Per le carceri meno attenzione che per i canili Il Mattino di Padova, 27 dicembre 2011 Il decreto che il governo ha presentato per far fronte all’emergenza delle carceri, dove oggi sono rinchiusi 68.000 detenuti al posto dei 43.000 che ci dovrebbero essere, ancora una volta è stato presentato da giornali e telegiornali con l’aggettivo “svuotacarceri”, per dare più forza a questa idea dello svuotamento delle galere, e magari per far crescere un po’ la paura nei confronti delle misure prese da questo governo. Si è deciso per esempio che gli arrestati in flagranza per reati di non particolare gravità verranno trattenuti nelle camere di sicurezza degli uffici di polizia e lì attenderanno la convalida (se ci sarà) dell’arresto, entro le successive 48 ore, anziché essere mandati in cella, e la notizia è stata che usciranno oltre 21mila detenuti. Forse però le cose sono un po’ diverse, non è che usciranno oltre 21.000 detenuti, e quindi gireranno pericolosi criminali liberi, è che ogni anno più di 20.000 persone stanno in carcere meno di tre giorni, e in futuro queste persone, invece che entrare a intasare inutilmente le galere, arriveranno in carcere solo se l’arresto verrà convalidato. Ma questo purtroppo non basterà a rendere molto più vivibili le nostre prigioni, sempre meno degne di un Paese civile. Abbiamo provato allora a immaginare che l’interesse, che le associazioni animaliste hanno per i cani rinchiusi nei canili lager sia esteso per un giorno anche ai detenuti: è davvero un discorso così provocatorio, o c’è un fondo di verità in questo sentirsi, da parte dei detenuti, trattati come i cani più maltrattati? Una richiesta alle associazioni animaliste Sono un “detenuto cane” o un “cane di detenuto”, e mi appello alle associazioni animaliste per essere adottato in qualità di “animale” rinchiuso in un canile carcerario stretto e sovraffollato, così come lo sono i cani rinchiusi in gabbia. Io mi appello alle associazioni animaliste perché la parola “animalista” credo voglia dire: impegnato nella protezione delle specie animali viventi dallo sfruttamento o dai maltrattamenti dell’uomo. E io mi ritengo tale, un animale dotato di moto e di sensi, ma qualche volta anche animale da macello, destinato cioè a qualcosa che sembra una specie di macellazione, perché a questo assomiglia ultimamente il destino di chi finisce in carcere. Ho sempre avuto cani in vita mia e li amo così come li amate voi, però vorrei che voi aveste un po’ di attenzione anche per noi “detenuti cani”, magari anche solo per un giorno, e combatteste insieme a noi per una vita degna di essere vissuta da parte di entrambe le specie, senza dimenticare che forse è vero che i cani sono innocenti, ma ci sono anche tra di noi detenuti presunti innocenti, che attendono un giudizio, e che in molti verranno anche assolti. Santo N. Le campagne contro il maltrattamento degli animali e le carceri sovraffollate indegnamente Io sono una persona detenuta e mi capita spesso di seguire i servizi molto toccanti che Striscia la notizia fa sul maltrattamento degli animali, sul loro trasporto, sul loro uso come cavie, sul processo con cui, affinché diventino commerciabili, vengono fatti ingrassare nel minor tempo possibile, in spazi dove talvolta non possono letteralmente quasi neanche muoversi. Insomma tenuti in condizioni dis-umane anche per delle bestie. Mentre guardo le tristi immagini che Striscia la notizia spesso ci propone, il mio pensiero balza inevitabilmente a come stiamo scontando noi umani detenuti la nostra, spesso giusta, condanna. Quindi all’attuale sovraffollamento, che in alcuni Istituti impedisce quasi il movimento fisico se non per poco meno di due o tre ore al giorno in zone apposite “di passeggio”. Per il resto spesso si tratta di vere e proprie stie, gabbie dove anche il più piccolo movimento deve essere concordato o sincronizzato con gli altri componenti delle gabbie. Componenti che sono di varie “razze”, hanno abitudini strane o diverse, usano linguaggi di vario genere, ma fanno tutti parte della stessa razza, razza umana. Chissà come tutte le volte che assisto ad un servizio televisivo di Striscia il mio pensiero corre a fare questi strani paragoni e la prima risposta cha mi dò è che loro però sono innocenti, non vi è nessuna ragione per la quale debbano subire tutti quei maltrattamenti talvolta mortali. Subito dopo però mi accorgo che anche se io invece ho fatto qualcosa per essere dove sono, oramai come forma mentis è come se non facessi più distinzione tra loro animali e noi, persone detenute. È chiaro che l’importanza che mi do come essere umano pensante oramai è talmente poca! Nella mia labile mente è quasi nulla. Anzi forse c’è ancora una cosa che ci avvicina, noi e i cani ristretti nei canili, ed è quella che loro a volte sono animali dopati o “da laboratorio”, e le persone detenute sono tossicodipendenti, e in carcere spesso vengono anche imbottite di psicofarmaci. Filippo F. Uomo o cane Parlare di “cani detenuti” forse non è una bella cosa, specialmente se questo discorso viene proprio da un detenuto che non vorrebbe essere considerato un cane, ma una persona che ha sbagliato e sta pagando il proprio debito alla società. Io non saprei come definire quale sia la differenza tra un animale in una gabbia e un detenuto. Tutti e due sono rinchiusi e gli si dovrebbe somministrare del cibo (la qualità e quantità sono da definire, i tre pasti di un detenuto costano circa 3 euro e 80 centesimi). Per quel che riguarda il cane ristretto in un canile, quando sono i volontari che gli portano da mangiare può succedergli anche che prima o poi venga adottato, e potrà così avere una nuova famiglia e quel poco che tu gli dai, lui te lo ripagherà molto di più. Purtroppo questa è una verità non valida per tutti i cani, anzi per molti finisce nel peggiore dei modi, come raccontano tante trasmissioni televisive. Anche per quel che riguarda noi carcerati, per pochi la carcerazione è mite, civile e nel rispetto dei diritti che sono previsti dalla Costituzione e regolati in un Ordinamento Penitenziario, anche a noi ci danno del cibo, ma poi se andiamo un po’ più a fondo sulla dignità dell’uomo “rinchiuso”, il dubbio c’è: viviamo meglio o peggio dei nostri amici cani? Purtroppo la realtà per noi detenuti è a volte peggiore, specialmente nelle condizioni nelle quali siamo obbligati a vivere ultimamente, rinchiusi e stretti in pochi metri con un minimo di tre persone in una cella costruita per una, per 20 o 22 ore al giorno, senza avere nessuna attività, se non per qualcuno un po’ più fortunato. Ma non si può vivere sperando, minuto dopo minuto, che oggi sia il tuo giorno fortunato, se poi non c’è mai un giorno fortunato, e magari fuori non hai nessuno, né che ti venga a trovare, né che ti aspetti quando uscirai; loro, i cani, invece qualcuno avrà modo di vederli nei canili o anche attraverso i servizi che quasi ogni giorno appaiono in televisione, con l’onorevole Brambilla che li accarezza e bacia con tanto amore, loro forse avranno una vita migliore, qualcuno che li adotterà. Pensare che qualcuno possa fare altrettanto per i detenuti mi darebbe gioia, per me ma anche per tutti quelli che sono nelle mie medesime condizioni – abbandonati da tutti – relegati in carceri lontane anche dalle città, perché nessuno deve accorgersi che ci siamo. Ma come fanno a non accorgersi di noi, a dire che c’è bisogno di certezza della pena, “chiudiamoli tutti in galera e buttiamo via le chiavi”, quando di fatto questa spesso è già la realtà? Ci piacerebbe che gli animalisti ci accomunassero nelle loro battaglie agli animali di cui tutelano i diritti, perché non ci sentiamo mostri come ci definiscono gli organi di informazione: abbiamo commesso cose brutte, qualche