Giustizia: le carceri, l’animista e gli “affari” dell’esecutivo di Valter Vecellio L’Opinione, 2 dicembre 2011 Si può cominciare con la nota diffusa dall’agenzia Ansa che conteneva il succo dell’intervento di Marco Pannella nel corso della trasmissione “Radio Carcere” a “Radio Radicale” un paio di giorni fa: “Ritengo, dopo le dichiarazioni del Ministro della giustizia, che occorre riprendere l’agitazione. Armi della nonviolenza, dunque. Entro due giorni tornerò ad uno sciopero della fame”. “Sono passati oltre 4 mesi da quando è stata proclamata dal massimo livello della nostra Costituzione repubblicana la “prepotente urgenza” di alcuni problemi e della necessità di una risposta di fronte alla denuncia di una flagrante condizione strutturale del nostro Stato, in condizioni, tecnicamente e senza alcun dubbio, di illegalità. La prepotente urgenza è diventata invece un affare da trattare come ordinaria amministrazione”, ha detto Pannella. “Noi riteniamo che abbiano avuto ragione tutti coloro che il 28 luglio - proprio a partire dal Capo dello Stato - hanno denunciato senza nessun dubbio questa condizione criminale di questa nostra Repubblica, del nostro regime repellente nei confronti dei diritti umani. Il problema di interrompere questa flagranza (che non riguarda solo le carceri, riguarda la giustizia) è il problema che continuiamo a porre”, ha concluso Pannella”. Il neo-ministro della Giustizia Paola Severino ha espresso chiaramente la sua opinione in materia: non ritiene che la strada dell’amnistia sia quella percorribile; non chiude completamente la porta, lascia uno spiraglio sostenendo che non è affare del Governo ma - semmai - del Parlamento; e nel frattempo studia delle “aspirine” per decongestionare la situazione nelle carceri. Stanno tutti giocando col fuoco dentro una polveriera. Perché sono anni che tutti riconoscono essere esplosiva e al collasso la situazione delle carceri; e tuttavia tutti, da Angelino Alfano a Nitto Palma fino a Paola Severino, come possibili rimedi offrono quelli che si suol definire “pannicelli caldi”. Il sospetto è che siano o incapaci di intendere, o - al contrario - lo siano benissimo: perché quella comunità carceraria, finora e da anni, come reazione, oltre alle manifestazioni di lotta nonviolenta, hanno praticato violenza “solo” su se stessi, togliendosi la vita o con atroci auto-mutilazioni (occorrerebbe fare un rapporto sulla quantità di automutilazioni negli ultimi anni, in che cosa sono consistite; e che cosa le ha motivate); ma cosa si aspetta? Che le carceri esplodano, per poter magari sostenere che altra misura che straordinaria e massiccia reazione di contro-violenza è l’unica possibile? Ma al di là della situazione delle carceri, il problema vero è costituito dallo sfacelo in cui versa la giustizia in Italia, la sua non amministrazione. Si tralasci di mettere in fila le relazioni dei procuratori generali della Corte di Cassazione degli ultimi dieci anni, che fotografano una situazione che può essere definita solo come terrificante. Limitiamoci a pochi, essenziali dati. Ci si dice che in un grande distretto come quello di Bari il giudizio di primo grado ha una durata “media” di 1.346 giorni. A Reggio Calabria la regola (non l’eccezione) è un’attesa di 2.056 giorni per un verdetto d’appello. L’inefficienza della giustizia civile colpisce i diritti di milioni di italiani: genitori e figli, imprese e lavoratori, creditori, pensionati, invalidi, consumatori e danneggiati. La Banca d’Italia stima una perdita di più di un punto di Pil: come buttare dalla finestra 20 miliardi all’anno. Il presidente della Cassazione, Ernesto Lupo, ha aperto l’anno giudiziario 2011 parlando di “giustizia negata” e “Stato di diritto a rischio”. La Commissione europea ha intimato una riforma che ora è nell’agen- da del governo Monti: finora la classe politica aveva pensato quasi solo al penale, in particolare a frenare la punibilità dei reati. Ma è nei processi civili che si decide la vita quotidiana dei cittadini onesti. Messina è la città che ha il record di lentezza delle cause: in media 1.449 giorni in tribunale, 1.410 in appello, 614 perfino davanti ai giudici di pace. Gli otto giudici civili hanno carichi di lavoro ingestibili: oltre 1.500 fascicoli ciascuno solo di arretrato. Quindi la situazione continua a peggiorare, moltiplicando casi come quello del signor Antonino Bilardo, che invocava dal 1970 la proprietà di quattromila metri di terreno e dopo nove verdetti favorevoli si è sentito dare torto dopo 37 anni. Tutto questo è o no, “affare” di Governo? A Napoli la signora Nicolina Navar-retta, 97 anni, da 20 in causa ereditaria, si è vista rinviare l’udienza d’appello al 2014. A 100 anni le mancherà ancora la Cassazione. A Bari la fabbrica Divania attende da sei anni un mega-risarcimento da una banca per una truffa finanziaria (derivati-bomba) confermata da un’inchiesta della procura. Il processo civile di primo grado è chiuso, manca solo la sentenza. Tutto questo è o no “affare” di Governo? Sul Sud pesa un arretrato di 3,3 milioni di cause, più di metà del totale nazionale. A Roma i processi civili durano un terzo in più che al Nord. Ma anche qui, accanto a buoni esempi come Torino e Trento, ci sono distretti allo sbando. A Venezia si contano 1.481 cause di primo grado in corso da più di cinque anni. La Banca Mondiale, nel fresco rapporto “Doing Business 2012”, colloca la nostra giustizia civile in fondo al pianeta: su 183 Stati, occupiamo il gradino 158. Il metro è la sentenza-standard che punisce l’inadempimento di un contratto: in Italia arriva dopo 1.210 giorni, contro 394 in Germania, 389 in Gran Bretagna, 360 in Giappone, 331 in Francia, 300 negli Stati Uniti. Ci battono alla grande anche Ghana (487), Gambia (434), Mongolia (314) e Vietnam (295). In compenso i costi legali da noi sono altissimi: il 29,9 per cento del valore della causa, contro il 14,4 della Germania e il 9,9 della Norvegia. Tutto questo è o no “affare” di Governo? Ogni anno, da dieci anni, per prescrizione vanno in fumo dai 170 ai 200mila processi. A questo serve l’amnistia: ad azzerare questo sfacelo, questo disastro e consentire ai magistrati di ricominciare e potersi finalmente occupare delle questioni urgenti e serie. Non come ad Agrigento, dove sono intasati, i pochi magistrati, da decine di processi a extracomunitari clandestini e i processi di mafia vanno alla malora. Tutto questo è o no “affare” di Governo? Più prosaicamente, si chiama: boccata d’ossigeno. Poi, certo: riforma (e abrogazione) di leggi criminogene; ridefinizioni di funzioni e quant’altro. Ma per fare tutto ciò, a meno che non si abbiano magiche bacchette (e non sembra), occorre tempo. E l’amnistia serve appunto per guadagnare questo tempo necessario. Allora, tutto questo non è “affare” di Governo? Giustizia: i Radicali denunciano la Rai per la mancata informazione sulle carceri Notizie Radicali, 2 dicembre 2011 Questa mattina i Radicali hanno presentato all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni una denuncia contro la Rai per non aver garantito agli italiani un’informazione completa e corretta sulle condizioni delle carceri e della giustizia e sulle iniziative intraprese dai Radicali e dal loro leader Marco Pannella. Il 22 luglio scorso l’Agcom, con la delibera n. 222/11/Csp aveva accertato la violazione di legge da parte della Rai, ordinando di incrementare l’informazione nei telegiornali e nei programmi di approfondimento. Da allora, la Rai ha continuato a rendere impossibile la conoscenza da parte dei cittadini della realtà di uno Stato che quotidianamente viola la legalità costituzionale e le convenzioni internazionali sui diritti umani. Tra il 1 settembre e il 30 novembre 2011, programmi come Ballarò, Porta a Porta, Che tempo che fa, hanno raggiunto 208 milioni di ascolti medi senza mai affrontare la questione carceri, che ha avuto spazio solo in due puntate di Linea Notte, per poco più di 1 milione di ascolti. Nei telegiornali delle tre emittenti Rai, nello stesso periodo il tema è stato oggetto di notizie per 3 volte nel Tg1, 6 volte nel Tg2, 11 volte nel Tg3, per un totale di 56 milioni di ascolti medi, ovvero lo 0,2% del totale. Infatti, nei tre mesi indicati i tre Tg hanno diffuso nelle loro edizioni principali 8.496 notizie per complessivi 28 miliardi di ascolti medi. Per questi motivi i Radicali hanno chiesto all’Agcom l’applicazione di una forte sanzione economica nei confronti della Concessionaria, nella misura di almeno 250 mila euro. Il Segretario di Radicali Italiani, Mario Staderini, ha inoltre notificato al Consiglio di amministrazione della Rai e al Direttore Generale Lorenza Lei una diffida ad ottemperare agli obblighi di servizio pubblico, dovendo in caso contrario rispondere del danno economico e di immagine causato dalle sanzioni. Giustizia: sistema penitenziario non garantisce dignità e umanità… è ora di cambiare di Cosimo Maria Ferri (Segretario di Magistratura Indipendente) Il Riformista, 2 dicembre 2011 I temi e le questioni sollevate dal Ministro della Giustizia nel corso della sua prima audizione alla Commissione Giustizia del Senato sono di centrale importanza e devono stimolare un dibattito e una seria riflessione anche in seno alla Magistratura. Il tema del sovraffollamento carcerario sollevato da più parti e il successivo dibattito che si svilupperà deve stimolare tutti gli operatori a trovare soluzioni urgenti e concrete. È necessario, affrontare il problema con pragmatismo, immaginando e quindi proponendo nelle opportune sedi soluzioni praticabili anche nell’attuale congiuntura economica, tempestive e veramente efficaci, avendo ben presente che la situazione è grave e complessa e che non può essere risolta in breve tempo. L’attuale sistema penitenziario non garantisce, purtroppo, condizioni di vita in linea con i principi di umanità e dignità della persona, e mancano le risorse economiche, strutturali e umane per rendere il sistema carcerario adeguato e finalizzato all’attuazione del processo rieducativo del condannato ed al suo graduale reinserimento nella società, come esige una concezione moderna della pena e come stabilito dalla nostra Carta Costituzionale. Sul piano dei numeri della popolazione detenuta, occorre agire in tempi rapidi sul fronte della massiccia depenalizzazione, valorizzando il sistema delle sanzioni di tipo alternativo alla nena detentiva. Dal momento che non può essere in alcun modo ulteriormente minato il principio di certezza della esecuzione della pena e non possono essere erose le garanzie per la sicurezza dei cittadini, appare necessario arrivare ad un significativo ridimensionamento della popolazione carceraria attraverso strumenti di natura ordinaria e non indulgenziale. A tale risultato si può giungere attraverso il progressivo aumento del numero di condannati in grado di accedere a misure alternative alla detenzione. È necessario inoltre prevedere una manovra di ampio respiro che ponga al centro anche la revisione dei limiti edittali della pena. Misure di depenalizzazione, sicuramente benefiche e necessarie a nulla servirebbero se non accompagnate da una revisione dell’entità delle pene comminate. Basti pensare ad un reato come la ricettazione, oggi punita dai due agli otto anni, tuttavia non sempre il giudice