Giustizia: ministro Severino; processo civile in 3 anni e sullo svuota-carceri niente battaglie di Dino Martirano Corriere della Sera, 20 dicembre 2011 Ieri sera, mentre era in treno diretta a Milano, la Guardasigilli Paola Severino già pensava alla fase due della parte di programma di governo che le compete: “Un sogno nel cassetto? Devo essere sincera, mi piacerebbe che un processo civile durasse al massimo tre anni. Un termine ragionevole per risolvere controversie anche complesse. In questo modo l’Italia si adeguerebbe alla media dell’Unione Europea. Solo così saremo in grado di dare certezze agli operatori economici e agli investitori stranieri che sono spaventati dall’assenza di regole e di tempi certi”. Per questo il ministro della Giustizia - che dopo l’esperienza politica giura di voler tornare ad indossare la toga di avvocato-pensa che i primi ad auspicare la rivoluzione del processo civile in tre anni debbano essere i suoi colleghi accusati di voler bloccare le riforme, a partire da quella sulla media conciliazione obbligatoria: “Io non sono d’accordo quando gli avvocati vengono definiti come una potente lobby... Però a loro dico che non devono temere i cambiamenti perché chi è bravo continuerà a lavorare tanto e con profitto, anche se i processi sono più celeri”. Oggi però, prima ancora di vedersela con i tanti avvocati eletti in Parlamento, Paola Severino dovrà convincere i senatori della commissione Giustizia sull’efficacia delle norme contenute nel decreto legge “svuota carceri” varato venerdì scorso. Quel testo verrà pubblicato solo domani in Gazzetta ufficiale, ma è già oggetto di vivaci polemiche soprattutto nel punto in cui prevede che gli arrestati in flagranza di reato vengano trattenuti nelle camere di sicurezza delle questure in attesa della convalida: “Anche se siamo convinti che questa sia la strada giusta, non credo che sul punto ci sia necessità che il governo faccia le barricate”. Oggi pomeriggio, dunque, Paola Severino si presenterà in commissione al Senato con l’annuncio che il testo del decreto non è blindato in sede di conversione. In effetti - sulla norma che obbliga di trattenere gli arrestati nelle Camere di sicurezza e, al tempo stesso, dimezza da 96 a 48 ore la durata massima della custodia pre cautelare - si sono espressi negativamente numerosi esponenti del Pdl (Francesco Nitro Palma e Gaetano Pecorella, tra gli altri) e Andrea Orlando del Pd: “Però - osserva ancora il ministro - i partiti e la stessa Associazione nazionale magistrati hanno proposto formule correttive per cui penso di recepire i suggerimenti che rispondono a un criterio di razionalità e alla rigorosa tutela delle garanzie”. Eppure, ieri, un appoggio indiretto al programma del ministro Severino (lotta al sovraffollamento in carcere, processo civile in tre anni, nuove circoscrizioni giudiziarie) è arrivato nel corso dell’incontro tra il Terzo polo e l’Associazione nazionale magistrati al quale ha partecipato anche Pier Ferdinando Casini: “Non sarà la riforma epocale della giustizia, che avrebbe rischiato di lacerare troppo i rapporti tra toghe e politica, ma si faranno piccoli ritocchi che avranno obiettivi realistici”, ha detto il leader dell’Udc. E quindi sulla questione delle camere di sicurezza, il segretario dell’Anni Giuseppe Cascini ha riferito durante la riunione che in alcune grandi città, come Roma e Torino, questa non è una 1 novità: “In ogni caso apprezziamo il fatto che il ministro abbia voluto dare la priorità alla questione Carceri”, ha poi detto Giulia Bongiorno (Fli). E sempre ieri il presidente dell’Unione della camere penali, Valerio Spigarelli, ha detto di aver apprezzato le parole del ministro quando ha dichiarato che “la custodia cautelare deve essere disciplinata in i modo da rappresentare una misura veramente eccezionale”. Il clima sui temi della giustizia - quando fino a un mese fa si discuteva solo di leggi ad personam e di toghe rosse - sembra davvero cambiato. E il ministro Severino conferma di essere pienamente consapevole di questa circostanza: “I tempi sono rapidamente mutati per volere del Parlamento che si è dato una maggioranza più ampia e compatta”. Un’ultima riflessione, Paola Severino, la dedica alla visita in carcere del Santo Padre: “Non so quanti hanno potuto notare che lì, nella chiesa di Rebibbia, davanti a 300 detenuti, si è manifestato uno spirito di vicinanza davvero raro”. Polemiche prevedibili, ma preferisco il confronto (Dire) Il ministro Paola Severino aveva messo in conto che il pacchetto svuota-carceri alimentasse delle polemiche. “Quelle sono sempre prevedibili”, dice Severino a Radio Anch’io ma aggiunge che lei preferisce “i contributi positivi. Capisco - spiega - che la soluzione” della detenzione in camere di sicurezza “possa comportare perplessità”. Ma si tratta, osserva, di un’ipotesi che vale “solo per reati minori per i quali c’è il rito direttissimo. Casi in cui, nel 90 per cento dei quali, l’esperienza carceraria in tre giorni si trasforma nel ritorno alla libertà”. Del resto, spiega, il ministro della giustizia, l’emergenza carceraria era per il governo un’assoluta priorità, indicato con forza dalle massime autorità civili e religiose. “Tutti noi ricordiamo le parole con cui il presidente della Repubblica ci aveva segnalato l’emergenza carceraria. Nel carcere - ricorda il ministro - si perde la libertà ma non si può perdere la vita. Aver sentito quelle stesse parole da parte del Papa, ha avuto per me un significato particolare. Dal versante laico e dal versante cattolico viene lo stesso importantissimo segnale”. Rispetto al governo uscente, Severino ha potuto trarre profitto di un’esperienza professionale, quella di docente universitaria e studiosa, e di una contingenza per certi versi drammatica. “Il mio mese di governo è stato preceduto da anni e anni di