Giustizia: chi beneficia dell’indulto è meno recidivo di chi esce dal carcere a fine pena di Luigi Manconi e Giovanni Torrente Il Messaggero, 30 dicembre 2011 Al termine della recente visita di Benedetto XVI nel carcere di Rebibbia, ha echeggiato un grido solo, scandito dalla voce dei reclusi: amnistia. Si tratta di un termine e di un provvedimento generalmente guardati con sospetto, troppo frettolosamente rimossi o affrontati con una prudenza che tende a farsi reticenza. Eppure, quell’atto di clemenza per cui si battono i Radicali è stato seriamente considerato e certamente non escluso dal Capo dello Stato, da un giurista autorevole come Carlo Federico Grosso e dal ministro della Giustizia Paola Severino. D’altra parte, si tratta di una misura prevista dalla Costituzione e, di conseguenza, andrebbe discussa, accolta o contestata con argomenti razionali. Cosa che raramente accade. Più spesso, l’amnistia viene esorcizzata sulla base di un dato assolutamente falso: ovvero sull’errato presupposto che il più recente atto di clemenza (in questo caso, l’indulto, che dell’amnistia è parente stretto e che unitamente all’amnistia andrebbe adottato) non produrrebbe alcun risultato positivo. O meglio: produrrebbe solo sfaceli. In primo luogo: “Tutti gli indultati ritornano presto in galera”, dice il luogo comune. Ma non è affatto così. La ricerca da noi condotta per A Buon Diritto onlus dimostra esattamente il contrario: la recidiva tra i beneficiari dell’indulto è meno della metà della recidiva ordinaria, registrata tra coloro che scontano interamente la pena in carcere. I dati raccolti dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap), da noi rielaborati e analizzati, mostrano come la recidiva dei beneficiari del provvedimento di indulto (legge 241 del 31 luglio 2006) relativa a reati commessi prima del 2 maggio 2006, dopo 5 anni dall’approvazione, si attesti al 33,92%. Certo, si tratta di una percentuale comunque assai elevata, ma va confrontata con quella che si registra tra quanti non usufruiscono di sconti o condoni. Ora, l’unico studio sul lungo periodo della recidiva di persone ex detenute compiuto di recente, si deve a una rilevazione effettuata dall’ufficio statistico del Dap. Qui troviamo come il 68,45 % dei soggetti scarcerati nel 1998 abbia, nei successivi 7 anni, fatto reingresso in carcere una o più volte. Il dato della recidiva dei beneficiari dell’indulto si colloca quindi su un livello molto inferiore rispetto a quello rilevato in un monitoraggio ordinario. L’opinione diffusa in base alla quale i provvedimenti di clemenza determinano un innalzamento della criminalità, rappresentato dalla recidiva degli scarcerati, appare quindi smentito dai dati di fatto. Al contrario, con l’indulto, la scarcerazione di persone sottoposte ad esecuzione penale, abbinata alla minaccia di scontare la vecchia e la nuova pena in caso di reiterazione del reato, pare svolgere un’efficace funzione preventiva, soprattutto fra coloro che erano alle prime esperienze detentive. In questo senso, la clemenza può essere intesa come una sorta di messa alla prova che ha un impatto positivo su persone con un percorso deviante non ancora stabilizzato. Èutile, poi, disaggregare i dati e considerarli in relazione alla nazionalità di quanti beneficiano della misura. Si conferma un trend già rilevato nei precedenti monitoraggi, là dove emerge un tasso di recidiva fra gli italiani di ben 13 punti percentuali superiore a quello tra gli stranieri. Il dato è particolarmente significativo, perlomeno nelle sue dimensioni, tanto più se raffrontato con le retoriche dell’allarme sociale che hanno accompagnato il provvedimento di indulto: lo straniero extracomunitario, privo di permesso di soggiorno, come uno dei pericoli maggiori per la sicurezza pubblica una volta rimesso in libertà. La portata della differenza tra la recidiva degli italiani e quella degli stranieri pone dei seri interrogativi sul fondamento delle interpretazioni, diffuse sia a livello mediatico che nel senso comune, del ruolo e della rilevanza criminale dei diversi autori di reato. Un’ultima notazione riguarda lo scarto tra il tasso di recidiva dì coloro che, al momento dell’entrata in vigore dell’indulto, scontavano la pena in carcere e il tasso di recidiva di coloro che si trovavano in misura alternativa (soprattutto in detenzione domiciliare). Su questo, i dati disponibili si fermano a circa tre anni e mezzo dall’approvazione della legge. E mostrano, tra coloro che erano in misura alternativa, una recidiva inferiore di circa 10 punti percentuali alla recidiva tra quanti scontavano la pena in cella (21,97% a fronte del 31,15% ). Tale dato è coerente con tutta la letteratura in materia che mostra tassi di recidiva inferiori tra quanti non scontano la pena per intero in carcere. E dovrebbe costituire una forte sollecitazione ad una maggiore applicazione di misure di carattere extra-carcerario. È quanto sembra ispirare l’insieme dei provvedimenti annunciati dal ministro della Giustizia Paola Severino. Giustizia: Stato Fuorilegge… l’amnistia che manca e le amnesie del Pd di Rita Bernardini (Deputata radicale) Gli Altri, 30 dicembre 2011 È la sicurezza, bellezza! È in nome della sicurezza che in Italia c’è una parola bandita, nonostante sia espressamente prevista dall’articolo 79 della Costituzione che recita “l’amnistia e l’indulto sono concessi con legge deliberata a maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera”. Di amnistia non si può parlare in Tv e Marco Pannella, che la propone dal 1977, viene fatto passare per un pazzo/maniaco quando (raramente) un Tg (Rai o Mediaset, non fa differenza) gli concede quei 20 secondi in cui letteralmente strozzato urla che c’è uno Stato criminale che non “detiene” ma “sequestra” nelle carceri 70.000 persone e che si comporta come un delinquente professionale lasciando morire al ritmo di 200.000 all’anno procedimenti che si accumulano a milioni: 5.200.000 quelli penali e 5.400.000 quelli civili. In 34 anni (nel 1977 i procedimenti penali pendenti erano “solo” due milioni) sul tema dell’amnistia mai un confronto in Tv, un faccia a faccia, un dibattito. Rarissimamente salta fuori un “armadietto della vergogna”, come ha scritto Il Fatto del 25 novembre scorso, per scoprire che a Bologna ci sono 8.500 fascicoli dimenticati e che la Procura ha chiesto l’archiviazione per prescrizione di 3.300 fascicoli per reati tra i quali furti, truffe, ricettazioni e contravvenzioni in tema ambientale. È questa la “sicurezza” che offre ai cittadini lo Stato italiano? Certo, rende di più elettoralmente tacere dell’amnistia mascherata delle prescrizioni, piuttosto che assumersi la responsabilità di approvare un’amnistia che riduca i procedimenti penali a un numero gestibile che, peraltro, consentirebbe di recuperare risorse