volta definibili anche come mostruose, siamo coscienti che dobbiamo pagare un debito alla società, ma dopo aver pagato per il nostro reato, anche noi dovremo uscire, ritornare in società, con la speranza che le nostre famiglie ci abbiamo potuto attendere, e che per lo meno non ci troveremo su una strada, abbandonati come i cani chiamati “randagi”. Alain C. Giustizia: Antonio, Michele… e gli altri suicidi tra le braccia dello Stato di Niccolò Zancan La Stampa, 27 dicembre 2011 Non riesco a togliermi dalla testa tutto il male che mi hanno fatto. Per me è finita. Ho perso tutto. La mia fierezza, la mia forza, la mia famiglia che soffre. Mi mancherete. Non so se andrò all’inferno o in paradiso, ma sappi che vi guarderò tutti i giorni. La cosa bella è che non dovrai più preoccuparti per me quando faccio le immersioni... Ti giuro che durante questi giorni di carcere non ho fatto casino. Mi hanno fatto molto male, papà. La sera mi davano molte gocce rosa per dormire, la notte mi picchiavano sotto le coperte. Era orribile. Jean Jaques Olivier Esposito, 39 anni, da Marsiglia, faceva il raccoglitore di coralli. Per questo passava molto tempo in fondo al mare. Per questo suo padre era preoccupato per lui. Ma il 29 novembre 2010 è finito in carcere a Salerno per detenzione di sostanze stupefacenti ai fini di spaccio. Panetti di hashish nascosti nelle portiere dell’auto su cui viaggiava. In cella stava malissimo. Aveva già collaborato con gli investigatori e tentato il suicidio due volte, quando è stato trasferito ad Avellino. L’avvocato Michele Sarno ha cercato di salvarlo. L’istanza con cui chiedeva una misura cautelare meno afflittiva è datata 18 febbraio 2011. Rigettata il 23 febbraio con cinque righe scritte a mano, compresa la firma: “Il gip, letti gli atti, rilevato che permangono le cautele a fondamento della restrizione iniziale e che la detenzione domiciliare è del tutto improbabile per la gravità dei fatti, rigetta la richiesta...”. Il 2 marzo Jean Jaques Olvier Esposito si è impiccato. Come aveva annunciato a suo padre: “Ad Avellino i dottori sono un pò meglio - aveva scritto - ma io dormo di giorno per paura che mi facciano male di notte. Mi riempiono di antidepressivi, non ce la faccio più. Ho troppa sofferenza dentro...Conto su di te per aiutare Karine e i bambini”. Muoiono fra le braccia dello Stato italiano. Inalando bombolette di gas da campeggio. Impiccandosi a un termosifone alto un metro. Un paio di calzini per legarsi i polsi dietro alla schiena, per evitare ripensamenti. 64 suicidi in carcere nel 2011, 55 nel 2010, 1023 negli ultimi undici anni. A cui bisogna aggiungere, per rendere l’idea, 5703 atti di autolesionismo e 1137 tentativi di suicidio solo nel 2010. Una strage che non fa rumore. Nessuno li vede. E non c’è alcun nesso fra colpevolezza e morte. Anzi, nel 60 per cento dei casi si suicidano detenuti in attesa di giudizio. Spesso si tolgono la vita proprio nella speranza di far sentire in extremis la loro voce. “Avvocato, la prego, continui a lottare per la mia innocenza”. Antonio Pastor Chavarro era convinto che il suicidio fosse l’unico modo per riprendersi l’onore perduto. Arrestato ad agosto nella sua casa di Madrid, portato in carcere a Bologna sulla scorta di un’ordinanza di custodia cautelare di 158 pagine nemmeno tradotte in spagnolo. Era ritenuto il collegamento fra un giro di narcotrafficanti colombiani e un più basso livello di smistamento italiano. Lui continuava a ripetere di essere innocente. “Lo diceva con quell’orgoglio tutto latino di chi è pronto a mettere in gioco se stesso”, ricorda l’avvocato Massimiliano Iovino. “Soffro molto per non averlo saputo fermare - spiega - nell’ultima settimana era particolarmente abbattuto”. Antonio Pastor Chavarro in Spagna aveva due figlie, una autistica. Soffriva perché il suo arresto l’aveva fatta regredire. Sabato 12 novembre gli era stata negata anche la telefonata a casa. “Credo che il suo gesto sia stato meditato a lungo - dice l’avvocato Iovino - ha scritto una lettera a me, una al giudice, due alla famiglia”. Poi ha aspettato che i tre compagni di cella uscissero per l’ora d’aria. Quando è rimasto solo, ha unito strisce di lenzuola per ricavarne un cappio sufficientemente sicuro. Le sue lettere sono state sequestrate. Come nel caso di Jalhel Rahmani, 29 anni, tunisino. In carcere a Genova Marassi per spaccio, fine pena a marzo, ma già raggiunto da un provvedimento di espulsione. Prima di impiccarsi, ha scritto: “Non posso vivere senza vedere mio figlio”. Anche la sua lettera è stata sequestrata. Non ha potuto leggerla neppure il console della Tunisia a Genova, Zied Bouziza: “Ma dal rapporto della polizia si capiva che il suo era un disperato atto d’accusa al mondo”. In genere le storie come quelle di Jalhel finiscono in sei righe fra le “brevi” di cronaca. Un mese dopo il suicidio, è molto difficile trovarne traccia. In carcere, se provate a chiedere, scoprirete che nessuno può parlare per rispetto della privacy. La privacy di un morto che voleva solo essere ascoltato. Certi detenuti restano un problema anche sottoterra. Prendi Michele Trebbi, 30 anni, tossicodipendente, morto di overdose nel carcere di Piacenza. Una storia palindroma: con la stessa identica fine segnata, dentro e fuori. Oppure il caso di Ion Vasilu, 21 anni, manovale nei cantieri di Livorno. Era accusato di violenza sessuale dall’ex fidanzata. Si è impiccato il 30 aprile alla prima notte in cella. Vicino al corpo hanno trovato un tovagliolo di carta inciso con un dente di forchetta. “Sono innocente”, ha scritto. “Ho sempre creduto che lo fosse davvero - dice adesso l’avvocato Nicola Giribaldi - talvolta in Romania le ragazze usano questo modo per ottenere il matrimonio. Ma non c’è stato neanche il tempo di parlargli...”. Sovraffollamento. Troppi detenuti e pochi agenti. Promiscuità obbligata fra condannati in via definitiva e “nuovi giunti”. “Serve una riforma urgente di tutto il sistema carcerario - dice Roberto Martinelli, segretario generale del Sappe - siamo allo stremo delle forze”. Forse il caso più emblematico è quello di Agatino Filia, manovale di Porto Ferraio. Anche lui detenuto nel carcere delle Sughere di Livorno. Si è suicidato il 27 ottobre, il giorno prima di tornare in libertà. “Aveva paura del mondo - dice il garante per i detenuti Marco Solimano - aveva paura di se stesso. Del male che avrebbe potuto fare alla donna che era diventata la sua ossessione”. Si è ammazzato per tenersi a bada, perché il carcere non ha mai guarito nessuno. Giustizia: prigioni disumane, chi esce è condannato a delinquere ancora di Giacomo Galeazzi La Stampa, 27 dicembre 2011 A “Regina Coeli” non esistono più biblioteche, aule scolastiche, “ambienti di socializzazione”. Ovunque materassi a terra e brande ammassate ad inventare celle per quattrocento detenuti “oltre il limite”. Ieri, nel carcere sovraffollato della capitale (1.200 carcerati rispetto a una capienza di 800), il pranzo della comunità Sant’Egidio è diventato grido d’allarme. Nella rotonda centrale gli agenti penitenziari hanno l’ordine di sciogliere i capannelli ma “radio carcere” svela una realtà da incubo. Franco, 50 anni, per “reati contro il patrimonio” è da due anni “in questo inferno”. Appena inizia a raccontare ai cronisti una storia di traumi in cella e diritti calpestati viene allontanato da un funzionario in borghese. Neppure al conduttore Flavio Insinna è consentito molto altro che qualche stretta di mano. Poche ore prima del pranzo “dell’Onu di Trastevere” era toccato alla delegazione radicale guidata da Marco Pannella visitare l’istituto e denunciare: “In Italia la democrazia è negata, nemmeno le bestie vivono così, è una bomba che può esplodere in ogni momento”. Per più della