studio”, ricorda il Guardasigilli “perché nella veste di professore ho avuto modo di approfondire questi temi. E d’altra parte - osserva - ci siamo trovati subito in una situazione di assoluta emergenza per cui il primo problema che abbiamo voluto affrontare è stato quello carcerario. Questo mix è alla base del nostro tentativo di soluzione”. Giustizia: leggi anti-corrotti e carceri, queste le priorità del ministro Severino di Liana Milella La Repubblica, 20 dicembre 2011 Intervista al ministro della Giustizia. Che garantisce: “Mai più norme ad personam”. Ma sogna una legge sui detenuti che porti il suo nome e non chiude la porta all’amnistia: “Però non è compito del governo”. Carceri umane, ma anche lotta alla corruzione. Il Guardasigilli Paola Severino ha ancora addosso quella che definisce la “grande emozione” d’essere stata accanto al Papa a Rebibbia e di aver ascoltato le voci dolenti dei detenuti. Le prigioni sono una delle sue più importanti sfide. La considera ormai la sua mission. Ma non vuole passare per quella che produce leggi “svuota carcere”. Anzi, nella sua prima intervista a tutto campo, invita tutti “al confronto costruttivo” e apre su altri grandi temi del diritto penale, come la lotta alla corruzione, fino a pensare di inserire nel codice una nuova fattispecie di corruzione, quella “privata” all’interno delle imprese. Non le sembri bizzarro, ma le chiedo subito quale legge vorrebbe che fosse battezzata “legge Severino”? “Sicuramente una che riguarda il carcere”. Lei ha intenzione di continuare a fare politica dopo questa esperienza? Si candiderà alle elezioni? “Mi considero un cittadino qualunque cui è stato chiesto di ricoprire una funzione pubblica, quando essa cesserà io tornerò a fare il cittadino qualunque”. Quando Monti le ha proposto di fare il Guardasigilli ha pensato all’eredità pesante che avrebbe raccolto sulla giustizia? “Sono pienamente consapevole della serietà dei problemi che ruotano intorno a questo mondo, ma ho sempre pensato che le difficoltà non debbano scoraggiare nessuno, specie quando si tratta di compiti istituzionali”. Lei garantisce che non proporrà, né asseconderà leggi ad personam come quelle di Berlusconi? “Non ho mai pensato alla legge come un qualcosa che possa essere contro qualcuno o a favore di qualcuno. Il legislatore deve intervenire quando c’è bisogno. Sicuramente, ad esempio, c’è bisogno di una riforma dei delitti contro la pubblica amministrazione, perché il comune sentire sociale lo richiede e perché ci sono figure giuridiche nuove da inserire nel codice come la corruzione privata all’interno delle imprese, e cioè una forma di corruzione che non riguarda solo i pubblici ufficiali”. Il terreno è assai delicato, da anni oggetto di scontro. Lei si tufferebbe nel ginepraio? “Una buona riforma dei delitti contro la pubblica amministrazione dev’essere preceduta da un intervento di revisione delle procedure decisionali e di gestione. Proprio per questo, con il ministro dello Sviluppo economico Passera e della Funzione pubblica Patroni Griffi, stiamo costituendo un tavolo di confronto per la semplificazione dei rapporti tra pubblica amministrazione e impresa”. Non teme di etichettare subito il suo ministero come quello che ha fatto una legge svuota carceri? “È necessario, a volte, che passi del tempo perché il contenuto di certi provvedimenti possa essere compreso. L’espressione con cui è stato battezzato il decreto è in parte fuorviante. C’è chi teme e lamenta che possa essere messo in libertà chi suscita allarme sociale. Non è così, perché ho prestato la massima attenzione proprio a questi aspetti. A decidere sull’alternativa tra carcere e libertà dopo la camera di custodia, solo per reati di competenza del giudice monocratico e destinati al giudizio per direttissima, sarà sempre un magistrato. Come avviene già oggi proprio per quei reati. Non c’è nulla di nuovo, se non il luogo in cui la persona è momentaneamente trattenuta in attesa di essere portata in tribunale”. Lei ha timore che dal Pdl vogliano frenare le sue misure? “Credo che non si debba avere timore del confronto di idee. Naturalmente, come faccio sempre, terrò nella massima considerazione le critiche, se esse sono costruttive. Ma quando leggo che taluno vorrebbe solo dei miglioramenti e che l’Anm dà un giudizio sostanzialmente positivo aggiungendo che servono solo “alcuni accorgimenti tecnici” rispetto a un meccanismo che già ora è quotidiana prassi, allora siamo sulla strada giusta”. Se le chiedessero di soprassedere sulle camere di sicurezza, viste le critiche di Mantovano, Pecorella, Costa? “Al mio vecchio amico Pecorella dico che se ha delle idee me ne parli subito. Qui, però, stiamo discutendo di una misura tampone. Sullo sfondo c’è un pianeta carcere dove i suicidi aumentano e dove bisogna intervenire con urgenza con misure che consentano di arrivare alla situazione ideale, ampliando, ad esempio, il numero dei posti disponibili nelle carceri. Tra l’altro oggi ho qualche speranza in più, visti i 57 milioni di euro che posso destinare all’edilizia penitenziaria”. Alla fine però il suo primo decreto passerà come “l’operazione detenuti in questura”. “Sarebbe un errore, perché sull’altro piatto della bilancia ci sono le misure alternative, su cui c’è una grande convergenza dei vertici laici e religiosi. Nei discorsi di Napolitano e del Papa ho avvertito una sorprendente sintonia e coincidenza di idee su molti aspetti, dalla funzione rieducative della pena, al rispetto della persona, alle pene alternative alla detenzione”. C’è un’ostilità Pdl perché nel pacchetto non è entrata quella che sarebbe stata subito battezzata “norma Papa”, per via del deputato finito in carcere, che avrebbe reso obbligatorio per il giudice dare i domiciliari anziché mandare l’indagato in cella? “Credo e spero che riusciremo ad