle nostre carceri. La situazione di emergenza in cui si trovano le carceri italiane, che soffrono di sovraffollamento e di carenza di personale, è chiara. Si tratta adesso di intervenire in modo serio sulla base di una misurazione concreta in primo luogo delle condizioni fisiche, di agibilità, di igiene e di salubrità delle strutture carcerarie. Ci auguriamo - ha aggiunto Biscardini - che questa mozione sia approvata al più presto dal Consiglio Comunale di Milano e che possa essere d’esempio per altri comuni del nostro paese”. Caltagirone (Ct): iniziative nel periodo natalizio, spettacoli e aiuti alle famiglie dei reclusi La Sicilia, 4 dicembre 2011 La direzione del penitenziario “Noce” di Caltagirone, in occasione delle festività natalizie, aprirà le porte alla solidarietà che avrà come denominatore l’integrazione fra i reclusi e le loro famiglie. Un terzo elemento significativo è la creazione di un fondo di solidarietà, grazie al quale si potranno sostenere, con beni di prima necessità, gli stessi detenuti, oltre i loro familiari che vivono determinati disagi sociali; in particolare i minori. Questa la sintesi dei contenuti delle iniziative che sono state illustrate ieri, nel corso di una conferenza stampa, svoltasi nella sala riunioni del carcere, alla quale hanno preso parte il direttore della struttura, Valerio Pappalardo, il comandante di Reparto della polizia penitenziaria, Vincenzo La Greca, l’educatrice della stessa casa circondariale, Marta Pepe e il garante dei diritti dei detenuti della Regione Sicilia, sen. Salvo Fleres. Al tavolo dei relatori presenti pure gli esponenti dell’associazione Polis di Caltagirone, Giusy Lo Bianco (presidente) e Alida Nicosia (psicologa). Nel corso della riunione sono state annunciate le date di tre iniziative culturali, che avranno come destinatari i reclusi: nei giorni 19, 21 e 22 dicembre andranno in scena musical e spettacoli teatrali. Lo spettacolo del 19 è rivolto ai reclusi protetti (isolamento e altre cause di detenzione), il 21 alle altre categorie e quello conclusivo fra detenuti e famiglie. “Ringrazio la direzione carceraria e l’associazione Polis - dice il sen. Salvo Fleres - per la disponibilità manifestata, rispetto le iniziative da promuovere, cui mirano a sostenere le famiglie dei reclusi e a realizzare un fondo di solidarietà”. Conclude il direttore del carcere, Valerio Pappalardo: “Anche quest’anno ci apriremo alla società, con la possibilità di fare interagire detenuti e famiglie. L’utenza detentiva potrà così trascorrere momenti di armonia che, indubbiamente, ha un report incontrovertibile sotto il profilo della serenità”. Lodi: in carcere si fa musica, corsi di canto e incontri con i big Corriere della Sera, 4 dicembre 2011 Da una parte ci saranno i cd, ordinati secondo i diversi generi musicali; dall’altra cinque postazioni di ascolto con strumenti d’avanguardia e poltrone comode e, accanto, una libreria a tema, con volumi sugli strumenti musicali, spartiti, opere che raccontano la storia della musica e la sua evoluzione. Saranno questi gli ingredienti fondamentali della prima fonoteca mai realizzata in un carcere e che sta nascendo a Lodi. Nella casa circondariale, da fine anno i detenuti potranno dedicarsi all’ascolto di autori più e meno famosi e cercare di sviluppare la loro conoscenza delle note. A inventarsi questo progetto due donne: da un lato la direttrice dell’istituto Stefania Mussio, che vede l’iniziativa come una formula per sviluppare cultura in carcere; dall’altro Stefania Martinelli, in arte Martha J, cantante jazz che con il suo quartetto gira i locali di tutta Italia. La fonoteca non sarà semplicemente una sala dove ascoltare dei cd. “Faremo anche un corso di canto e organizzeremo un ciclo di incontri con dei musicisti in modo che siano loro a spiegare davvero cosa significa suonare” spiega la cantante. I “professori” sono di livello. Il direttore d’orchestra Dario Garegnani parlerà della musica lirica e di quella classica, mentre a uno dei bluesman più quotati in Italia, Max De Bernardi, sarà affidato il compito di raccontare gli albori di questo genere. Vittorio Castelli, jazzista milanese, si occuperà di avvicinare i detenuti a suoni che richiamano il mondo della libertà d’invenzione e di interpretazione. Per finanziare il progetto della fonoteca si impegneranno l’Alovoc, l’associazione di volontari guidata da Franco