metà “Regina Coeli” parla straniero e, senza i mediatori culturali tagliati dal budget, neppure si riesce ad avvisare consolati e famiglie. La frase-simbolo della “giornata oltre le sbarre” è la definizione di Giorgio Napolitano del sovraffollamento carcerario: “Una questione di prepotente urgenza sul piano costituzionale e civile”. I detenuti dovrebbero ricevere recupero e rieducazione e invece la formazione professionale è bloccata: sono costretti in celle sovraffollate per 20-22 ore al giorno tra malattie che si diffondono, suicidi, violenza, operatori penitenziari abbandonati a loro stessi. “Una buona notizia per gli italiani: se si esce prima dal carcere non si commettono più reati, ma di meno - spiega il portavoce di Sant’Egidio, Mario Marazziti. La cattiva notizia invece è che se si resta di più in carcere, fino alla fine della pena, e in condizioni sempre più invivibili, una volta liberi si commettono più reati e si ritorna in cella. Un circolo vizioso disperante e da spezzare”. Il carcere italiano produce recidive pari al 69%. Al contrario, quanti hanno usufruito dell’indulto sono tornati a delinquere nel 33% dei casi, cioè meno della metà. “A guardare in profondità il dato è ancora più eclatante - continua Marazziti. Chi ha usufruito dell’indulto provenendo da misure alternative (comunità terapeutiche, arresti domiciliari e altro) è caduto in recidive nel 22%, tre volte meno dei normali detenuti che hanno scontato tutta la pena”. Per non incorrere nella condanna di Strasburgo in molti istituti penitenziari, a causa del sovraffollamento, vengono lasciate aperte le porte delle celle per includere i corridoi e gli spazi comuni nella superficie procapite che altrimenti sarebbe sotto gli standard minimi e porterebbe a sanzioni. Il decreto “svuota-carceri” del guardasigilli Paola Severino è un primo passo ma, alle commissioni Giustizia di Camera e Senato, Sant’Egidio propone un pacchetto di misure urgenti e bipartisan “per un cambiamento immediato, non di facciata”. Anche le condizioni di lavoro del personale carcerario sono a livelli allarmanti per sottodimensionamento e assenza di mezzi. “In soli tre o quattro anni, con l’aggiunta della crisi economica, si è creata un’accelerazione nel numero dei carcerati che non ha precedenti nella storia d’Italia e che non ha nessuna corrispondenza con il tasso di criminalità - denuncia Marazziti Eppure quasi tutti i reati sono in diminuzione da circa due decenni, salvo poche eccezioni. Una situazione dannosa al Paese, che aumenta e non riduce la sicurezza e che umilia la dignità umana dei detenuti e degli operatori. Inadeguata a un Paese di grande civiltà e cultura giuridica come l’Italia”. Sant’Egidio e Radicali convergono nelle soluzioni allo choc carceri: amnistia per i reati meno gravi e uscita anticipata per che si trova a fine pena, misure alternative per malati e anziani. Giustizia: sostegno al programma di riforme del ministro Severino, in attesa dell’amnistia di Desi Bruno (Garante dei detenuti dell’Emilia Romagna) Ristretti Orizzonti, 27 dicembre 2011 Finalmente qualcosa si muove . Non è solo e non è tanto l’ampliamento previsto sino a 18 mesi della detenzione domiciliare , già introdotta con la legge 199/2010, che già in origine doveva avere portata più ampia di quanto poi , tra sterili polemiche , è stato consacrato nel testo finale ( 1 anno di pena detentiva residua con possibilità di accesso anche ai recidivi ma con esclusione degli autori di reati ricompresi nell’art. 4 bis Op). L’auspicio è che ci sia un maggior utilizzo della misura, ricordando che si tratta non di un provvedimento di clemenza, come qualcuno inopportunamente ha detto, ma di una misura di attenuazione della detenzione in carcere , laddove esista una situazione alloggiativa idonea , la cui ricaduta in termini di minor sicurezza per la collettività è smentita dall’inesistente dato su evocate evasioni di massa. Ciò che appare dirompente nelle proposte presentate dal ministro di giustizia, per quel che si legge nello schema di decreto-legge, è che il tema della libertà personale delle persone arrestate diventa centrale nell’attenzione del legislatore. Chi subisce restrizione della libertà personale deve essere portato subito davanti ad un giudice, sia per la convalida che per il giudizio direttissimo, e non deve passare per il carcere. Certo, c’è la questione delle camere di sicurezza , e non è cosa da poco. Bisognerà affrontare problemi di personale, di organizzazione, di ristrutturazione, di controllo, e su questo ultimo aspetto sarà fondamentale il ruolo che andranno a svolgere i garanti delle persone private della libertà personale, sino ad oggi in attesa di un ingresso in quei luoghi, a pieno titolo ricompresi tra quelli che rientrano nelle competenze dei garanti. Poco produttivo il riferimento, da parte dei contrari, al fatto che in quei luoghi si sono verificate violenze. Perché nelle carceri, negli Opg, nei Cie non è mai successo nulla? Se così fosse non saremmo qui a parlarne e non sentiremmo tutti l’esigenza di trovare soluzioni per luoghi che sono portatori oggi di una condizione di illegalità che investe tutto il sistema giustizia . Tutti i cambiamenti radicali comportano contrasti, e ci vuole tempo e bisognerà vigilare. Ma il principio, che pare si possa leggere nella proposta, e cioè che il carcere si deve e si può evitare, e che si potenzia la possibilità che una persona possa tornare quantomeno nella propria abitazione o possa anche affrontare il processo in stato di libertà , a seguito dell’udienza di convalida, è di portata dirompente non solo perché può incidere sul cd. effetto “porta girevole “ ed evitare che migliaia di persone vadano in carcere per uscirne pochi giorni dopo, con quel che comporta in termini di riduzione di costi e di presenze, ma anche perché può determinare un diverso sentire sul carcere, utilizzato finalmente in fase cautelare come extrema ratio, ciò che oggi non avviene. Il venir meno di migliaia di presenze “inutili “ in carcere significherebbe risolvere almeno in parte il problema dell’organico della polizia penitenziaria, e forse rendere superfluo quel piano carceri che prevede, a breve, anche in Emilia Romagna, la costruzioni di padiglioni per affrontare il sovraffollamento. Le risorse a ciò destinate potrebbero essere utilizzate alla ristrutturazione di quelli esistenti e reimpiegate per finalità di reinserimento delle persone detenute. Rispetto alle altre proposte va condiviso l’inserimento dell’istituto della sospensione del processo con messa alla prova, di cui si parla da anni e anche nella passata legislatura era stato oggetto di un tentativo fallito di introduzione nell’ordinamento, così come condivisibile l’introduzione di pene detentive non carcerarie, anche se qualche timidezza quanto a limiti edittali. Ciò che però è importante è che si tratta di misura che anticipano, almeno si spera, una riforma più completa del sistema sanzionatorio e del sistema penale nel suo complesso. Non a caso le misure che si vogliono introdurre erano già previste nei progetti ultimi di riforma del codice penale Nordio e Pisapia. In questo senso si muove anche la prevista depenalizzazione di tutti i reati puniti con pena pecuniaria. Di grande rilievo è anche la proposta di sospendere i processi a carico degli irreperibili con le modalità previste nel disegno di legge, che risolve un problema ripetutamente portato anche all’attenzione della Corte europea per la mancata conoscenza dell’esistenza di un procedimento a carico da parte di molte persone poi condannate. Si fa strada, vedremo con quante possibilità di traguardo, l’idea che la risposta punitiva nella forma della carcerazione dovrebbe riguardare solo quei casi in cui vengono