umane e finanziarie di cui tanto la giustizia penale, quanto quella civile hanno un bisogno vitale. Mai è stata fatta un’inchiesta per sapere Procura per Procura quali reati riguardino ogni anno i 183.000 processi che muoiono nel silenzio più totale, ma una casta finora invincibile è pronta a immolarsi per salvaguardare un principio impraticabile che esiste solo in Italia, quello dell’obbligatorietà dell’azione penale: tutti i reati devono essere forzatamente perseguiti per una questione - dicono - di uguaglianza dei cittadini. Poi, certo, le scrivanie traboccano di fascicoli e gli “armadietti” custodiscono quelli destinati a morire. Diventa così un gioco da bambini scegliere senza nessuna regola i processi da celebrare e quelli da ignorare e chi fa queste scelte di politica giudiziaria è persona che, per quanto professionalmente qualificata, è un dipendente dello Stato che ha vinto un concorso, che fa una carriera pressoché automatica e che, soprattutto, non è stato eletto da nessuno e non ha l’onere di rendicontare sulle sue scelte. Fatto sta che è proprio la sicurezza percepita dai cittadini (non quella reale che dimostra da anni che i reati sono in calo e che la recidiva è molto più alla fra chi sconta tutta la pena in carcere rispetto a chi accede alle misure alternative) a spingere le forze politiche a ignorare qualsiasi principio di legalità. A niente servono le continue condanne che l’Italia subisce in sede europea. È almeno dal 1980 che il Consiglio d’Europa denuncia il fatto che “i ritardi della giustizia in Italia sono causa di numerose violazioni della Convenzione europea dei diritti dell’uomo” e che tali ritardi “costituiscono un pericolo effettivo per il rispetto dello stato di diritto in Italia”. Del tutto ignorato è stato il rapporto sulla giustizia in Italia, del commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Alvaro Gil-Robles, che sei anni fa stimava che “circa il 30 per cento della popolazione italiana era in attesa di una decisione giudiziaria”. Per non parlare delle sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che costantemente puniscono il nostro Paese per trattamenti disumani e degradanti nelle carceri. Ciò che preoccupa è che a dimostrare disprezzo per lo stato di diritto non sono solo i partiti giustizialisti, che per tali vogliono presentarsi agli elettori. Proprio recentemente abbiamo riascoltato dichiarazioni in ambito Pd che liquidavano la proposta di amnistia con queste parole: “No a indulti o amnistie. È come il condono: non si può e non si deve svuotare il principio di legalità” (Donatella Ferranti) o che, nella discussione parlamentare sull’acquisizione delle intercettazioni telefoniche dell’onorevole Romano, si auguravano che il deputato in questione potesse “dimostrare la sua innocenza” (Marilena Samperi). Dove sia la legalità nelle attuali condizioni di detenzione o nei milioni di procedimenti arretrati, l’ex pm Ferranti non lo spiega; mentre Samperi (vice procuratore onorario) sembra disconoscere l’elementare principio per il quale non è l’imputato a dover dimostrare di essere innocente, ma la pubblica accusa ad avere l’onere della prova di colpevolezza. Il nodo che va sciolto all’interno del Pd è la legittimità di questa linea politica che si impone su tutte le altre voci che pur ci sono, a partire dal responsabile giustizia, Andrea Orlando; voci che però non riescono ad affermarsi. Lo stesso Massimo D’Alema oggi tace. Eppure nel 2005, quando partecipò alla Marcia di Natale organizzata dai Radicali (quando i detenuti erano diecimila in meno di oggi!) affermò che “chi dice di no all’amnistia, se ne assumerà la responsabilità” e che “si parla da troppo tempo di un gesto di clemenza; tanti dibattiti ma non si è fatto niente mentre bisogna far presto”. Sì, “fare presto”, perché “occorre esigere che il nostro Stato interrompa la flagranza di reato contro i Diritti Umani e contro la Costituzione italiana”, così urla - ancora in un grido inascoltato - Marco Pannella. Giustizia: Corleone; l’8 per mille dall’arte al piano carceri? così non si aiutano i detenuti di Laura Montanari La Repubblica, 30 dicembre 2011 Uno se l’aspetta contento. Il governo ha appena annunciato che i 57 milioni di euro che dall’8 per mille venivano spesi nei Beni culturali prenderanno la destinazione delle carceri italiane per affrontare l’emergenza. Invece il garante per i diritti dei detenuti è arrabbiato, e molto: “Il ministro non ha capito niente. Togliere i 57 milioni di euro dai Beni culturali per traslocarli sull’edilizia carceraria è semplicemente un delitto” spiega Franco Corleone. Scusi, in che senso? “E’ la dimostrazione che non si mettono a fuoco i problemi: il nodo dell’emergenza carceraria non sono le strutture insufficienti, ma i troppi detenuti che ci stanno dentro”. Lei contesta questa decisione che pure sembra mostrare da parte del governo una nuova attenzione al problema carcerario? “Certo che la contesto. Non è allargando le carceri che risolviamo la situazione drammatica della vita dei detenuti, ma liberando dalle prigioni chi non dovrebbe starci”. A chi si riferisce? “Per esempio ai tossicodipendenti: il recupero è pressoché impossibile, il carcere enfatizza una condizione di minorità e irresponsabilità. Spesso i reati che commette chi fa uso di droga sono per procacciarsi la sostanza stupefacente, non posso queste persone essere considerate alla stregua degli altri detenuti. Ho scritto anche un libro su questo tema, si intitola “Il corpo e lo spazio della pena”. Lei sa come potrebbero essere spesi i soldi che arriveranno in Toscana per l’edilizia? “In Toscana abbiamo una situazione paradossale: il carcere di Arezzo è chiuso per una ristrutturazione mai iniziata e una parte del carcere di Livorno è crollato. Immagino che un po’ risorse vadano a quegli indirizzi. Ma, ripeto, non è la cura che serve”. Com’è la situazione dell’affollamento a Sollicciano? “Nel mese di dicembre è stata superata la quota mille, le condizioni di vita lì dentro sono insostenibili. Oggi consegno al Comune la relazione della mia attività per il 2011 con le proposte per un progetto di cambiamento”. Che consiste in cosa? “Intanto di levare i tossicodipendenti dal carcere e mandarli in comunità di accoglienza. Poi applicare meglio la legge sulla detenzione domiciliare e garantire il diritto alla salute facendo funzionare la riforma sanitaria, infine individuare una sede per chi è in semilibertà o con misure alternative, una casa della semilibertà che sia in città e non in periferia (adesso è al Gozzini, cioè un altro carcere). Sulla vita dentro Sollicciano abbiamo tre progetti: creare la seconda cucina, l’allargamento dei passeggi e il rifacimento dei servizi igienici nel reparto femminile con docce in cella e acqua calda. Chiedo anche la chiusura della casa di cura e custodia