riesce a riconoscere la lieve entità. La magistratura infine deve mostrare coraggio sul tema della carcerazione preventiva. I tempi sono maturi per attribuire la competenza ad irrogare le misure cautelari personali ad un organo collegiale, purché però tale previsione sia accompagnata da concrete ed efficaci misure organizzative (ad esempio la revisione delle circoscrizioni giudiziarie) e dalla eliminazione del tribunale del riesame. La ricerca di tempestive ed efficaci soluzioni in merito a questo delicato tema non può prescindere dalla ripresa del dialogo delle Istituzioni con gli operatori chiamati ad applicare concretamente le norme, in un clima di costruttiva collaborazione. Giustizia: il “braccialetto elettronico”, ovvero l’aspirina delle carceri di Livio Ferrari* Ristretti Orizzonti, 2 dicembre 2011 Le necessità di un intervento profondo e urgente sulle carceri del nostro Paese, richiesto a tante voci dal Presidente della Repubblica in testa, non vuol dire che sull’urgenza bisogna continuare nell’improvvisazione delle scelte da produrre, come l’annuncio fatto dal ministro della giustizia Paola Severino di adottare strumenti e mezzi tecnici ovvero del braccialetto elettronico - che ci riporta a logiche e politiche che nulla hanno a che spartire con l’attuale ordinamento penitenziario e assomiglianti, purtroppo, a culture d’oltre oceano che sono a dir poco discriminanti. La scelta del “braccialetto elettronico” è chiaramente in contrasto con l’elemento fondante del trattamento penitenziario e delle misure alternative, che è quello della messa alla prova attraverso una concessione di fiducia alla persona, per un percorso di recupero dei valori persi, assieme al senso della legalità, che sono alla base della commissione dei reati. Non è certo trascurabile sottolineare come, anche durante il Governo D’Alema, una apposita commissione di verifica sul braccialetto elettronico, costituita dal Ministero dell’Interno, avesse dato parere sfavorevole all’uso con due motivazioni su tutte: la scarsa efficacia di questo mezzo, risultata dalle sperimentazioni adottate in altri Paesi, e l’oneroso aspetto economico che non era certamente cosa di poco conto. Dopo dieci anni dall’introduzione di questo aggeggio in Italia, grazie all’allora ministro Fassino, e considerati i risultati disastrosi, sia dal punto di vista dell’effetto che da quello economico, è a dir poco stucchevole constatare che neppure stavolta per via Arenula è stata scelta una persona che conosca veramente i problemi del giustizia e del carcere. Attraverso questa “boutade” vengono, altresì, messi in soffitta due elementi essenziali su cui è costruita la pacifica convivenza nei territori italiani: il principio costituzionale della dignità della persona, in quanto non bastano delle oggettive necessità di ridurre la presenza della popolazione detenuta nelle carceri per imboccare scorciatoie che calpestano la dignità stessa dei reclusi uomini e donne, siano essi imputati o condannati, e il rispetto umano che viene derubricato e fatto passare in secondo ordine. E fa una grossa operazione “detergente”, da un bel colpo di spugna al trattamento, con buona pace di tutti coloro che hanno creduto e si sono spesi, in questi decenni, per alimentare sempre di più strade di riconciliazione e di giustizia, sulla scia di una scelta fatta con la legge Gozzini. Il carcere, a fronte di quanto affermato e nonostante le denunce e i rapporti stilati, è tuttora lì: un “gigante che sta in piedi su un terreno d’argilla”. Il terreno argilloso è la sua totale irrazionalità in termini delle proprie mete dichiarate. Rapporto dopo rapporto, studio dopo studio, tutti sono concordi nell’affermare il fallimento del sistema penitenziario (l’altissima percentuale di recidiva, il numero sempre in aumento della popolazione carcerata, le cifre economiche in esposizione, il senso effettivo di vendetta, etc.), ragioni che si possono riassumere in cinque argomenti o mete fissate: 1. La riabilitazione, “l’uso dell’imprigionamento riabilita il violatore della legge. 2. La deterrenza individuale, cioè la nozione che il trasgressore che è portato in prigione, sfuggirà via dal crimine essendo portato là. 3. La prevenzione generale, cioè gli effetti educativi. 4. La punizione, la severità prevista dalla pena dovrebbe mostrare effetti sul comportamento criminale. 5. La giustizia bilanciata, ovvero il neoclassico responso del crimine attraverso la prigione, sebbene sia stato ammesso che il carcere non può prevenire nulla, si presume di poter bilanciare del tutto l’atto riprovevole equilibrando i pesi della giustizia. La prigione è un sistema profondamente irrazionale in termini dei propri scopi stabiliti. L’inefficacia preventiva del carcere costituisce un problema di comunicazione. La punizione è in fondo un modo attraverso il quale lo Stato cerca di comunicare un messaggio, specialmente a gruppi particolarmente vulnerabili della società. Come metodo è estremamente primitivo. Ciò che è sorprendente non è l’effetto minimo ma piuttosto la persistente fiducia politica (cfr. miopia) in un tale primitivo metodo di comunicazione. Il problema, comunque, è che questa consapevolezza - cioè tutte le argomentazioni che fanno parte del bagaglio di informazioni vere e reali, per una larga estensione di popolazione sono un segreto e nel nostro caso lo sono anche per il recente ministro della giustizia. Se la gente veramente conoscesse come poveramente è la prigione, così come altri settori del sistema del controllo criminale, se sapessero come il carcere crea solamente una società più pericolosa producendo persone più pericolose, un clima per smantellare il carcere necessariamente si alimenterebbe. Le vittime non ricevono nulla dal presente sistema e potrebbero ricevere tanto dal cambiamento di direzione. Una idea fondamentale e principale sarebbe cambiare il sistema nel senso di: piuttosto che aumentare la pena dei trasgressori con la gravità dell’offesa, che è alla base del presente sistema, aumentare il supporto alla vittima con la gravità dell’offesa. Cioè non una punizione a scalare per i trasgressori ma un supporto a scalare per le vittime. È sicuramente una modifica drastica e razionale dal punto di vista della vittima ma significativa se supportata da azioni fondamentali quali: vita più decente nei quartieri (famoso discorso della qualità della vita), programmi di lavoro, programmi scolastici, programmi di investimento, ma non basati sulla forza, e finalmente un cambiamento della nostra politica sulle droghe. Un cambiamento delle politiche sulle droghe allo stesso tempo colpirebbe al cuore le organizzazioni criminali della droga, dipendenti come sono dal mercato, e ridurrebbero la presenza nelle prigioni. Il progressivo smantellamento delle prigioni ci farebbe risparmiare una notevole somma di denaro, milioni e milioni che potrebbero essere spesi per le vittime e i trasgressori. La possibilità di rinchiudere alcuni individui comunque rimarrebbe, ma il trattamento loro rivolto dovrebbe essere assai differente da quello di oggi. Per questi e mille altri motivi il braccialetto elettronico ha la stessa valenza di un’aspirina per curare una malattia terminale, e il carcere è veramente un gigantesco ospedale che pretende di evocare sicurezza, ma rassicura solo la nostra incapacità di perdono ed comprensione dell’errore umano e, questo, calpestando la vita di donne e uomini per una giustizia che ancora una volta è solo vendetta. * Garante dei diritti delle persone private della libertà del Comune di Rovigo Direttore Centro Francescano di Ascolto di Rovigo Giustizia: il “braccialetto elettronico” non è la soluzione al sovraffollamento di Massimo Bordin Il Riformista, 2 dicembre 2011 Il ritorno in auge del braccialetto elettronico, pur di evitare l’amnistia, obbliga ad andare a rivedere le puntate precedenti. La prima scoperta che si fa è che la soluzione era già stata adottata una decina di anni là e finora non ha risolto nulla. Nel 2001 il governo, allora di centro sinistra, firmava un contratto con Telecom Italia che a sua volta veniva rifornita da due società per i sistemi di controllo a distanza per un totale di quattrocento braccialetti. Due anni fa risultava che una delle due società ne aveva in funzione una decina. Mettiamo che l’altra società, che è israeliana e forse più efficiente, ne avesse in funzione il doppio. In totale fa trenta. Sempre due anni fa il sindacato degli agenti di custodia Sappe denunciava che il costo pagato dallo Stato per il nolo dei braccialetti ammontava a sei milioni di euro l’anno. I costosi aggeggi erano comunque tenuti sotto chiave, secondo la denuncia sindacale, al ministero dell’Interno. Tranne quei pochi utilizzati che, secondo le agenzie di stampa, sarebbero in tutto una decina. Nel frattempo, per dieci anni, il costo dell’operazione è stato di sei, qualcuno dice dieci, milioni di euro. Tutti questi dati sono presi da una interrogazione presentata due anni fa al Senato dai radicali. La risposta non l’ho trovata ma ho capito perché è difficile considerare i braccialetti una soluzione per il sovraffollamento carcerario. Piuttosto c’è il rischio che lo alimentino. Giustizia: Bernardini; in Italia non basta la pena certa… ma si pretende la morte civile Agenparl, 2 dicembre 2011 “Il fatto che Giovanni Scattone insegnasse in un liceo e che a detta dei suoi studenti svolgesse il suo lavoro di educatore in maniera irreprensibile e scrupolosa, non dovrebbe essere letto come la vergogna che viene denunciata da più parti, ma come testimonianza di un percorso riabilitativo di cui lo Stato dovrebbe andar fiero, sempre se ha ancora senso l’articolo 27 della nostra Costituzione e sempre se hanno senso le parole lì scritte sulla rieducazione e il reinserimento sociale del condannato. Se si cristallizza per sempre la vita di una persona nell’atto criminale da questa commesso tanto tempo prima e non si tiene conto di una semplice verità ossia che l’uomo della pena può anche divenire un uomo diverso da quello del delitto, allora si rischia di non cogliere il senso profondo della giustizia, del carcere e della pena descritto nella nostra Costituzione. Giovanni Scattone, pur professandosi sempre innocente, è stato condannato e ha interamente pagato il conto che lo Stato e la legge italiana gli hanno presentato per ciò che ha fatto o non ha fatto; fargli adesso scontare anche una pena extra-giudiziale, e per questo ancora più pesante, è di per sé inumano e ingiusto. Nessuno ha il diritto di condannare un altro individuo - qualunque delitto questo abbia potuto commettere - a rimanere ostaggio perpetuo del proprio passato, anche perché il tempo della pena non viene certo stabilito dai parenti delle vittime o nei salotti televisivi, ma dalla legge e dalla Costituzione”. È quanto si legge in una nota di Rita Bernardini - deputata radicale eletta nelle liste del Partito Democratico e membro della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati. Giustizia: Marino (Pd); presentato ddl per chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari Ansa, 2 dicembre 2011 “Abbiamo depositato al Senato un disegno di legge che indica la data del 31 marzo 2012 per la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari. La Commissione ha agito compatta: la proposta