lesi beni di primaria importanza, con una diversa tipologia di sanzioni, più efficaci e al contempo idonee a ridurre la sanzione detentiva, a fronte di una popolazione carceraria che attualmente è costituita da cosiddetta detenzione sociale nella misura del 80%, ovvero da persone che vivono uno stato di svantaggio, disagio o marginalità (immigrati irregolari, tossicodipendenti, emarginati) per le quali, più che una risposta penale o carceraria, sarebbero più opportune politiche di prevenzione e sociali appropriate e ancor prima che è intollerabile la presenza di persone in custodia cautelare per oltre il 40% della popolazione detenuta. I segnali sono forti, come la manifestata apertura del nuovo ministro Severino all’amnistia, che deve accompagnare un percorso complesso e articolato di riforme nel settore giustizia, capace di risolvere il dramma del carcere senza gli errori del passato quando, a inevitabili e condivisibili provvedimenti di clemenza, nulla è stato affiancato in termini di riforme strutturali. Oggi si deve cambiare, e quindi sì ad amnistia e indulto, accompagnati davvero dalla riforma del codice penale, da revisione della legislazione in tema di stupefacenti, immigrazione, recidiva, modifiche al codice di rito, ecc. Le proposte sono ormai studiate e articolate da tempo. Ora bisogna fare. Giustizia: il cappellano di Regina Coeli; poveri stranieri, l’Italia indietro di duecento anni La Stampa, 27 dicembre 2011 Padre Vittorio Trani lei è dal 1978 il cappellano di “Regina Coeli”. Nell’anniversario della visita in carcere di Giovanni XXIII, il pranzo di Sant’Egidio denuncia il sovraffollamento. Perché? “La reclusione non riabilita ne reintegra, anzi ghettizza, impedisce qualsiasi sbocco, distrugge la dignità delle persone. Il sovraffollamento raddoppia ingiustamente la pena. Regina Coeli è un carcere di prima accoglienza. Per poveracci, drogati, alcolizzati, malati di Aids, c’è un abisso tra proclami e interventi concreti. Da 20 anni gli stranieri sono la maggioranza, una Babele di lingue e disagi in cui nessuno riceve aiuto”. Qual è l’alternativa? “Molti detenuti non hanno casa ne famiglia: il reinserimento è impedito da un buio completo, da una situazione di parcheggio. Serve una virata culturale. La reclusione cosi concepita è uno strumento inutile, indietro di due secoli”. E in concreto? “Bisogna depenalizzare i reati che possono avere una diversa risposta, ricorrere al carcere solo per casi gravi e pericolosi, far sì che solo quando uno è stato riconosciuto colpevole finisca in cella. Vanno ripensati i termini della custodia cautelare. Operatori e volontari fanno il possibile ma non si può continuare con la logica dell’emergenza perenne”. Giustizia: Li Gotti (Idv), escludere i plurirecidivi da benefici del decreto svuota carceri Adnkronos, 27 dicembre 2011 “Il decreto legge del ministro della Giustizia, cerca di arginare il grave problema del sovraffollamento carcerario. Anni di chiacchiere, senza che la situazione abbia visto un qualche miglioramento. Anzi è accaduto esattamente il contrario, nonostante ben 4 annunci dell’ex ministro Alfano”. Lo scrive Luigi Li Gotti (Idv), sulla sua pagina Facebook. “Ora - aggiunge - tra le misure, v’è quella della detenzione domiciliare per i detenuti con una pena residua inferiore a 18 mesi. A novembre dello scorso anno, per lo stesso motivo, era stata prevista la detenzione domiciliare per pene inferiori a 12 mesi. Per l’appunto, con il decreto attuale, viene elevato il 12 in 18. Il provvedimento ha una durata straordinaria sino al 31 dicembre 2013”. “La detenzione domiciliare -spiega- esiste nel nostro ordinamento e riguarda le pene inferiori a 24 mesi. Perchè, allora, il decreto? La ragione è duplice: A) si introduce una procedura molto semplificata e snella. Il che è una buona cosa. Spesso le nostre procedure sono troppe complesse, tali da rendere lento il sistema. B) Si estende l’applicazione della detenzione domiciliare, anche ai recidivi gravi (ossia i detenuti che più volte ed in un termine temporale breve, hanno commesso delitti dolosi della stessa indole). È mia opinione che saranno proprio i plurirecidivi a beneficiare del provvedimento. Idv è contraria”. “L’emergenza carceri - prosegue Li Gotti - non può comportare la compromissione della sicurezza. Presenterò, il 4 gennaio, un emendamento in commissione giustizia, per escludere dalla detenzione domiciliare i plurirecidivi che abbiano una pena residua di 18 mesi. Troppo rischioso. Ai recidivi la pena viene aumentata a fini anche dissuasivi. Non è possibile omologare questi detenuti agli altri detenuti, proprio perché, non sono omologati nel trattamento sanzionatorio. Lo sarebbero solo nella concessione del beneficio. Una incongruenza ed un rischio per la società”, conclude il senatore Idv. Giustizia: un fedelissimo della Cancellieri il nuovo Commissario per l’emergenza carceri. Libero, 27 dicembre 2011 Il governo Monti rallenta l’intervento per l’emergenza carceri. È infatti stato rimosso dall’incarico il commissario delegato, Franco Ionta, messo a capo del Dap il 19 marzo 2010 con un’ordinanza dell’allora premier Silvio Berlusconi. Venerdì scorso, il 23 dicembre, il Consiglio dei ministri ha approvato un decreto che prevede che i poteri non siano più affare del capo del Dap, ma di una persona nominata apposta per questa mansione. Il prescelto è il neo prefetto Angelo Sinesio, già vice prefetto a Catania e uomo di fiducia di Anna Maria Cancellieri, ministro dell’Interno. Una scelta che sposta anche la gestione del piano carceri, come rivela Dagospia, spiegando come dalle competenze del ministero della Giustizia passi a quelle del Viminale, dicastero - appunto - della Cancellieri. Il problema di questa scelta è che Sinesio sarà catapultato (senza alcuna esperienza) in un disegno avviato un anno e mezzo fa da tonta, con tanto di gare d’appalto ormai in corso e impiego degli agenti penitenziari. Inoltre il nuovo commissario non ha personale e neanche una sede. Perciò, prima che il nuovo ingranaggio prenda a funzionare correttamente, passeranno inutilmente alcuni mesi. Tempo sprecato, mentre l’emergenza nelle carceri italiane si aggrava di giorno in giorno. Sardegna: Sdr; un nuovo provveditore regionale alle carceri, con doppio incarico Ristretti Orizzonti, 27 dicembre 2011 È durato solo sei mesi il ruolo esclusivo per la Sardegna del Provveditore regionale. Gianfranco De Gesu, responsabile dell’amministrazione penitenziaria dell’isola, dove si è insediato il 20 giugno 2011, ha infatti assunto dal 2 dicembre scorso, anche l’incarico di Provveditore della Calabria dove peraltro era stato vicario nei mesi precedenti. “Nel complimentarci per la nuova sfida che il dott. De Gesu sta affrontando, non si può non rilevare - afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme” - che il Dipartimento dovrebbe garantire continuità esclusiva alla direzione del Prap (Provveditorato Regionale Amministrazione Penitenziaria). La Sardegna infatti è rimasta per circa un anno senza un responsabile regionale e per far fronte alle diverse emergenze ha bisogno di una esclusiva continuità amministrativa”. “L’emergenza carceri come sa bene il Ministro Paola Severino, che ha dimostrato una particolare sensibilità nei confronti della condizione dei detenuti sardi, deve essere affrontata anche garantendo - sottolinea Caligaris - la presenza dei rispettivi responsabili negli Istituti Penitenziari e nei Provveditorati regionali. In Sardegna invece, oltre al Provveditore con doppio incarico, ci sono tre Istituti (Iglesias, Lanusei, Tempio Pausania) e due colonie penali (Is Arenas e Mamone) assegnati a direttori titolari in Case Circondariali particolarmente impegnative come Cagliari, Sassari, Nuoro e