Giustizia: il caso Mora, il carcere e gli equivoci dei “garantisti” di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 29 dicembre 2011 Se ti interessi alla sorte di Lele Mora, in carcere (preventivo) da sei mesi e in condizioni di salute pietose, ti esortano a occuparti piuttosto dei “poveri cristi”, e non dei “vip”. Se però i Radicali di Palmella passano il Natale davanti ai cancelli di Regina Coeli per denunciare la triste sorte dei “poveri cristi” dietro le sbarre, non va bene lo stesso. E se il neo-ministro Severino si mostra sensibile su chi, vip o povero cristo, subisce l’oltraggio di una detenzione vissuta in condizioni incivili, allora attaccano indignati, o addirittura fanno gli spiritosi sul cognome: Severino sia più severa. Severa con gli altri, ovvio, secondo l’eterno doppiopesismo italico. Indifferenti alle ragioni dello Stato di diritto e ai principi della civiltà giuridica, non trovano scandaloso che oltre il 40 per cento dei detenuti patisca la galera prima che un processo ne accerti incontrovertibilmente la colpevolezza. Vip o poveri cristi non fa differenza: devono marcire in carcere malgrado la tutela costituzionale della presunzione di innocenza. I garantisti di “destra” amano le garanzie solo per loro, mentre i “poveri cristi”, emarginati, immigrati e miserabili non smuovono la loro dimidiata sensibilità. Quelli di sinistra sono una pattuglia eroica ma minoritaria, sommersa da una cultura giustizialista che ascolta solo le ragioni dell’accusa e considera quelle della difesa un deplorevole impedimento nella marcia trionfale della verità degli inquisitori. Poi c’è la ferocia diffusa che chiede provvedimenti esemplari contro “l’antipatico”, il soggetto moralmente discutibile, e addirittura contro il soggetto esteticamente impresentabile. Che Lele Mora abbia perduto molti chili per la disperazione della galera è la miccia, per molti frequentatori dei social network, di sfrenati sarcasmi sul corretto regime dietetico che starebbe finalmente affilando il flaccido malfattore (presunto). Che sei mesi di galera preventiva per un reato come la bancarotta fraudolenta appaiano una punizione leggermente esagerata prima ancora di una sentenza giudiziaria, non è argomento che colpisca gli emuli del Bracardi che gridava scomposto una sola, martellante, maniacale invocazione: “In galera!”. Che spesso la galera sia usata dagli inquirenti per indurre l’indagato a conformarsi alla versione imposta da chi lo tiene in cattività, non è considerato un abuso. Se si mostra pietà e rispetto per la sorte di un detenuto di nome Lele Mora, è facile finire sommersi dalle invettive di chi scambia la giustizia con il linciaggio. Sulla figura di Lele Mora si possono nutrire o più vivi sentimenti di ostilità e persino di repulsione, ma l’aspetto fisico sgradevole non è un reato, il peccato non è reato. Anche i “poveri cristi” che affollano le carceri possono essere colpevoli, oppure no, giudicherà un processo giusto. Ma non conta: conta che la carceri sovraffollate sono uno schiaffo alla civiltà. Conta soprattutto che si sta imponendo come se fosse circostanza normale l’abitudine di compensare l’incertezza della pena da scontare dopo una sentenza di condanna con la certezza di una pena preventiva che viene somministrata senza che un processo regolare, rispettoso dei diritti della difesa, dimostri al di là di ogni ragionevole dubbio che l’indagato sia effettivamente colpevole e meritevole della detenzione. Solo i Radicali denunciano l’anormalità scandalosa di questa nuova prassi, che sia applicata ai poveri cristi come ai vip. Dicono che Alfonso Papa, liberato dopo mesi di detenzione autorizzata dal Parlamento, voglia sposare la causa dei detenuti trattati ingiustamente. Proposito meritevole, sebbene si sussurri a Napoli che il Papa magistrato non conosceva remore quando si trattava di spedire qualcuno a Poggioreale, in attesa di giudizio. Non bisogna conoscere personalmente la galera, per denunciarne gli abusi e le ingiustizie. E non bisogna ammalarsi come Lele Mora (colpevole o innocente non importa) per arrivare a comprendere che la carcerazione preventiva prolungata può essere una tortura. Per questo la battaglia radicale contro le iniquità delle carceri italiane è una battaglia giusta. A favore della giustizia, non del folto esercito delle tricoteuses nostrane. Giustizia: nelle carceri italiane siamo tutti “poveri cristi” di Alfonso Papa (Parlamentare Pdl) Corriere della Sera, 29 dicembre 2011 Scrivo non perché chiamato in causa dall’acuto e sempre autorevole Battista nel suo editoriale sul carcere e Lele Mora. Scrivo perché condivido lo spirito e il messaggio di tale articolo, che evidenzia le anomalie, le storture e le torture della custodia cautelare in Italia. È per tale motivo che propongo affettuosamente a Pierluigi Battista di continuare questa sollecitazione e questa battaglia con spirito critico e di approfondimento. In tal modo, da uomo colto e scrupoloso qual è, potrà anche applicare tali parametri alle citazioni che fa della mia persona e, anziché abbandonarsi al dicunt caro ai delatori e a giornalisti di calibro ben inferiore e diverso rispetto a quello dello straordinario Battista, approfondire la mia storia di garantismo come esponente dell’Associazione nazionale magistrati e le mie posizioni spesso controcorrente da pubblico ministero a sostegno della tutela delle garanzie di difesa e di libertà dell’indagato e dell’imputato nel processo. Tra gli articoli che nell’estate 2011 hanno accompagnato il mio viatico al carcere conservo, tra gli altri, alcuni che riflettevano come certe mie posizioni garantiste da magistrato si giustificavano con la mia presunta mancanza di deontologia. Appresi così che secondo alcuni giornalisti un buon pubblico ministero è uno che arresta tanta gente. Battista sa bene che, se fossi stato invece quel “manettaro” che non sono mai stato, in quegli stessi giorni sicuramente qualcuno avrebbe detto che il mio essere un giustizialista sarebbe stata la riprova comunque della mia mancanza di deontologia. Ma Battista è un galantuomo e un intellettuale coraggioso, e so che si documenterà mentre, nel frattempo, io con lui e spero con altri aderisco alla sensibilizzazione sul dramma della famiglia Mora sperando di meritare, quando Battista avrà tempo, un po’ di approfondimento in più, subordinato alla soluzione di questioni ben più gravi quali salvare la vita ai “poveri cristi” che troppo spesso nelle carceri italiane ci muoiono. E nelle carceri italiane, mi si creda, siamo tutti poveri cristi. Giustizia: il governo e le carceri… di Silvio Pergameno Notizie Radicali, 29 dicembre 2011 La tragica condizione di sovraffollamento delle carceri italiane non sembra trovare un rimedio di rilievo nei progetti del governo, che propone soltanto alcune misure la cui portata potrebbe risultare molto modesta, restando quindi affidato all’attenzione del Parlamento ogni intervento più incisivo. Da parte governativa sono annunciate infatti due misure contenute in un decreto legge, e cioè lo sconto della pena residua al domicilio dei detenuti che debbono scontare ancora una pena inferiore ai diciotto mesi (sono circa 3.300) e l’abolizione delle così dette “porte girevoli” che riguardano i circa 21.000 soggetti ogni anno, autori di piccoli reati, per i quali però è previsto l’arresto e che vengono scarcerati dopo tre giorni. Queste persone dovrebbero passare questi tre giorni nelle camere di sicurezza delle questure o dei carabinieri. Si tratta di una bella cifra complessiva, ma il risultato potrebbe anche risultare in definitiva parecchio limitato. Occorre infatti tener conto della circostanza che l’affollamento delle carceri è determinato non soltanto dal numero dei detenuti in cifra assoluta, ma da questa cifra moltiplicata per il numero dei giorni di permanenza all’interno degli istituti di pena. A voler fare dei conteggi sia pure di massima occorre tener conto prima di tutto del fatto che, per poter effettuare una valutazione complessiva della portata del provvedimento concernente le “porte girevoli”, che cancellerebbe - si può calcolare - 63.000 giornate di presenza carceraria, occorrerebbe conoscere con sufficiente approssimazione quante sono le complessive giornate di presenza nelle carceri. Se i ventimila e più detenuti soprannumerari sono un dato sia pur approssimativamente costante lungo la durata di tutto l’anno, le giornate di presenza in più da eliminare in un anno per restituire alle nostre prigioni un carico pari all’effettiva capienza ammonterebbero a una cifra tra i 7 milioni e i 7 milioni e mezzo. Ed è poi necessario considerare la circostanza che la proposta dei domiciliari per coloro che debbono scontare meno di 18 mesi di pena riguarda un numero non grande di detenuti, per molti dei quali il residuo periodo di carcerazione può anche essere di pochi giorni; facendo una media si potrebbero risparmiare forse 500 mila giornate di presenza all’anno. E in questo secondo caso si tratta poi di persone che hanno subito un regolare processo, mentre il sovraffollamento delle carceri è determinato dalla presenza di soggetti in attesa di giudizio, non pochi dei quali, stando alle statistiche, finiranno pure assolti (con ulteriori spese per i risarcimenti...). Giustizia: dura lex sed lex di Alessandro De Nicola L’Espresso, 29 dicembre 2011 Alla conferenza stampa di presentazione delle misure del suo governo, una delle frasi ad effetto del premier Mario Monti era stata: “Una misura di lotta all’evasione è una non misura: i non condoni”, Applausi a scena aperta e, aggiungo io, con piena ragione. Già nei giorni precedenti, peraltro, il neoministro dell’Ambiente, Clini, aveva dichiarato: “Basta coi condoni edilizi. Sono pericolosi”, guadagnandosi diffusa simpatia e approvazione. Ritorniamo nel pianeta giustizia e scopriamo che dopo qualche giorno da queste affermazioni, il governo ha approvato il “pacchetto giustizia” predisposto dal ministro Paola Severino e di cui uno dei punti qualificanti è la possibilità di scontare gli ultimi 18 mesi (invece di 12) dì pena detentiva agli arresti domiciliari eccetto per i colpevoli di reati particolarmente gravi o che il magistrato non reputa idonei. Inoltre, il ministro, pur ricordando che un eventuale provvedimento di amnistia spetta al Parlamento, ha fatto capire che lei non si opporrebbe affatto. C’è contraddizione tra la Severino e Monti? Spiacente dirlo, sì, eccome. 