infatti è stata firmata da tutti i senatori commissari, dal centro sinistra al Pdl alla Lega Nord; sulla necessità e l’urgenza di arrivare a una risoluzione definitiva non ci sono divisioni politiche”. Così Ignazio Marino, presidente della Commissione d’inchiesta sul Servizio Sanitario Nazionale, dopo aver depositato il ddl “Disposizioni per il definitivo superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari e per la razionalizzazione dell’utilizzo delle risorse del Servizio sanitario nazionale e dell’Amministrazione penitenziaria”. “Auspichiamo che il contenuto del nostro ddl - aggiunge Marino - sia assorbito dall’esecutivo in uno dei prossimi decreti, per dargli immediata operatività. Il punto centrale dell’emergenza è la questione economica, ma non per questo a mio avviso possiamo rinunciare alle battaglie di civiltà. Non possiamo accettare che nel nostro paese esistano tragedie di serie B”. Giustizia: Sappe; criticità degli Opg sono risultato del disinteresse politico ed istituzionale Comunicato stampa, 2 dicembre 2011 “Le strutture di reclusione hanno bisogno di una progettualità tale da garantire l’assistenza ai malati e la sicurezza degli operatori, tanto più gli Ospedali psichiatrici giudiziari. Certo è che i buoni propositi delle Direzioni penitenziarie si sono scontrate e si scontrano sempre più spesso con una cronica carenza di fondi, dopo i tagli disposti dal Governo ed i ritardi nella gestione dell’assistenza medica al Servizio Sanitario Nazionale. Ma del tutto evidente è che colpevole è anche una diffusa e radicata indifferenza della politica verso questa grave specificità penitenziaria”. Lo dichiara Donato Capece, Segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, il primo e più rappresentativo della Categoria, commentando la presentazione - al Senato della Repubblica - di un disegno di legge della Commissione d’inchiesta sul Servizio Sanitario Nazionale che indica la data del 31 marzo 2012 per la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari. “A subire le conseguenze di questo diffuso disinteresse verso gli Opg” aggiunge “sono gli agenti di Polizia Penitenziaria e gli stessi internati, che dovrebbero essere curati e non custoditi, tanto che la presenza della Polizia Penitenziaria mal si concilia con lo status di internato quale soggetto per lo più non imputabile e quindi incapace di intendere e di volere, poiché la pericolosità sociale non può precedere lo status mentale, come accade nell’articolo 203 del Codice penale, il quale disvela tutta la sua impostazione autoritaria, ben lontana dalle concezioni psichiatriche che si andavano sempre più affermando. L’attuale crisi degli Opg è il punto di arrivo di una escalation negativa che ha portato all’aumento inversamente proporzionale del numero degli internati, rispetto a quello degli agenti di Polizia Penitenziaria. Dando attuazione alle direttive del Ministero della Giustizia, che ha disposto il blocco degli organici negli Opg, la dotazione organica degli agenti è scesa in cinque anni di circa 40 a fronte di un aumento esponenziale di internati. In ogni reparto, infatti, a fronte di oltre 100 ricoverati, è presente un solo agente rispetto ai tre previsti fino a qualche anno fa per garantire la sorveglianza su due piani dell’immobile e all’interno del cortile. In queste condizioni è evidente come diventi impossibile la gestione dei reparti, con il rischio quotidiano di risse, aggressioni e gesti di autolesionismo, alimentati anche dagli spazi ristretti in cui sono costretti a vivere gli internati, incompatibili con il disagio psichiatrico. Occorre che i politici, a tutti i livelli, invece delle solite passerelle a cui si accompagnano puntualmente anatemi e demagogie quanto estemporanee soluzioni, si facciano carico del loro ruolo istituzionale, mettendo le strutture psichiatriche nelle condizioni di poter svolgere al meglio il loro lavoro, poiché le condizioni disumane in cui versano gli Opg sono il frutto di una voluta indifferenza della società civile e dei politici. È giunto insomma il momento di rifuggire dalla logica del capro espiatorio". Giustizia: Antonino Calogero; aiuto le mamme assassine a ridare un senso alla vita www.quotidianamente.net, 2 dicembre 2011 “Da noi non ci sono detenuti, ma pazienti: la loro pericolosità sociale è legata alla malattia, hanno infranto il codice penale perché malati, necessitano di cure mediche perché nella loro mente è scattato un delirio, l’io è andato in frantumi, come se ci fosse stato un corto circuito”. Dal 2003, Antonino Calogero, 64 anni, psichiatra, è il direttore dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Castiglione delle Stiviere, in provincia di Mantova, una struttura esclusivamente sanitaria, dove è assente la Polizia Penitenziaria nonostante le persone accolte si siano macchiate di reati gravi. L’ospedale, che ospita oltre trecento pazienti di cui una ottantina sono donne, è l’unico in Italia dove sono accolte le mamme che hanno ucciso i propri figli. “La perdita di un figlio per mano propria è un lutto estremamente complicato: dobbiamo partire dal periodo della gravidanza, quando la donna attraversa non solo uno squilibrio ormonale, ma anche un rimescolamento completo della personalità, perché dopo il parto c’è una situazione di malessere, si ha bisogno di una guida, d un sostegno”, spiega Calogero. Che ricorda un dato assai indicativo: l’85 per cento dei figlicidi avviene al Nord, nelle grandi città dove magari ci si trasferisce per lavoro, spesso rimanendo distanti dall’affetto dei parenti. La problematica è minore al Sud dove resiste ancora la famiglia di tipo matriarcale e la donna vive meno isolata. Così, aggiunge Calogero, in un momento tanto complesso e difficile da affrontare come quello della maternità, una mamma non deve essere lasciata sola: “Da parte della donna ci deve essere sicuramente la capacità di evolvere il proprio ruolo sociale, ma è fondamentale che ci sia anche il supporto del marito, così come della famiglia di origine”. Per questi motivi, la struttura di Castiglione delle Stiviere prevede un piano di recupero articolato, che parte dall’assistenza personale: “Le pazienti che arrivano qui non si lavano, non si pettinano, sono completamente stordite da ciò che è accaduto loro. Occorre dunque rieducarle alla cura di sé: poco a poco bisogna aiutarle a ricomporre un quadro andato in mille pezzi”, chiarisce Calogero. C’è un lavoro quotidiano che impegna le pazienti, lo racconta Enrico Vernizzi, 58 anni, responsabile del reparto femminile dell’ospedale: “Cerchiamo di stimolarle durante il corso dell’intera giornata: la sveglia è alle 7, per il rassetto della camera, la pulizia personale e la colazione. Dopodiché ci sono varie attività lavorative, come la gestione del bar, la cucina, la lavanderia e così via, ma anche la lettura dei giornali e il computer. Possono andare in piscina, in palestra e praticare sport di squadra”. Insomma, anche i problemi personali si risolvono facendo vita comune e di relazione. Le pazienti possono inoltre ricevere visite tutti i giorni in orari prestabiliti: “In genere sono i parenti della famiglia di origine della paziente che vengono con maggiore assiduità. I mariti, nella maggior parte dei casi, abbandonano le proprie mogli”, conclude Vernizzi. Si usa anche l’arte per far emergere emozioni e sensazioni. Lo sottolinea il direttore: “Abbiamo un laboratorio dedicato, qui: con la pittura, per esempio, si riesce a comunicare o a rivelare stati d’animo premonitori di momenti difficili, sintomi di aggressività verso se stessi e di sofferenza interiore”. I farmaci sono indispensabili, ma a Castiglione si preferisce usarli con moderazione. Qui si vuole piuttosto puntare su un intervento multidisciplinare, al fine di recuperare le abilità perse con la malattia e ritrovare la fiducia in se stessi. Spiega Gianfranco Rivellini, 50 anni, responsabile del reparto di riabilitazione: “In psichiatria non parliamo di guarigione ma di cura, di compenso psicopatologico. Il nostro obiettivo è la dimissione della paziente e ci si riesce con quasi tutte. Si tratta di percorsi individuali, ogni caso è un caso a sé: c’è chi riesce a ottenere permessi di uscita autorizzati dal magistrato anche prima di un anno da quando entra qui. E una volta fuori possiamo dire che se un 50 per cento rimane ancorato ai servizi psichiatrici, l’altra metà riesce a recuperare”. Anche per quelle donne che riescono a reinserirsi nella vita normale però, affrontare una nuova gravidanza rimane quasi sempre un passo invalicabile: “Per uscire da qui devono arrivare a una consapevolezza di debolezza: spesso il loro limite è proprio nell’avere un figlio. I sintomi nascono da sentimenti soggettivi drammatici e penosissimi di non sentirsi all’altezza, cosa che può rimanere silente con una prima gravidanza, ma poi manifestarsi con altri figli in tutta la sua tragicità”. Giustizia: intervista ad Antonella D’Agostino, 40 anni di lotta per le carceri di Vincenza Foceri www.clandestinoweb.com, 2 dicembre 2011 Ambrogio Crespi gli ha dedicato diversi docuweb, l’onorevole Bernardini e i Radicali non smettono di scendere in piazza per chiedere attenzione e indicono scioperi della fame: la battaglia a favore dei detenuti e che comprende anche quella per l’amnistia diventa sempre più popolare. Sulle pagine de Il Clandestino tentiamo di dar voce, quotidianamente, alla situazione drammatica vissuta dietro le sbarre. Tra i sostenitori di questa lotta che, ormai, ha assunto la forma di una presa di coscienza a favore dei diritti civili c’è anche Antonella D’Agostino, moglie di Renato Vallanzasca, che da quarant’anni si batte per migliorare le condizioni di vita dei detenuti. Da moglie di un uomo in carcere sa bene cosa vuol dire stare dentro e per questo ha messo in piedi una petizione on line, affiancata da un’intensa attività d’informazione davanti agli istituti di pena. Proprio oggi alcuni volontari sono andati davanti al carcere di San Vittore e di Opera per rendere noto ai detenuti attraverso le famiglie cosa, fuori, viene fatto in loro difesa. Non un normale sit-in davanti le carceri ma una proficua attività d’informazione a sostegno dei detenuti sulla battaglia che state portando avanti, come mai? Abbiamo messo in piedi una petizione on line a favore dell’amnistia e adesso cerchiamo di far sapere ai detenuti quello che stiamo facendo per loro. Vogliamo tranquillizzarli perché la situazione dentro è diventata davvero esplosiva. Questa mattina dei ragazzi delle cooperative che gestisco sono andati al carcere di San Vittore e a Opera non per fare sit-in o manifestazioni ma solo per dare la notizia ai familiari prima che entrino ai colloqui, così che possano portare ai loro cari dentro un po’ di speranza. Con il passaparola abbiamo fatto si che anche nelle carceri del meridione si sapesse. Per difendere la bontà del provvedimento di amnistia ha scelto di fare una petizione on line, come mai? Perché è giusto che la società civile e non solo le istituzioni vengano sensibilizzati al problema delle carceri. Non è la prima volta che combatto a favore dei detenuti e che sostengo, insieme ai radicali italiani, questa battaglia. Sono impegnata nel sociale da anni. Credo che sia necessario, per risolvere l’emergenza sovraffollamento, attuare