per donne semi-inferme di mente che raccoglie detenute provenienti da tutta Italia e che di fatto è un piccolo manicomio all’interno di Sollicciano”. Giustizia: Cassazione; al detenuto non può essere vietata ad oltranza la lettura dei giornali Ristretti Orizzonti, 30 dicembre 2011 La Cassazione, con sentenza 25849/11, ha sottolineato che è vietato proibire, oltre i termini stabiliti per legge, la lettura dei giornali ai detenuti. Il Magistrato di Sorveglianza di Viterbo, dopo aver disposto per sei mesi il divieto di ricezione di un giornale nei confronti di un detenuto, proroga il divieto per altri tre mesi. Il Tribunale, pur confermando l’illegittimità del provvedimento impugnato, afferma che la limitazione della ricezione della stampa poteva essere rinnovata in ogni tempo. Il detenuto ricorre chiedendo l’annullamento del provvedimento impugnato. La Suprema Corte non ritiene che la motivazione del provvedimento adottato sia coerente con quanto disposto in merito alle limitazioni e controlli della corrispondenza dei detenuti. Il Magistrato di Sorveglianza, infatti, può prorogare di altri 3 mesi il divieto inflitto, ma deve rinnovarla prima della scadenza del provvedimento. Oltre la scadenza il Magistrato potrà nuovamente infliggere il divieto, però dovrà emettere una nuova ordinanza limitativa motivata. La Corte di legittimità vuole evitare che le limitazioni dei diritti dei detenuti si prolunghino oltre i termini previsti, perciò, nel caso di specie, annulla con rinvio l’ordinanza impugnata. Giustizia: in arrivo nuovi reati “finanziari”, per convenzioni internazionali da ratificare di Francesco Grignetti La Stampa, 30 dicembre 2011 Il messaggio era per Antonio Di Pietro, ma non solo: il governo ha presente l’emergenza della corruzione, si rende conto di quale formidabile ostacolo sia per la crescita dell’Italia e perciò ci sono due ministri (Paola Severino responsabile della Giustizia e Filippo Patroni Griffi per la Pubblica Amministrazione) al lavoro per innovare le leggi in materia. Per dirla con le parole di Monti: “Alcuni temi posti (da Di Pietro, ndr) sono essenziali”. E in effetti Patroni Griffi ha già insediato una commissione di esperti a cui ha chiesto di esaminare innanzitutto il ddl Anticorruzione che da due anni è all’esame del Parlamento e trovare soluzioni per renderlo più stringente. La ministra Severino, a sua volta, ha messo al lavoro un sottosegretario soltanto per studiare la massa degli emendamenti a quel ddl e ha chiesto qualche settimana per presentarsi in Parlamento con le idee più chiare. Entrambi i ministri concordano però che il ddl va parzialmente riscritto per trasformarlo in uno strumento davvero incisivo. E da parte di un governo che ha appena emesso misure draconiane contro l’evasione fiscale è lecito attendersi la mano pesante. Una delle norme che la Severino ha in animo di introdurre è la “corruzione in ambito privato”. In pratica, il manager che si faccia corrompere da un fornitore verrebbe equiparato al dirigente pubblico che si fa pagare da chi aspira a un appalto. Ce lo chiede l’Europa da tempo ed è una lacuna del nostro codice che va sanata. Ma c’è anche altro. Le opposizioni e i magistrati chiedono a viva voce che venga reintrodotto il reato di falso in bilancio, che è stato ampiamente destrutturato in era berlusconiana. E ci sono poi due convenzioni internazionali, dette “di Strasburgo”, che attendono di essere ratificate dal lontano 1999. Anche qui: l’Europa ci chiede da tempo di recepirle. Ma gli italiani hanno finora nicchiato. Ci sono problemi oggettivi (all’estero non è contemplata la distinzione tra corruzione e concussione che qui da noi è invece fondamentale per uscire condannati o assolti da un processo), ma anche aspetti inconfessabili. In ogni caso è nel Dna di questo governo l’allineamento agli standard dei partner europei e anche nel caso delle due convenzioni è solo questione di tempo. Perciò un nuovo reato in arrivo, il cosiddetto “traffico di influenze illecite” che punisce la corruzione attraverso un mediatore che millanti conoscenze nell’ambito pubblico. Potrebbero essere rivisti i tempi della prescrizione. Gran parte del lavoro dei due ministri sarà comunque rivolto alla prevenzione. Patroni Griffi immagina di rimettere mano al Codice degli Appalti per segmentare il processo decisionale, imponendo tempi e trasparenza ad ogni passaggio. Annuncia anche un rigido controllo sulle incompatibilità e rotazione degli incarichi direttivi. Nel ddl è poi prevista l’ineleggibilità per chi sia condannato con sentenza definitiva a pene superiori i due anni. Ma forse tutto ciò non basterà. Secondo Fabio Granata, Fli, a fronte di un fenomeno dilagante, e che costa 60 miliardi di euro agli italiani; ci vogliono misure eccezionali quali il sequestro dell’intero patrimonio al momento del rinvio a giudizio, confisca a sentenza definitiva, perdita dell’elettorato attivo e passivo fin dal primo grado. Giustizia: Alfonso Papa; in cella ci si ammala e si può anche morire, andrò a trovare Mora di Stefano Zurlo Il Giornale, 30 dicembre 2011 Centouno giorni a Poggioreale. Più un paio di mesi agli arresti domiciliari. Oggi Alfonso Papa, deputato, magistrato e imputato per le vicende della P4, parla di una doppia emergenza: “Le condizioni vergognose delle carceri italiane e l’abuso della custodia cautelare”. Onorevole, anche lei ha scoperto che dietro le sbarre si sta male? “Certo, molti penseranno che io parli così solo perché i miei colleghi mi hanno spedito in cella. Ma io mi occupavo dei detenuti anche prima, quando ero capo di gabinetto vicario del ministro Castelli. Le condizioni delle carceri italiane sono vergognose”. Com’era la sua cella a Poggioreale? “Eravamo in cinque in 35 metri quadri. E posso dire che sono stato fortunato. Altri sono ancora più compressi: dieci, dodici nello stesso spazio. E poi nella mia cella c’era il bagno. In altri padiglioni c’è una doccia per camerata, per di più fredda. Questo vuol dire una spruzzata di due minuti la settimana”. Situazioni dolorose, purtroppo note da tempo. “Io mi limito a dire che la pena in Italia dovrebbe avere una funzione rieducativa. Ma secondo lei si può rieducare una persona in un contesto incivile di degrado e di sporcizia in cui l’unico obiettivo è sopravvivere? E poi attenzione: migliaia e migliaia di carcerati - il 42 per cento del totale - sono nella fase della custodia cautelare. Non hanno sulle spalle una condanna definitiva, ma questo non importa a nessuno”. Una parte dell’opinione pubblica è convinta che il carcere preventivo sia l’anticipazione di una pena che, fra sconti e condoni, non ci sarà. “Il nostro codice dice che il carcere preventivo dev’essere l’eccezione. Ma troppo spesso non è così. Ho letto sul Giornale la storia di Lele Mora, in carcere dal 20 giugno. Spero che abbiate