1 provvedimenti svuota carceri, comunque li si chiami (amnistia, indulto, indultino, commutazione della pena) sono ingiusti ed inefficienti, allo stesso modo dei condoni. Prima di tutto non risolvono il problema. La serie storica dei ben 32 atti di clemenza dal dopoguerra ad oggi mostra inequivocabilmente due fatti. 11 primo è che non appena le celle si svuotano, in brevissimo tempo si riempiono di nuovo superando il numero precedente di ospiti. Il secondo è che vi è un legame diretto tra rilascio di detenuti e successivo aumento della criminalità. Tali conclusioni non devono affatto stupire: una delle funzioni essenziali della pena è la rieducazione e difficilmente si rieduca qualcuno dandogli la sensazione di impunità. Un’altra è la prevenzione generale del crimine: il delinquente “razionale” fa un calcolo implicito e moltiplica il beneficio che riceve dal commettere un delitto per la pena che gli viene comminata e la probabilità di essere beccato e di scontarla: se il risultato è positivo, violerà la legge. Se introduciamo in queste variabili una sempre più bassa probabilità di effettivamente pagare fino in fondo per ciò che si è commesso, diventa oltremodo efficiente delinquere. Il crimine paga, in altre parole, e montagne di studi di analisi economica, a partire da quelli del Nobel Gary Becker, stanno lì a dimostrarlo. Peraltro, in Italia i provvedimenti-tampone sono la scorciatoia tipica della classe politica per evitare di risolvere i problemi e quello della capienza dei penitenziari esiste ormai da decenni e non saranno i 57 milioni stanziati dal governo a risolverlo. Invece che discettare di amnistia, si dovrebbe procedere speditamente con i braccialetti elettronici, accompagnati però dall’introduzione di un sistema che preveda cauzioni e “garanti di cauzione” come negli Stati Uniti. Piuttosto che insistere con il Ponte di Messina (e, forse, con la Tav), si crei allora una partnership coi privati per far riadattare le centinaia di caserme inutilizzate (luoghi chiusi e protetti, pensati per contenere un numero elevato di maschi adulti), trasformarle in prigioni per rei a bassa pericolosità sociale o a fine pena affidando agli imprenditori i servizi di gestione delle stesse, esclusa la sorveglianza (io sarei favorevole a privatizzare anche questa, ma è inutile perder tempo in polemiche). È una soluzione adottata da molti Paesi evoluti e gli studi effettuati ne attestano, in generale, la validità economica. Privatizzare, umanizzare, moralizzare, rendere efficiente il sistema: è per questo genere di soluzioni innovative che ci siamo affidati ai tecnici, no? Giustizia: in galera? non ci si finisce più di Bruno Tinti Il Fatto quotidiano, 29 dicembre 2011 Di come sia sbagliato utilizzare le risorse della giustizia penale per fare i processi di microcriminalità ho già scritto: mentre giudici e pm vagano per le camere di sicurezza sparse tra caserme e questure e si dannano per fare decine di direttissime ogni giorno per furticiattoli e piccolo spaccio, i processi importanti restano sulla scrivania; e la prescrizione galoppa. Qui voglio trattare di un’altra riforma del nuovo ministro della Giustizia, l’aumento da un anno a 18 mesi per la libertà controllata o detenzione domiciliare: per pene che non superino l’anno e mezzo non si entra in prigione, si sta a casa propria. Il ministro Severino queste cose le sa. Ma chi legge no. La pena inflitta dal giudice è finta, se ne fa davvero circa la metà, con l’eccezione degli ultimi quattro anni: questi non si fanno per niente. Non ci si crede, vero? Invece... Art. 48 dell’ordinamento penitenziario: dopo aver scontato metà della pena si è ammessi alla semilibertà. Significa che di giorno si va in giro a lavorare ; e di notte si torna in prigione a dormire. Trent’anni? Fatti 15, te ne vai la mattina e torni la sera. Già sembra incredibile ma, in realtà, è ancora peggio di cosi perché... Art. 54: ogni anno di prigione vale nove mesi. Se non hai fatto casino (non se ti sei comportato bene, se hai prestato servizio gratuito in infermeria, se hai aiutato le guardie carcerarie a domare una rivolta, no, questo sarebbe troppo; basta che non hai combinato guai) ogni anno ti abbuonano tre mesi. Quindi i 15 anni teorici (la metà dei 30 che ti hanno dato) sono in realtà undici anni e 25 giorni, fatti i quali te ne vai la mattina e torni la sera. Ma non è vero nemmeno questo perché... Art. 30 ter: ogni anno hai diritto a 45 giorni di permesso (con qualche eccezione). Quindi gli undici anni sono in realtà (più o meno) nove anni e due mesi, fatti i quali te ne vai la mattina e torni la sera. Naturalmente questi calcoli variano a seconda della pena che il giudice ti ha inflitto: più o meno in prigione ci si passa davvero meno di un terzo della pena originaria. Ma non è vero nemmeno questo perché... Art. 47 ter: arrivati a quattro anni dal fine pena teorico si concede la detenzione domiciliare, la pena si sconta in casa propria o in qualsiasi altro luogo che il detenuto richieda. Avete capito bene: quando mancano quattro anni al fine pena, si può stare a casa propria. O all’Hotel Excelsior, se si hanno abbastanza soldi. Quello a cui forse non avete pensato è che, se uno è stato condannato a quattro anni tondi ha diritto alla detenzione domiciliare da subito. C’è il fastidio di entrare in carcere, aspettare che l’avvocato abbia fatto richiesta al giudice di sorveglianza e che questi abbia emesso il provvedimento; poi però detenzione domiciliare: più o meno 15 giorni e se ne torna a casa. Ma attenzione, anche qui il tempo vola e la legge Gozzini (l’art. 54) continua a operare: ogni anno vale nove mesi, vi ricordate? Sicché, fatti nove mesi di detenzione domiciliare (il primo anno), quando mancano teorici tre anni al fine pena... Art. 47: affidamento in prova al servizio sociale. Liberi come l’aria, salvo l’obbligo di fare qualcosa di utile per la società. Per dire, Previti (per via dell’indulto che gli abbuonava tre anni, doveva farsi ancora un paio d’anni) andò a lavorare presso il Centro Italiano di Solidarietà di Castel Gandolfo; luogo ameno se mai ce n’è stato uno: ci va anche il Papa. Riassunto: il condannato a quattro anni di prigione fa nove mesi di detenzione domiciliare; quello condannato a cinque fa un anno e mezzo e via così; poi affidamento in prova al servizio sociale. Non è azzardato concludere che delinquere conviene. Tanto più che nessuno che abbia commesso i reati che ti fanno guadagnare soldi (soldi veri) è mai condannato a più di quattro anni di reclusione. Frode fiscale, falso in bilancio, corruzione, riciclaggio, insider trading etc. “costano” da uno a tre anni a dire tanto. Sicché, se gli va male, affidamento in prova; e se gli va bene, (cioè quasi sempre, questa è la realtà nelle aule giudiziarie e il ministro lo sa benissimo) sospensione condizionale della pena (per condanne fino a due anni) o pena sostituita (per condanne fino a sei mesi, 7.000 euro di multa). A tutto questo si deve aggiungere l’indulto per cui, per i reati commessi fino al maggio 2006, oltre a tutti i regali che ho descritto fino ad ora la pena concreta è comunque più corta di tre anni; e la prossima amnistia, alla quale il ministro Severino “non è contrario”. Adesso, a parte che tutte queste semilibertà, detenzione domiciliare, affidamento in prova, permessi e compagnia cantando costano un sacco di lavoro a Polizia e Carabinieri perché qualcuno dovrà pur controllare che questi delinquenti (sono stati condannati, no?) non vadano a delinquere di nuovo, il che è quasi sempre quello che capita. Ma si sentiva proprio il bisogno di non far fare nemmeno un po’ di galera a chi comunque ne sconterebbe pochissima di quella che gli tocca? Il ministro Severino ci ha pensato che la detenzione domiciliare si applica a quelli che non possono usufruire della sospensione condizionale della pena? Quindi stiamo parlando di gente che almeno un altro reato, probabilmente due (la sospensione condizionale “copre” due anni e condanne di tale livello non sono frequentissime) lo ha già commesso. E che diavolo, ma cosa bisogna fare per finire in galera? Giustizia: Ass. Antigone; il miglior auspicio per il 2012 è l’abrogazione della legge Cirielli Adnkronos, 29 dicembre 2011 “Se avessi la bacchetta magica