Pasquali e Mario Uggè, la Fondazione Banca Popolare di Lodi e alcuni benefattori privati. A renderlo realtà, oltre a Martha J, penserà lo staff coordinato dalla direttrice Stefania Mussio, che al di là dei limiti di spazio e di risorse, crede nella finalità di recupero delle carceri e si impegna perché ai detenuti vengano donati strumenti per diventare davvero uomini liberi. Lecce: Telethon in visita nel carcere, domani un incontro in cui parlerà di nutrigenetica Gazzetta del Sud, 4 dicembre 2011 Lunedì Sergio Carlucci, direttore del centro di genetica del laboratorio “Pignatelli”, terrà un incontro con i detenuti della casa circondariale di “Borgo San Nicola”. L’iniziativa riprende quella dello scorso anno. Lunedì 5 dicembre Sergio Carlucci, biologo dell’anno nel 2006, direttore del centro di genetica del laboratorio “Pignatelli”, terrà un incontro con i detenuti della casa circondariale di “Borgo San Nicola”, a Lecce, sul tema della genetica, con particolare riferimento alla “nutrigenetica” e alla possibile prevenzione. Parteciperanno all’incontro anche Diomede Stabile, giovane affetto da malattia genetica, che porterà la sua esperienza e Dario Marangio in rappresentanza di “Bnl per Telethon” che ha promosso l’iniziativa. L’incontro con i detenuti intende manifestare l’attenzione ed il rispetto verso chi vive il disagio della carcerazione e vuole portare il messaggio della scienza e della ricerca contro le malattie genetiche, principale obiettivo della manifestazione Telethon che, da oltre venti anni, promuove la conoscenza scientifica, oltre che sollecitare la raccolta fondi. Lo scorso anno tale iniziativa è stata accolta con grande interesse e partecipazione ed i detenuti, nell’occasione, destinarono a Telethon il ricavato dei loro manufatti nell’ambito di una manifestazione di valorizzazione del lavoro in carcere. Per l’organizzazione di Telethon, che esprime gratitudine alla direzione della casa circondariale, sarà un modo per dare continuità ad un’opera intrapresa dall’alto significato sociale e solidale. Immigrazione: 46enne cinese in regola con il permesso di soggiorno, condannata dalla burocrazia La Repubblica, 4 dicembre 2011 Chi ripagherà Adama e le altre, per la privazione della libertà? Il trattenimento in un Centro di identificazione ed espulsione, lo sancisce la Corte europea dei diritti dell’uomo, è da considerarsi equiparato alla detenzione. Ma se una persona immigrata viene rinchiusa in un Cie, perché i diversi uffici del ministero dell’Interno non si scambiano informazioni, non ha alcun diritto ad essere risarcita per il periodo di “galera amministrativa”: il codice di procedura penale prevede indennizzi solo per i detenuti “tradizionali” che vengano prosciolti o assolti da accuse penali. La malcapitata di turno, imprigionata per più di un mese a causa di un corto circuito tra apparati ministeriali, è una donna cinese di 46 anni. Il 6 febbraio 2010 viene fermata e portata al Centro di via Mattei in virtù di un decreto di espulsione firmato dal prefetto di Forlì-Cesena. Lei giura di essere in regola. A settembre, nel 2009, a Teramo ha avviato la procedura per essere regolarizzata come colf. Ma, nell’era dei computer e dello scambio di dati in tempo reale, ci vogliono cinque settimane per confermare che dice il vero. A metterci una pezza, soltanto a 35 giorni dall’ingresso, è l’ufficio stranieri della questura di Bologna. Le porte del Cie finalmente per lei si aprono. Poi arriverà anche il permesso di soggiorno. Il suo avvocato, Cristiano Prestinenzi, però non accetta passivamente l’accaduto. Presenta richiesta di risarcimento per ingiusta detenzione alla Corte d’Appello cittadina e chiede di sollevare la questione di legittimità costituzionale. Istanze respinte, con una sentenza deposita in coincidenza con il deflagrare del caso Adama. L’eventuale ristoro dei danni può essere chiesto, ma seguendo canali diversi. Bolivia: italiano è “volontario dell’anno” con un progetto per i ragazzi detenuti La Repubblica, 4 dicembre 2011 Riccardo Giavarini riceve l’attestato nella sala degli Arazzi nella sede centrale della Rai, in viale Mazzini a Roma. Ha promosso la costruzione l’avvio delle attività del primo carcere minorile della Bolivia, un Centro rieducativo per minori che prevede percorsi di riabilitazione e di formazione. Stamattina, nella Sala degli Arazzi nella sede centrale della Rai, in