Oristano. Senza dimenticare la cronica carenza di agenti di Polizia Penitenziaria”. “Una situazione non adeguata - conclude la presidente di Sdr - a contenere il disagio e a individuare le migliori strategie per rendere le condizioni di vita dei detenuti maggiormente rispettose della dignità umana. Inaccettabile nella prospettiva di apertura delle nuove strutture penitenziarie che rischiano di diventare cattedrali nel deserto”. Gianfranco De Gesu, nominato direttore generale il 18 novembre 2010, è attualmente componente dello staff di sette funzionari a stretto contatto col capo del dipartimento per l’analisi delle emergenze negli istituti penitenziari. È inoltre componente del gruppo di tre funzionari incaricato di verificare l’esecuzione da parte delle direzioni generali delle disposizione in materia di edilizia penitenziaria. Firenze: delegazione del Pd in visita a Sollicciano, situazione intollerabile 9Colonne, 27 dicembre 2011 Tre metri quadri di spazio per detenuto, infiltrazioni di acqua e umidità, turni massacranti per gli agenti di polizia penitenziaria e per gli educatori. È la situazione che si è trovata davanti la delegazione del Pd metropolitano di Firenze che, alla vigilia di Natale, ha visitato il carcere di Sollicciano. Una lunga visita che ha consentito al segretario Patrizio Mecacci, ai senatori Silvia Della Monica e Achille Passoni, ai responsabili dei forum del Pd metropolitano Politiche Sociali Antonio Pala e Giustizia Massimiliano Annetta e al coordinatore del forum Pd toscano Giustizia Stefano Pagliai, di toccare con mano le drammatiche condizioni in cui vivono gli oltre 1.000 detenuti (su una disponibilità di 450 posti) e i lavoratori del penitenziario fiorentino. La delegazione del Pd ha regalato alcuni giochi per l’asilo nido del carcere che ospita i bambini delle detenute. “La situazione di Sollicciano è nota, ma entrarci dentro è tutta un’altra cosa”, dice il segretario Mecacci. “Ogni sezione, eccetto quella riservata ai transessuali, ospita mediamente 66 detenuti quando invece dovrebbe ospitarne venti e ha soltanto cinque docce. In alcune sezioni manca l’acqua calda e ci sono infiltrazioni di acqua e quindi tracce di umidità praticamente ovunque, perfino sui materassi”. Le celle, ciascuna di 12 metri quadri, sono state concepite per ospitare un detenuto, spiega la nota del Pd di Firenze, e invece ne ospitano almeno tre, quando non addirittura quattro. Il personale di custodia dovrebbe contare su 692 operatori, ma attualmente ne sono attivi meno di 400. Il risultato è che i lavoratori devono sopportare turni massacranti e inoltre operano in condizioni di scarsa sicurezza, se si considera che gli addetti a ciascuna sezione dovrebbero essere tre per turno ma, a causa della penuria di personale, ne viene utilizzato solo uno. I tagli ai fondi ministeriali, continua il Pd Firenze, hanno reso la vita all’interno del carcere al limite della sopravvivenza: non possono essere effettuati i normali interventi di manutenzione, in alcune sezioni mancano addirittura la carta igienica e le posate, sono sempre meno i detenuti che partecipano alle attività lavorative perché la diaria è stata ulteriormente ridotta a meno di un euro l’ora (e in ogni caso non ci sarebbe sufficiente personale per il servizio di vigilanza). “Questa situazione intollerabile ha cause precise - dice Mecacci - e cioè leggi sbagliate, dannose, come la Bossi-Fini, la Cirielli, la Fini-Giovanardi. La maggior parte delle persone che oggi sono a Sollicciano è detenuta per furti o borseggi e per piccolo spaccio di droga (e almeno il 30% dei detenuti sono tossicodipendenti, diversi dei quali affetti da epatite C). Insomma in carcere ci finiscono soprattutto i più deboli, molti dei quali - penso ai tossicodipendenti - dovrebbero poter stare in altri luoghi come le comunità di recupero”. “Per questo - conclude il segretario metropolitano del Pd fiorentino - guardiamo con attenzione agli impegni presi dal governo Monti, e in particolare dal nuovo ministro della Giustizia Paola Severino, per migliorare le condizioni dei penitenziari italiani. È però evidente che c’è l’esigenza di interventi strutturali”. Lucca: parlamentari Pd in visita al carcere, si istituisca il garante per i detenuti www.loschermo.it, 27 dicembre 2011 “Quasi il doppio dei detenuti consentiti (sono 185, dovrebbero essere 99), una cronica assenza di spazi e di servizi interni, il continuo taglio dei fondi statali (meno 38% rispetto al 2010), la piaga della carcerazione preventiva (oltre il 60% è in attesa di giudizio). È una situazione intollerabile, di totale illegalità, per questo intanto chiediamo formalmente ai comuni di Lucca e di Viareggio di costituire congiuntamente il garante per i diritti del detenuto”. Lo hanno denunciato i parlamentari democratici Andrea Marcucci, Manuela Granaiola e Raffaella Mariani, che sabato 24 dicembre hanno visitato il carcere San Giorgio di Lucca, incontrando il direttore Francesco Ruello, gli agenti di custodia ed i detenuti. I numeri raccontano anche altre cose: al San Giorgio 105 detenuti sono stranieri (in prevalenza rumeni), di cui 85 extracomunitari (tunisini e marocchini su tutti), i reati sono prevalentemente consumati in Versilia, c’è un’altissima percentuale di tossicodipendenti (oltre il 35%) e di detenuti con problemi psichiatrici, gli agenti di custodia in servizio sono 83 (meno 33% rispetto agli organici previsti, ovvero 125) con un leggero aumento rispetto all’ultima visita parlamentare nell’agosto scorso, in cui erano 75, molto frequenti infine sono i casi di autolesionismo. Per effetto del recente decreto svuota carceri approvato dal governo il 16 dicembre scorso e che prevede la possibilità di scontare gli ultimi 18 mesi di pena agli arresti domiciliari, potrebbero uscire dall’istituto circa 56 detenuti. “Purtroppo è una cifra virtuale - hanno spiegato i parlamentari - la maggior parte dei reclusi sono extracomunitari senza domicilio idoneo. Quindi temiamo che il sovraffollamento resti pesante. Serve una maggiore integrazione con le istituzioni e con le nostre città. È il motivo che ci ha spinto a proporre formalmente ai comuni di Lucca e di Viareggio di istituire insieme la figura del garante, così come hanno già fatto Firenze, Pisa e Livorno”. C’è poi il capitolo dolente dei fondi a disposizione dell’amministrazione carceraria. “Sono meno di 20mila euro all’anno per una struttura che cade letteralmente a pezzi. Un problema enorme che incide anche nel servizio di traduzione fuori dal carcere per visite mediche”. Per Marcucci, Granaiola e Mariani “bisogna incentivare i progetti di formazione, fare in modo che vengano assicurati almeno gli interventi strutturali urgenti per contrastare la fatiscenza dell’istituto e rafforzare all’esterno la rete di accoglienza per i più sfortunati, consentendo così anche a loro di accedere alle misure alternative al carcere”. Sassari: Marco Erittu eliminato in cella perché “sapeva troppo” La Nuova Sardegna, 27 dicembre 2011 A Sassari delitto dietro le sbarre per far sparire i legami tra due sequestri. Attesi altri sviluppi inediti nella vicenda del detenuto ucciso, all’inizio il caso era stato archiviato come suicidio. La storia di una morte in carcere collega quella di due sequestrati mai tornati a casa. Da Marco Erittu a Giuseppe Sechi e Paoletto Ruiu. C’è voluto un pò di tempo per diradare la nebbia attorno a quello che non poteva essere un suicidio in cella, e spalancare le porte su altre due vicende terribili: il giovane muratore di Ossi, sparito dopo essere partito da Sorso (dove era stato a casa della sua fidanzata), e il farmacista di Orune. Un lembo dell’orecchio di Giuseppe Sechi era stato inviato ai familiari di Ruiu nel tentativo di rafforzare la richiesta