e un solo desiderio da esaudire, abrogherei quel brutto provvedimento che è la legge Cirielli e ridarei slancio alle misure alternative” al carcere. Per Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone, questa è la principale priorità per il nuovo anno che si profila all’orizzonte. La legge in questione, “che prende il nome dell’attuale presidente della Provincia di Salerno”, ricorda Gonnella, venne varata nel 2005 e subito accusata da Antigone di far entrare in carcere 20 mila persone in più l’anno, per lo più - accusava e continua ad accusare l’associazione - immigrati, tossicodipendenti, autori di piccoli crimini. Legge Cirielli in pensione, dunque, ma auspici a parte Antigone guarda con fiducia al futuro. “Si è riaperto un dialogo che era ormai interrotto da tempo - spiega Gonnella - vedremo il ministro della Giustizia a gennaio. Speriamo che questo confronto porti a soluzioni nel nome dei diritti umani, che si traducano in una riduzione della sofferenza nelle carceri. Troveremo insieme la via, che non passa necessariamente in un aumento delle risorse, in più soldi, ma deve puntare soprattutto sull’individuazione di buone pratiche”. Giustizia: detenuti ammessi al lavoro esterno, l’atto è di natura amministrativa di Alberto Marcheselli www.ipsoa.it, 29 dicembre 2011 La qualificazione come atto di natura amministrativa e non giurisdizionale del provvedimento di approvazione dell’ammissione di un detenuto al lavoro esterno: è quanto emerso da una pronuncia del Magistrato di Sorveglianza di Alessandria. Trattasi infatti di atto che, seppur adottato da un organo giurisdizionale, in quanto rivolto a dare esecuzione al provvedimento di ammissione al lavoro extra murario emesso dalla Direzione dell’Istituto di Reclusione, viene ricompreso nel procedimento amministrativo finalizzato all’adozione del provvedimento di ammissione stesso che, in tema di ordinamento penitenziario, ha natura amministrativa. Viene confermato quindi l’orientamento della Corte di Cassazione che si è sempre pronunciata affermando la natura amministrativa del provvedimento di approvazione del Magistrato di Sorveglianza, configurandosi quale atto privo di autonomia dispositiva che si inserisce in altro procedimento, per cui ha escluso sia l’esperibilità dei mezzi di impugnazione previsti dal c.p.p. sia la ricorribilità ex art. 111 Cost., non potendosi la materia, riservata all’autorità carceraria, farsi rientrare in quella relativa alla libertà personale. (ad esempio Cass. Pen. Sez. I, 23 giugno 1993, n. 2985; Cass. Pen. Sez. I, 19 maggio 1995, n. 3063.) Precisata la natura amministrativa del provvedimento di approvazione dell’ammissione al lavoro esterno del detenuto, ne consegue l’applicazione dei principi che disciplinano l’attività amministrativa: in particolare, la pronuncia in questione sottolinea l’applicazione del principio di autotutela per cui la pubblica amministrazione può riesaminare criticamente la propria attività in vista dell’esigenza di assicurare il più efficace perseguimento dell’interesse pubblico ed eventualmente correggerla mediante la revoca di un provvedimento per sopravvenuti motivi di pubblico interesse ovvero nel caso di mutamento della situazione di fatto o di una nuova valutazione dell’interesse pubblico originario o l’annullamento d’ufficio di atti illegittimi. A pieno titolo quindi, come rappresentato dal decreto in esame, nel caso di riproposizione per l’approvazione all’Ufficio di Sorveglianza di un provvedimento di ammissione al lavoro esterno riguardante un detenuto precedentemente ammesso dallo stesso Ufficio di Sorveglianza ad un’attività lavorativa esterna non eseguita per problematiche successive connesse agli orari e/o al luogo di lavoro, l’Ufficio di Sorveglianza può negare l’approvazione, trattandosi di legittimo esercizio del potere di rimuovere i propri atti attraverso gli strumenti della revoca e/o annullamento; con la negazione dell’approvazione adottata con provvedimento esplicito debitamente motivato, l’Ufficio di Sorveglianza manifesta implicitamente la volontà revocatoria del precedente provvedimento di approvazione dell’ammissione al lavoro esterno nei confronti dello stesso detenuto, come chiaramente deducibile dall’incompatibilità del contenuto dei due provvedimenti. Giustizia: intervista a Rita Bernardini… se i bei discorsi non bastano di Lanfranco Palazzolo Voce Repubblicana, 29 dicembre 2011 Gianfranco Fini si è comportato male nei confronti di Alfonso Papa. Lo ha detto alla “Voce Repubblicana” l’onorevole Rita Bernardini, Radicale iscritta al gruppo parlamentare del Pd. Onorevole Bernardini, lei ha chiesto la chiusura del carcere di Regina Coeli. Quali sono le condizioni di questo istituto penitenziario? “In questo carcere è detenuto il doppio delle persone che potrebbe contenere. Regina Coeli dovrebbe essere riportato nella sua pianta regolamentare oppure dovrebbe essere chiuso definitivamente. In questa situazione, il carcere di Regina Coeli non può andare avanti. In questo carcere tutto è destinato all’usura perché si rovina. Qui ci troviamo di fronte ad un grave problema di legalità. Noi non possiamo accettare che ci siano istituzioni che sfuggono al controllo delle Asl, come accade per molti penitenziari italiani. Le Asl non svolgono i controlli che dovrebbero fare periodicamente. Questa mancanza di attenzione inette in serio pericolo l’incolumità delle persone che lavorano dentro questo carcere. Il fatto che in questo carcere ci siano i letti a castello a tre piani, in celle da 7 metri quadrati, è il segno di una precarietà inaccettabile. Inoltre, in questa vicenda chiamiamo in causa anche il magistrato di sorveglianza, che abbiamo investito del problema. Il dott. Tamburino è responsabile del trattamento dei detenuti. In alcune parti di questo carcere la situazione non è mai cambiata rispetto alle richieste che avevamo formulato precedentemente. In una sezione di questo carcere i detenuti dormono con il materasso per terra”. Cosa chiedete al Presidente della Repubblica? “Il Capo dello Stato aveva pronunciato un bel discorso sulla situazione delle carceri a luglio, quando avevamo organizzato il dibattito sulla condizione degli istituti, ma poi, quando c’è stato il dibattito alla Camera e al Senato, non ha inviato nemmeno un messaggio alle Camere. Non abbiamo più sentito il Presidente della Repubblica denunciare la condizione di illegalità in Italia. Credo che sia più che giusto chiamare in causa il Capo dello Stato”. Come ha trovato il modo in cui è stata trattata la carcerazione preventiva di Papa? “Noi radicali abbiamo presentato un’interrogazione su questo argomento. Se a luglio si poteva giustificare l’arresto di Papa, una volta chiuse le indagini e con una sentenza della Cassazione che chiedeva di rivedere alcuni capi di imputazione nei confronti di Papa, la carcerazione di costui non era più giustificabile”. Come si è comportato il Presidente della Camera Fini? “In questo periodo si è impedito a Papa di partecipare ai lavori della Camera e non è mai stato informato delle convocazioni dell’aula. Papa avrebbe potuto partecipare alle sedute della Camera. E questa è una responsabilità della Presidenza della Camera”. Giustizia: i beni artistici restano a secco, i 57 milioni dell’8 per mille vanno all’emergenza carceri di Carlo Alberto Bucci La Repubblica, 29 dicembre 2011 Le carceri sono più urgenti. I beni culturali possono aspettare. La boccata d’ossigeno di 57 milioni per tamponare l’emergenza detenuti lascia a mani vuote i monumenti, i palazzi storici, le biblioteche, le chiese, gli affreschi italiani che hanno bisogno di restauri. Nel 2004 era stata la guerra in Iraq a scippare il contributo. Ora è il sistema carcerario ad assorbire i fondi indirizzati verso l’architettura e l’archeologia italiane dall’otto per mille. È una lotta tra poveri che si tirano una coperta sempre più corta. E che lascia praticamente a secco il patrimonio artistico più nascosto e prezioso del Belpaese. “Dobbiamo completare l’edilizia carceraria per permettere la detenzione salvando i diritti fondamentali dell’uomo e per il nuovo anno abbiamo stanziato 57 milioni di euro” aveva annunciato il ministro della Giustizia, Paola Severino, al termine del Consiglio dei ministri del 16 dicembre. Sei giorni dopo, ecco il decreto legge n. 211 che, “per il contrasto della tensione detentiva determinata dal sovraffollamento delle carceri”, all’articolo 4 autorizza, “per l’anno 2011”, la spesa “di euro 57.277.063 per le esigenze connesse all’adeguamento, potenziamento e alla messa a norma delle infrastrutture penitenziarie”. E i finanziamenti come arrivano? “Mediante - recita il comma 2 - corrispondente riduzione dell’autorizzazione di spesa. .. relativamente alla quota destinata dallo Stato all’otto per mille”. Quest’anno erano state ben 1600 le domande di contributo, circa il 30% in più rispetto al 2010, arrivate alla presidenza del Consiglio. Che, coinvolgendo le commissioni di architetti e storici dell’arte del ministero Beni culturali, da aprile a ottobre aveva scremato le richieste di finanziamento per interventi urgenti. I fondi dell’8 per mille destinati allo Stato servono, in realtà, anche alla lotta alla fame nel mondo, all’assistenza ai rifugiati e alle calamità naturali. E anche queste aspettative saranno disattese. Ma negli anni passati circa