sbagliato”. Scusi, perché il Giornale dovrebbe aver sbagliato? “Mora sta male, molto male, e voi avete scritto che i giudici non hanno preso una decisione sul suo futuro perché due giudici su tre erano in vacanza. Mi auguro che non sia così”. Che cosa farà? “Il giorno in cui sono uscito di casa, finalmente libero, sono tornato a Poggioreale per salutare i miei vecchi compagni di cella. Ora posso annunciare che andrò a Opera e incontrerò Mora. Le assicuro: in carcere ci si ammala e si può morire. Io ho sofferto molto”. Perché si occupa proprio di Mora? “No, io mi occupo di tutti. Poveri diavoli e persone famose. Non faccio differenza. Ma voglio che tutti abbiano un processo in tempi ragionevoli e che tutti si possano difendere. Il carcere, dove in linea di massima non si è detenuti ma prigionieri, non aiuta il diritto alla difesa”. Scusi l’insistenza, ma lei ha scoperto tutti questi drammi proprio adesso? “I detenuti sono 68mila. Un disastro”. In tribunale, intanto, il giudice non ha ammesso le intercettazioni che la riguardano. Ha vinto un round? “Non parlo del mio processo. Dico solo che non fuggo dal processo, ma lo cerco, ne ho bisogno per far emergere la verità. Ci vorrà tempo. Pazienza”. Tornerà a Montecitorio? “Certo”. Imbarazzato? “Non ho rancore. E dopo aver letto attentamente le carte so già che voterò contro l’arresto di Cosentino”. Giustizia: Cassazione; il “Madoff dei Parioli” resta in carcere… può tornare a colpire Adnkronos, 30 dicembre 2011 Gianfranco Lande, il “Madoff dei Parioli”, deve rimanere in carcere perché c’è la concreta possibilità di “reiterazione” della truffa. Lo ha stabilito la Cassazione nel respingere il ricorso presentato dalla difesa di Lande, arrestato lo scorso 24 marzo nell’ambito dell’inchiesta della Procura di Roma su una presunta maxi truffa ai danni di vip. La Seconda sezione penale, inoltre, ha confermato il verdetto nei confronti di Gian Piero Castellacci De Villanova e della direttrice della Egp (la finanziaria che prometteva interessi fino al 12%) Raffaella Raspi, mettendo in evidenza che “le esigenze cautelari sono state oggetto di puntuale motivazione in riferimento alla obiettiva gravità dei fatti e alla personalità degli indagati, i quali non hanno esitato a violare il rapporto di fiducia che avevano instaurato con molti investitori, ovvero il rapporto di leale collaborazione con le Autorità di controllo pur di conseguire ingenti e ingiusti profitti, oltre al pericolo di inquinamento probatorio”. Nel dettaglio, la Suprema Corte, convalidando l’ordinanza del Tribunale del riesame di Roma del 14 aprile scorso, fa notare che il giudice del precedente grado di giudizio “ha diffusamente descritto l’attività dell’associazione, specificando ruoli e attività svolta dai singoli partecipanti all’associazione”. In particolare, “ha rilevato che al centro di tale meccanismo si pone il Lande, al quale è ascrivibile l’attività di investimento all’estero e di gestione di rilevanti somme raccolte da numerosi clienti, realizzata attraverso lo schermo di società collegate, mentre Raffaella Raspi, sempre in stretto contatto con il Lande, interveniva mantenendo i contatti con gli istituti di credito e rassicurando i clienti”. È proprio il “Madoff dei Parioli”, sottolinea la Suprema Corte, “il vero artefice di tale assetto societario” nonché “effettivo titolare di Dharma Holding, società di diritto lussemburghese, e quindi delle società controllate”. Inoltre sia Lande che la Raspi “sono pesantemente coinvolti nella fase finale del formale e apparente trasferimento dei rapporti di investimento, ulteriore passaggio del medesimo meccanismo fraudolento”. Sicilia: da oggi visite ispettive dei Radicali in diversi penitenziari della Regione Adnkronos, 30 dicembre 2011 La deputata radicale Rita Bernardini, membro della commissione Giustizia della Camera, è in Sicilia fino al 2 gennaio per verificare le condizioni di detenzione degli istituti di Agrigento, Catania, Caltanissetta e Gela. Questo il programma: oggi carcere di Agrigento, con Gianmarco Ciccarelli e Donatella Corleo; domani carcere di Catania Piazza Lanza e carcere di Catania Bicocca, con Gianmarco Ciccarelli e Assunta Albergo; sarà presente il Garante regionale dei diritti dei detenuti, sen. Salvo Fleres; domenica 1 gennaio carcere di Caltanissetta, con Gianmarco Ciccarelli e Giuseppe Nicosia; lunedì 2 gennaio carcere di Gela, con Gianmarco Ciccarelli e Valentina Marino. Sardegna: Riformatori; allarme per trasferimento detenuti in 41bis nelle carceri regionali Adnkronos, 30 dicembre 2011 “Il governo trasferirà nelle carceri sarde e in particolare nel nuovo carcere di Uta e a Sassari i detenuti soggetti al 41 bis, dunque per reati di mafia, camorra e ‘ndrangheta”. La denuncia è dei Riformatori sardi che stamattina, nella sede del partito in via Firenze a Cagliari, nel corso di una conferenza stampa, hanno lanciato l’allarme. Alla conferenza stampa hanno partecipato il vice presidente del Consiglio regionale e coordinatore regionale dei Riformatori Michele Cossa, il capogruppo in Consiglio regionale Attilio Dedoni e il coordinatore cittadino di Cagliari del partito, Anna Maria Busia. Se prima avevamo dei sospetti - hanno detto i Riformatori sardi - ora ci sono certezze. La prima è la norma che è stata inserita nella legge 94 del 15 luglio del 2009 all’articolo due lettera f prescrive: “I detenuti sottoposti al regime speciale di detenzione devono essere ristretti all’interno di istituti a loro esclusivamente dedicati, collocati preferibilmente in aree insulari”. Ma in realtà - hanno spiegato - a dare la certezza che i detenuti soggetti al 41 bis arriveranno in Sardegna sono i finanziamenti già approvati dal Cipe: per la realizzazione del nuovo padiglione per detenuti sottoposti a regime 41 bis a Uta sono stati stanziati 15 milioni di euro, mentre per il carcere di Sassari, sempre per lo stesso fine, ci sono 16 milioni e 350mila euro. La situazione attuale delle carceri sarde è gravissima - hanno i Riformatori sardi durante la conferenza stampa - i suicidi di quest’ultimo periodo hanno reso ancora più allarmante una situazione ormai al limite. Al sovraffollamento, la carenza di personale sottoposto a turni massacranti, il difficile passaggio della sanità penitenziaria alle regioni, adesso si aggiungerà il pericolo che può derivare dall’arrivo nella nostra Isola dei capoclan: oltre all’aumento dei detenuti ci sarà certamente un incremento di boss mafiosi. E la nostra terra, anche a causa della grave crisi economica, diventerà terreno fertile per le organizzazioni criminali. Insomma, adesso serve chiarezza. Lo Stato - concludono - deve dire subito se e quando questi detenuti arriveranno e la Regione deve fare la sua parte. La Sardegna non può diventare per legge o decisioni romane una colonia di mafiosi, camorristi