del riscatto. E gli esami del Dna su una benda trovata nella grotta sul monte Corrasi - dove venne tenuto prigioniero Antonio Marras di Ozieri (che riuscì a liberarsi) - consentirono di appurare che il sangue apparteneva proprio a Paoletto Ruiu. Incroci incredibili, nei quali si muove da diversi mesi la Direzione distrettuale antimafia di Cagliari con i carabinieri del Nucleo investigativo del Reparto operativo del comando provinciale di Nuoro. C’è un collaboratore di giustizia - Giuseppe Bigella, falegname di Porto Torres, in carcere per l’omicidio della gioielliera Fernanda Zirulia - che si è autoaccusato di avere ucciso in cella Marco Erittu. Racconta di averlo fatto “perché non avevo niente da perdere”, e per ingraziarsi persone potenti, che contavano parecchio nella casa circondariale di San Sebastiano. Tra questi Pino Vandi (era cognato di Marco Erittu, mai i due si odiavano), arrestato (come presunto mandante dell’omicidio) insieme all’agente della polizia penitenziaria Mari o Sanna (coindagato, sospettato di avere aperto la porta della cella ai killer) e all’altro detenuto Nicolino Pinna (per il quale non è stato emesso un provvedimento restrittivo). Giuseppe Bigella ha confermato a fine ottobre tutte le accuse che sono state “cristallizzate” in un incidente probatorio durato una quarantina di minuti. Il suo compito, insieme al complice, - ha detto - era quello di uccidere Marco Erittu e di simulare una impiccagione. E per anni quella “esecuzione imperfetta” è rimasta tale. Pur sommersa dai dubbi e dai sospetti che il detenuto sassarese fosse stato ucciso perché si apprestava a parlare. A raccontare ciò che sapeva, specie sulla scomparsa di Giuseppe Sechi. La voce che circolava con insistenza è che Marco Erittu avesse scoperto dove era stato seppellito il muratore di Ossi pedinando Pino Vandi con lo scopo di individuare un nascondiglio della droga. E, indirettamente, quel filone porta anche al sequestro di Paoletto Ruiu, traccia possibili collegamenti tra la banda di sequestratori e la criminalità emergente del Sassarese. Ecco, l’uccisione di Marco Erittu e la “confessione” di Giuseppe Bigella hanno fatto scattare anche una inchiesta bis sulla scomparsa di Giuseppe Sechi e il sequestro di Paoletto Ruiu. Le indagini procedono in maniera spedita e potrebbero riservare altri sviluppi. Roma: relazione del Tribunale di sorveglianza; a Regina Coeli condizioni di criticità Ansa, 27 dicembre 2011 Nel carcere di Regina Coeli ci sono condizioni di criticità. Lo sostengono i giudici del Tribunale di Sorveglianza di Roma, secondo quanto si apprende dalla presidenza, in una relazione sullo stato del penitenziario inviata il 9 dicembre al ministero della Giustizia e al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap). In un comunicato, la presidenza del Tribunale rende noto di aver ricevuto già il 3 dicembre allarmanti segnalazioni circa le gravi condizioni dei detenuti della Casa Circondariale di Roma Regina Coeli e di aver inviato la relazione sei giorni dopo. La segnalazione era giunta da un gruppo di parlamentari che avevano visitato il carcere, riferisce la presidenza del Tribunale. Il giorno di Natale un’altra visita è stata compiuta dai deputati Rita Bernardini (Radicali), Jean Leonard Touadì e Roberto Giachetti (Pd), assieme al leader radicale Marco Pannella. A Regina Coeli c’è una condizione di totale illegalità - ha detto Bernardini: lo Stato si comporta come un criminale. La segnalazione dei fatti alla competente Autorità amministrativa - si legge ancora nella nota - costituisce il potere-dovere del Magistrato di Sorveglianza ai sensi dell’art. 69 Ordinamento Penitenziario, compito questo adempiuto con la massima celerità. Tale compito continuerà ad essere svolto fino alla piena realizzazione di condizioni che siano rispettose dei diritti dei detenuti di ogni Istituto, anche in custodia cautelare. Capodanno amaro nelle celle di Poggioreale. Il Pd presenta un’interrogazione sui disservizi “Questi giorni di festa assumono un tono amaro e triste dopo la visita nel pomeriggio di Natale al carcere di Poggioreale. Una realtà che non lascia speranza di ripresa e di riavviamento alla vita per chiunque vi entri per scontare una pena”. È quanto sottolinea, in una nota, il deputato del Pd, Guglielmo Vaccaro, che in merito al carcere napoletano aggiunge: “Oltre al sovraffollamento - problema che affligge la maggior parte delle carceri in Italia - a peggiorare le condizioni di vita di detenuti e addetti ai lavori in un periodo così freddo dell’anno è l’inconcepibile mancanza di riscaldamento”. “La calca di centinaia di persone attorno a stufe di fortuna, bardate di cappotti indossati sopra ai pigiami è solo una delle immagini drammatiche che resterà a vita nella mia testa - spiega - L’Italia è un Paese civile e democratico, non é pensabile che condanni chi ha sbagliato a condizioni disumane come quella cui ho assistito a Poggioreale. La recente visita del Santo Padre e gli impegni assunti dal ministro Severino non hanno prodotto a Napoli alcun miracolo di Natale. Eppure, basterebbero pochi euro per avviare una caldaia”. “Depositerò immediatamente in Parlamento un’interrogazione in proposito e a Capodanno ritornerò a Poggioreale”, conclude. Paliano (Fr): inchiesta “Terre di Mezzo”; direttrice carcere fa anche guardia in portineria Ansa, 27 dicembre 2011 Il sistema di videoconferenza fuori uso, la videosorveglianza solo nella sala colloqui e nel refettorio, carenza di agenti di polizia penitenziaria. Ma non è tutto: la direttrice è anche costretta a fare la guardia in portineria. È questa la situazione del carcere di massima sicurezza di Paliano, nel Frusinate, dove sono reclusi quarantatré collaboratori di giustizia. Lo scrive nel numero di dicembre “Terre di mezzo”, che ha realizzato l’inchiesta dal titolo “La fortezza degli invisibili”, in cui si racconta la vita nel supercarcere ma anche fuori, tra la gente della cittadina in provincia di Frosinone. Un istituto di pena che ospita quasi un quarto dei pentiti detenuti in Italia, ma dove la carenza di agenti di polizia penitenziaria (ne mancano venti) si fa sentire, come in tante altre carceri laziali e italiane. Il sistema di videoconferenza fuori uso non permette ai pentiti di testimoniare senza andare in tribunale. “Alla direttrice Nadia Cersosimo - scrive Terre di mezzo - è capitato anche di dover fare la guardia in portineria per mancanza di personale. E gli attrezzi e gli ingredienti del corso di cucina li paga di tasca sua”. Bologna: Cgil; urge chiarezza sugli abusi nell’Ipm del Pratello Dire, 27 dicembre 2011 È necessario che “venga fatta quanto prima chiarezza sugli episodi relativi a maltrattamenti a minori riportati dalla stampa a seguito dell’Ispezione ministeriale” al carcere minorile del Pratello di Bologna. Lo dice Maurizio Serra, funzionario della Fp-Cgil di Bologna, a fronte del susseguirsi di racconti relativi ai “metodi da aguzzini” usati dalle guardie in servizio al Pratello. “La nostra idea, a tal proposito, è che il lavoro che la magistratura sta svolgendo debba essere compiuto con rapidità e con la necessaria serenità”, afferma Serra in un comunicato. “Nell’interesse dei minori e dei lavoratori, di cui è in svariate occasioni è emerso il senso del dovere nell’adempimento delle proprie funzioni, è bene che si accertino tutte le responsabilità così da evitare inique e sbagliate generalizzazioni”, sottolinea il sindacalista. La Fp-Cgil ci tiene poi a dire che non vanno “in alcun modo disgiunte le condizioni di lavoro della Polizia penitenziaria da quelle di vita dei minori ristretti: un lavoro di qualità a nostro avviso è sinonimo di migliore qualità di vita per i minori ristretti”. Infine, “ci auguriamo che il clima