il 70% dei 140 milioni arrivati dalla denuncia dei redditi erano andati a foraggiare la quarta voce del programma: la conservazione dei beni culturali. Ora invece neanche più quel budget risicato, già ridotto dal Tesoro a 57 milioni. Non solo le bellezze sotto la protezione statale godono dell’aiuto dell’otto per mille. Ma anche il patrimonio ecclesiastico e comunale. E, visto il taglio draconiano delle ultime manovre economiche ai fondi ordinari del ministero e degli enti locali, quei 57 milioni dirottati verso l’edilizia carceraria erano linfa vitale per un tesoro distribuito lungo tutto il Paese che, secondo i dati del Touring Club, annovera 7.282 tra chiese, basiliche, monasteri, pievi sperdute; 4.109 palazzi; 2.054 castelli; 1.034 monumenti antichi. “Il grosso va all’architettura e ai beni storico-artistici. Dall’otto per mille all’archeologia in realtà arriva poco, diciamo 1-2 milioni” spiega il direttore generale per l’archeologia del ministero Beni culturali, Luigi Malnati. “Ma certo anche per noi - aggiunge - questo è una decurtazione pesante. Il museo delle navi di Grado, ad esempio, stava rinascendo grazie ai soldi delle denunce dei redditi”. Il ministero destina 80 milioni del suo bilancio di un miliardo e quattro (nel 2007 era uno e nove) ai lavori ordinari. In più, negli anni passati hanno beneficiato del sostegno aggiuntivo dell’otto per mille la Certosa di Padula e la biblioteca dell’Istituto di studi storici in palazzo Filomarino a Napoli, la Madonna con il Bambino affrescata nel Cinquecento su una casa a Sedegliano, in Friuli, ma anche le antiche mura di Lomello, nel Pavese, o l’organo della parrocchiale di San Biagio in Casanova Lanza, vicino Como. Il Colosseo e Pompei i soldi li trovano al botteghino e dagli sponsor. Le migliaia di realtà minute dello straordinario patrimonio italiano, e le miriadi di aziende di restauro che lo curano, hanno bisogno del “popolo del 730” per continuare a vivere. Perduca (Radicali): fondi dall’8 per mille per le carceri? governo faccia pubblicità “Pare che i 57 milioni da destinarsi alla emergenza carceri verranno prelevati dall’8 per mille. Era già accaduto per le missioni all’estero e quindi, ancora una volta, in Italia piegare all’emergenza le regole resta un elemento costitutivo di una Repubblica che si trova di fronte permanentemente a una serie di emergenza - senza peraltro affrontare quella vera e cioè per l’appunto l’illegalità delle istituzioni. Se ciò dovesse esser confermato, a detrimento dei beni culturali che, per legge, sono uno dei quattro beneficiari dell’8 per mille, occorre che da subito il Governo lanci una campagna per aumentare le entrate dell’8 per mille perché in virtù del perverso meccanismo della redistribuzione di quanto non destinato che viene assegnato in base alle preferenze espresse, oltre l 70% dei totale va a chi ha ottenuto circa il 30% delle firme: la Chiesa cattolica. Detto questo piuttosto che perseguire gli obiettivi del piano carceri di Alfano occorre sanare le annose disattenzioni nei confronti di dei direttori degli istituti penitenziari e assumere altri 20mila agenti della polizia penitenziaria che in poche settimane consentirebbero di inaugurare un numero di padiglioni “sufficiente” a sfollare circa 3mila detenuti”. Lo afferma in una nota il senatore radicale Marco Perduca. Murgia (Pdl): no a impiego fondi cultura per edilizia carceraria “Decidere di impiegare i fondi destinati al restauro ed alla conservazione dei beni culturali a favore dell’edilizia penitenziaria rappresenta un errore gravissimo. I monumenti, la cultura, le biblioteche ed i palazzi storici sono uno dei patrimoni più importanti per il nostro Paese. Un comparto che andrebbe valorizzato ed aiutato piuttosto che punito o messo nella condizione di non poter esprimere le proprie potenzialità”. Lo afferma il deputato sardo del Pdl Bruno Murgia in merito alle indiscrezioni sulle intenzioni del governo di dirottare la quota del 5xmille destinata allo Stato all’emergenza carceraria piuttosto che agli interventi sul patrimonio artistico. “Il sovraffollamento dei penitenziari è un problema serio. I beni artistici - prosegue Murgia - non si possono permettere il lusso di rinunciare a 57 milioni di euro. Secondo alcune stime saranno ben 1.600 gli interventi che non potranno più essere portati avanti. Un numero considerevole che avrà anche severe ricadute occupazionali. Il ministero della Giustizia è in grado di fare fronte alle proprie spese senza bisogno di ricorrere a soluzioni estemporanee - conclude Murgia. Si possono restaurare le carceri senza strangolare la cultura. Per farlo si potrebbe pensare ad una gestione più attenta dei beni e delle somme sequestrate alla criminalità organizzata. Un patrimonio che spesso viene lasciato in disuso per anni”. Giustizia: la storia di Giuseppe Uva, ucciso in caserma di Dimitri Buffa L’Opinione delle Libertà, 29 dicembre 2011 Si fa presto a dire “un nuovo caso Cucchi”. Oramai peraltro ne stanno venendo fuori a decine. C’è quello di Marcello Lonzi a Livorno, morto massacrato di botte in carcere, con la madre che fece pubblicare dai giornali le foto dell’autopsia. C’è il caso di Federico Aldrovandi, quello di Aldo Bianzino quello del calciatore Salvatore Marino. La storia di Giuseppe Uva, morto il 14 giugno del 2008 nella capitale del leghismo, Varese, città natale dell’ex ministro dell’Interno Roberto Maroni, presenta però dettagli se possibile ancora più raccapriccianti: come una possibile violenza sessuale subita per ritorsione. Il ragazzo, di professione ‘gruista” (ce n’è una anche sopra la lapide della propria tomba) era stato infatti l’amante occasionale di una fidanzata di un appartenente alle forze dell’ordine e questo potrebbe persino essere un movente, magari inconsapevole, del pestaggio, della violenza e poi della morte. Queste brutte storie e altre ancora, sono raccontate in un bel libro di Luigi Manconi e Valentina Calderone, “Quando hanno aperto la cella” (Il Saggiatore, pagine 244, 19 euro). “Un libro che a leggerlo uno sta male”, come scrive Valter Vecellio su “notizieradicali.it”. Il pomeriggio del 23 dicembre 2011 da Milano i giornalisti locali vengono avvertiti di una svolta nella vicenda: Giuseppe, morto all’interno di una caserma dei carabinieri di Varese tre anni fa, ha subito sicuramente violenze e torture anche di carattere sessuale. Il tutto emerge dall’esame dei reperti. Ecco come la sorella Lucia, durante un servizio de “Le Iene” dello scorso ottobre raccontava la storia:” su tutto il fianco era blu, sono sicura che non erano i segni dell’ipostasi, io ne ho visti di morti, ho vestito mio zio, mia zia, e quei segni erano lividi. Poi vedo il pannolone. E mi chiedo: perché aveva il pannolone? Mia sorella prende il sacchetto in cui c’erano i pantaloni e li guardiamo. Erano pieni di sangue sul cavallo. Metto via i pantaloni e guardo le scarpe da ginnastica che gli avevo comprato io dieci giorni prima e che adesso erano tutte consumate. Gli slip non c’erano. Gli ho tolto il pannolone e ho visto il sangue. Gli sposto il pene e vedo che aveva tutti i testicoli viola e una striscia di sangue che gli usciva dall’ano. Da quel momento ho giurato che avrei fatto tutto il possibile per arrivare alla verità sulla sua morte, un simile scempio non può restare impunito”. Ed ecco come Alberto Biggiogero, l’amico fermato insieme a Uva nella notte di quel 14 giugno 2008, mentre brillo come lui si divertiva a spostare le transenne di una piazza, ricorda quei momenti: “Uva! Proprio te cercavo stanotte! Questa non te la faccio passare liscia, questa te la faccio pagare”. Le botte iniziano a fioccare subito, a tutti e due, poi vengono caricati su macchine diverse (altre due macchine, della Polizia di Stato, arriveranno subito dopo), e portati nella Caserma dei Carabinieri. Alberto, rinchiuso in una cella da solo ha ancora il proprio telefonino. Sente grida spaventose e urla di dolore nella stanza accanto, e chiama il 118, chiedendo l’intervento di un ambulanza, perché “stanno praticamente massacrando un ragazzo”. L’addetto del 118 fa una telefonata di controllo in caserma e gli viene risposto: “No guarda, sono due ubriachi che abbiamo qui in caserma, adesso gli tolgono il cellulare”. All’alba sono i carabinieri stessi a chiedere un trattamento sanitario obbligatorio per Giuseppe Uva, “uno molto agitato, violento, che minaccia tutti”; alle 8.25 viene ricoverato, alle 10.30 cessa di vivere, per cause da stabilirsi. In un’altra telefonata tra operatori delle forze dell’ordine, trasmessa nel servizio de “Le Iene”, viene contraddetta l’ipotesi alla base della richiesta del Tso: uno dei due addetti dice all’altro che “stanotte abbiamo preso questo Uva, ma è talmente debole che non serve una sorveglianza particolare per tenerlo a bada”. Il comandante del posto fisso della Polizia di Stato all’interno dell’ospedale rileva le varie ferite e i vari lividi, segni di bruciature di sigarette in faccia, bozzi e sangue pesto dietro il collo, corpo tumefatto ovunque. E scrive: “Si soggiunge che non c’è traccia degli slip, indumento neppure consegnato ai parenti (perché probabilmente intrisi di sangue) e tuttavia non si può sottacere il riscontro obiettivo di pseudo macchie ematiche riscontrate a tergo sui pantaloni poi posti sotto sequestro con gli altri vestiti”. Il 16 dicembre