il provvedimento di amnistia. In molti si dicono a sfavore, motivando la loro scelta con un atto di clemenza nei confronti di gente che delinque, vuole spiegare meglio, invece, a cosa serve l’amnistia? Io penso che l’amnistia sia necessaria per migliorare la grave situazione in cui versano le carceri italiane. In Italia i detenuti vivono come degli animali. Da anni mi batto per rendere loro la vita più semplice. Ho aperto delle cooperative per aiutarli a reinserirsi, a intraprendere percorsi lavorativi. Le istituzioni fanno molto poco. Se chi esce dal carcere sbaglia di nuovo è solo perché non gli vengono date opportunità per ricominciare. E poi se prendiamo in mano le statistiche delle precedenti amnistie, vediamo che il numero di chi, una volta fuori dal carcere ha commesso nuovi reati non è altissimo. Molti detenuti dopo hanno iniziato una nuova vita, hanno trovato un lavoro onesto. Se viene data loro una mano non rientrano. In cooperativa su circa cento ragazzi seguiti solo due o tre hanno ripreso cattive strade. In carcere c’è anche un serio problema sanitario che l’amnistia potrebbe contribuire a risolvere.... Sì, assolutamente. L’amnistia serve anche a questo. Ci sono dei casi drammatici di malati di tumore all’ultimo stadio costretti a stare in cella. Molti familiari di questi detenuti mi scrivono su Facebook, mi segnalano casi di parenti con pochi mesi di vita costretti a stare in carcere. L’amnistia permetterebbe a queste persone di avere una fine migliore, vicino ai loro cari. Come sta portando avanti questa battaglia, petizione on-line a parte? Cercando di sensibilizzare quanta più gente possibile e, naturalmente le istituzioni. Partecipo spesso alle iniziative dei radicali. Vorrei che fosse chiaro che per me, questa, non è una questione personale ma una questione sociale. La vita in carcere è disastrosa, soprattutto al meridione. Chi sbaglia deve pagare, ne sono convinta anche io ma deve poter vivere in condizioni più umane. Non è facendo star male i detenuti che si risolve il problema della criminalità, anzi in queste condizioni i ristretti si incattiviscono. Tra poco sarà Natale, tutti pensiamo solo alla corsa ai regali. Cerchiamo di non dimenticare che c’è gente che dorme per terra, nell’umidità. Com’è vivere da moglie aldilà delle sbarre? Non è vivere.. ma non voglio parlare di mio marito... Insistiamo sull’amnistia che è l’unica cosa che ci interessa adesso. Con la voce rotta dell’emozione Antonella D’Agostino ha preferito non parlare di Renè e, tuttavia, il suo silenzio è stato eloquente: ci ha fatto comprendere quanto l’amore possa superare qualsiasi ostacolo, anche le sbarre... Giustizia: quando il pentimento non è pentitismo… che cosa insegna la storia di Doina di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 2 dicembre 2011 Le cronache di allora, per spiegarla in due parole, non stettero a girarci attorno: “La prostituta romena”, scrivemmo quasi tutti, con una sommarietà che ci guarderemmo bene dall’usare per una donna di Napoli o di Milano. L’avvocato Corso Bovio fu tra i pochi in quella primavera 2007 a parlare perciò di “stigmate inflitte dalla sorte e dai media”. Del resto non era altro, Doina Matei, una prostituta ragazzina appena arrivata da noi per mantenere in patria i suoi due bimbi, quando diventò l’assassina di Vanessa Russo, romana, sua coetanea. Una banale lite in metrò, l’ombrello usato come una lancia che s’infila nell’occhio di Vanessa: 16 anni per omicidio preterintenzionale (pena massima per quel reato), e la storia sta tutta qui. Senonché dal carcere Doina scrive, e con un racconto vince un premio al concorso nazionale Casalini riservato ai detenuti. Nel racconto parla di Vanessa, la chiama “il mio angelo custode”. Promette di andare a pregare sulla sua tomba “quando tornerò nel mondo”. Rita Pozzari, la mamma della vittima, non ha dubbi: “Non ci venga proprio sulla tomba di mia figlia, a lei il premio e a noi neanche un risarcimento”. Sono le parole umanissime di chi deve sopportare un dolore senza fine. Troppo spesso in Italia il pentimento s’è confuso col pentitismo. I suoi percorsi sono inoltre scivolosi (viene in mente il ripugnante altarino di Michele Misseri per Sarah), sovente accompagnati dall’obiettivo dei benefici carcerari. Ma chi leggesse il racconto di Doina, scoprirebbe un inno alla vita che sembra davvero prescindere da calcoli. Nessuno può chiedere alla famiglia di Vanessa il perdono. E, diciamolo chiaro, nessuno può invocare sconti che a quella famiglia apparirebbero offensivi. Ma ciascuno può interrogarsi su un paradosso. Per una ragazzina due volte madre cresciuta in Romania tra violenze e abusi, una galera italiana, pur affollata e angusta, potrebbe essere diventata davvero un corridoio verso quella parola astratta, che farà sorridere i cinici, eppure ispira la nostra cultura giuridica: la redenzione. Emilia-Romagna: al 2° posto in Italia per sovraffollamento, il caso della Dozza di Bologna Sesto Potere, 2 dicembre 2011 I tagli del Governo, che “potrebbero riguardare fino a un 40% dei contributi degli ultimi anni” peggiorano la situazione della Dozza, dove già c’era sovraffollamento tra i detenuti e carenza di agenti penitenziari. È una prospettiva che preoccupa molto, la casa circondariale di Bologna. Uscendo dalla Dozza, non ci sono più’ dubbi: “È un carcere sovraffollato e con troppi pochi agenti, ha delle gravi criticità strutturali e manca il lavoro, ma non è di certo la casa circondariale peggiore dell’Emilia-Romagna”. Le condizioni più critiche, riguardano sicuramente Ravenna e Parma, ma soprattutto l’ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia. Quanto alla Dozza, sono diversi gli aspetti che preoccupano. A partire dal fatto che l’ala Infermeria-nuovi giunti è in “condizioni di sovraffollamento insopportabile”. “Dovrebbe essere una zona di compensazione di altri disagi- invece va a finire che, a causa del sovraffollamento delle sezioni, i nuovi arrivati rimangano lì più del dovuto perché non si sa dove altro metterli. In questo modo l’infermeria, che dovrebbe essere un punto di maggior attenzione, anche dal punto di vista sanitario, finisce per essere un luogo dove si rimane in condizioni critiche”. Altro tasto dolente è il fatto che alla Dozza non c’è lavoro. “I lavoratori esterni sono appena 24-25, mentre i detenuti che svolgono lavori domestici sono solo 110 part-time, un terzo di quanti erano solo qualche anno fa”, Un dato che, se rapportato al numero totale dei detenuti (1.150), fa capire che alla Dozza “lavora appena il 10% del totale”. Il numero esiguo di detenuti lavoratori, soprattutto di quelli esterni, è legato anche al fatto che, “negli ultimi anni è cambiato più volte il magistrato di sorveglianza, quindi una serie di pratiche sono rimaste aperte senza che nessuno si prendesse la responsabilità di firmare per l’uscita”. Insomma, “c’è difficoltà a far uscire i detenuti anche dove ci sarebbero le condizioni per farlo”. Non da meno la preoccupazione per la carenza di guardie carcerarie in servizio in via del Gomito (“in tutto 373 agenti, di cui 136 in distaccamento altrove”) e per l’alto numero dei tossicodipendenti: “Ufficialmente quelli iscritti ai Sert sono 350? , ma quelli dietro le sbarre sono molti di più. A pesare sulla situazione della Dozza è sicuramente anche l’alto numero di detenuti stranieri. “Il provvedimento cosiddetto svuota carceri, firmato di recente dal Governo, è di difficilissima applicazione e qui a Bologna non ha fatto uscire nemmeno un detenuto- problema è che sono quasi tutti detenuti stranieri e per poter scontare la pena ai domiciliari devono avere un domicilio. È stato un provvedimento di facciata, senza nessun reale riscontro nella pratica”. Eppure, nel frattempo, il ministero di Giustizia sta andando avanti col piano per costruire nuove carceri: “A Bologna verrà realizzata una nuova sezione con 200 camere, dove saranno ospitati 400 detenuti. Ci vorranno un paio d’anni”. Però, qualche aspetto positivo, ad esempio la sezione femminile, che hanno “abbastanza vivibile e civile”. Nella sezione femminile le 70 detenute “vivono in due per camera e passano cinque ore fuori dalle proprie stanze, più il tempo dedicato ai corsi che frequentano”. Nella sezione femminile c’è anche un laboratorio, che rappresenta una novità ed è uno dei progetti più interessanti: “È un laboratorio tessile dove quattro ragazze fanno confezioni per conto di una cooperativa. È un’esperienza molto importante, che rende molto diversa la vita per un detenuto”. Alla Dozza, oltre al laboratorio tessile, rimane solo la tipografia (dove lavora ormai un solo detenuto, visto il calo della richiesta dall’esterno), il laboratorio di smontaggio (tre-quattro i detenuti che ci lavorano) e quello di produzione del miele, che deve ancora partire. Carceri, s’infiamma la protesta alla Dozza “Mancano acqua, carta igienica e sapone”. “Gli agenti - spiega il movimento Italia garantista - hanno protestano per la situazione che sta attanagliando il pianeta carcere” È partita da Bologna e da Reggio Emilia la protesta degli agenti nelle carceri italiane. “Nel carcere bolognese della Dozza - spiega il commissario nazionale del dipartimento sicurezza di Italia garantista Domenico Marigliano - i detenuti sono tanti e iniziano a non sostenere più questa situazione che sta per esplodere. Analoga situazione in quel di Reggio Emilia “dove - continua Marigliano - in tre reparti detentivi hanno protestato gli agenti della polizia penitenziaria perché il controllo della situazione sta diventando insostenibile”. “È evidente - commenta il movimento Italia garantista - che questo clima teso desta non poche preoccupazioni tra gli agenti della polizia penitenziaria, che potrebbe trovarsi a dover fronteggiare situazioni molto difficili, in un momento di gravi difficoltà dovute alla carenza di uomini, mezzi e risorse economiche: mancano sempre 6.500 agenti a livello nazionale”. Secondo il commissario nazionale sicurezza di Italia garantista Marigliano, inoltre, la situazione starebbe drasticamente peggiorando visto che, “oltre alle risorse per pagare straordinari e missioni alla polizia penitenziaria, per riparare i mezzi di trasporto e per mettere la benzina, stanno anche finendo i soldi per l’acquisto dei generi di prima necessità per i detenuti: carta igienica, sapone ed altro”. In Emilia Romagna le strutture penitenziarie scoppiano. Le carceri dell’Emilia-Romagna sono al secondo posto in Italia (dopo quelle pugliesi) per il tasso di sovraffollamento: i detenuti in regione sono, infatti, 4.373 a fronte di una capienza regolamentare di 2.394, il che significa un indice di sovraffollamento pari al 182,5% (con il dato medio nazionale al 150,95%). È quanto emerge dalla relazione annuale, prevista dalla legge regionale n.3 del 2008 “Disposizioni per la tutela delle persone ristrette negli Istituti penitenziari della regione Emilia-Romagna”, il 36,7% della popolazione carceraria è rappresentata da stranieri, in Emilia-Romagna la percentuale aumenta in modo considerevole arrivando al 52,4%. “La situazione è gravissima, chiediamo - continua il commissario nazionale per la sicurezza per Italia Garantista, che il Governo faccia interventi di sostegno immediato perché occorre personale e mancano le risorse anche solo per