e ‘ndranghetisti. Firenze: intervista a Luigi Manconi; a Sollicciano manca tutto… perfino l’aria di David Allegranti Corriere Fiorentino, 30 dicembre 2011 Dice Luigi Manconi, docente di sociologia dei fenomeni politici, presidente di A buon diritto, ex sottosegretario alla giustizia, che “la percentuale del sovraffollamento a Sollicciano è tra le più alte di tutto il sistema penitenziario italiano. Il sovraffollamento non è una categoria astratta, non deve evocare una spiaggia della riviera romagnola il 15 agosto, perché lì la condizione di addensamento dei corpi, oltre a essere il risultato di una scelta volontaria, è una condizione a tempo determinato che si conclude con la fine della giornata. Il sovraffollamento all’interno di una istituzione chiusa è in primo luogo un fattore di disumanizzazione, che determina la caduta rovinosa di tutti gli standard di qualità dei servizi e, più in generale, della vita collettiva. È oltre dunque uno stato di promiscuità, che significa accavallarsi, sovrapporsi, combinarsi e incrociarsi dei corpi; significa che l’assistenza sanitaria precipita, la qualità dell’alimentazione decade, l’attività di trattamento e socializzazione tende a diventare sempre più miserevole. E in una istituzione chiusa, questa condizione riguarda direttamente tutti i soggetti che vi si trovano”. E così pure i poliziotti diventano dei reclusi. “È una condizione che riguarda il detenuto, l’educatore, lo psicologo e in particolare il poliziotto penitenziario. Quella stessa promiscuità costituisce un fattore intollerabile perché toglie l’aria, la possibilità di movimento e la libertà di azione, e diventa dunque un elemento coercitivo tanto per il custode quanto per i custoditi. Quel sovraffollamento si traduce in un fattore di stress, in senso proprio; significa esaurimento nervoso, indebolimento della propria capacità di autocontrollo, riduzione della lucidità, fatica psicologica, annebbiamento. In sostanza: crisi”. Con il rischio che l’unica liberazione diventi quindi il suicidio. “Ogni suicidio, come noto, ha una dinamica personale spesso imperscrutabile, ma il fatto che sia cresciuto il numero di suicidi fra i poliziotti è un dato inequivocabile e straziante. I poliziotti penitenziari tendono a suicidarsi oggi con una frequenza come mai era accaduto in passato; il carcere diventa un fattore epidemiologico, produce patologia sia per detenuti che per l’agente come mai in passato. La condizione dei detenuti è nota all’interno del carcere, la frequenza dei suicidi è dalle 18 alle 20 volte superiore alla frequenza dei suicidi dell’intera popolazione nazionale. E mentre nell’intera società la frequenza è maggiore nelle fasce di età avanzate, nel carcere è maggiore nelle fasce di età giovani. E ancora maggiore è la frequenza dei suicidi nelle prime settimane e nei primi mesi di detenzione”. C’è un altro aspetto impressionante: la presenza dei bambini insieme alle mamme nel carcere. “Questo è lo scandalo più crudele nello scandalo generale. La questione dei bambini reclusi è di facilissima soluzione. Basterebbe un investimento di qualche milione di euro. All’interno delle carceri italiane attualmente ci stanno tra i 50 e i 60 bambini. In tutta Italia c’è un solo istituto pensato per i bambini figli di madri detenute; esiste a Milano da 5 anni e funziona benissimo, è una struttura dove le madri vivono con i figli in un ambiente che non evoca il carcere. Quindi con agenti donne, senza divisa, senza sbarre alle finestre, con una dimensione domestica accogliente; è un esperimento che funziona e se venisse ripetuto altre 3-4 volte risolverebbe il problema. Anni fa a Rebibbia i bambini vivevano in celle dove i letti in ferro richiedevano che negli spigoli fossero messi degli indumenti per evitare che si ferissero”. Ma questi bambini non dovrebbero stare in altre strutture? “Non dovrebbero andare in carcere. Ci stanno le madri di quei bambini che o sono senza fissa dimora o che il magistrato ha deciso di non lasciare ai domiciliari, cosa che ritengo un grave errore. Ad ogni modo, se proprio non si potesse fare diversamente, andrebbero messe in strutture totalmente diverse da quelle attuali. È un problema che potrebbe essere risolto se, per esempio, la fondazione di una banca decidesse di fare un investimento di qualche milione”. Non le sembra un po’ ipocrita l’atteggiamento della classe politica che si ricorda della popolazione carceraria solo per Natale? “Interessarsi di carcere non porta voti, ma porta al contrario impopolarità. La materia carcere è intrattabile e non produce consenso, anzi in generale determina riduzione del consenso. Dietro c’è una questione elementare di psicologia sociale, non così misteriosa. Il carcere è il luogo dove viene recluso il male ed è percepito come male nell’inconscio dell’individuo; cioè avvertiamo inconsciamente che il male è parte di noi. Ma proprio perché il male rappresenta una tentazione, una insidia, una minaccia, che tuttavia ci seduce e ci attrae, noi intendiamo rimuoverlo. E per rimuovere un incubo, la reazione più elementare e istintiva è quella di spostarlo fuori dal nostro sguardo. Non a caso la tendenza prevalente è trasferire il carcere fuori dalla città. Così tiriamo un sospiro di sollievo; non abbiamo ceduto al male ma non vogliamo misurarci con quella tentazione che mette a prova la nostra debolezza. Tant’è vero che i nemici più ottusi della popolazione reclusa sono i moralisti, i quali ritengono invece che il male sia al di fuori di loro e che il vizio non li riguardi”. Caltanissetta: i parenti del detenuto suicida chiedono giustizia e si rivolgono al ministro La Sicilia, 30 dicembre 2011 Omicidio colposo: è questo il reato contenuto nel fascicolo d’indagine contro ignoti aperto dalla Procura sul suicidio del detenuto Giuseppe Di Blasi, il nisseno di 46 anni impiccatosi martedì scorso nella sua cella del carcere “Malaspina”. Il dossier del pubblico ministero Elena Caruso intende esplorare il caso nella sua globalità. Intanto domani sarà eseguita l’autopsia sul cadavere dell’operaio, che in primo grado era stato condannato a 17 anni per violenza sessuale su una ragazzina e stava espiando una pena definitiva a 4 anni per detenzione illegale di armi. La Procura ha incaricato i medici legali Manfredi Rubino e Antonina Argo, che durante l’accertamento tecnico-irripetibile saranno affiancati dal consulente di parte Carla Ippolito, anche lei medico legale e nominata dall’avv. Massimiliano Bellini che assiste i familiari del detenuto suicida. E sono loro che adesso pretendono di conoscere tutta la verità, senza passaggi oscuri. Giorgio Di Blasi, 45 anni e fratello di Giuseppe, vive a Lecco. È lui che a nome degli altri fratelli e della madre ultrasettantenne, parla di una morte ingiusta ma esige giustizia. Tanti interrogativi, per la famiglia Di Blasi, devono avere risposta. “Al ministro della Giustizia, Paola Severino, e a tutti gli altri organi ai quali attraverso l’avv. Bellini invieremo il nostro esposto-denuncia, chiediamo l’apertura di un’indagine con l’invio degli ispettori per chiarire i tantissimi lati oscuri di questa tragedia preannunciata. Perché nostro fratello - si interroga Giorgio Di Blasi - gravemente debilitato, ammalato e fortemente depresso per come è emerso dal diario clinico del carcere e come ha accertato il nostro consulente medico che l’ha definito un soggetto ad alto rischio di suicidio, si trovava ancora in carcere e per di più solo nella cella senza nessuna guardia penitenziaria lo sorvegliasse a vista?”