causato da questa triste vicenda non influisca negativamente sull’immagine del corpo di Polizia penitenziaria e soprattutto sul lavoro che quotidianamente detto personale ha fin qui svolto e continuerà a svolgere all’interno della struttura”, conclude Serra. Bologna: ricorso dell’Ass. Papillon contro il Garante dei detenuti “la nomina è illegittima” La Repubblica, 27 dicembre 2011 Depositato al Tar dall’associazione Papillon: “Irregolarità nella scelta, Elisabetta Laganà è incompatibile con quel ruolo perché non è una persona terza”: è stata giudice onorario del Tribunale di sorveglianza. Un passato professionale “ineccepibile” ma incompatibile con la nomina di garante dei detenuti. Così l’associazione Papillon motiva il deposito presso il Tribunale amministrativo regionale del ricorso contro la scelta di Elisabetta Laganà per il ruolo di garante delle persone private della libertà. “Con questo atto intendiamo chiedere giustizia al magistrato in merito a una nomina che percepiamo come illegittima sia nel metodo che nel merito”, spiega in una nota Valerio Guizzardi, di Papillon. La contestazione riguarda sia le “irregolarità avvenute nel percorso di individuazione della candidata” sia il problema della sua “incompatibilità” per il “passato professionale” di Laganà, che è stata giudice onorario del Tribunale di sorveglianza. “Nulla abbiamo da eccepire” sulla sua carriera, spiega l’associazione, “ma è palesemente in contrasto con la qualità di persona terza ben descritta nello statuto del Garante”. Roma: donati da Ama 100 libri a detenuti Regina Coeli Italpress, 27 dicembre 2011 Questo pomeriggio, il presidente di Ama Piergiorgio Benvenuti, insieme a Isabella Rauti, Consigliere della Regione Lazio e componente dell’Ufficio di Presidenza, e a Chiara Colosimo, Vicepresidente della Commissione Lavori Pubblici e Politica della Casa della Regione Lazio, si è recato nel carcere di Regina Coeli per donare 100 libri ai detenuti reclusi nella casa circondariale della Capitale (oltre a 50 panettoni). Si tratta di una parte dei testi raccolti durante l’iniziativa Ri-Leggo, promossa da Ama e Roma Capitale in collaborazione con l’associazione culturale “Hola” e con il patrocinio delle Biblioteche di Roma nell’ambito della Settimana Europea per la Riduzione dei Rifiuti, attraverso la quale, nello scorso novembre, numerosi romani hanno consegnato libri (fumetti, romanzi, saggi, raccolta di poesie, ecc.) ancora in buono stato per essere, poi, destinati alle biblioteche e ai centri specializzati del circuito Biblioteche di Roma oppure ridistribuiti durante iniziative eco-solidali. Per il Presidente di Ama, Piergiorgio Benvenuti, si è trattato di “un’iniziativa fortemente voluta dall’Azienda che ha trovato la piena disponibilità dei responsabili della struttura carceraria. Queste occasioni sono la testimonianza che grazie alla collaborazione tra istituzioni e cittadini è possibile realizzare iniziative di alto valore sociale. Libri, ormai destinati al macero o abbandonati in qualche cantina, possono così rivivere nelle mani di altri lettori in uno spirito eco-solidale”. Per i Consiglieri regionali Isabella Rauti e Chiara Colosimo “le criticità del carcere di Regina Coeli sono il sovraffollamento, i problemi di organico della polizia penitenziaria e i problemi di gestione ordinaria e straordinaria e di manutenzione della struttura dovuti a un edificio ormai datato. Il carcere sconta la sua vocazione di casa circondariale il che non consente attività trattamentali di lunga durata e quindi di lavoro e reinserimento nella società. Tra i molteplici problemi presenti, però, spunta come un fiore all’occhiello la biblioteca “Lo scalino”, convenzionata con il circuito Biblioteche di Roma, che conta ben 4.000 volumi, molti dei quali anche in lingue straniere, una sala multimediale e una sala proiezioni”. Siracusa: Natale di solidarietà e di riscatto nel carcere di Cavadonna Gazzetta del Sud, 27 dicembre 2011 Un Natale segnato sì dalla crisi - autentico... piatto forte di tutte le discussioni - ma che, almeno nei momenti canonici, ha riproposto intatti tutti suoi riti, da quelli più spirituali con le chiese affollate per la celebrazione della Messa della Natività, a quelli più “laici” (ma non meno tradizionali e... affollati) dei cenoni e dei pranzi consumati rigorosamente in famiglia. Il Natale ha, dunque, riproposto il suo volto più usuale che ha avuto nell’altrettanto immancabile “rito” dell’apertura dei regali (ma anche qui la crisi si è fatta sentire...) uno dei momenti più attesi, specie dai più piccoli, e della città “vestita” di luci e di abeti addobbati di tutto punto come, ad esempio, quello formato maxi allestito in piazza Duomo. Ma il volto bello del Natale è stato anche quello della solidarietà, fatto dai tanti gesti che tantissimi, nel quotidiano e molto spesso a riflettori spenti, hanno voluto fare. Un invito a sedere a tavola ad una persona rimasta sola, un piatto portato direttamente a casa di chi non avrebbe altrimenti avuto come fare per mangiare e fare così anche festa, una visita a chi non sta bene, un impegno nel lavoro per chi sta magari pagando il proprio debito con la società e con la Giustizia per un errore compiuto. Tra le diverse iniziative che hanno visto la luce ancora una volta quella animata dai volontari della parrocchia di Bosco Minniti. Padre Carlo D’Antoni, come ormai consolidata abitudine, ha aperto le porte della Chiesa il giorno di Natale per trasformare l’edificio sacro in una grande sala da pranzo dove oltre cento persone, per lo più migranti, si sono trovate a condividere il piacere del pranzo messo su grazie alla collaborazione di tanti, privati così come gruppi ed associazioni. E proprio alla mensa di padre Carlo sono stati tra l’altro protagonisti l’Assostampa, il sindacato unitario dei giornalisti siracusani, e l’Ucsi, l’Unione dei giornalisti cattolici, che hanno partecipato all’allestimento del pranzo con le pietanze che, oltre ad essere consumato in chiesa, sono state anche recapitate a domicilio ad alcune famiglie assiste dalla ronda della solidarietà che fa riferimento alla stessa chiesa. Un Natale, dunque, all’insegna della solidarietà ma anche del riscatto. In quest’ultimo caso i protagonisti sono stati venti detenuti della casa circondariale di Cavadonna che hanno realizzato un presepe posto all’ingresso dell’istituto di reclusione. Il presepe, di legno decorato, è stato interamente costruito a mano con un lavoro meticoloso ed è stato inserito all’interno di un corso per falegnameria realizzato nell’ambito del progetto “Liberamente”, finanziato dalla Regione e nato dalla sinergia del Consorzio Quark, dell’Area Marina Protetta del Plemmirio e dalla delegazione di Agrigento di “Marevivo”. “Il presepe - ha spiegato la direttrice della casa circondariale di Cavadonna Angela Gianì - rappresenta un “pezzo” di vita siciliana: trovo particolarmente significativo che accompagni visivamente i familiari dei detenuti nel percorso all’interno del carcere, quando vengono in visita ai loro cari. Il presepe rappresenta la rinascita e pertanto mi sembra uno splendido auspicio per il loro futuro reinserimento in società”. Soddisfatta per i “risultati oltre le aspettative” la direttrice del corso Concetta Carbone. “I detenuti che hanno preso parte al progetto hanno mostrato entusiasmo e acquisito capacità spendibili una volta terminata la loro detenzione”. Torino fuga dal Cie la notte di Natale scappano in 21 dalla struttura di Corso Brunelleschi La Stampa, 27 dicembre 2011 Hanno forzato porte, tagliato reti, scavalcato recinzioni. La sera di Natale, 35 nordafricani hanno tentato la fuga dal Cie di corso Brunelleschi. Quattordici sono ritornati nelle casette prefabbricate, rintracciati