scorso, dopo una battaglia legale durata oltre tre anni, in cui la sorella di Giuseppe Uva, Lucia, viene persino querelata dai carabinieri locali perché aveva osato dire durante una trasmissione de “Le Iene”, che il fratello era stato sodomizzato (solo così si spiegherebbe la copiosa perdita di sangue dall’ano anche dopo il lavaggio del cadavere, ndr) probabilmente con un corpo estraneo, forse un bastone, il corpo di Uva viene riesumato. I periti nominati dal tribunale di Varese, nell’ambito del processo sulla morte di Giuseppe Uva, hanno chiesto al giudice Orazio Muscato ancora 90 giorni di tempo per approfondire la perizia legale. In particolare chiedono di potere effettuare dei nuovi test sui resti dell’uomo (tra cui una Tac). È quanto emerso venerdì mattina durante l’udienza del processo che vede, come unico imputato, un medico che nel 2008 era in servizio nel reparto di psichiatria dell’ospedale di Varese, dove il 14 giugno di quell’anno morì l’artigiano varesino. E se adesso vi chiedete come mai ci sia un processo in corso, visto che la sorella si batte per aprirne uno nuovo, la risposta è semplice: all’epoca si è proceduto, ingiustamente, contro l’ultimo medico. Quello cui scaricarono Uva già morente, un povero Cristo che gli somministrò degli anti dolorifici e che fu accusato di averne così provocato la morte. Adesso forse i veri colpevoli inizieranno a capire che l’impunità per loro potrebbe finalmente finire. Lettere: quel detenuto in manette all’ospedale, poi suicida di Nicola Boccadutri La Sicilia, 29 dicembre 2011 La sera di Santo Stefano, verso le otto mi reco presso il pronto soccorso dell’ospedale S. Elia di Caltanissetta, per avere notizie di un mio carissimo amico che sentendosi male vi si recava per essere visitato. Arrivato, trova la sala d’aspetto piena, tanta umanità sofferente in attesa di essere visitata, vengono distribuiti dei codici, i colori stabiliscono le priorità. Le ambulanze arrivano una dopo l’altra, sopra le lettighe tanti anziani, i più fortunati accompagnati da parenti, altri da soli. Mentre rifletto sulla solitudine di tanti anziani e non, penso alla notizia letta su La Sicilia: “Villaggio S. Barbara, anziana trovata morta nella sua casa”. Nel frattempo arriva un mezzo della polizia penitenziaria scende un agente si reca dentro l’ambulatorio, poi lo vedo uscire si dirige verso il mezzo e con alcuni colleghi accompagnano un detenuto, con le manette ai polsi, tra gli agenti, lo vedo debole claudicante, lo guardo mi suscita compassione, penso che non poteva essere così pericoloso, e che le manette gli potevano essere risparmiate. Viene introdotto presso gli ambulatori, nel frattempo scatta il codice del mio amico, viene chiamato per essere sottoposto a visita, mentre aspetto l’esito della visita, vedo uscire, sempre con le manette ai polsi e sempre claudicante il detenuto, nel suo volto si legge tanta sofferenza, non so se in quel momento maturava l’idea, dell’ennesimo tentativo di suicidio, ora riuscito. Sul giornale di ieri, 28 dicembre, leggo dell’accaduto vedo la foto provo tanta rabbia. Si chiamava Giuseppe Di Blasi, aveva 46 anni, io non s’ho di quali reati era accusato, e se era in carcerazione preventiva, non ho ancora letto l’articolo, so che le nostre carceri hanno spezzato un’altra vita. Mi viene in mente la notizia del noto calciatore Cristiano Doni, arrestato per un giro di partite truccate dove girano tanti soldi sporchi, Cristiano Doni si trova agli arresti domiciliari, con la sua famiglia, Giuseppe Di Blasi in una cassa da morto. Caltanissetta: detenuto suicida; la procura apre un’inchiesta per omicidio colposo Agi, 29 dicembre 2011 La procura di Caltanissetta ha aperto un’inchiesta sulla morte di un 46enne nisseno, Giuseppe Di Blasi, suicidatosi due giorni fa al carcere “Malaspina” di Caltanissetta dopo essere stato condannato a 17 anni di carcere per abusi sessuali. Il sostituto procuratore, Elena Caruso, ha aperto un fascicolo contro ignoti ipotizzando il reato di omicidio colposo. L’indagine è stata aperta dopo un esposto presentato dai familiari della vittima, assistiti dall’avvocato Massimiliano Bellini. I familiari denunciano l’assenza “di un adeguato supporto medico e psicologico, considerato che fin dall’inizio Giuseppe - scrivono - ha manifestato segni inequivocabili di instabilità legata allo stato detentivo”. Sciacca (Ag): al via corso di formazione per i detenuti “Formare e Informare, web e dintorni” La Sicilia, 29 dicembre 2011 Ha avuto inizio presso la Casa Circondariale di Sciacca il Corso di Formazione “Formare e Informare, web e dintorni”. Il progetto curato e coordinato dal Dott. Antonello Nicosia ha l’obiettivo minimo, per quanto riguarda l’apprendimento delle conoscenze informatiche, è il raggiungimento di una preparazione sufficiente sulla gestione del Sistema Operativo Windows del pacchetto Microsoft Office, attraverso i software di video scrittura e presentazione gli allievi produrranno “Il Manuale del Carcerato” una raccolta di prestampati di istanze tipo da rivolgere alla Direzione del Carcere, al Magistrato di Sorveglianza o ai Tribunali di competenza. Al termine del percorso didattico, gli allievi saranno in grado di usare i software più comuni, utilizzati dalla maggior parte delle aziende pubbliche e private. Obiettivo del percorso formativo è contribuire all’abbattimento del digital divide, che in lingua inglese indica quelle barriere digitali che dividono chi fruisce da chi non fruisce delle opportunità offerte dal computer e dagli altri strumenti digitali. I computer che gli allievi detenuti presso l’Istituto di Pena di Sciacca utilizzano sono stati donati dall’Istituto Comprensivo “Edmondo De Amicis” di Caltabellotta, il Dirigente Scolastico la Prof.ssa Caterina Accursio a risposto immediatamente alla proposta inoltrata circa un mese addietro dal Direttore di Pedagogicamente, coinvolgendo il Vicario il Prof. Gianni Conti che si è premurato a recuperare i Personal Computer che fino all’anno scorso venivano usati dai ragazzi della scuola, che grazie ai Fondi Sociali Europei da quest’anno hanno una nuova aula multimediale. Quello della Prof.ssa Accursio è stato un grande gesto di solidarietà, presto insieme agli esperti e ai docenti del Centro Studi Pedagogicamente incontrerà il Direttore dell’Istituto di Pena, il Direttore dell’Area Trattamentale e i detenuti del Carcere di Sciacca. Lo stesso Corso di Informatica e un Corso di Musicoterapia dovranno prendere il via all’interno della Casa Circondariale di Agrigento a beneficio delle donne detenute nel reparto “Femminile”, le attività si potranno svolgere grazie ad un contributo economico da parte dell’Assessorato Politiche Sociali della Provincia di Agrigento, gli esperti e i docenti attendono solo le autorizzazioni per l’accesso in carcere. Il Dott. Nicosia ringrazia l’Assessore Mariaro Ragusa, il Presidente della Provincia Eugenio D’Orsi, il Dott. De Miceli funzionario dell’Assessorato, e il Vice Presidente del Consiglio Provinciale il Rag. Mario Lazzano per aver coinvolto i suoi colleghi a votare l’emendamento. In un momento di crisi del sistema penitenziario a causa dei tagli economici e del sovraffollamento queste attività sono sicuramente di grande sostegno, un ottimo contributo al processo di rieducazione al fine di reinserire il reo nella società e nel mondo del lavoro, un plauso va al Dott. Fabio Prestopino che con straordinaria disponibilità e professionalità ha permesso lo svolgimento del corso, ricordiamo che la Casa Circondariale di Sciacca vive da qualche decennio grossi disagi legati alla struttura fatiscente e al numero ridottissimo di operatori penitenziaria. Modena: la coop “Estense” dona prodotti per igiene a detenute del carcere S. Anna Dire, 29 dicembre 2011 Prodotti per l’igiene donati alle detenute con l’operazione “brutti ma buoni”, e messa in vendita dei prodotti biologici frutto del lavoro di otto detenuti. Sono due dei progetti sostenuti da Coop Estense per la casa circondariale Sant’Anna di Modena, con la collaborazione del centro Auser. È infatti stato siglato l’accordo che prevede la consegna da parte di Coop Estense di beni destinati alla Casa Circondariale. In una prima fase, sperimentale, la merce sarà destinata alla sezione femminile, che conta complessivamente una trentina di persone, per poi estendersi al resto dei detenuti. Oltre al grave problema del sovraffollamento delle strutture penitenziarie e di detenzione, in carcere mancano spesso prodotti di prima necessità come il detersivo per i piatti, per la pulizia dei locali o per l’igiene personale. Un’urgenza che ha spinto la direzione della struttura stessa a richiedere un intervento della cooperativa. “I tagli alla spesa pubblica hanno comportato anche una drastica riduzione dei fondi destinati all’acquisto del materiale di pulizia e per l’igiene personale dei detenuti. La risposta di Coop è un grande segno di solidarietà e di sensibilità verso la realtà penitenziaria, che, come è noto, sta vivendo un momento di particolare difficoltà”, dichiara la direttrice della Casa Circondariale, Rosa Alba Casella. “Abbiamo accolto immediatamente la sollecitazione arrivata dal Sant’Anna, sostenuta dall’Auser e dall’Ausl di Modena - commenta Isa Sala, direttore soci e consumatori Coop Estense - muovendoci per dare a questa struttura tutto l’appoggio