. Domande che si susseguono: “Perché durante la detenzione - aggiunge - non ha usufruito di un adeguato supporto medico e psicologico, considerato che fin dall’inizio Giuseppe ha manifestato segni inequivocabili di instabilità legata allo stato detentivo. Nostro fratello - è il severo giudizio di Giorgio Di Blasi - è stato trattato come un animale, ha subìto trattamenti disumani e degradanti ed è per questo che lotteremo in tutte le sedi per fare emergere la verità”. L’avv. Massimiliano Bellini torna ad affrontare l’annoso problema dei tempi di carcerazione preventiva rispetto a quelli processuali, soffermandosi pure sulla condizione “disumana” delle carceri. “Troppe volte - dice - accade che la persona soggetta alla misura della custodia cautelare in carcere attende anche molti mesi se non diversi anni prima di vedersi iniziare e concludere il processo. Eppure, senza disturbare il “processo breve”, già il principio del giusto processo regolato dalla nostra Costituzione richiederebbe tempi veloci e certi per i processi. La nostra carta costituzionale - aggiunge l’avv. Bellini - esige che la limitazione della libertà personale, diversa da quella conseguente a una condanna definitiva, debba essere disposta nei limiti strettamente necessari. Dentro le carte processuali c’è la vita di un uomo…”. Agrigento: con il decreto “svuota carceri” usciranno pochi detenuti, forse una ventina La Sicilia, 30 dicembre 2011 Alla resa dei conti dovrebbero essere circa una ventina i detenuti con la “valigia”. Ovvero coloro i quali potranno fruire, con modi e tempi in itinere, del cosiddetto decreto “svuota carceri”, predisposto dal Governo Monti. Agrigento, il Petrusa è certamente tra le carceri a più alta densità “abitativa”, con i suoi 450 reclusi e passa di media. Nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di persone che devono espiare pene di un certo spessore, pluriennali. Il decreto pubblicato pochi giorni fa sulla Gazzetta Ufficiale è destinato a liberare le celle occupate soprattutto da persone che devono scontare pochi mesi di reclusione. Al Petrusa è molto “frequentato” il settore di massima sicurezza e da qui è difficile che qualcuno venga messo ai domiciliari. Com’è praticamente impossibile pensare a qualcuno delle decine di extracomunitari clandestini che, non avendo un domicilio sicuro e ufficiale, non possono pertanto essere destinati ad alcuna abitazione dove trascorrere il resto della pena. Ecco dunque spiegati due dei maggiori punti che lasciano intendere come al Petrusa lo svuotamento del carcere sarà solo sulla carta. Certamente, una ventina di persone in meno in celle occupate anche da 4 individui alla volta, sono pur sempre un piccolo contributo a regalare qualche centimetro di spazio in più ai reclusi. Nella casa circondariale agrigentina, tra l’altro si è commentato con una certa sorpresa un “censimento” svolto dall’associazione di tutela dei diritti delle donne “Antigone”, il quale censimento evidenziava con la sezione femminile del penitenziario fosse quasi vuota, con poche detenute. Tale sezione, trapela dal penitenziario, non è un “aeroporto” e la decina abbondante di posti è “coperta”. E anche qui lo “svuota carceri” non sarà certo una panacea. Lombardia: sono 1.398 i detenuti che finiranno la loro pena entro i prossimi 18 mesi Il Giornale, 30 dicembre 2011 Sono loro i diretti interessati al decreto svuota-carceri approvato qualche giorno fa dal governo Monti che prevede la possibilità di finire gli ultimi 18 mesi della pena a casa propria. Un’iniziativa che Luigi Pagano, provveditore regionale delle carceri giudica positivamente. Il provvedimento in Lombardia interessa una discreta fetta di persone visto che il numero totale dei detenuti nelle carceri lombarde è attualmente di circa 9.400 reclusi. In pratica uno su sette. Ora si tratta di vedere quanti fra coloro che hanno requisiti per fare la domanda sono in grado anche di dimostrare di avere un domicilio. Parecchi detenuti infatti sono extracomunitari. Non tutti potranno comunque usufruire di questa agevolazione: sono esclusi infatti i reati più gravi, come il traffico di droga, l’associazione mafiosa e altri. Ma non possono avere sconti neppure i delinquenti abituali o coloro per i quali esiste un concreto pericolo di evasione. Nel decreto è previsto anche un maggior ricorso alla permanenza degli arrestati nelle camere di sicurezza delle questure. Una decisione che ha allarmato i sindacati di polizia che hanno scritto al ministro preoccupati per la gestione del problema. Oggi intanto il provveditore Pagano incontra il sindaco per affrontare con la nuova giunta il problema delle carceri milanesi. Genova: a Pontedecimo detenuti inveiscono e lanciano oggetti a agenti Polizia penitenziaria Comunicato stampa, 30 dicembre 2011 “Resta alta la tensione nelle carceri genovesi. Nel penitenziario di Pontedecimo si sono registrate negli ultimi giorni alcune situazioni di tensione che vanno ad acuire lo stress e le già gravose condizioni di lavoro dei poliziotti penitenziari e che condizionano inevitabilmente la serenità all’interno delle sezioni detentive. Martedì, ad esempio, due detenuti hanno protestato con veemenza contro i poliziotti penitenziari dopo una perquisizione ordinaria nelle celle: hanno insultato gli agenti e lanciato contro di loro oggetti e alimentari ma solo grazie alla professionalità dei poliziotti penitenziari la situazione non si è aggravata ed è stata mantenuta sotto controllo. Ottimo l’operato dei Baschi Azzurri del Corpo di Pontedecimo, che hanno impedito alle proteste di degenerare, ma è singolare l’atteggiamento assunto dalla Direzione: alla nota della nostra Segreteria locale Sappe di conoscere i provvedimenti assunti verso i due detenuti, anche per evitare il ripetersi di fatti analoghi, è stato risposto che questa non è materia sindacale. A parte che questo non è vero perché i livelli minimi e massimi di sicurezza di un carcere presuppongono una organizzazione del lavoro che deve essere discusso con i Sindacati: ma se il Direttore del carcere ed i suoi collaboratori stessero nelle sezioni detentive, al fianco