uscire dalla logica delle leggi ad personam e contra personam perché ogni norma incide sui processi in corso e sulla posizione di persone che sono sotto inchiesta. Ma una norma, se ha un’oggettiva validità, va portata avanti, al di là che possa avvantaggiare o svantaggiare una persona”. Garantisce che non l’hanno sollecitata a inserire questa norma con un’offerta di scambio? “Assolutamente no, non ne ho mai avuta né la percezione, e neppure un indiretto sospetto”. Proprio lei da avvocato non ha paura di lanciarsi nell’uso delle camere di custodia, come preferisce chiamarle? Non teme soprusi, violenze, scarsità di controlli? “Timori di strumentalizzazioni ce li abbiamo tutti, ma la mia certezza è che un fatto grave e anomalo possa accadere sia in quelle, sia in un penitenziario. Per Cucchi, ad esempio, c’è tuttora il dubbio se sia stato picchiato in cella di sicurezza o in carcere. In entrambi in casi, sarebbero degenerazioni che non dovrebbero mai verificarsi. Non stiamo paragonando le camere di custodia a un albergo a cinque stelle, ma mettiamo sul piatto della bilancia da una parte tre giorni in carcere, dall’altra due in camera di custodia”. E la sua conclusione? “I traumi dell’ingresso in carcere possono essere superiori a quelli della temporanea detenzione in una camera di custodia. A chi non la pensa come me non posso non ricordare i traumi psicofisici che si accompagnano all’ingresso in una prigione”. Sia sincera, non teme agguati in Parlamento? “La prossima settimana mi presenterò davanti alle commissioni parlamentari e ritengo che il loro contributo sia fondamentale per condurre in porto il provvedimento”. Amnistia. I detenuti l’hanno chiesta al Pontefice a Rebibbia. Non va detto un sì o un no per evitare illusioni inutili? “Innanzitutto, durante e dopo la cerimonia, non ho sentito mai pronunciare la parola amnistia, ma solo frasi commoventi per dire “grazie per quello che state facendo per noi”. Solo alla fine qualcuno lo ha detto”. Un appello comunque c’è stato. “Non posso che ribadire quello che finora ho detto, non spetta al governo proporre un’amnistia, ma al Parlamento. Se lì si formerà la maggioranza richiesta, certamente non mi opporrò”. Giustizia: amnistia, per il rispetto della legge… quando per primo è lo Stato a violarla di Valter Vecellio Notizie Radicali, 20 dicembre 2011 “Amnistia! Amnistia! Amnistia!”, non si stanca di gridare Marco Pannella. “Amnistia!”, per i 68mila detenuti stipati in celle che ne dovrebbero contenere al massimo 44mila. “Amnistia!”, perché nelle nostre prigioni ci sono ben 28mila cittadini in attesa di processo: 15mila attendono il primo grado, gli altri dell’appello o del verdetto della Cassazione. “Amnistia!”, perché quelle cifre corrispondono ad altrettante persone, con tutto il carico di sofferenza, di dolore: loro e le loro famiglie, che per vederli mezz’ora nella squallida stanza dei colloqui si devono sottoporre ad attese estenuanti di ore fuori, caldo o freddo, sole o pioggia non importa. Si dirà: potevano pensarci prima. Già, come se fosse sempre così facile. Ricordate, Enzo Tortora? Una valanga di accuse, infamità che avrebbero distrutto un gigante: carcerazione, pubblico ludibrio, immagine sfregiata; poi, senza neppure una parola di scuse, innocente. Le statistiche dicono che di quei 28mila in attesa di processo, almeno la metà sono dei Tortora che verranno dichiarati innocenti. A parte il dramma umano, irrisarcibile, c’è un enorme danno che paga la collettività: per ogni giorno di detenzione ingiusta la Corte d’Appello può disporre un risarcimento di 235 euro. A questo punto fatelo voi il conto. “Amnistia!”, perché non è credibile uno Stato che chiede ai suoi cittadini il rispetto della legge e tutte le sue conseguenze, quando per primo è lo Stato a violare la sua stessa legge. È l’articolo 27 della Costituzione a prescrivere che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Sono anni, decenni che questo articolo, che si ispira al meglio della nostra tradizione, da Beccaria a Calamandrei, viene clamorosamente disatteso…Lo ha detto il presidente della Repubblica il 28 luglio scorso: “Una questione di prepotente urgenza sul piano costituzionale e civile…una realtà che ci umilia in Europa e ci allarma, per la sofferenza quotidiana - fino all’impulso a togliersi la vita - di migliaia di esseri umani chiusi in carceri che definire sovraffollate è quasi un eufemismo”. “Amnistia!”, perché nelle carceri si vive peggio che i maiali nei porcili, letti a castello che sembrano torri, ammassati in quattro, cinque, sei, in celle dove il cesso alla turca è accanto al fornello per cucinare la pasta o scaldare il latte; e spesso si deve tappare il buco del cesso con bottiglie vuote di plastica per impedire che ne escano i topi. “Amnistia!”, perché quasi ogni due-tre giorni un detenuto decide di farla finita, ritenendo la morte preferibile a quella vita, e solo quest’anno “ufficialmente” si sono suicidati una settantina di detenuti, e un altro migliaio hanno tentato di farlo e sono stati salvati all’ultimo momento; e sono oltre cinquemila gli episodi di automutilazione: ci si cuce le labbra, i testicoli, ci si strappa i lobi delle orecchie. E poi si muore per le malattie che non vengono diagnosticate o curate a tempo, e quando le si cura spesso è sempre la solita “pillola” la medicina prescritta, e sarebbe interessante sapere quanti e quali di questi farmaci vengono ogni anno prescritti e quanto costa al contribuente questo tipo di medicina penitenziaria. “Amnistia!”, perché ormai sono anche gli agenti della polizia penitenziaria a non farcela più: in 85 si sono uccisi, negli ultimi dieci anni. “Amnistia!”, perché lo chiedono gli stessi direttori delle carceri, che hanno scritto al ministro della Giustizia Paola Severino: “La situazione ci sta sfuggendo di mano, è una polveriera, e