la manutenzione ordinaria”. Sicilia: le carceri sono sempre più bombe ad orologeria di Giulia Cosentino Quotidiano di Sicilia, 2 dicembre 2011 La capienza regolamentare ormai è un optional: 2.427 i detenuti di troppo nelle 27 carceri dell’Isola. Sovraffollamento, scarsa igiene e gravi carenze di organico restano problemi irrisolti. Sono passati pochi giorni dall’insediamento del nuovo Governo e con esso la nomina dei nuovi ministri che già si pensa ad azioni risolutive alle svariate problematiche sociali che da tempo attendono risposta. E se la crisi economica nazionale riveste un ruolo di prim’ordine, non meno importante è la crisi del sistema giudiziario, i cui protagonisti sono gli stessi detenuti e le condizioni in cui da tempo si ritrovano. Dal sovraffollamento alla grave carenza di personale, dalle nuove carceri alla manutenzione di quelli esistenti, dalla mancanza di fondi per la benzina al mancato pagamento dello straordinario e delle missioni. Sono solo alcuni dei tanti - oramai noti - temi su cui bisogna intervenire e che si presentano sul tavolo del neoministro della Giustizia Paola Saverino. Il materiale da lavoro è presente in “casa”. Basta difatti dare uno sguardo al sito del Ministero della Giustizia per visualizzare gli ultimi dati aggiornati al 31 ottobre 2011, riguardanti il numero dei detenuti presenti nelle carceri italiane, per capire come la situazione attuale resta grave. Il quadro che emerge è sempre lo stesso: la regolamentare capienza degli istituti penitenziari non è sufficiente a contenere il numero effettivo dei detenuti. A questo problema di fondo si sa che ne seguono altri strettamente collegati tra loro: scarsa igiene, carenza di organico della polizia penitenziaria, tracce di sangue di suicidi tra i detenuti e l’obsolescenza delle strutture. Spesso difatti in 7 metri quadri si sta in sei o in 12-14 persone, lontano dagli standard europei che prevedono per ogni detenuto almeno 7 metri quadri in cella singola e 4 in cella multipla. In Sicilia ad oggi, la regolamentare capienza nei 27 istituti penitenziari è di 5.406 (13 posti in meno rispetto allo scorso 31 agosto), ma i detenuti presenti sono 7.833 (ben 79 in più rispetto agli ultimi dati rilevati). In pratica nell’Isola, in soli due mesi, la situazione si è aggravata: non solo la regolamentare capienza vede posti in meno da offrire ai detenuti, ma il numero degli stessi è aumentato notevolmente. Scende invece il numero delle donne presenti (da 223 a 216) e degli stranieri (da 1.876 a 1.789). Non meno roseo il quadro della Lombardia, dove la regolamentare capienza nei 19 istituti penitenziari è di 5.416. Al 31 ottobre sono presenti 9.530 reclusi (211 detenuti in più rispetto allo scorso agosto quanto se ne contavano “solo” 9.319. Tra le Regioni più equilibrate a parità di capienza regolamentare e numero dei detenuti effettivi: la Valle D’Aosta, la Sardegna e il Molise. Invece, il Trentino Alto Adige, malgrado negli ultimi mesi abbia registrato 11 detenuti in più, si aggiudica sempre il primo posto. Nei due istituti penitenziari presenti nella regione, con capienza regolamentare pari a 520, sono presenti solo 362 detenuti. “Siamo certi - ha detto Mimmo Nicotra, vicesegretario generale del sindacato di polizia penitenziaria Osapp - che il neoministro della Giustizia terrà conto dell’emergenza-carceri e che, subito dopo aver incontrato i rappresentanti dell’associazione magistrati, convocherà i rappresentanti della polizia penitenziaria”. Sardegna: Sdr; urgono linee guida regione per sanità penitenziaria Ansa, 2 dicembre 2011 “La sanità penitenziaria è un problema sociale. La Regione se ne deve fare carico interamente senza lasciare vuoti. I medici convenzionati Sias (Servizio Integrato Assistenza Sanitaria) sono preoccupati. Il 31 dicembre prossimo infatti scadranno i contratti per quelli impegnati nella colonia penale di Isili e negli Istituti di Sassari e Nuoro. Dagli incontri non sono ancora emerse le linee-guida e i tempi stanno per scadere”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme” a cui si sono rivolti alcuni operatori della sanità penitenziaria sottolineando il momento di grave difficoltà in cui si trovano i detenuti. “Il passaggio delle funzioni alle Asl e la piena responsabilità della Regione in materia di Sanità Penitenziaria - ricorda Caligaris - è avvenuta ormai da qualche mese, tuttavia molte questioni non sono state ancora affrontate. Gli operatori, ormai prossimi a concludere il contratto, paventano il rischio di utilizzare le Guardie Mediche anche per le necessità ordinarie. Si tratta di personale che non solo non conosce le problematiche connesse al rapporto con le persone private della libertà, ma il cui servizio è attivo solo la notte nei giorni feriali. Resta quindi irrisolto il problema della copertura sanitaria quotidiana”. “L’aspetto sconcertante - sottolinea la presidente di Sdr - è che aldilà della buona volontà dei singoli attori impegnati nell’esame delle questioni, non sono stati ancora definiti atti formali. È insomma urgente, visto anche l’approssimarsi delle festività natalizie, stabilire in che modo potranno essere garantite le emergenze interne alle strutture detentive. Dentro gli Istituti di pena infatti si trovano persone che hanno costante necessità di professionisti della salute. Mentre attualmente il personale medico e infermieristico è in grado, per la lunga esperienza pregressa, di gestire i momenti critici, la prospettiva delle Guardie Mediche non potrebbe garantire la prevenzione di atti di autolesionismo o suicidari e neppure le emergenze”. “La salute dei detenuti - conclude Caligaris - è una questione che riguarda l’intera comunità isolana perché è completamente nelle mani delle Aziende Sanitarie Locali. La Regione deve garantire ad adulti e minori privati della libertà i livelli essenziali di assistenza. Un’accelerazione nella piena attuazione della riforma è quindi una necessità improcrastinabile e resa ancora più urgente dalle condizioni in cui si trovano i cittadini privati della libertà negli Istituti di Pena sardi”. Lazio: in 6 anni +535% di detenuti iscritti a università Dire, 2 dicembre 2011 “In sei anni sono aumentati del 535% i detenuti delle carceri del Lazio che hanno deciso di iscriversi e di frequentare l’università. Dai 17 iscritti nell’anno accademico 2005/2006 si è, infatti, arrivati ai 91 attuali”. I dati sono stati diffusi dal garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, dall’assessore regionale alla Sicurezza ed enti locali, Giuseppe Cangemi, e dal provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, Maria Claudia Di Paolo. All’incontro hanno partecipato i rappresentanti istituzionali delle università (La Sapienza, Tor Vergata, Roma Tre e Tuscia) e diversi detenuti iscritti ai corsi di laurea. “Quando, nel 2005, iniziammo il nostro lavoro - ha detto il garante dei detenuti, Angiolo Marroni - i detenuti iscritti all’università erano solo 17, su oltre quattromila reclusi. Un dato insopportabile per chi, come me, ritiene che l’istruzione, la cultura e la formazione siano aspetti che non solo favoriscono l’affermazione di una cultura della legalità nelle carceri, ma sono anche in grado di incidere sul reinserimento sociale, di quanti sono sottoposti a regime di detenzione, come sancito dalla Costituzione. L’analisi dei fabbisogni formativi e culturali dei detenuti evidenzia, infatti, una forte marginalità ed esclusione sociale, legata alle poche opportunità di emancipazione, ai bassi livelli di istruzione e di formazione e ad una scarsa abitudine al lavoro. Per questo abbiamo studiato il modo di migliorare questo indicatore e ci siamo messi al lavoro, per agevolare quanti intendono utilizzare la detenzione per prepararsi ad un futuro diverso”. Le strade individuate dal garante per favorire l’accesso all’Università ai detenuti sono state due: da un lato la firma di un Accordo di programma con la Conferenza dei rettori delle università del Lazio (Crul), che ha spianato la strada alla stipula di protocolli d’intesa con i singoli atenei (Roma Tre, Tor Vergata), che prevedono forme integrate di collaborazione con l’obiettivo di offrire, ai detenuti, l’opportunità di accedere agli studi universitari, superando le limitazioni legate al loro stato. Dall’altro lato, l’ideazione nel 2006, del progetto ‘Teledidattica - Università in carcerè. L’iniziativa ha permesso di implementare un centro di servizi e-learning per la formazione a distanza, garantita da una piattaforma telematica. Le lezioni vengono riprese, riversate nel sistema e rese disponibili per gli studenti detenuti, che possono visionarle in due aule multimediali del carcere. Una biblioteca multimediale permette di consultare sia le lezioni necessarie all’esame, che quelle degli anni precedenti. Punto qualificante del progetto è il tutoraggio, che il docente svolge sia a distanza (in teleconferenza) che di persona, recandosi in carcere. Anche l’esame può essere sostenuto a distanza: il docente e un suo assistente si collegano in teleconferenza, mentre un altro docente, in carcere, affianca il detenuto garantendo il corretto svolgimento dell’esame. Di recente il progetto “Teledidattica”, indicato quale best practice da replicare in altre realtà, ha assunto rilievo nazionale grazie ad una circolare del Dap, che ha previsto, che i reclusi in regime di alta sicurezza in tutta Italia, possano essere trasferiti a Rebibbia Nuovo Complesso, ove decidano di iscriversi all’università. Nel polo di Rebibbia sono da ricordare i gruppi universitari della casa di reclusione e di Rebibbia Nuovo Complesso, iscritti soprattutto alla facoltà di Giurisprudenza della Sapienza e seguiti da un gruppo di volontari, che svolgono tutoraggio in carcere. A Regina Coeli, nella sezione precauzionale, è costituito un gruppo iscritto a Roma Tre, che utilizza una sala studio predisposta dalla direzione del carcere. A Roma Tre, sono iscritti anche diversi altri studenti, reclusi a Viterbo e Velletri. Con l’ateneo il garante ha diffuso, lo scorso luglio, un protocollo d’intesa, grazie al quale sono raddoppiati gli studenti immatricolati. Gli studenti reclusi al Mammagialla di Viterbo ed iscritti alla Tuscia, sono invece seguiti dall’associazione di volontari Gavac. A sostegno di queste iniziative il garante, con l’azienda regionale per il diritto allo studio universitario (Lazio Disu), ha assicurato il proprio supporto sia nella gestione delle pratiche amministrative legate alla carriera universitaria (iscrizione, pagamento tasse, prenotazione esami, autorizzazione del magistrato all’ingresso in carcere dei docenti), che nella didattica, con la fornitura gratuita di libri di testo e di materiale didattico. “Da un anno e mezzo- ha detto l’assessore regionale Giuseppe Cangemi- è nata una grande collaborazione sia con il Prap, che con il garante. Abbiamo abbassato gli steccati della diplomazia politica, ci siamo seduti intorno allo stesso tavolo ed abbiamo cercato di dare, ognuno per la propria competenza, il suo contributo. Nonostante il momento di crisi, la Regione ha mantenuto alto l’impegno per le problematiche delle carceri, impegnando un milione e 250.000 euro nella spesa corrente, uno stanziamento raddoppiato rispetto alla partenza, fondi che hanno permesso di finanziare diverse