degli agenti, 24 ore al giorno piuttosto che nella comodità dell’ufficio si renderebbero conto di quali sono le priorità in un penitenziario. Come l’ordine e la sicurezza, piuttosto dei colloqui autorizzati al cane di una detenuta”. Lo scrive polemicamente in una nota Roberto Martinelli, segretario generale aggiunto del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa organizzazione di Categoria. “Il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe segnala ancora una volta come il personale di Polizia Penitenziaria di Pontedecimo, prontamente intervenuto nel fronteggiare l’emergenza, si sia ancora distinto con professionalità e spirito di servizio nell’evitare che la situazione critica degenerasse ulteriormente, confermando così la particolare attenzione durante lo svolgimento del servizio, soprattutto in un contesto, come quello di Pontedecimo, caratterizzato da sovraffollamento penitenziario e carenza di poliziotti penitenziari in organico. È ancora una volta solo grazie alla professionalità, alle capacità, all’umanità ed all’attenzione del Personale di Polizia Penitenziaria che una situazione di tensione è stata stemperata dal tempestivo intervento degli agenti penitenziari.” “Poiché sappiamo che la Direzione del carcere di Genova Pontedecimo ha una spiccata sensibilità per le attività trattamentali, tanto da consentire in Istituto il colloquio tra una detenuta ed il proprio cane pechinese” conclude polemicamente Martinelli “auspichiamo che analoga sensibilità emerga anche per alcuni interventi legati alla sicurezza ed all’ordine interno del carcere, che la Direzione sembra trascurare, come, ad esempio, l’urgente necessità di regolamentare il possesso dei telefoni cellulari alle persone ammesse ad accedere alle sezioni detentive del carcere (dal direttore al comandante, dal medico al mediatore culturale) o l’adozione di adeguati provvedimenti disciplinari ai detenuti responsabili di atti di aggressione ai poliziotti penitenziari. O sollecitando il riconoscimento di ricompense ai Baschi Azzurri di Pontedecimo che nel solo 2010 hanno sventato 5 tentativi di suicidio di detenuti ed impedito che 39 episodi di autolesionismo di altrettanti ristretti avessero più gravi conseguenze”. Torino: “Drola”, la prima squadra di rugby composta da detenuti, formazione multietnica Adnkronos, 30 dicembre 2011 La meta vera è la libertà, ma in attesa di lasciare il carcere può anche essere un traguardo da oltrepassare con la palla ovale: è nata presso la di Torino la “Rugby Drola”, prima squadra composta esclusivamente da detenuti, con sede in un penitenziario, la Casa Circondariale Lorusso e Cutugno. “Il rugby è una realtà sportiva che sta prendendo piede nel nostro Paese e lo stesso vale in ambito penitenziario; proprio per questo motivo i giocatori sono stati cercati in tutti i penitenziari italiani e trasferiti presso la Casa Circondariale torinese. Per ora il team è formato da 21 elementi, quindici titolari e 6 riserve, ma già è stata intrapresa una nuova campagna acquisti per infoltire la rosa e arrivare a circa 28/29 elementi”, sottolinea “Le due Citta”, rivista istituzionale dell’Amministrazione Penitenziaria. La formazione, ‘multietnica e variegata, ha al suo interno anche detenuti che militavano nelle nazionali di rugby del proprio Paese di origine. La “squadra del carcere”, primo esempio in Italia, è nata da un progetto fortemente voluto dalla direzione della Casa Circondariale Lorusso e Cutugno in collaborazione con l’associazione “Ovale Oltre Le Sbarre”. L’idea di partenza per la creazione di una squadra di detenuti rugbisti “ha preso spunto dalla considerazione che il rugby, realtà emergente nel nostro Paese, rappresenta, per i suoi valori agonistici, basati sul forte rispetto nei confronti dell’avversario e sulla capacità, pur in presenza di un gioco fortemente fisico, di controllo dell’aggressività, uno sport che, in ambito penitenziario, può consentire alle persone ristrette - ovviamente motivate ed adeguatamente allenate da personale competente - di uscire dalla quotidianità detentiva e canalizzare le proprie energie verso un’attività a carattere fortemente risocializzante”. “La filosofia di fondo di questo sport - spiega Pietro Buffa, direttore del carcere - ci è piaciuta subito. Abbiamo passato un anno a capire come poter fare per realizzare l’iniziativa. Abbiamo iniziato con un corso per i detenuti e poi abbiamo fatto un salto di qualità iscrivendoci ad un vero e proprio torneo”. L’iscrizione al Campionato Regionale di serie C Piemontese è stata possibile anche grazie alla Federazione Italiana Rugby che, oltre a dare il suo patrocinio, ha sostenuto la squadra nella preparazione della documentazione tecnica per i tesseramenti, soprattutto degli stranieri, e nella preparazione dei nulla osta delle autorità sportive per giocare all’interno della casa circondariale anche le partite di campionato che dovrebbero svolgersi fuori casa. “Abbiamo avuto una grande risposta anche dal personale - precisa Buffa - che si è prodigato affinché l’iniziativa si concretizzasse in maniera positiva. Molti agenti, così come i componenti dell’area educativa, si sono appassionati e seguono la squadra non solo per dovere d’ufficio ma per passione personale”. La Rugby Drola, sottolinea la rivista dell’Amministrazione Penitenziaria, ha iniziato ad allenarsi circa un mese e mezzo prima dell’inizio del campionato e, dal punto di vista atletico, nonostante abbia perso le prime due partite, ha dato del filo da torcere agli avversari. “La Casa Circondariale di Torino - continua Le due Città - si è impegnata da subito per creare le strutture idonee e le basi affinché l’iniziativa si realizzasse e, disponendo già del campo di calcio di recente inaugurazione, si è subito pensato di adattarlo anche al gioco del rugby, inserendo delle porte mobili i cui pali vengono smontati alla fine delle partite per dare la possibilità alla squadra di calcio, presente all’interno dell’istituto con un torneo intitolato Il Pallone della Speranza, di riprendere regolarmente le loro partite”. Tra gli obiettivi a medio termine, potrebbe essere prevista una piccola “paga” diversificata per ogni singolo detenuto in funzione della presenza, impegno, buon comportamento generale durante le sessioni di allenamento, con l’obiettivo di tendere alla maggiore responsabilizzazione possibile dei partecipanti. Inoltre, visto che l’organizzazione sta dando risultati molto positivi, si sta pensando, per l’immediato futuro, anche all’ingresso dei tifosi che vogliono seguire la propria squadra del cuore. Roma: “È Natale per tutti”, a Rebibbia spettacolo con l’Howard Gospel Choir Dire, 30 dicembre 2011 Successo dopo successo, continua la serie di concerti nell’ambito di “È Natale per tutti”, la manifestazione di solidarietà voluta dalla Giunta Polverini