le conseguenze possono essere le più imprevedibili…”. “Amnistia!”, come dice don Virgilio Balducchi, che dal 1 gennaio prossimo ricoprirà l’incarico di Ispettore generale dei cappellani delle carceri: “L’amnistia sarebbe un atto di giustizia. Ora ha un senso perché molte persone in carcere stanno subendo limitazioni dei diritti fondamentali, pensiamo alla salute, alla malattia mentale, al degrado della dignità umana. Bisogna evitare di continuare a fare leggi che favoriscono la carcerazione, come quella sull’immigrazione, con il reato d’immigrazione clandestina, o la cosiddetta recidiva. Non si può mettere in carcere qualcuno solo perché si trova sul nostro territorio e non riesce ad arrabattarsi per venirne fuori”. “Amnistia!”, perché la “prepotente urgenza” non riguarda solo le carceri, ma l’intero comparto della giustizia italiana. Lo sapete che sono circa 150mila i processi che ogni anno vengono chiusi per scadenza dei termini? La giustizia, i magistrati, stanno soffocando sommersi dai fascicoli, al punto che molti procuratori rinunciano ai giudizi. E le cose sono destinate a peggiorare. Per reati come la corruzione o la truffa, c’è ormai la certezza dell’impunità. Nel 2008, 154.665 procedimenti archiviati per prescrizione; nel 2009 altri 143.825. Nel 2010 circa 170mila. Quest’anno si calcola che si possa arrivare a circa 200mila prescrizioni. Ogni giorno almeno 410 processi vanno in fumo, ogni mese 12.500 casi finiscono in nulla. A Roma e nel Lazio, per esempio, quasi tutti i casi di abusivismo edilizio si spegneranno senza condanna, gli autori sono destinati a farla franca. A Milano nel 2010 l’accumulo è cresciuto del 45 per cento, significa più di 800 processi l’anno che vanno a farsi benedire. È un’amnistia mascherata, clandestina (perché si finge non ci sia) e di classe: perché ne beneficia solo chi ha un buon avvocato che sa come dribblare tra le leggi e i codici, o chi ha “amici”. Nella rete ci finiscono così i poveri diavoli, gente che si fa difendere dall’avvocato d’ufficio, come gli extra-comunitari. È giusto? Oppure, a questo punto, meglio non sarebbe fare un’amnistia alla luce del sole, con “paletti” certi, guadagnare sei-sette mesi, consentire ai magistrati di ricominciare da zero, e nel frattempo metter mano alle indispensabili riforme? Dite voi, intanto, sappiate che l’attuale situazione, solo per quel che riguarda il caos regnante nella giustizia civile, costa al contribuente - lo stima un rapporto della Banca d’Italia - qualcosa come 20 miliardi di euro l’anno. Altro che finanziaria. Per non parlare del fatto che in una situazione del genere, non c’è nessun imprenditore straniero che si azzarda a fare investimenti e “impresa” nel nostro paese. “Solo a Palermo imputridiscono tra vermi e seminudi 1.440 prigionieri sui 400 compatibili. Alla vicaria di Napoli 1.000 detenuti nelle più pessime condizioni sui 300 compatibili. A Catanzaro 1.200 detenuti ignudi e con la rogna sui 250 compatibili. Si trovano imprigionati nelle carceri più di 23.000 soggetti, tutti in condizioni che dire orribili è poca cosa. I più si trovano imprigionati da più di 22 mesi senza giudizio. Il pane che si dà ai carcerati non l’augurerei al conte Ugolino, né ai porci. La vita e la libertà dei nostri concittadini dipende dal capriccio di un capitano, di un luogotenente, di un sergente, di un caporale”, denunciava l’on. Giuseppe Ricciardi, in un intervento parlamentare del 18 aprile 1863, nel quale affrontava il problema generale dello stato disumano in cui versavano i prigionieri nelle carceri, il lentissimo corso della giustizia e l’arbitrio costante delle forze di polizia di allora. Centocinquant’anni dopo, parola più, parola meno, si potrebbero dire le stesse cose… Giustizia: bene i provvedimenti sulle carceri, ma si può fare di più di Andrea Orlando Europa, 20 dicembre 2011 Le misure adottate dal governo sul tema del sovraffollamento carcerario vanno nella direzione giusta, quella delle indicazioni contenute nel documento programmatico del Pd approvato dall’assemblea nazionale nel maggio del 2010. In quella piattaforma infatti si poneva l’esigenza di superare, attraverso più leve, l’eccessiva centralità del carcere nel sistema delle pene. Una centralità cresciuta progressivamente e che è la vera causa delle inumane condizioni che caratterizzano il sistema penitenziario italiano, giustamente denunciate da Benedetto XVI. Affrontare le cause del sovraffollamento significa rifiutare qualsiasi logica di carattere eccezionale, sulla base di questo presupposto contestammo l’approccio del governo Berlusconi, caratterizzato dalla logica dei piani straordinari che, anziché affrontare e risolvere il fenomeno del continuo aumento della popolazione carceraria, pretendeva di farvi fronte solamente attraverso la realizzazione di nuovi istituti di pena. Un modello, guarda caso, ancora una volta retto da una figura di commissario straordinario, che si ispirava esplicitamente al sistema delle procedure che hanno caratterizzato il funzionamento della protezione civile, come se i numeri che oggi tutti denunciano fossero frutto di un evento eccezionale, imprevedibile, e non invece di una legislazione che, alimentata da campagne di paura, ha dato corpo a misure sicuritarie inefficaci, a conti fatti, sotto il profilo della prevenzione e del superamento dei fenomeni di recidiva. Fu lo stesso Berlusconi infatti a parlare di un piano carceri ispirato al modello L’Aquila, con parole che appaiono oggi sinistramente comiche. Ma proprio l’approccio finalizzato ad aggredire le cause strutturali del sovraffollamento non si coniuga con provvedimenti altrettanto straordinari come l’amnistia o l’indulto, che cadono nell’attuale sistema come una sorta di lotteria passata la quale torna a mostrare il suo volto più inumano una combinazione di norme mite con