necessario. Alla necessità di un bisogno concreto, Coop Estense risponderà attraverso la consegna periodica di prodotti utili ai detenuti”. I volontari, previa autorizzazione rilasciata dal magistrato di sorveglianza, potranno così entrare personalmente ogni mese nella struttura per consegnare i prodotti raccolti nelle strutture di vendita della cooperativa e destinati alle detenute. Coop Estense e la Direzione del Sant’Anna stanno poi lavorando ad un altro progetto di grande rilievo, finalizzato a dare uno sbocco concreto alle attività nelle quali è coinvolta la popolazione carceraria, e cioè la messa in vendita da parte della cooperativa dei prodotti biologici coltivati nei campi all’interno della Casa Circondariale. Si tratta di colture biologiche certificate, prodotte grazie al lavoro di otto detenuti e coordinate da un agronomo responsabile della produzione biologica e della formazione dei detenuti addetti ai lavori nei campi. È pari a 6.000 metri quadrati la superficie complessiva all’interno della Casa Circondariale assegnata alla produzione di zucchine, cetrioli, pomodori, ravanelli, cipollotti e more destinati a Coop Estense. Venezia: arresti “brevi”… addio carcere, ma servono strutture moderne La Nuova Venezia, 29 dicembre 2011 Il procuratore convoca i vertici delle forze di polizia per valutare come applicare il decreto del governo Servono celle di sicurezza e personale adeguato nei commissariati e nelle caserme dei carabinieri. Per impedire che le carceri scoppino e in attesa della costruzione di nuovi edifici dove rinchiudere i detenuti, il governo Monti ha varato in fretta e furia il decreto con il quale limita enormemente l’entrata in carcere degli arrestati processati per direttissima, “stop alla porta girevole” è stato chiamato. E oggi il procuratore della Repubblica Luigi Delpino ha convocato una riunione con il questore, il comandante dei Carabinieri e quello della Guardia di finanza per affrontare la questione di come applicarlo e gestirlo a Venezia e provincia. I problemi aperti da affrontare sono quelli delle strutture e dell’organico. Ma per Santa Maria Maggiore sarà una boccata d’ossigeno visto che lo stesso direttore Salvatore Pirruccio, nell’ultimo convegno organizzato dalla Cgil, ha rivelato che nel carcere veneziano sono ormai addirittura il 55 per cento i detenuti che escono dopo tre giorni di arresto e, quindi, dopo essere stati processati per direttissima (nel 2010 sono stati oltre tremila). Il nuovo provvedimento, però, non è ben visto dalle forze dell’ordine e più di un sindacato di Polizia da tempo protesta quando un pubblico ministero prevede che un arrestato non venga tradotto in carcere ma rimanga fino al momento del processo in Questura o in Commissariato. Alcuni mesi fa l’ex procuratore Vittorio Borraccetti aveva firmato una circolare in cui invitava a questa scelta, ma oltre ad essere stata criticata era rimasta sostanzialmente lettera morta. Adesso c’è una legge che lo impone, anche se una scappatoia è prevista. Nel caso di impossibilità il pubblico ministero può autorizzare la traduzione in carcere, ma con tutta evidenza è prevista come eccezione, mentre fino a ieri era la normalità. Per gestire un detenuto sarà necessario ripristinare le tanto criticate camere di sicurezza e prevedere il personale che controlli gli arrestati. I carabinieri, almeno le caserme di San Zaccaria a Venezia e di via Miranese a Mestre, sembrano per ora meglio attrezzati, mentre nei Commissariati di Venezia e di Mestre, che un tempo erano provvisti di camere di sicurezza, probabilmente saranno necessari alcuni interventi edili, come del resto nel grande edificio di Santa Chiara, dove è ospitata la Questura. Più variegata la situazione in provincia: commissariati e caserme costruite da poco sono attrezzate, mentre in quelle più vecchie sarà addirittura difficile trovare gli spazi adatti. Il decreto del governo, fortemente voluto dal ministro della Giustizia Paola Severino, che non si è stancata di ripetere che si tratta di un provvedimento tampone, prevede lo stanziamento di alcuni milioni per adeguare le strutture e per gestire i detenuti, ai quali nelle 48 ore di arresto, vanno serviti pasti e - nel caso- anche indumenti. Ancona: direttrice reintegrata nell’incarico, era stata allontanata dopo le proteste dei detenuti Ansa, 29 dicembre 2011 La direttrice del carcere di Montacuto Ancona Santa Lebboroni, allontanata il 10 dicembre scorso con un provvedimento del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria dopo la rivolta dei detenuti dei giorni precedenti, è tornata a svolgere la sua attività nell’istituto di pena. Lo ha reso noto il legale della Lebboroni, l’avv. Cristiana Pesarini. Il provvedimento, fa notare l’avvocato, è stato revocato “in poco più di venti giorni”. Con la direttrice era stato sospeso dalle funzioni anche il comandante della polizia penitenziaria, peraltro da pochi giorni ad Ancona e assente per ferie nei giorni delle proteste. Idv: reintegro Direttrice e Comandante è una vittoria Esprimiamo grande soddisfazione per l’esito positivo con cui si è conclusa la vicenda del carcere di Montacuto che l’Italia dei Valori ha seguito da vicino. Dopo la nostra visita al carcere e il colloquio con il ministro della giustizia Paola Severino per chiedere un suo intervento, sono stati reintegrati la direttrice del carcere, Santa Lebboroni e il comandante della polizia penitenziaria, Gerardo d’Errico. Il nostro intervento è servito per porre rimedio ad una situazione di palese ingiustizia emersa anche dal colloquio con gli agenti penitenziari che, durante il nostro incontro a Montacuto, si erano dimostrati solidali con i loro superiori ritenendo che avessero agito nel migliore dei modi per risolvere una piccola protesta ad opera di pochi detenuti. Nonostante la vittoria per il reintegro di Lebboroni e d’Errico, noi dell’Italia dei Valori siamo convinti che il percorso non sia ancora concluso: ora bisogna al più presto risolvere la situazione precaria e di scarsità di mezzi e personale in cui l’amministrazione centrale costringe a lavorare la Polizia penitenziaria. Basti pensare che ci sono 440 detenuti a fronte di 130 agenti effettivi, 180 se si considerano i 50 in più che risultano attivi, ma che, in realtà, sono distaccati in altre sedi. Questi numeri acquistano valore se si pensa che, come sostenuto dal personale, dovrebbero esserci circa 200 agenti per 180 detenuti. Riteniamo infatti che la piccola protesta dei detenuti di qualche giorno fa non sia in alcun modo ascrivibile alla direttrice Lebboroni e a Gerardo d’Errico, ma solo ed esclusivamente al Governo Berlusconi e al Ministero della Giustizia che fa mancare da anni personale e fondi persino per i beni di prima necessità. Impressionante lo stato di degrado che abbiamo potuto constatare con i nostri occhi dai bagni, ai corridoi alle celle. Serve un immediato intervento sulle penose condizioni generali in cui versa il carcere di Montacuto. Bologna. nominati nuovi vertici Ipm del Pratello e nuovo direttore del Centro giustizia minorile Dire, 29 dicembre 2011 Tre incarichi ad interim per la giustizia minorile a Bologna dopo la bufera che ha investito il carcere del Pratello, su cui sono in corso due indagini da parte della Procura minorile e di quella ordinaria. Dal 22 dicembre, il Centro di giustizia minorile è diretto da Paolo Attardo, che conserva anche la direzione del Centro di giustizia minorile del Triveneto. Francesco Pellegrino, direttore dell’istituto penale minorile di Catanzaro, dirige anche il carcere del Pratello mentre capo della Polizia penitenziaria è Alfio Bosco, che conserva l’incarico di comandante di reparto all’istituto penale minorile di Catania. I tre sostituiscono rispettivamente Giuseppe Centomani, Lorenzo Roccaro e Aurelio Morgillo, trasferiti d’urgenza da parte del Ministero della Giustizia in seguito a un’ispezione avvenuta tra il 6 e l’8 dicembre. L’esito dell’ispezione è stato depositato oggi presso la Procura minorile di Bologna dal direttore del Dipartimento di giustizia minorile Bruno Brattoli, arrivato da Roma per fare una visita al carcere. La Procura ha aperto un’indagine a seguito della segnalazione di un abuso sessuale che sarebbe avvenuto tra detenuti nel mese di settembre. Sulla vicenda è aperta anche un’indagine della Procura ordinaria con l’ipotesi di omissione di rapporto, per la quale al momento non ci sono indagati. Quanto al clima che si respira tra le mura del carcere, “sono arrivato solo da pochi giorni e non sento di poter dare impressioni- ha detto Attardo - anche perché il nostro lavoro non è fatto di impressioni”. Sappe: indagine sull’Ipm del Pratello spazia fino a 2 anni fa È arrivato questa mattina da Roma con la relazione sull’ispezione ministeriale avvenuta a inizio dicembre nel carcere del Pratello. Bruno Brattoli, capo del Dipartimento Giustizia minorile, ha varcato le mura del carcere minorile di Bologna al centro di due indagini legate a un presunto stupro avvenuto tra detenuti. L’ispezione, i cui esiti sono stati depositati oggi presso la Procura dei minori, aveva portato alla rimozione della dirigenza del carcere e alla sua sostituzione con incarichi ad interim. Nel frattempo si rincorrono le voci su una lettera in cui i detenuti difendono gli stessi dirigenti fatti saltare dal ministero e la notizia sulla rimozione