per allietare il periodo delle festività natalizie dei detenuti del Lazio. Oggi è stata la volta dello spettacolo dell’Howard Gospel Choir, che ha intrattenuto le ospiti della casa circondariale di Rebibbia sezione femminile. L’assessore regionale ai rapporti con gli enti locali e politiche per la sicurezza della Regione Lazio, Giuseppe Cangemi, si è detto molto soddisfatto della risposta all’iniziativa da parte delle detenute della struttura e degli operatori di polizia penitenziaria che, numerosi, hanno partecipato attivamente alla esibizione dei coristi, seguendo attentamente le note delle arie gospel più famose e scandendo il ritmo gioioso delle performance col battito delle mani. “Il 2011 giunge al termine - ha commentato Cangemi. Voglio inviare gli auguri, anche a nome della presidente della Regione Lazio, Renata Polverini, un 2012 più sereno e radioso per tutti: soprattutto sia un anno di cambiamento e di riflessione per le donne attualmente ospiti a Rebibbia”. “L’auspicio per ognuna di loro è che non possa più vederle lì dentro - ha concluso Cangemi - se non per salutare gli agenti di polizia penitenziaria che hanno condiviso con loro un momento particolare e difficile della propria esperienza di vita. L’augurio per il nuovo anno che voglio fare a queste detenute è quello che una volta finito il periodo di reclusione, possano voltare pagina e rifarsi una vita migliore”. Siria: 100mila arrestati da inizio della rivolta, molti sono detenuti sulle navi Ansa, 30 dicembre 2011 Circa centomila siriani sono attualmente nelle carceri del regime di Damasco, e molti di loro sono stati trasferiti a bordo di navi a largo della costa siriana per evitare le visite degli osservatori della Lega Araba attualmente presenti nel Paese. Lo ha detto Burhan Ghalioun, presidente del Consiglio nazionale siriano, citato stamani da quasi tutti i giornali arabi e panarabi. “Le autorità siriane detengono cento mila persone, alcuni nelle basi dell’esercito (dove gli osservatori non possono accedere in base agli accordi bilaterali Lega Araba-Siria) e altri a bordo di navi vicino alle coste siriane”, ha detto Ghalioun citato da as Safir, principale quotidiano libanese. “Ci sono timori reali - ha aggiunto il presidente della piattaforma di oppositori all’estero a cui hanno aderito anche attivisti in patria - che il regime possa uccidere questi prigionieri per poi dire che non c’erano detenuti”. Nei giorni scorsi Human Rights Watch aveva denunciato, riportando le testimonianze di guardie carcerarie e membri delle forze di sicurezza disertori, il trasferimento di centinaia, e forse migliaia, di detenuti politici, finiti dietro le sbarre dal 15 marzo ad oggi, in caserme e siti militari nella regione di Homs. Secondo il protocollo firmato al Cairo tra Lega Araba e Damasco, i delegati arabi possono recarsi nelle prigioni ma non nei siti militari. Secondo uno dei bilanci forniti dagli attivisti siriani in patria, attualmente in carcere ci sono oltre 16.000 persone. Altri bilanci forniscono cifre più alte. Da novembre ad oggi, il regime ha detto di aver liberato 3.400 prigionieri arrestati “in relazione agli scontri di piazza”. Cuba: indulto molto selettivo, pochi i prigionieri politici che ne usufruiranno L’Opinione, 30 dicembre 2011 Raul Castro, presidente di Cuba, ha annunciato che “nei prossimi giorni” sarà concesso l’indulto a 2.900 detenuti, in vista della visita, in marzo, del Papa. Il presidente ha invece rinviato l’annuncio della riforma della legge sull’emigrazione, da tempo preannunciata, che permetterebbe ai cubani di entrare e uscire dal paese senza restrizioni. Quest’ultima sarebbe una riforma reale di grande portata, quasi rivoluzionaria. Ma è stata rimandata, perché, a detta di Raul Castro, non è consentita dalle “circostanze eccezionali in cui è costretta a vivere Cuba”. Cioè? “La politica dell’ingerenza e della sovversione attuata dall’amministrazione Usa”. L’indulto, invece, secondo il parere degli esuli cubani, è poco più che uno specchietto per le allodole. Tra coloro che potranno uscire di galera ci sono malati, anziani, donne e giovani “che potranno reinserirsi nella società”. Ma pochi sono i prigionieri politici. Ci saranno anche 86 stranieri di 25 Paesi (“Se i loro governi li vorranno”). Ma non Alan Gross, cittadino americano, arrestato nel 2009 perché forniva computer e servizi Internet (illegali a Cuba, se sono al di fuori del rigido controllo governativo) alla locale comunità ebraica. I suoi familiari, delusi, hanno assicurato che Gross “ha perso 45 chili ed è depresso”. Il regime comunista dell’Avana era un altro dei beneficiari della politica della “mano tesa” di Barack Obama. Ma fra Washington e Castro i rapporti sono sempre più tesi. Ucraina: Tymoshenko trasferita in nuova prigione nella regione di Kharkov Ansa, 30 dicembre 2011 Il leader dell’opposizione ucraina Yulia Tymoshenko, condannata a sette anni di carcere in ottobre per abuso d’ufficio è stata trasferita stamani dal centro di detenzione di Kiev a una prigione di Kharkiv, nell’est dell’Ucraina. Tymoshenko, che da agosto si trova nel carcere Lukyanivsky di Kiev “è stata inviata nella regione di Kharkiv”, si legge nel sito dell’amministrazione penitenziaria. Il servizio stampa dell’ex premier ha precisato che Tymoshenko viene trasferita nel carcere femminile Kashanyvska di Kharkiv, uno dei più grandi di Ucriana, che ospita tra le 800 e le 1.000 detenute. Tymoshenko è stata condannata a sette anni di carcere per la firma, avvenuta nel 2009 quando era premier, di alcuni contratti di fornitura di gas con la Russia, che oggi Kiev giudica sfavorevoli. La settimana scorsa la giustizia ucraina ha respinto il suo appello. L’oppositrice, che secondo i suoi sostenitori non riesce a camminare a causa di forti dolori alla schiena, e i suoi avvocati non hanno presenziato all’appello, decidendo di boicottarlo e rinunciando al ricorso di Cassazione. Tymoshenko, che è indagata in altre inchieste, accusa il presidente Viktor Yanukovich di perseguitarla per sbarazzarsi del suo più pericoloso avversario politico. La condanna di Tymoshenko è stata duramente criticata dalla Ue e dagli usa che chiedono la scarcerazione dell’ex premier perché possa partecipare alle legislative del 2012. Colombia: sventata maxi evasione da tre carceri di Bogotà Adnkronos, 30 dicembre 2011 È stata sventata in Colombia una maxi evasione da tre carceri della capitale Bogotà. Un gran numero di reclusi di La Picota, La Modelo e Buen Pastor, pianificavano di fuggire la notte della vigilia di Natale, ha riferito il generale Gustavo Adolfo Ricaurte, direttore dell’Istituto nazionale dei penitenziari (Inpec). All’istituto erano arrivate numerose segnalazioni di una probabile evasione di massa dai tre penitenziari e la vigilanza è stata quindi rafforzata,ha aggiunto il generale.