i soggetti più forti e draconiana con quelli più deboli. Invece le misure proposte dal governo, ossia il rilancio delle pene alternative, il rinvio ad interventi di depenalizzazione, l’introduzione dell’istituto della messa alla prova, tentano di smontare appunto il meccanismo che ci ha portato sino a qui ed affrontano, seppure in parte non ancora sufficiente, il tema delle risorse destinate alle condizioni di vita dei reclusi; dopo anni nei quali si sono andati progressivamente smantellando i percorsi di reinserimento educativo e lavorativo, gli strumenti di supporto psicologico, ed è divenuta dirompente la questione dell’inadeguatezza degli organici della polizia penitenziaria. Ora si tratta di dare rapida e piena attuazione alle norme emanate dal governo, in primo luogo mediante la conversione del decreto e con l’approvazione del disegno di legge collegato, e poi di proseguire lungo lo stesso filone rivedendo alcune leggi frutto della politica della paura, a partire dal cosiddetta ex Cirielli, in particolare riguardo agli automatismi previsti per i recidivi. Questa azione politica deve essere accompagnata da una parallela azione culturale che, partendo dai principi costituzionali, individui nella pena non solo una sanzione ispirata al senso di umanità ma al contempo un percorso di riabilitazione che miri al reinserimento dell’individuo. Le forze riformiste devono saper produrre una seria riflessione, che deve essere in grado di affrontare il perché del successo delle parole d’ordine securitarie che hanno condotto, senza trovare eccessive resistenze, al processo di carcerizzazione di questi anni; sia chiaro, nessun ritorno ai sociologismi degli anni 70, nessuna deresponsabilizzazione dell’individuo in nome di generiche colpe dell’effetto sociale, però è tempo che si compia un ritorno all’attenzione delle cause della devianza, un’effettiva e complessiva ricognizione della reale pericolosità delle violazioni di legge. Sempre più spesso, visitando i luoghi di reclusione, una domanda interroga le coscienze di tutti e cioè se davvero in quei luoghi siano costretti i più pericolosi, e la risposta è spesso che là stanno i più deboli tra i pericolosi, coloro che nel percorso ad ostacoli rappresentato dal processo penale non hanno potuto disporre di adeguati mezzi di difesa, coloro che la rappresentazione corrente ha voluto indicare come responsabili di tutte le insicurezze. Un ragionamento a parte merita il sistema delle cosiddette porte girevoli, e cioè l’utilizzo del carcere per la custodia cautelare, anche qui le misure prese dal governo vanno nella giusta direzione, tuttavia si scontrano con realtà (le camere di sicurezza delle forze dell’ordine) spesso non adeguate, in questo caso si tratta di commisurare la norma con l’effettiva capacità di adeguamento del sistema e contemporaneamente di rivisitare il sistema delle misure cautelari, a partire dai molti automatismi introdotti da un modo di legiferare emotivo, basato più sulla ricerca della sensazione che sulle effettive esigenze processuali e di sicurezza. Il Pd, come ha più volte annunciato, è intenzionato a fare la propria parte perché il pacchetto varato dal governo sia solo l’inizio di un percorso. Giustizia: Antigone; in Italia ci sono 38 carceri “fantasma”, costruite e mai utilizzate Vita, 20 dicembre 2011 Istituti nuovi e mai aperti. Strutture che non hanno mai ospitato un detenuto e raccolgono l’aria con le sbarre di ferro alle finestre. Sono le “carceri fantasma”, 38 in tutto, secondo i dati dell’associazione Antigone, gli istituti penitenziari che, negli ultimi venti anni e più, sono stati costruiti, spesso ultimati, a volte anche arredati e vigilati e inutilizzati, sottoutilizzati o in totale stato d’abbandono. L’elenco è lungo. Si va da Nord a Sud, con situazioni e storie diverse. Ad Arghillà (Reggio Calabria), il carcere è inutilizzato. Mancano solo la strada d’accesso, le fogne e l’allacciamento idrico ma per il resto è ultimato e dotato di accorgimenti tecnici d’avanguardia. Ancora più particolare la situazione di Bovino (Foggia), con una struttura da 120 posti, già pronta, chiusa da sempre. Ad Accadia (Foggia), il penitenziario consegnato nel 1993, è ora di proprietà del Comune e mai utilizzato. Ad Agrigento, sei sole detenute occupano i 100 posti della sezione femminile. Ad Altamura (Bari) si aspetta ancora l’inaugurazione di una delle tre sezioni dell’istituto. Anche a Gela (Caltanissetta) esiste un penitenziario enorme, nuovissimo e mai aperto. Mentre a Gorizia risulta inagibile un intero piano dell’istituto carcerario. Il carcere di Irsina (Matera), è costato 3,5 miliardi di lire negli anni ‘80, ha funzionato soltanto un anno ed oggi è un deposito del Comune. Il carcere di Castelnuovo della Daunia (Foggia) è arredato da 15 anni e mai aperto. Il penitenziario di Codigoro (Ferrara) nel 2001, dopo lunghi lavori, sembrava pronto all’uso, ma a oggi è ancora chiuso. La casa di reclusione di Cropani (Catanzaro) è occupata da solo un custode comunale; a Frigento (Avellino) l’istituto è stato inaugurato e chiuso a causa di una frana. Come è accaduto per Gragnano (Napoli). Il carcere di Galatina (Lecce) è totalmente inutilizzato. A Casamassima (Bari), il carcere mandamentale è stato “condannato all’oblio da un decreto del Dipartimento”, spiega il rapporto di Antigone. L’Istituto di Licata (Agrigento) è stato completato, ma non essendo stato collaudato è a oggi inutilizzato. La struttura di Maglie (Lecce) è solo parzialmente utilizzato per ospitare detenuti semi-liberi. Non è finita. A Mileto (Vibo Valentia), il carcere è stato ristrutturato e chiuso. Mentre a Minervino Murge (Bari), la struttura non è mai entrata in funzione. A Monopoli (Bari) nell’ex carcere mai inaugurato, non ci sono detenuti ma sfrattati che hanno occupato abusivamente le celle abbandonate