iniziative in carcere.” “Lo studio, la cura della cultura - ha detto il provveditore Maria Claudia Di Paolo - è un vero e proprio percorso di riabilitazione, che riesce ad abbattere le barriere del carcere ed aiuta i detenuti ad evitare quel collasso fisico e psicologico, che la detenzione inevitabilmente produce. La promozione della cultura e la sua valorizzazione, sono il vero viatico per recuperare quella dignità in carcere di cui tutti, a partire presidente della Repubblica, lamentano l’assenza”. “I risultati di questo impegno migliorano anno dopo anno - ha concluso il garante. Nel 2010/2011 gli iscritti erano 69, oggi siamo arrivati a 91 e ci troviamo a gestire richieste di iscrizione da tutta Italia. Agevolare questo percorso, vuol dire garantire la piena tutela del diritto all’istruzione, uno dei più violati in carcere, che invece è patrimonio di tutti, indipendentemente dalle condizioni in cui ciascuno si trova”. Venezia: lettera di protesta dei detenuti "viviamo in celle frigorifere” di Monica Andolfatto Il Gazzettino, 2 dicembre 2011 Le definiscono “celle frigorifere” utilizzando un gioco di parole quanto mai esaustivo per descrivere appieno la situazione in cui si trovano a vivere da reclusi a Santa Maria Maggiore. A firmare la lettera indirizzata al nostro giornale è Bruno Loprete, portavoce del malessere e della rabbia degli altri “colleghi” che in questo periodo dell’anno vedono aggravarsi le condizioni di vita, già precarie e al limite della tollerabilità per il cronico sovraffollamento denunciato in tutte le sedi, a causa del mal funzionamento dell’impianto di riscaldamento. “Ci viene in mente il termine “al fresco” - scrive Loprete - e ci farebbe persino sorridere se non fossimo troppo impegnati a imbacuccarci e a battere i denti. Abbiamo in forma pacifica fatto più volte presente il nostro disagio e in risposta solo e sempre alzate di spalle e un .’non dipende da me”, “non ci sono i soldi”. Ma chi come noi si sfoga - non ha santi in paradiso e non può permettersi sfilze di testimoni, processi brevi, processi lunghi, prescrizioni brevi... non viene neanche ascoltato”. Una missiva che prende spunto da quella inviata alcuni giorni fa sempre alla nostra redazione dalle carcerate della Giudecca: stessi toni, stessa esasperazione, stessa indignazione, stessi argomenti. “Siamo nelle stesse identiche condizioni” incalza Loprete, il quale comprende “l’anonimato delle ragazze per evitare delle “ripercussioni”. Un cahier de doleances rabbioso quello vergato dalle ospiti del casa circondariale femminile: bagni senza finestre, una doccia funzionante su quattro, due lavandini su due che sono inutilizzabili, mentre altri due hanno lo scarico su altrettanti secchi che vanno svuotati almeno 12-13 volte al giorno; nel mirino anche l’igiene della cucina e la qualità del cibo utilizzato e la pulizia delle stoviglie; e poi l’affondo sul riscaldamento che “rimane spento tutto il giorno e credetemi in questi stanzoni la cui struttura risale al 1.200 che per metà è già inagibile e a rischio di crollo, vi lascio immaginare il gelo, anche quello del cuore” viene sottolineato. Interpellata al riguardo la direttrice della struttura, Gabriella Straffi, aveva ridimensionato la portata delle accuse adducendo le disfunzioni ai lavori di restauro e ammodernamento in atto, fra cui la sostituzione di diverse tubature che ha comportato la chiusura dell’impianto per far uscire l’aria dai radiatori. Rispetto a queste motivazioni, Loprete è piuttosto scettico e continua: “Anche qui (ndr a Santa Maria Maggiore) ci sono problemi di caldaie e di spurghi. Non prevedibili?”. E nonostante tutto si dice fiducioso in un intervento, concludendo amaro: “Basterebbero tre ore, dalle 12 alle 15 di riscaldamento. Ci sono persone anziane, con malattie croniche, e il freddo non è proprio l’ideale... Chiediamo di scontare le nostre pene senza dover essere torturati gratuitamente. Dal freddo, dalla burocrazia e dai burocrati”. In questo quadro desolante anche la beffa dei finanziamenti stanziati per i lavori di ristrutturazione, ora stornati per la realizzazione del carcere nuovo in terraferma “di cui si sono perse le tracce” come ricorda Franco Fois, di Radicali Italiani, che ha effettuato l’ultima visita ispettiva a Santa Maria Maggiore, con il senatore Marco Perduca, lo scorso maggio. Lecce: Osapp; detenuti sono in protesta da mesi, ma tutti la ignorano www.ilpaesenuovo.it, 2 dicembre 2011 Da mesi a Borgo San Nicola c’è una protesta, fiera e costante, che tutti ignorano: ogni pomeriggio, intorno alle 15, va in scena la battitura delle inferriate con oggetti e pentole. In tutta la zona del carcere si diffonde l’eco, un rumore che sembra un grido disperato, un segnale che accomuna tutta la popolazione carceraria. Le sbarre, picchiate come un tamburo, sono un grido di indignazione. Questo mondo dimenticato chiede attenzione in modo civile, ma c’è molta tensione: l’istituto penitenziario leccese potrebbe ospitare solo 587 detenuti, la popolazione carceraria, invece, ancora in aumento, ha raggiunto quota 1.347. In cella si sta in tre, per venti ore insieme, in uno spazio di 11 metri quadrati. L’acqua calda finisce presto: c’è troppa gente per riuscire a garantirla a tutti. Il lavoro, la rieducazione, lo psicologo? Chiacchiere. Lo psicologo non può seguirli tutti in maniera appropriata, ecco perché alla polizia ogni tanto tocca sventare suicidi e atti di autolesionismo, senza mettere in conto le aggressioni. Gli operatori e gli addetti ai lavori sono esausti. C’è solo il 10% della popolazione carceraria impiegata in attività lavorative: per gli altri solo l’ozio e il vuoto. Le preoccupazioni sono destinate ad aumentare con la nuova circolare diramata dall’Amministrazione penitenziaria a tutti gli istituti penitenziari. Per molti detenuti può essere una buona novità: si potrà stare dietro le sbarre solo per il pernottamento, celle aperte per i meno pericolosi. “Una piccola rivoluzione nel tentativo di rendere meno dura la vita delle prigioni sovraffollate.”, secondo gli ideatori di questa misura. Per alcuni sindacati di polizia, invece, si tratta solo di un palliativo per risolvere il problema del sovraffollamento. La circolare nasce sull’onda di un’ordinanza rivoluzionaria del Tribunale di Sorveglianza di Lecce, che ha fatto discutere tutta Italia lo scorso settembre, con la quale l’Amministrazione penitenziaria è stata condannata a risarcire il danno esistenziale a un detenuto extracomunitario a causa del sovraffollamento del carcere di Borgo San Nicola. Entro tre mesi negli istituti dovranno essere pronte “sezioni aperte” dove i reclusi ammessi potranno muoversi a piacimento per l’intera giornata, al di là dell’ora d’aria prevista. Nessuno, però, si è chiesto se il carcere di Borgo San Nicola sia pronto per questa “rivoluzione”. L’Osapp lancia l’allarme: c’è un rischio effettivo di evasioni e disordini, il sistema non può funzionare con l’esiguità di uomini e risorse messe a disposizione. La Circolare del Ministero ribadisce quello che era stato sottolineato nella legge sull’ordinamento penitenziario(inapplicata per buona parte ancora oggi): “I trattamenti devono essere conformi a umanità e rispettosi della dignità della persona”. I detenuti saranno classificati sulla base della pericolosità, come negli ospedali(codice bianco, verde, giallo e rosso) e, in base a quest’ultima, un’apposità équipe decidera se consentire o meno il regime più leggero. Il presupposto da cui sono partiti gli ideatori della nuova misura è che “per larga parte della popolazione detenuta è possibile e saggio applicare un regime penitenziario più aperto”. Si stima che i detenuti italiani assegnati al regime di “media sicurezza” siano in 50mila e che, quindi, a questi debba essere concesso di tornare nelle “camere” solo di notte. Chi verrà inquadrato nel “codice bianco”, ovvero il recluso per reati che non hanno comportato violenza o minaccia alle persone potrà usufruire automaticamente dei vantaggi, per gli altri, incluse le persone rientranti nel codice rosso(omicidi, mafia e altro), l’équipe valuterà, volta per volta. Ma cosa faranno i detenuti “fortunati” tutto il giorno a spasso nella sezione di Borgo San Nicola? Dall’Osapp rispondono senza indugi: “Niente!”. Le strutture sportive non possono essere utilizzate, secondo il sindacato, perché mancano sorveglianti: a parte una passeggiata e qualche partita sul cemento, “il nulla”. Intanto si attende un intervento della politica. I radicali parlano di amnistia, ma non basta. Cè bisogno di un intervento incisivo: la depenalizzazione dei reati minori, per esempio. Il sindacato di polizia penitenziaria Sappe apprezza l’idea del neoministro Severino sull’utilizzo del braccialetto elettronico e di misure alternative per ripensare il carcere: del resto buona parte dei detenuti sono in attesa di una sentenza di condanna definitiva, alcuni sono anche innocenti. C’è uno solo problema: chi controlla i detenuti con il braccialetto? Bisognerà far uscire un po’ di poliziotti dagli uffici, come suggerisce Ruggiero D’amato dell’Osapp, oppure si troverà un altro palliativo? Intanto, la polizia penitenziaria non riesce nemmeno a coprire le spese della benzina. Forse i detenuti “fortunati”, lontani dalla cella, tra una passeggiata e l’altra, su e giù per la sezione, riusciranno a darci qualche buona idea, se non decideranno di evadere. Savona: direttore del carcere audito in Comune “interventi per migliorare la struttura” Savona News, 2 dicembre 2011 Audizione oggi in commissione consiliare welfare per il direttore del carcere Sant’Agostino di Savona Nicolò Mangraviti, il quale ha spiegato la difficile situazione della struttura penitenziaria savonese. Su richiesta avanzata dalla consigliere Pongilione e davanti alla presidente di commissione Lia Minetti ed ai consiglieri membri, il direttore ha sottolineato il complicato sovraffollamento del carcere, attualmente 20 detenuti in più rispetto alla capienza prevista. Tra i punti toccati la necessità di intervenire con lavori di manutenzione della struttura, in particolare per il contenzioso aperto sul nuovo possibile carcere il cui iter appare bloccato e che comunque non vedrebbe la fine dell’opera prima di 5-6 anni. Per questo servono subito interventi per migliorare la vivibilità del Sant’Agostino, agevolando anche il lavoro della polizia penitenziaria. Tra i progetti in cantiere stanze più ampie, uffici e nuovi ambienti per i carcerati che possano migliorare le attività trattamentali in vista di un reinserimento nella società, oltre a servizi per il personale operante nella struttura ed una nuova area verde all’esterno nella quale i detenuti potranno svolgere il tradizionale colloquio con i parenti. Non si escludono visite da parte degli stessi consiglieri comunali al carcere per verificare di persona la situazione. Il direttore ha chiesto sostegno per sviluppare attività per i detenuti extra-carcerarie, oltre alla possibilità di realizzare un giornalino dei detenuti. Savona: Sappe; basta chiacchiere, per il carcere servono interventi concreti Savona News, 2 dicembre 2011 Un carcere vergognoso, detenuti in celle senza finestre e grave carenza agenti. Servono provvedimenti concreti. “Uno Stato civile toglie la libertà a chi commette un reato e viene