viale Mazzini a Roma, ha luogo la cerimonia di premiazione del volontario Focsiv 2011, in vista della Giornata Mondiale del Volontariato indetta dalle Nazioni Unite. L’appuntamento, giunto alla sua 17° edizione vedrà la partecipazione del cardinale Peter Kodwo Appiah Turkson presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace. Il volontario premiato si chiama Riccardo Giavarini ed è impegnato a La Paz, in Bolivia, con “ProgettoMondo Mlal”, un organismo associato alla Focsiv, la più grande federazione di organismi di Volontariato Internazionale di ispirazione cristiana. Cinquantaseienne, bergamasco che quest’anno compirà 35 anni di impegno ininterrotto in America Latina, ha promosso la costruzione e seguito di persona l’avvio delle attività del primo carcere minorile della Bolivia, un Centro rieducativo per minori che prevede percorsi di riabilitazione e di formazione per favorire il reintegro dei giovani detenuti nella società e un loro reale percorso di cambiamento e crescita sociale e personale. Il Centro è stato inaugurato il 22 febbraio di quest’anno davanti alle massime autorità del Paese. “Questa nostra storia”. Sergio Marelli, segretario generale Focsiv spiega che, “data la coincidenza con la chiusura dell’anno europeo del volontariato e l’apertura del quarantesimo anniversario della nascita della Federazione, l’edizione 2011 del premio rappresenta un’occasione particolare sia per recuperare, insieme, lo spirito e le motivazioni che 40 anni fa ci hanno spinto ad iniziare questa storia, sia per trovare risposte alle sfide di oggi del volontariato internazionale”. L’evento è realizzato in collaborazione con il Segretariato Sociale Rai e in media partnership con Famiglia Cristiana. Cina: tibetani arrestati sono esposti con cartello al collo Tm News, 4 dicembre 2011 I tibetani arrestati delle forze dell’ordine cinesi vengono esposti con cartelli al collo con su scritto il loro nome e il crimine di cui erano accusati. È quanto si vede nelle fotografie diffuse oggi dall’organizzazione Free Tibet, scattate nelle prefetture autonome tibetane di Kandze e di Ngaba (Aba). I documenti sono stati resi noti dal sito di opposizione Boxun.com. Le prefetture di Kandze e Ngaba, nella provincia di Sichuan, sono state testimoni negli ultimi mesi del gesto disperato di numerosi monaci e monache tibetani, che si sono dati fuoco per denunciare la repressione di cui sono vittime. Una delle fotografie emerse oggi ritrae dei poliziotti delle forze speciali anti-sommossa che spingono i monaci fuori da un edificio tenendoli per la nuca, testa bassa e cartello al collo. Uno di loro, Lobsang Zopa, ha il suo nome scritto in cinese (Luorang Zuoba) sul cartello, insieme all’accusa “separatista”, capo di incriminazione che può portare al carcere a vita. I tibetani arrestati delle forze dell’ordine cinesi vengono esposti con cartelli al collo con su scritto il loro nome e il crimine di cui erano accusati. È quanto si vede nelle fotografie diffuse oggi dall’organizzazione Free Tibet, scattate nelle prefetture autonome tibetane di Kandze e di Ngaba (Aba). I documenti sono stati resi noti dal sito di opposizione Boxun.com. Le prefetture di Kandze e Ngaba, nella provincia di Sichuan, sono state testimoni negli ultimi mesi del gesto disperato di numerosi monaci e monache tibetani, che si sono dati fuoco per denunciare la repressione di cui sono vittime. Una delle fotografie emerse oggi ritrae dei poliziotti delle forze speciali anti-sommossa che spingono i monaci fuori da un edificio tenendoli per la nuca, testa bassa e cartello al collo. Uno di loro, Lobsang Zopa, ha il suo nome scritto in cinese (Luorang Zuoba) sul cartello, insieme all’accusa “separatista”, capo di incriminazione che può portare al carcere a vita. Un’altra fotografia mostra i poliziotti che, in coppia, sollevano per le braccia dei civili a cui fanno abbassare la testa, mentre una terza mostra dei tibetani inginocchiati, cartello al collo, con i loro nomi, sempre scritti in cinese, affiancati dall’accusa “separatista” o “raduno per attaccare le istituzioni dello Stato”. Una quarta fotografia mostra un autocarro su cui i monaci vengono tenuti con la testa rivolta verso l’esterno e i cartelli ben visibili. Fino agli anni 80 era consuetudine in Cina esporre alla folla i condannati: si trattava di condannati a morte, il cui nome era sbarrato con una croce.