da 30 anni. Il carcere di Morcone (Benevento) è stato costruito, abbandonato, ristrutturato, arredato e nuovamente abbandonato dopo un periodo di costante vigilanza armata ad opera di personale preposto. Carcere fantasma anche quello di Orsara (Foggia), dove è presente una struttura mai aperta. L’istituto di Pinerolo (Torino) è chiuso da oltre dieci anni senza che sia stata individuata l’area ove costruirne uno nuovo. A Revere (Mantova), dopo vent’anni dall’inizio dei lavori di costruzione, il carcere con capienza da 90 detenuti è ancora incompleto. I lavori sono fermi dal 2000 e i locali, costati più di 2,5 milioni di euro, sono già stati saccheggiati. La struttura penitenziaria di Rieti, completamente nuova e in grado di contenere 250 detenuti, è utilizzata solo per un terzo della sua capacità ricettiva a causa della carenza di personale. Il carcere di San Valentino (Pescara), costruito da quasi 20 anni, non ha ospitato mai alcun detenuto e ora è in totale stato di abbandono. A Villalba (Caltanissetta), 20 anni fa è stato inaugurato un istituto per 140 detenuti, costato all’epoca 8 miliardi di lire, e che dal 1990 è stato chiuso e recentemente tramutato in centro polifunzionale. A Volturara Appula (Foggia), la struttura da 45 posti è ancora incompiuta. Sono stati infine soppressi gli istituti di Arena (Vibo Valentia), Cropalati (Cosenza), Petilia Policastro (Crotone), Soriano Calabro (Vibo Valentia), Spinazzola (Barletta-Andria-Trani). A Pescia (Pistoia), il ministero ha soppresso la casa mandamentale. A Squillace (Catanzaro) il carcere è stato ristrutturato e poi chiuso. A Udine è stata chiusa la sezione femminile, mentre a Venezia e Vicenza la capacità ricettiva è ridotta a 50 unità. Il 29 giugno 2010 è stato approvato il piano carceri presentato dal Commissario straordinario all’edilizia penitenziaria nonché Capo del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Franco Ionta, che prevede la realizzazione di 9.150 posti (realizzazione di 11 nuovi istituti e 20 padiglioni detentivi in ampliamento delle strutture esistenti), per un importo totale di 661.000.000 euro. Il tutto da realizzarsi entro la fine del 2012. Dei 9.150 nuovi posti previsti, 2.400 sorgeranno in Sicilia, 850 in Campania, 1.050 in Puglia. Uno dei cantieri aperti del piano carceri è quello di Piacenza. Il 27 settembre scorso, l’allora Guardasigilli, Francesco Nitto Palma, al Senato aveva annunciato che “entro il 2 novembre 2011 saranno pubblicati tutti i bandi di gara dei 19 nuovi padiglioni da costruire, il 2 dicembre scadrà invece il termine della presentazione delle offerte, mentre il 4 gennaio prossimo potranno iniziare i lavori”. Comunicando i tempi del “piano carceri”, Palma aveva aggiunto che “entro gennaio 2013 saranno ultimati 16 padiglioni per un totale di 2.800 posti”. Giustizia: per svuotare le carceri il governo riempie… i commissariati di Paolo Persichetti Liberazione, 20 dicembre 2011 Il nuovo guardasigilli Paola Severino ha presentato un pacchetto di norme per fare fronte alla cronica emergenza dovuta al sovraffollamento delle carceri. La più importante riguarda l’ampliamento del decreto Alfano sulla detenzione domiciliare che verrà portata dagli attuali 12 mesi a 18. La misura sarà adottata con un decreto, quindi avrà effetto immediato, e riguarderà una fascia molto ristretta di detenuti. Secondo le stime del ministero dovrebbero avvantaggiarsene appena 3.300 sui 68 mila reclusi. Il precedente decreto aveva consentito l’uscita di 4000 persone soltanto, più o meno “come svuotare con un cucchiaio il mare dell’illegalità presente nelle carceri italiane”, ha commentato la deputata radicale Rita Bernardini che ha anche annunciato la presentazione di un ordine del giorno nel quale si chiede l’impegno del governo a “prevedere scadenze certe entro le quali dimezzare i procedimenti penali esistenti” e “varare un ampio provvedimento di amnistia e indulto”. Questo allargamento di pochi mesi della detenzione domiciliare dovrebbe permettere un risparmio giornaliero stimato attorno ai 380 mila euro. Si tratta di una norma “a termine” giustificata dalle condizioni eccezionali, che però alcuni vorrebbero far entrare a regime. In effetti l’unico elemento positivo contenuto in questo provvedimento è l’applicazione estesa anche ai recidivi, nonostante abbia perso l’automatismo previsto in prima stesura che lo ha ricondotto nell’alveo delle competenze della magistratura di sorveglianza, perdendo così d’efficacia e intasando gli uffici. Questo governo, come il precedente, si è reso conto che la legge Cirielli è diventata un tappo che, oltre ad aver aumentato in maniera geometrica le pene, esclude o ritarda l’applicazione della Gozzini ad una moltitudine di detenuti. L’assurdità è che si debba ricorrere ad una norma del genere quando senza la Cirielli l’applicazione piena delle misure alternative avrebbe consentito l’uscita dal carcere di un numero molto più alto di detenuti. Oltre al varo di una sacrosanta amnistia-indulto, per risolvere i nodi strutturali dell’affollamento carcerario, il governo dovrebbe smantellare le leggi liberticide: tra queste la Cirielli, la Fini-Giovanardi sulle droghe e le norme che criminalizzano l’immigrazione. A parlar chiaro sono le cifre indicate dal Dap: nell’ultimo anno sono entrati nelle carceri 68.411 persone. Nello stesso periodo ne sono uscite 45mila. Ma quel che più colpisce è che la metà è uscita entro 3 giorni dall’arresto e 10 mila dopo un mese. Il carcere è una sorta di porta girevole della società. Un terzo è finito dentro per stupefacenti, solo 1.655 per omicidio, ben 3.463 per resistenza a pubblico ufficiale. Un dato, quest’ultimo, abnorme e allarmante poiché mette in mostra come l’autorità di polizia stessa susciti con il suo intervento il reato. Qualcosa evidentemente non funziona. Per fare fronte a