del medico del carcere, circolata nei giorni scorsi, subisce una secca smentita. “È andato in pensione”, spiega Giovanni Battista Durante, segretario del sindacato di polizia Sappe, presente all’incontro con Brattoli insieme ad altri rappresentati dei sindacati e delle istituzioni. Il presunto stupro su cui stanno indagando due procure (quella minorile e quella ordinaria, con un’indagine per omissione di rapporto) sarebbe avvenuto a settembre di quest’anno. Ma “i fatti presi in considerazione dal ministero - dice Durante - non si riferirebbero solo agli ultimi mesi, ma a un periodo più lungo, pari a uno o due anni”. Ovvero, anche all’epoca in cui a dirigere il carcere era Paola Ziccone, sostituita in agosto da Lorenzo Roccaro, a sua volta trasferito d’urgenza dopo l’ispezione. “Da quello che abbiamo potuto sapere- dice Durante- il trasferimento della dirigenza è stato attuato in via cautelativa, per tutelare le persone coinvolte. La relazione del ministero esclude qualsiasi responsabilità collettiva, fermo restando che se ci sono responsabilità individuali andranno accertate”. Che significa, tra l’altro, nessuna scure sulla Polizia penitenziaria, a cui nei giorni scorsi erano stati attribuiti metodi decisamente sopra le righe, come l’uso di manganelli e di celle di isolamento, “voci - chiarisce Durante - che sono state notevolmente ridimensionate”. “Cose inventate di sana pianta” aggiunge il segretario della Fls Cisl, Gianluca Giliberti. Da Durante spiega poi che il medico dell’Ausl in forza al Pratello “è andato in pensione”. Ma c’è di più. “Undici detenuti hanno firmato una lettera in difesa della dirigenza di Roccaro, in cui hanno scritto che grazie al lavoro degli ultimi mesi il clima dentro il carcere era cambiato: sono state installate nuove lavatrici, nuove televisioni ed è stato ripristinato il campo da calcio”. Ha sentito parlare di questa lettera la garante dei diritti dei detenuti Elisabetta Laganà, che oggi era al Pratello per incontrare Brattoli: “Credo esistano diverse versioni dei fatti, come accade spesso in questi casi”. Gli ospiti del carcere “si trovano in una situazione complessa, c’è stato un momento di smarrimento generale e ora spero che si ripristini al più presto la normalità” aggiunge la garante, che insieme all’assessore regionali alle Politiche sociali Teresa Marzocchi ha incontrato oggi anche la neodirigenza del carcere. “Ci siamo accordati per rivederci a gennaio - dice Marzocchi - in questo momento auspichiamo che si possa ripartire con le attività il più presto possibile”. Cisl: agenti alla gogna mediatica, dannoso La “gogna mediatica a cui sono sottoposti, da giorni, i poliziotti penitenziari in servizio al carcere del Pratello” può avere “effetti devastanti”. Lo scrive in un comunicato, il segretario regionale della Fns-Cisl, Gianluca Giliberti, sottolineando che gli agenti del Pratello “sono stati descritti come aguzzini, gente senza scrupolo ne vergogna, quando proprio a questa organizzazione sindacale è toccato, in passato, denunciare diverse aggressioni subite dal personale in servizio da parte dei minori ristretti in istituto”. Inoltre, Giliberti evidenzia che, rispetto a qualche anno fa, quando i politici in visita al carcere minorile di Bologna “ne denunciavano la fatiscenza e le pessime condizioni detentive, nell’ultimo periodo, politici, magistratura di sorveglianza ed altre figure professionali, non avessero più effettuato rilievi di una certa importanza”. Il sindacalista riferisce poi di “voci da dentro il carcere” che “ci raccontano di minori che hanno espresso vicinanza e solidarietà alle figure allontanate nottetempo dalla gestione dell’Istituto, di poliziotti che rimpiangono l’assenza del loro comandante, che era riuscito ad assurgere a vera guida morale oltre che lavorativa, di un sistema che, nonostante tutto, continua a funzionare, anche grazie alle migliorie apportate al modello organizzativo preesistente”. Ad ogni modo, conclude Giliberti, “confermiamo la piena ed incondizionata fiducia nella magistratura e negli inquirenti, chiamati a far luce su quanto possa essere effettivamente accaduto all’interno del carcere del Pratello”. Cgil: ricorso per condotta antisindacale dopo esclusione summit Dalla protesta formale nei confronti del Guardasigilli Paola Severino all’ipotesi di una denuncia per condotta antisindacale. Sono le opzioni che la Fp-Cgil di Bologna sta valutando dopo aver scoperto di non aver preso parte all’incontro dei sindacati con il capo del Dipartimento della Giustizia minorile, Bruno Brattoli, al termine della sua visita di oggi al carcere del Pratello. Sappe e Fns-Cisl hanno riferito con comunicati l’esito del faccia a faccia con Brattoli e per la Fp-Cgil questo “non giova alla vicenda del Pratello”. Il fatto che “per discutere di questioni problematiche e molto importanti per la vita della città, per gli agenti di Polizia penitenziaria e per i ragazzi ospiti della struttura, si incontrino solo alcune organizzazioni - dice Maurizio Serra, della Fp-Cgil - non depone a favore di un tentativo per trovare una soluzione condivisa che abbia come obiettivo la salvaguardia della vita dei minori ristretti e delle condizioni di chi lì ci lavora”. È una dinamica “che non possiamo accettare”, aggiunge. Per cui ora “valuteremo tutte le forme di iniziativa rispetto alla condotta di Brattoli: dalla protesta formale verso il ministero fino alla valutazione se si tratti di condotta antisindacale”, fa sapere Serra. Bollate (Mi): la “libertà” all’improvviso, il teatro entra fra i detenuti, Famiglia Cristiana, 29 dicembre 2011 Capita che Estia, la dea greca del fuoco, entri in carcere, anzi vi prenda dimora, ma non a seguito di una condanna né tantomeno per bruciare alcunché, quanto per portare quella scintilla, il fuoco della speranza, a chi, per giusti motivi, la libertà non ha. E la speranza in questo caso sono le attività di formazione e lavoro e gli strumenti della cultura, con il Teatro. Utili per il dopo, ma anche per il durante, della pena. Capita così che Non più - Frammenti di libertà all’improvviso, ultimo spettacolo allestito dalla compagnia di teatro In-Stabile, nata dall’attività della cooperativa sociale Estia all’interno della II Casa di Reclusione di Milano Bollate, finisca le date in programma a novembre con il tutto esaurito e faccia il pieno anche per le due date straordinarie programmate a dicembre. “Non più” è una riflessione sulla libertà che tutti abbiamo ma non sappiamo di avere, fatta da chi della libertà è stato privato, a ragione e secondo diritto, ma che comunque privo ne è. Così loro, che per il momento sono senza, ci indicano i mille modi in cui noi, che siamo fuori, accettiamo la maschera che il nostro ruolo e la società ci impongono, nelle piccole cose, nella vita quotidiana, nei desideri, nelle speranze, nei ‘piccolì sogni. La libertà arriva dal non aver troppa paura di dire, di essere sé stessi, viceversa ci si ingabbia tentando di essere adeguati. “Se noi che siamo dentro riusciamo a dire ciò che ci rende liberi, o meglio cos’è che ci fa prigionieri davvero, al di là dello spazio fisico del carcere, allora fatelo anche voi che siete fuori, a maggior ragione”, osserva Michelina Capato, presidente di Estia, nonché regista della compagnia. E così in quei “Frammenti di libertà all’improvviso” c’è una riflessione a volte tesa, altre ironica, mai amara però. Neppure se tocca da vicino le “occasioni” che alla perdita della libertà, quella concreta e non metaforica, hanno portato. I testi sono per la quasi totalità dei membri della compagnia, fa eccezione “Per quanto sta in te” di Costantino Cavafis. “Abbiamo stimolato il gruppo a scrivere”, dice sempre la Capato, “e ne sono nati alcuni temi e una scrittura ricca, sui testi autoprodotti c’è anche un progetto di pubblicazione”. E.s.t.i.a, acronimo di evocazioni simboli tracce invisibili all’occhio, è una cooperativa sociale onlus che nasce nel 2003, prima era un’associazione culturale attiva nelle carceri milanesi e al centro della sua attività c’era sempre il teatro. Dal 1993 a San Vittore con un laboratorio teatrale in collaborazione con l’Unità Operava Carcere della Asl e il progetto per le tossicodipendenze. Oggi la onlus, affianco al teatro, conta altre attività formative e di avviamento al lavoro, come una falegnameria all’interno dello stesso carcere e attività tecniche come un service audio e luci e uno di realizzazioni video. Nel dicembre 2000 l’associazione culturale si sposta nella struttura di Via Belgioioso, lì il teatro, a San Vittore il reparto video. Ora tutte le attività sono solo a Bollate, dove c’è anche un piccolo ufficio. “A San Vittore era difficile mantenere le attività da quando è diventato un carcere giudiziario, e il turn over è veloce, non consentendo di iniziare un lavoro con i detenuti e di finirlo”, dice la regista. Lo spettacolo ha un ritmo vivace, al parlato alterna coreografie musicali e scene corali dalle quali emergono singole voci, in una giostra, in un giro dove dal coro si stacca l’eroe e poi vi rientra. Un debito che il ritmo deve all’improvvisazione, vera base del lavoro: “Siamo partiti per lavorare sull’improvvisazione e siamo arrivati a elementi più strutturati, punti drammaturgici fissi, in un’alternanza di improvvisazione e strutturazione”, continua la Capato, che spiega da dove viene quel