dalle forze dell’ordine in varie zone della città nelle ore successive all’evasione. Ma 21 sono riusciti a far perdere le proprie tracce. Anche perché gli agenti del presidio interforze cercano di non reagire mai in modo violento, considerato che si tratta di persone recluse sì ma non in stato di detenzione, e solo in attesa di essere identificate e quindi in teoria - espulse. Al centro della tensione, i tunisini sbarcati a Lunghi mesi di attesa per essere identificati “Questi luoghi sono stati dimenticati” Lampedusa nei mesi scorsi. Ognuno, ogni giorno, tra vitto, mantenimento, sicurezza, costa all’Erario più o meno 150 euro. Con il trascorrere dei mesi - rischia di diventare insostenibile. Una sorta di fuga annunciata da tanti piccoli episodi avvenuti la scorsa settimana. Non solo a Torino, ma anche negli altri centri italiani. Che ci sia una regia esterna, ormai, non ci sono più dubbi. Polizia, carabinieri e alpini fanno ispezioni tutti i giorni, proprio per scongiurare il pericolo di rivolte e di fughe di massa. Poche ore prima, avevano sequestrato lenzuola annodate e cornici di metallo delle finestre dei bagni delle varie strutture, nascosti nelle maniche dei giubbotti. “Armi” del tutto simili a quelle utilizzate la sera di Natale per forzare le porte e le reti, già messe a dura prova in vari tentativi di rivolta degli ultimi giorni. Forse, quegli episodi erano addirittura diversivi o comunque atti preparatori alla “grande fuga”. I 35 nordafricani hanno scelto l’ora di cena del giorno di Natale. Sorveglianza minima, anche se proprio per la festività era stato piazzato vicino al Cie un contingente del Reparto Mobile. Poco dopo le 21, è esplosa la rivolta, culminata nella fuga di massa. Molti hanno scelto di saltare il muro utilizzando come trampolino una garitta in corso Brunelleschi, utilizzata come riparo da agenti e militari incaricati di sorvegliare il perimetro della struttura. Afghanistan: Natale a Herat, nel carcere modello rifatto dall’Italia Ansa, 27 dicembre 2011 È una fila interminabile, ma paziente, quella che si snoda dietro il muro di fango del carcere di Gales Zon Gharb nel centro di Herat. Sono i parenti dei detenuti che aspettano di entrare per i colloqui. Portano frutta e viveri e si sottopongono apparentemente senza fiatare a controlli di sicurezza lunghissimi quanto approssimativi. Un carcere modello, tiene a precisare il generale Al Haj Abdol Majid Sadeghi, direttore del penitenziario. Punto di eccellenza del carcere che ospita attualmente 2.500 detenuti complessivamente, la sezione femminile dove alle 150 donne presenti viene garantita un’istruzione, un lavoro (tappeti, estetiste) mentre le 85 di loro che hanno figli minori di otto anni possono trascorrere molto tempo con i loro bambini. Celle ampie, dove vivono fino a dodici detenute con spazi comuni e un piccolo campo di pallacanestro. È, questo, il frutto del progetto italiano realizzato dal Prt (Provincial reconstruction team) nel 2008 con una spesa di 330mila euro. I reati più diffusi tra le detenute riguardano la droga, ma molte sono anche le cosiddette “scappate di casa” che litigano con i parenti spesso per sottrarsi ai matrimoni combinati e vengono respinte dalle famiglie, ma sono perseguibili per il codice afgano. Recentemente il presidente Karzai ha amnistiato cinquanta di loro a Herat, ma dieci sono rimaste in carcere perché non sapevano dove andare. “Progetti sociali come questo - spiega il colonnello Giacinto Parrotta, a capo del Prt di Herat - rappresentano la nostra priorità; in cinque anni abbiamo realizzato scuole, ospedali e carceri per un totale di 30 milioni di euro, in molte zone rurali dove non esistono carceri femminili stiamo allestendo strutture ad hoc”. Il generale Sadeghi guarda a Parrotta come al suo migliore alleato nell’opera riformatrice che intende perseguire. Ora la richiesta riguarda armadietti nuovi per le detenute. Verrà fatta una gara e verranno consegnati presto. Il generale vorrebbe anche un’auto di servizio per sé, ma per quella, forse, dovrà attendere ancora. Etiopia: 11 anni di carcere a due reporter svedesi accusati di sostenere il terrorismo Ansa, 27 dicembre 2011 Due giornalisti svedesi riconosciuti colpevoli di “sostegno al terrorismo” e ingresso illegale in Etiopia sono stati condannati oggi a 11 anni di carcere da un tribunale del Addis Abeba. I due - il giornalista Martin Schibbye e il fotografo Johan Persson - erano stati arrestati il primo luglio alla frontiera con il Puntland in compagnia dei ribelli del Fronte nazionale di liberazione dell’Ogaden. “Questa pena risponde all’obiettivo della pace e della stabilità”, ha detto il giudice Shemsu Sirgaga, durante l’udienza in un tribunale della capitale. Le sue dichiarazioni sono state tradotte dall’amarico all’inglese da un interprete. I due giornalisti sono stati riconosciuti colpevoli la scorsa settimana. L’accusa aveva dunque chiesto la condanna a 18 anni e mezzo di prigione. Durante il processo i due avevano riconosciuto di essere penetrati illegalmente sul territorio etiopico e di essere entrati in contatto con l’Onlf, ma solamente per indagare sulle attività del gruppo petrolifero svedese Lundin Petroleum. I due si sono sempre dichiarati innocenti per le accuse di terrorismo. Sulla possibilità di ricorrere in appello, l’avvocato dei due reporter, Abebe Balcha, ha detto che ne avrebbe parlato con loro giovedì prossimo: “Decideremo in quel momento se ricorrere in appello o no”, ha aggiunto. Già la scorsa settimana diverse organizzazione di difesa dei diritti umani avevano criticato la condanna dei due giornalisti, e la Svezia aveva chiesto ad Abbis Abeba di liberarli “al più presto possibile”. Preoccupazione era stata espressa anche dagli Stati Uniti. Anche i ribelli dell’Olnf hanno definito ingiusto il verdetto. Dal 1984, il gruppo lotta per l’indipendenza dell’Ogaden, una regione del sud-est dell’Etiopia a maggioranza somale e, secondo i ribelli, marginalizzata da Addis Abeba. Cina:10 anni prigione a dissidente, allarme Onu per repressione Agi, 27 dicembre 2011 La giustizia cinese ha condannato il dissidente, Xi Chen, uno degli eroi di Tienanmen, a 10 anni di carcere per sovversione. Lo ha reso noto la moglie, Zhang Qunxuan. La pena è tra le più pesanti comminate per motivi politici dalla giustizia cinese dopo la condanna, nel 2009, di Liu Xiaobo. Il dissidente, 42 anni, è stato condannato nel Sichuan per “sovvertire il potere contro lo Stato” dopo aver pubblicato su internet scritti a favore della democrazia. Chen fu uno dei cento firmatari della Carta 08, il manifesto politico a favore di riforme politiche per cui è stato condannato a 11 anni di carcere lo stesso Liu Xiaobo, Premio Nobel per la Pace. L’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, Navy Pillay, si è detta “profondamente preoccupata” per la “severa sentenza” che “indica un rafforzamento delle già severe restrizioni alla libertà d’espressione in Cina”: “La condanna e la sentenza”, ha aggiunto, sono “l’ultimo esempio di un’escalation di misure drastiche contro i difensori dei diritti umani in Cina”. Egitto: tribunale mette fine a test di verginità sulle detenute Agi, 27 dicembre 2011 Un tribunale egiziano ha ordinato che vengano interrotti i testi forzati di verginità sulle detenute nelle prigioni. La sentenza dopo che una manifestante di piazza Tahrir, Samira Ibrahim, aveva denunciato di essere stata sottoposta al test ad aprile, dopo l’arresto durante una manifestazione al Cairo. Le organizzazioni a tutela dei diritti umani avevano confermato di aver avuto notizia della procedura. Adesso la decisione del giudice Aly Fekry, la cui sentenza è stata accolta dal grido di giubilo delle centinaia di attivisti assiepati nell’aula di tribunale.