questo turnover impazzito, il governo sta pensando ad un disegno di legge che trasformi la detenzione domiciliare in pena principale. Nel frattempo si pensa di rafforzare l’obbligo per le forze di polizia di trattenere gli arrestati nelle camere di sicurezza, “dove per giunta non è previsto alcun sindacato ispettivo”, sottolinea sempre una contrarissima Rita Bernardini. Ed in effetti l’elevato numero di condanne per resistenza a pubblico ufficiale, oltre ai numerosi casi di violenze all’interno di stazioni e caserme, dovrebbero consigliare maggiore cautela. La permanenza oltremisura in mano alle forze dell’ordine oltre ad accrescere i rischi di violenze, incide negativamente sulla formulazione delle prove. Non fa bene alle indagini e al processo. Oltre all’affollamento ed alle morti, le carceri recentemente assistono ad una preoccupante recrudescenza delle “squadrette punitive”, come i casi di Regina Coeli e il processo che si è aperto contro i pestaggi a Sollicciano dimostrano. Giustizia: contro il sovraffollamento delle carceri arrivano le “sale di custodia” di Massimo Bordin Il Riformista, 20 dicembre 2011 Dopo il braccialetto elettronico, rapidamente scartato come questa rubrica vi aveva anticipato, ora il sovraffollamento nelle carceri verrà combattuto con l’utilizzo delle camere di sicurezza, ribattezzate più asetticamente “sale di custodia”. Il ministro Severino mostra di voler affrontare la questione carceraria piuttosto che schivarla e questo è sicuramente un buon segno. Va in questo senso l’utilizzo del decreto per la cosiddetta norma “svuota carceri” che un suo predecessore aveva affidato a un più lento disegno di legge. La faccenda delle camere di sicurezza però rischia di fare la fine dei braccialetti elettronici. È giusto considerare che la popolazione carceraria è gonfiata da chi, fermato dalle forze di polizia, viene associato al carcere sulla base di un provvedimento che si chiama pre-cautelare firmato da un pm, in attesa del giudizio direttissimo o della convalida del gip. Molti di questi fermati restano in carcere dai due ai tre giorni, poi o il giudizio li manda liberi o il gip non convalida l’arresto. Giusto evitargli il trauma del carcere, ma ci sono camere di sicurezza a sufficienza e adeguatamente attrezzate? Nessuno sa dirlo con certezza e molti propendono per il no. E comunque non si può trascurare del tutto l’obiezione avanzata su Repubblica da Gaetano Pecorella che definisce la norma un “passo indietro di quindici anni” ricordando come le questure non garantiscano il rispetto dei diritti. Qualche esempio peraltro è tragicamente recente. Giustizia: Casson (Pd); proposta del ministro Severino sulle “sale di custodia” è pericolosa Adnkronos, 20 dicembre 2011 “Pur se positiva negli intenti, la proposta della ministro Severino di creare delle sale di custodia, oltre che controproducente, rischia di essere pericolosa”. Lo afferma Felice Casson, vice presidente del gruppo Pd al Senato. “Poliziotti, carabinieri e Guardia di finanza - spiega - non possono essere delegati a svolgere attività diverse da quelle per loro istituzionali. La gestione delle sale di custodia richiederebbe personale autonomo che verrebbe sottratto a compiti di polizia”. “Inoltre - prosegue - mantenere per alcuni giorni a stretto contatto, in attesa dell’udienza, gli arrestati e coloro che hanno proceduto all’arresto potrebbe generare forti tensioni, come in passato è già successo, con il rischio - conclude - di generare altri processi per lesioni, percosse, calunnie e contro calunnie”. Giustizia: Funzionari Ps; con “sale di custodia” recuperati solo 115 posti letto al giorno Ansa, 20 dicembre 2011 “Non siamo affatto convinti che tenere un soggetto 48 ore in uno spazio strettissimo con uno giaciglio in muratura ed una coperta, senza una finestra ed un bagno sia meno traumatico che andare in carcere dove nella cella troverebbe un letto pulito, un pasto, un servizio igienico, assistenza sanitaria ed un ora d’aria, servizi che la polizia non è assolutamente in condizione di assicurare”. Lo afferma Enzo Marco Letizia, segretario nazionale dell’associazione Funzionari di Polizia commentando le norme del “pacchetto Severino” per le carceri. “I 21.000 detenuti coinvolti nel cosiddetto fenomeno delle porte girevoli - dice Letizia - incidono mediamente per soli 115 posti giornalieri. È perciò evidente quanto sia risibile il recupero dei posti letto nelle carceri mentre si metterebbe in crisi il sistema di sicurezza dei cittadini. Infatti significherebbe privare al territorio un servizio per 24 ore di 115 volanti essendo necessari due agenti per quattro turni di 6 ore per sorvegliare un arrestato con le strutture attuali”, aggiunge. “Ogni 100.000 abitanti c’è un servizio di 2 o 3 volanti al massimo, perciò è come se rimanesse priva di controllo del territorio caso ogni giorno un’area con 10 milioni di italiani, un costo assolutamente insostenibile per la sicurezza dei cittadini”, conclude Letizia. Giustizia: Biancofiore e Savino (Pdl); lasciamo lavorare il ministro, ok all’amnistia Agi, 20 dicembre 2011 “Io, da sempre dalla parte della giustizia, questa volta dico sì all’amnistia e mi auguro si lasci lavorare il Ministro Severino che sta mostrando nell’insieme un approccio aperto, senza pregiudiziali e costruttivo in merito alla incandescente materia della giustizia italiana”. Lo ha detto Michaela Biancofiore, deputato Pdl e coordinatore del partito in Alto Adige, durante la cena di Natale con gli iscritti che ha visto la partecipazione telefonica e gli auguri agli altoatesini del presidente Silvio Berlusconi. “Dopo aver ascoltato le parole dei carcerati di Rebibbia al cospetto del Santo Padre, dopo aver visto le loro lacrime, la loro reale commozione, il loro tangibile pentimento, mi sono convinta - ha aggiunto - che un provvedimento svuota