senso di coinvolgimento per il pubblico. “Alcune coreografie sono fisse, ormai codificate dalle tante prove fatte. Non c’è un copione ma alcuni punti funzionano da perni, mentre rimane molto spazio per creare, pur sapendo sempre dove bisogna arrivare, per poi ripartire. In un certo senso lo spettacolo è vivo”. Del carcere lo scopo non è certo solo quello di punire e la Casa di Bollate offre diversi percorsi educativi. “Per l’elaborazione personale, per recuperare il senso di responsabilità, per costruire relazioni”, si legge sul sito di E.s.t.i.a. Così il Teatro diventa una sorta di pietra filosofale utile a “far di veleno medicina”. Russia: centinaia in piazza contro detenzione attivista Udaltsov Asca, 29 dicembre 2011 Centinaia di persone si sono riunite in una piazza del centro di Mosca per protestare contro la detenzione dell’attivista Sergei Udaltsov. I dimostranti hanno chiesto a gran voce la liberazione di tutti i prigionieri politici, ma gli organizzatori hanno chiesto alla folla di non intonare slogan politici per evitare arresti, in quanto la manifestazione, convocata a piazza Pushkin, non era stata autorizzata dalla polizia. Attorno ai dimostranti, gli agenti hanno creato un cordone di sicurezza utilizzando i bus della polizia. Il caso di Udalstov, sul quale pesano tre diverse condanne al carcere malgrado le sue scarse condizioni di salute, è diventato una delle bandiere del movimento di opposizione a Vladimir Putin. Iran: condannato a 8 anni di carcere leader di partito dell’opposizione Nova, 29 dicembre 2011 In Iran il tribunale rivoluzionario di Teheran ha emesso ieri una sentenza di condanna a 8 anni di reclusione contro il leader del Movimento di liberazione dell’Iran (opposizione liberale), Ibrahim Yezdi, ottantenne. L’accusa quella di aver “attentato alla sicurezza dello stato”, come ha comunicato al quotidiano iracheno “Azzaman” l’avvocato di Yezdi, il quale ha aggiunto che il suo assistito ha ricevuto anche l’inibizione ad esercitare per 5 anni i suoi diritti civili. Siria: ex detenuto politico; missione Lega araba è messa in scena Aki, 29 dicembre 2011 La missione di osservatori inviati dalla Lega Araba per monitorare la crisi scoppiata nove mesi fa in Siria e repressa con la violenza dal regime di Bashar al-Assad è “solo un decoro”. Ne è convinto l’avvocato siriano dell’opposizione Anwar al-Bunni, secondo cui i compiti degli osservatori che stanno visitando le città protagoniste delle rivolte sono “poco chiari”. “È importante ricordare che la missione è arrivata in Siria per monitorare la situazione e non per fare un’inchiesta o fare indagini e la sua presenza è legata all’iniziativa della Lega Araba per una soluzione della crisi che Damasco non ha ancora approvato in modo esplicito”, spiega l’attivista in un’intervista ad Aki. In tal senso, la funzione della missione è “fumosa”, dal momento che “non farà indagini sui eventuali crimini commessi o sull’uccisione dei civili”. Bunni, che è un ex detenuto politico e presidente del Centro di studi giuridici a Damasco, ricorda l’esistenza di “importantissimi rapporti stilati dall’Onu che documentano i crimini contro i diritti umani” commessi in questi mesi dalle autorità siriane. Per la sua stessa natura, quindi, la missione della Lega Araba “non cambierà il linguaggio delle autorità, che fanno ricorso a omicidi e violenze. Proprio ieri - dice - un bambino e un uomo sono stati uccisi davanti agli occhi degli osservatori a Homs, mentre visitavano la città”. Allo stesso tempo, l’oppositore nega che gli osservatori abbiano avuto contatti con il suo centro e gli attivisti che vi lavorano. “Nessuno ci ha contattati, benché loro abbiano a disposizione decine di nominativi di attivisti siriani per i diritti umani”, afferma Bunni, che nel 2006 è stato arrestato per motivi politici e condannato a cinque anni di reclusione. Secondo l’avvocato, anche la presunta liberazione dei detenuti incarcerati in seguito alle manifestazioni sarebbe una farsa. “Spostare i detenuti da un luogo all’altro non servirà a niente. Abbiamo nomi, cognomi e documenti dettagliati, le autorità non hanno rilasciato alcun detenuto”, conclude Bunni. Myanmar: a breve nuova amnistia per prigionieri politici Asca, 29 dicembre 2011 Il governo del Myanmar potrebbe a breve decidere nuove scarcerazioni di prigionieri politici, in concomitanza con le due feste nazionali del 4 gennaio (giorno dell’Indipendenza) e del 12 febbraio (Union Day). Lo ha dichiarato Aung Ko, presidente del Comitato Affari Giuridici della Camera, facendo sapere che il ministro dei Trasporti Aung Min, che è anche il rappresentante del governo per i colloqui di pace, si è espresso a favore di una nuova amnistia da attuare in tempi brevi. Non è ancora chiaro quanti siano al momento i detenuti politici in Myanmar. Le stime degli attivisti oscillano tra i 500 e i 1.500. Bahrain: “tolleranza zero” per gli abusi in carcere Ansa, 29 dicembre 2011 I governanti del Bahrain hanno promesso una politica di “tolleranza zero” verso ogni abuso dei detenuti politici, e hanno annunciato la volontà di reintegrare tutti i lavoratori pubblici licenziati per il dissenso politico e di voler riammettere i media stranieri nel regno. Il regno avrà una “politica di tolleranza zero verso la tortura, i trattamenti inumani e degradanti nelle pratiche di detenzione”, ha detto la dichiarazione effettuata dalla agenzia di stampa statale BNA. Il governo avrebbe anche iniziato “la firma di contratti con le principali testate d’informazione internazionali e regionali e canali di trasmissione per garantire un ambiente pluralista che incoraggi il giornalismo responsabile, riducendo al minimo incitamento all’odio e il settarismo”, ha aggiunto. Le autorità del Bahrein Sabato sono scesi nel dettaglio in 34 casi relativi alla libertà di espressione legati alle proteste anti-regime nel mese di Febbraio e Marzo. Macedonia: Comitato di Helsinki; le autorità non ci consentono di vedere i detenuti Nova, 29 dicembre 2011 Il Comitato di Helsinki dell’ex Repubblica jugoslava di Macedonia (Fyrom) non potuto entrare nelle carceri macedoni per controllare la salute dei detenuti e in particolare quella dell’ex magnate dei media Velija Ramkovski, sotto custodia cautelare dal dicembre 2010. È quanto ha denunciato l’organizzazione non governativa internazionale, secondo quanto riferisce il sito internet “Balkan Insight”. “Siamo particolarmente preoccupati per la mancanza di trasparenza delle autorità, ha detto Gordan Kalajdziev, capo del comitato nella Fyrom, affermando nel corso del 2011 le autorità “in diverse occasioni non ci hanno consentito di visitare le prigioni”, cosa che sarebbe avvenuta anche con “altre organizzazioni non governative”. L’Ong ha riferito di non aver potuto ancora verificare le condizioni di Velija Ramkovski, arrestato a fine dicembre 2010 assieme ad altre 13 persone con l’accusa di reati finanziari, tra cui evasione fiscale e riciclaggio di denaro. Venerdì 23 dicembre Ramkovski, sua figlia e altri sei detenuti hanno trascorso un anno esatto nel carcere Shutka di Skopje. Nel gennaio 2011 il Comitato di Helsinki ha chiesto il permesso di visitare la struttura dopo che alcuni media avevano segnalati casi di maltrattamenti disumani. L’organizzazione non governativa ha spiegato che le autorità hanno respinto tale richiesta perché permesso visitare solo chi ha ricevuto una condanna e non i detenuti su cui pende ancora un processo. Secondo voci non confermate, le detenute incinta e i carcerati in cattive condizioni di salute sarebbero stati tenuti in isolamento, in celle buie e senza riscaldamento. Il 3 febbraio 2011 una donna implicata nel caso Ramkovski ha subito un aborto spontaneo durante la detenzione. Il giudice ha in seguito concesso alla donna e ad altri detenuti in cattive condizioni di salute gli arresti domiciliari. Le autorità hanno negato ogni responsabilità per quanto accaduto. Sempre secondo voci ventilate dalla stampa locale, una delle persone coinvolte nel caso stata recentemente operata per un tumore, mentre ad un’altra stata diagnosticata un’asma bronchiale. Il Comitato di Helsinki afferma che non ha modo di confermare la veridicità delle notizie comparsa sulla stampa. La corte che ha ordinato la detenzione preventiva sostiene che tutto stato eseguito secondo la legge, affermando che la permanenza in carcere necessaria perché esiste il pericolo che gli imputati possano fuggire. Nel frattempo una piccola manifestazione organizzata dai partiti di opposizione si tenuta ieri davanti al tribunale penale di Skopje. “Ci appelliamo all’aspetto umanitario della detenzione femminile, ai genitori di figli minorenni e di persone malate. Non esiste nella storia della magistratura macedone un caso di persone detenute in carcere cos a lungo per reati finanziari”, ha detto Lence Nikolovska, legislatore indipendente e parte del blocco di opposizione, durante la manifestazione. Ramkovski era il proprietario della ormai defunta “A1 Tv”, chiusa questa estate per un debito di grande entità. L’emittente era tra le maggiori televisioni nazionali e il più forte organo di stampa pro-opposizione. La chiusura di “A1 Tv” e di tre quotidiani sempre di proprietà Ramkovski stata ampiamente attribuita a pressioni del governo di centrodestra del primo ministro Nikola Gruevski, che ha sempre respinto tutte le accuse.