giudicato colpevole da un tribunale, ma non può togliere la dignità e attentare alla salute dei detenuti e di chi nelle carceri lavora, come le donne e gli uomini del Corpo di Polizia Penitenziaria. Il carcere Sant’Agostino di Savona è tra i peggiori d’Italia, con decine di detenuti ospitati in celle senza finestre e poliziotti in servizio con la luce accesa dei neon 24 ore al giorno. Chi amministra la città deve, dovrebbe, mettere in campo seri provvedimenti, non chiacchiere”. Lo dichiarano Donato Capece e Roberto Martinelli, Segretario generale e segretario generale aggiunto del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, il primo e più rappresentativo di Categoria. “Sentiamo parlare di visite al carcere e di possibili iniziative che non ci sembrano affatto utili a risolvere le criticità penitenziarie di Savona” spiegano i due sindacalisti. “Il carcere di Savona, che è opportuno ricordare essere da anni senza un Direttore titolare (anche se in Italia abbiamo quasi 600 Dirigenti penitenziari e circa 200 istituti di pena…), vede oggi presenti sistematicamente oltre 80 detenuti a fronte dei 36 posti letto regolamentari. Le criticità del carcere sono molte: i poliziotti penitenziari di Savona, che lavorano con una pesante carenza di organico perché dovrebbero essere in 60 ed invece sono amministrati 42 baschi azzurri, nel decorso 2010 sono intervenuti tempestivamente in carcere salvando la vita a 2 detenuti che hanno tentato di suicidarsi ed impedendo che in altri 7 episodi di autolesionismo e ferimento posti in essere da altrettanti ristretti potessero degenerare ed ulteriori avere gravi conseguenze. Queste problematiche sono aggravate dall’edilizia, dalla struttura fatiscente del penitenziario che non aiuta di certo. Basti pensare che spesso i detenuti trasferiti a Savona devono scendere dai mezzi nella centrale via Paleocapa perché la strada di accesso al carcere savonese è talmente stretta da impedite il passaggio degli automezzi della Polizia Penitenziaria. E allora assume particolare importanza quella di valorizzare concretamente il lavoro quotidiano svolto dai poliziotti penitenziari, a Savona come nelle altre città italiane, un duro, difficile e delicato lavoro svolto ogni giorno con professionalità, zelo, abnegazione e soprattutto umanità”. Capece e Martinelli tornano a chiedere “un impegno concreto per un nuovo carcere a Savona da parte dell’Amministrazione comunale” e, preso atto che il numero dei detenuti che lavorano a Savona è davvero minimale (nell’ordine di pochissime unità) ribadisce un concetto già espresso da tempo: “Bisognerebbe impiegare anche a Savona, come in tutte le Regioni e provincie d’Italia, i detenuti in progetti per il recupero del nostro patrimonio ambientale, la pulizia dei greti dei fiumi e dei torrenti e delle molte spiagge della territorio della provincia savonese. L’attivazione sul territorio nazionale di iniziative inerenti la promozione del lavoro è diventato obiettivo primario che l’Amministrazione Penitenziaria persegue al fine del coinvolgimento consapevole e responsabile dei soggetti in espiazione di pena in attività lavorative volte all’integrazione e al reinserimento nella comunità sociale. Tutto questo nella convinzione che il lavoro è uno degli elementi determinanti su cui fondare percorsi di inclusione sociale non aleatori. Impiegare in detenuti in progetti di recupero del patrimonio ambientale e in lavori di pubblica utilità a Savona e in provincia è una delle richieste storiche del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, motivata dalla necessità concreta di dare davvero un senso alla pena detentiva. I detenuti hanno prodotto danni alla società con i loro crimini e reati? Bene, la ripaghino concretamente, imparando anche un mestiere che potrebbe essere loro utile una volta tornati in libertà”. Nuoro: cessata la protesta del detenuto ergastolano che si è cucito la bocca Ansa, 2 dicembre 2011 Il detenuto del carcere di Badu ‘e Carros di Nuoro Alessandro Bozza, di 50 anni, di Vinosa (Taranto), che, ritenendosi vittima di una ingiustizia, nei giorni scorsi per protesta si era cucito la bocca per non mangiare e bere ha deciso di non proseguire nel suo atto di autolesionismo dopo un incontro chiarificatore con la direzione dell’istituto di pena. L’ergastolano si era lamentato che gli venisse precluso l’accesso al laboratorio, dove effettua piccoli lavori, a causa di un certificato medico che ne attesta la non idoneità. L’uomo, che si dedica alla confezione di creazioni artistiche quali i “libri-farfalla”, ha avuto in questi giorni anche vari attestati di solidarietà. “Alessandro coi suoi lavori ha reso più felice i miei bambini che tutti i giorni li ammirano nelle loro camerette”; “Alessandro rappresenta un’ottima eccezione che dovrebbe diventare la regola”: sono alcuni stralci di messaggi, giunti attraverso la posta elettronica all’ Associazione Socialismo Diritti Riforme, con cui vari cittadini hanno voluto esprimere vicinanza al detenuto. “La notorietà dei libri-farfalla, che l’uomo confeziona nel laboratorio dell’Istituto con la collaborazione di altri cittadini privati della libertà ed in regime di Alta Sicurezza, - ha spiegato Maria Grazia Caligaris, presidente dell’Associazione - ha determinato una particolare attenzione dell’ opinione pubblica. La vicenda ha avuto - ha concluso Caligaris - una positiva soluzione. L’uomo, che ha perso 12 chili, dopo un lungo incontro con la direttrice dell’Istituto e con il magistrato di Sorveglianza ha accettato di farsi togliere la cucitura. Chiariti gli equivoci relativi all’interpretazione di differenti certificati medici e migliorate le condizioni di salute, ha ripreso il lavoro nel laboratorio”. Sdr: attestati solidarietà a detenuto Badu ‘e Carros dopo protesta “Alessandro coi suoi lavori ha reso più felice i miei bambini che tutti i giorni li ammirano nelle loro camerette”. “Alessandro rappresenta un’ottima eccezione che dovrebbe diventare la regola”. Sono alcuni stralci di messaggi, giunti attraverso la posta elettronica all’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, con cui dei cittadini hanno voluto esprimere solidarietà e vicinanza al detenuto di Badu ‘e Carros Alessandro Bozza, che nei giorni scorsi, con un atto di grave autolesionismo, ha rifiutato cibo e acqua cucendosi la bocca. “La notorietà dei libri-farfalla, che l’uomo confeziona nel laboratorio dell’Istituto con la collaborazione di altri cittadini privati della libertà in regime di Alta Sicurezza, ha determinato - afferma Maria Grazia Caligaris, presidente di Sdr - una particolare attenzione da parte dell’opinione pubblica. Oltre ai messaggi scritti, i volontari dell’associazione hanno ricevuto alcune telefonate anche da conoscenti tarantini preoccupati per le condizioni di salute del detenuto”. “La drammatica vicenda, seguita con particolare apprensione dai familiari, ha infine trovato - sottolinea la presidente di Socialismo Diritti Riforme - una positiva soluzione. L’uomo, che ha perso circa 12 chilogrammi in pochi giorni, dopo un lungo incontro con la dott.ssa Patrizia Incollu, direttrice dell’Istituto, e con il Magistrato di Sorveglianza ha accettato di farsi togliere la cucitura. Chiariti gli equivoci relativi all’interpretazione di differenti certificati medici e migliorate le condizioni di salute, ha ripreso il lavoro nel laboratorio e la frequenza delle lezioni, ritrovando immediatamente serenità ed entusiasmo per le sue creazioni”. “È evidente - conclude Caligaris - che il dialogo è l’unico strumento utile per ripristinare meccanismi di autoconservazione e ridurre i drammatici effetti dell’esasperazione in soggetti che soltanto nella vita produttiva, anche dentro un piccolo laboratorio, sembrano ritrovare l’unico scopo dell’esistenza”. Forlì: “Manolibera”, quando la carta si rigenera in carcere www.ecodallecitta.it, 2 dicembre 2011 Inaugurata la cartiera artigianale Manolibera nella Casa Circondariale di Forlì: i detenuti produrranno preziose creazioni, da mettere poi in vendita, a partire da carta e cartone. Un progetto di Hera, in collaborazione con Techne e Comieco, che punta alla prevenzione della produzione di rifiuti e al riutilizzo. Un laboratorio artigianale, guidato da un artista e un maestro cartaio, che farà rinascere la carta grazie al lavoro dei detenuti del carcere. Si chiama Manolibera ed è stato inaugurato il 30 novembre presso la Casa Circondariale di Forlì. Si tratta di un piccolo atelier, il primo in Italia all’interno di un carcere, che tratta materie prime cartacee riutilizzabili, cioè carta e cartone non ancora diventati rifiuti. Con questo materiale Manolibera realizzerà eleganti manufatti artistici, carta da lettere e oggetti vari per enti, istituzioni, negozi e librerie. Un lavoro quotidiano per i detenuti, che favorirà le relazioni sociali tra di loro e verso l’esterno, preparandoli ad un futuro reinserimento sociale. Il progetto è stato realizzato da Hera in collaborazione con la Società Consortile di formazione professionale Techne, il Consorzio Nazionale Recupero e Riciclo degli Imballaggi a base Cellulosica Comieco, e la Cooperativa Cils di Cesena. L’idea è arrivata da Giuseppe Bertolino, pittore e scultore siciliano che vive a Forlì. Bertolino conduce da 8 anni il Laboratorio di Pittura dentro il carcere forlivese, con ottimi risultati. Partendo dalle sue sperimentazioni con materiali come tele e carte, ha coinvolto il maestro cartaio Franco Conti nella nuova avventura. Conti, originario della capitale della carta Fabriano (Ancona), vive invece a Catania, dove insegna all’Accademia delle Belle Arti e dirige la cartiera artigianale Aetna di Acireale. È consulente, inoltre, per cartiere in America, Africa e Italia, e conduce stage all’Università del Montana, negli Stati Uniti. Circa 10 detenuti, da gennaio 2011, hanno partecipato alla prima fase del progetto, dedicata alla formazione: hanno imparato la tecnica di lavorazione scelta, un procedimento di origine arabo-cinese, del tutto naturale, producendo opere con il torchio, usando i colori e gli inchiostri tipografici. Da oggi, cominceranno a lavorare su commesse: attraverso la cooperativa Cils, che offrirà loro un’opportunità di lavoro stabile e duratura, prenderanno dunque ordini per i loro quaderni, biglietti e scatole decorate. Ogni prodotto sarà debitamente certificato, per garantirne la provenienza dalla Casa Circondariale di Forlì. Agli enti ed imprese fondatori di Manolibera già citati, si sono poi aggiunti la Direzione Provinciale del Lavoro di Forlì-Cesena, la Provincia di Forlì Cesena, la Camera di Commercio, il Comune di Forlì, il Comune di Cesena e l’Unione dei Comuni del Rubicone. “È un progetto in cui crediamo molto: conferma l’impegno del Gruppo Hera nel coniugare l’attenzione per l’ambiente e la volontà di sostenere iniziative rivolte al sociale. Fa parte del nostro dna e rientra nelle linee guida della nostra responsabilità sociale d’impresa - ha commentato Franco Fogacci, Direttore Struttura Operativa Territoriale Hera di Forlì-Cesena. È pensato per andare al di là del semplice assistenzialismo: punta all’autosostentamento, con l’obiettivo di far diventare la cartiera un’attività produttiva vera e propria. In più, mira alla prevenzione della produzione di rifiuti: prima ancora di buttarla via, questa carta diventa arte e si rigenera, riducendo l’impatto ambientale”. “Prioritario - ha aggiunto Lia Benvenuti, direttore generale di Techne - è l’obiettivo produttivo del laboratorio, finalizzato a realizzare manufatti artistici, carta da lettere ed oggettistica varia, che dai prossimi giorni verrà commercializzata in librerie, negozi specializzati o rivenditori di belle arti”. In una fase successiva del progetto, Manolibera potrebbe produrre le proprie creazioni anche partendo da carta recuperata dalla raccolta differenziata. E le quantità, in questo caso, non mancherebbero: basti pensare che, solo nel 2010 Hera ha raccolto, nei 181 comuni che serve, 206 mila tonnellate di carta e cartone. Di questi, è stato recuperato il 90,3% (64,6 Kg per abitante). Secondo il Rapporto sulla Raccolta Differenziata di Carta e Cartone 2010 di Comieco, inoltre, la provincia di Forlì-Cesena è la seconda più virtuosa di tutta l’Emilia-Romagna per ogni abitante il dato di carta avviata al recupero è di 123 Kg, più del doppio di una media nazionale che nel 2010 non superava i 52 kg per abitante. Manolibera si aggiunge ad altri progetti in cui Hera è impegnata in prima linea per il coinvolgimento sociale e la diffusione della coscienza ambientale. Come Raee in Carcere, che ha avviato laboratori di pretrattamento e separazione per l’avvio al recupero dei rifiuti elettrici ed elettronici all’interno degli istituti penitenziari di Bologna, Ferrara e Forlì. E Raeebilitando, ideato insieme al Consorzio Remedia e Opimm, che a Bologna organizza attività formative con ragazzi diversamente abili, attivi nello smontaggio e nella separazione di Raee e così favoriti nell’inserimento lavorativo. Siena: Idv domani visita la Casa circondariale Adnkronos, 2 dicembre 2011 Domani, sabato 3 dicembre, alle ore 11, una delegazione di Idv Toscana guidata dal segretario regionale, on. Fabio Evangelisti, visiterà la casa circondariale di Piazza Santo Spirito a Siena. L’iniziativa, dopo la serie di sopralluoghi a tappeto effettuati quest’estate per denunciare le condizioni dei detenuti e del personale carcerario, nasce in particolare con l’intenzione di portare l’attenzione sulle difficoltà dei detenuti con Hiv (il primo dicembre ricorreva la Giornata Mondiale contro l’Aids), per conoscere concretamente le condizioni di chi è sieropositivo in carcere e del personale preposto alle loro cure e sorveglianza. Alla visita al carcere di Siena faranno, infatti, seguito dei sopralluoghi dei consiglieri regionali Idv in altre strutture detentive della Toscana. Alle ore 12.30, l’on. Evangelisti incontrerà la stampa alle porte del carcere per fare un bilancio della visita e sulle condizioni del personale e dei detenuti nella struttura senese. Porto Azzurro (Li): l’ora d’aria si trasforma in rissa, in due finiscono al pronto soccorso Il Tirreno, 2 dicembre 2011 Una banale lite durante l’ora d’aria. Poi gli animi si sono scaldati e tra due detenuti del carcere di Forte San Giacomo sono volate parole grosse fino al punto di arrivare alle mani. I due, entrambi di nazionalità rumena sotto i 30 anni, se le sono date di santa ragione. L’episodio è accaduto questo martedì. Gli agenti della polizia penitenziaria di stanza nel casa di detenzione sono dovuti intervenire nel cortile del carcere per sedare gli animi dei litiganti. Entrambi sono finiti al pronto soccorso per farsi medicare. Uno di loro ha riportato una sospetta frattura del setto nasale, l’altro invece si è fatto medicare per contusioni ed escoriazioni varie riportate durante la scazzottata. Avezzano (Aq) assaggio di libertà ai detenuti; partita contro comune, giudici e avvocati www.marsicalive.it, 2 dicembre 2011 Assaggio di “libertà” per alcuni detenuti del carcere di Avezzano che giocheranno ad “armi pari” con amministratori comunali, giudici e avvocati una partita di beneficenza alla palestra di via Pereto. L’incontro di calcetto, promosso dal Comune in sintonia con il direttore della casa circondariale, che sancisce la promessa fatta in occasione dei tornei di calcetto e calcio balilla svoltesi all’interno della casa di pena, è in agenda domenica alle 11. L’impegno, quindi, si trasforma in realtà grazie alla collaborazione tra gli amministratori e il direttore del carcere Mario Silla, il comandante delle guardie Giovanni Luccitti, i collaboratori e suor Benigna che hanno ottenuto le autorizzazioni per disputare l’incontro di calcetto fuori dalla casa circondariale dove i detenuti stanno scontando le pene. “La manifestazione all’insegna dello sport”, affermano il sindaco Antonio Floris e l’assessore allo sport Vincenzo “Pissino” Gallese, “consentirà un momento di aggregazione per i detenuti con l’auspicio che molti di loro possano avere al più presto la possibilità di un sereno reinserimento nella vita sociale”. Un assaggio di libertà per il gruppo di detenuti, quindi, in attesa di tornare cittadini liberi. La partita di calcetto, che sarà arbitrata dall’avvocato Alfredo Chiantini, vedrà schierati in campo il sindaco Antonio Floris, gli assessori Pissino Gallese, Luca Dominici e Lillino Ferreri, i giudici Giuseppe Grieco, Stefano Venturini e Francesco Elefante, l’avvocato Roberto Verdecchia, Francesco Floris, Andrea Di Vito, Corrado Tiburzi e Francesco Andreetti. Lecce: “Giorni scontati”, rassegna teatrale sul tema delle donne in cella di Elisabetta Politano www.ilpaesenuovo.it, 2 dicembre 2011 Uno spaccato di vita nel carcere femminile italiano ripreso da “Giorni Scontati”, questa la rassegna teatrale che sorprenderà, divertirà e commuoverà con l’attesa anche di qualche pregiudizio, in scena sabato al Teatro Paisiello a Lecce. “Giorni Scontati tutti uguali, anche quando non sono uguali”, “Giorni Scontati quelli già passati in carcere”, “Giorni Scontati segnati sui muri della cella per contare quelli che dividono dalla libertà”, “Giorni Scontati che scontati non sono mai”, un testo che vuol smascherare il “silenzio assordante del carcere”. Tutto ciò attraverso una commedia che è un vero e proprio viaggio nell’universo del mondo carcerario femminile, in cui quattro donne si ritrovano a dividere una cella, vivendo situazioni divertenti, disperate e grottesche. Quattro storie a confronto con caratteristiche totalmente diverse che allo stesso tempo si amano e si odiano, interagendo tra risate e pianti, tra naturalezza e sopportazione, ma soprattutto convivendo e imparando a vivere in un luogo che in poche parole è la negazione della vita, dove viene annullato ogni tipo di gesto quotidianamente naturale. Attualmente quasi 70mila persone vivono negli istituti penitenziari in condizioni spesso disagiate. Ognuno di noi “esterni” sa perfettamente dell’esistenza delle carceri, a volte situate anche in pieno centro cittadino, ma la maggior parte dei cittadini, spesso ne ignora l’esistenza. Il progetto a questo punto sostiene l’idea che il teatro debba occuparsi di questa realtà, definita anche come un problema da risolvere e rendere così il pubblico partecipe di un dramma che ai più risulta essere sconosciuto. Le autrici di “Giorni Scontati”, Antonella Fattori e Daniela Scarlatti dichiarano infatti: “Si tratta di un testo al tempo stesso leggero, crudo, poetico, passionale che svela uno spaccato di vita in un carcere attraverso la voce di quattro detenute molto diverse tra loro. È l’universo femminile che riesce, anche in situazioni difficili, a fare gruppo, a vivere e subire la privazione di libertà e la violenza in un modo molto diverso dagli uomini - e continuano - Il microcosmo oppressivo e claustrofobico del carcere diventa una lente di ingrandimento di sentimenti e situazioni che spesso cerchiamo di negarci e che abbiamo provato a portare alla ribalta senza finzione, mettendoci in gioco, provando a dare senso a vite negative”. Il pubblico in questo modo verrà trascinato dalle loro storie, divertendosi alle loro battute, immedesimandosi nella loro quotidianità così vicina e nello stesso tempo così distante dalla nostra. Chieti: teatro senza sbarre per i detenuti, per la prima volta reciteranno fuori dal carcere Il Tempo, 2 dicembre 2011 Sono i detenuti della Casa circondariale di Chieti i protagonisti del weekend di solidarietà “Volontariamente”, giunta alla quinta edizione, in programma domani all’auditorium De Cecco in piazza Unione, a Pescara. Un progetto al quale la direttrice del carcere, Giuseppina Ruggero, ha lavorato con acume e passione. I detenuti hanno fatto tutto da soli, dalla messa in scena alla recita vera e propria con 16 attori, 6 dei quali sono gli stessi che hanno scritto racconti raccolti nel libro “Outlet shopping”, edito dal Città Sant’Angelo Village. Il sabato speciale dei detenuti teatini si inscrive nel programma organizzato dal Centro servizi per il volontariato di Pescara che assegna riconoscimenti ad Anffas, Banco di solidarietà e Prossimità alle istituzioni per le attività svolte durante il 2011. La cerimonia inizia alle ore 17.30 con un convegno, quindi alle 17 vengono consegnati i riconoscimenti che consistono in buoni acquisto da 200 euro ai presidenti dell’Anffas Maria Pia Di Sabatino, del Banco di solidarietà Francesco Grilli e di Prossimità alle istituzioni Domenico Trozzi, con la presentazione della giornalista Cristina Mosca. Alle 20.30, il momento conclusivo e anche più atteso con la rappresentazione di “Natale in casa Cupiello” a cura dei detenuti di Madonna del Freddo, che in passato si sono cimentati con altri capolavori di Eduardo De Filippo. “L’idea è nata proprio assistendo a uno di questi spettacoli, “Napoli milionaria” - racconta il presidente del Csv Pescara Mauro Moretti - Io e il mio amico Lorenzo Di Flamminio rimanemmo colpiti dalla bravura di tutti e in particolare dalle parole di una ragazza:”Nessuno potrà mai cancellare il desiderio di bellezza che c’è in noi”, una frase che è rimasta scolpita nel nostro cuore”. Israele: detenuti palestinesi in protesta contro punizioni dell’amministrazione carceraria Info Pal, 2 dicembre 2011 Mercoledì scorso avevano proclamato lo sciopero della fame fino al giorno successivo, giovedì 1° dicembre. I detenuti palestinesi nella prigione israeliana di Nafha hanno voluto così protestare contro le punizioni da parte dell’amministrazione carceraria israeliana. L’associazione Wàed per i prigionieri sostiene che l’accaduto, vere e proprie aggressioni fisiche contro detenuti, non si riportavano da lungo tempo con la brutalità usata ieri dagli israeliani. In reazione allo sciopero indetto dai prigionieri palestinesi, ufficiali carcerari israeliani hanno preso d’assalto le celle. Nella sezione 11 è stata tagliata la corrente elettrica e, per il secondo giorno consecutivo, sono state serrate le porte vietando ai prigionieri di uscire, mentre 8 detentui palestinesi sono stati confinati all’isolamento. Abdallah al-Qandil, addetto all’informazione per Wàed, avverte su quanto accade nelle prigioni israeliane alla luce della prossima fase di scambio dei detenuti e informa che i prigionieri palestinesi sono determinati a chiedere il rispetto dei propri diritti. “In dieci sono rimasti feriti negli assalti di ieri mattina”, lo conferma il ministro per gli Affari dei Prigionieri, Isaa Qaraqe, che torna a chiedere fermezza nel pretendere da Israele legalità all’interno delle carceri”.