carceri, per restituire dignità alla persona, sia necessario e urgente. Il perdono si accompagna con la vita ed è nelle nostre sacre scritture. Non si è buoni cristiani, ma nemmeno appena cristiani, se non si accetta l’idea del perdono, più semplice da provare sotto le festività natalizie”. Biancofiore è “pienamente d’accordo con la coraggiosa presa di posizione dell’ex Ministro Matteoli”, proprio a favore dell’amnistia, posizione “affatto isolata e tanto più forte e rumorosa in quanto proveniente da un esponente della destra storica”. “E condivido però con l’ex guardasigilli Palma - ha osservato - l’esercizio della cautela, limitando i provvedimenti di clemenza a reati che non superino pene di 3- 4 anni perché non si cada nel pericolo di scarcerare autori di reati gravissimi”. “Il decreto del Ministro Severino, che ricalca pienamente quanto già previsto dal ddl dell’ex Ministro Alfano, non può essere liquidato con supponenza dai partiti politici - ha sottolineato Biancofiore - ma anzi va apprezzata e accolta la disponibilità ad affrontare un tema ostico e annoso all’ordine del giorno del Parlamento, nonché andrebbe ammirata la straordinaria umanità dimostrata dal ministro. Altra cosa è, viceversa, approfondire in Parlamento e insieme alle forze di polizia che hanno mostrato comprensibile preoccupazione, la questione delle camere di custodia temporanea”. Savino (Pdl): non sono contraria all’amnistia “Apprezzo molto le iniziative che i radicali assumono, a partire da quelle sulla giustizia. Io personalmente non sono contraria all’amnistia, e ho apprezzato l’iniziativa del ministro Severino con il decreto svuota carceri, che consente di scontare l’ultima parte della pena agli arresti domiciliari. Mi sembra che un minimo di senso civico e di civiltà giuridica sia necessario. Sono temi accendono dibattiti e so che nel nostro partito ci sono posizioni diverse sulla questione. Penso tuttavia che sia necessario discutere delle condizioni carcerarie”. Lo ha detto la deputata del Pdl Elvira Savino, durante un filodiretto a Radio Radicale. Giustizia: Marazziti (S. Egidio); tecnici più liberi dei politici, su decisioni per le carceri Adnkronos, 20 dicembre 2011 “Il governo tecnico ha deciso misure sul tema carceri con rapidità, rispetto ai governi politici, perché sui temi della giustizia e della pena una società che è in difficoltà parla sempre alla pancia della gente e quindi la politica non ha la forza di assumersi la responsabilità di essere classe dirigente”. È quanto osserva Mario Marazziti, portavoce della Comunità di Sant’Egidio, intervenendo al programma della Rai “Radio anch’io” dedicato all’emergenza carceri. “Quando c’è una crisi, anziché indicare quali sono le cose necessarie e utili da fare, si preferisce demonizzare interi gruppi, come ad esempio gli immigrati; o si chiede di mettere tutti in prigione così siamo tutti più sicuri. Ma il fatto che per un politico sia difficile intervenire, non deve essere un alibi per non farlo”, chiarisce Marazziti, ricordando che “da vent’anni in Italia la maggior parte dei crimini è in calo, mentre c’è stata un grande campagna politica ed elettorale sul tema della sicurezza”. Giustizia: clemenze… di Luigi Manconi Il Foglio, 20 dicembre 2011 Ah, com’è bello e, soprattutto rasserenante, trovarsi incondizionatamente d’accordo - per una volta in quindici anni - con quanto viene scritto sulle pagine che, graziosamente, mi ospitano. Ah, com’è rilassante poter condividere interamente quanto scritto nei due editoriali del Foglio del 16 e del 17 dicembre a proposito delle misure adottate dal ministro della Giustizia Paola Severino. Ne consegue un singolare paradosso (che fa onore al Foglio): il tecno-governo del Preside viene valutato con obiettività non così frequente. E, dunque, apprezzato quando assume provvedimenti apprezzabili. E la “sospensione della democrazia” può determinare condizioni tali da consentire scelte in genere definite “impopolari”. Altri quotidiani di centrodestra non vanno tanto per il sottile e, pur avendo come riferimento un partito della “maggioranza”, se ne impippano. Così titolano: “A noi tasse, ai ladri libertà” (alcuni messaggi su Facebook mi comunicano che Marco Travaglio ha scritto esattamente le stesse cose, ma non ho avuto occasione di verificarlo). Sotto il profilo politico, non si può non convenire con quanto scritto dal Foglio: “Stupisce che dal centrodestra, non solo dalla Lega ma anche da esponenti autorevoli del Pdl, si siano levate voci critiche” dal momento che “il principale provvedimento è un’estensione temporale a 18 mesi di una norma che era stata introdotta da Angelino Alfano, approvata quindi sia nel governo sia in Parlamento dal centrodestra”. Va aggiunto che la formulazione originaria del disegno di legge Alfano prevedeva, assai ragionevolmente, l’estensione del termine di pena da scontare in detenzione domiciliare a 24 mesi. Scrive ancora il Foglio: “Ha senso criticare un indulto mascherato solo se si intende, e non sarebbe male, proporne uno alla luce del sole”. Ben detto. Ma devo aggiungere che, dell’intera questione “dei delitti e delle pene”, mi interessa sempre più un aspetto che anche il Foglio sembra trascurare; e che, da qualche tempo, mi pare solleciti l’attenzione di Marco Pannella: ovvero il carcere come grande questione morale. Non mi riferisco solo al fatto che consentire - o non tentare di arginare - la crescente disumanizzazione di un segmento così significativo del sistema statuale sia di per sé immorale. Penso anche ad altro. Immagino, cioè, che dietro l’indifferenza, quando non l’ostilità, nei confronti dei reclusi, vi sia una miserabile interpretazione di quella teoria retributiva della pena, già discutibile di per sé. In questo caso, la retribuzione varrebbe al fine di “compensare” simbolicamente, all’interno di una concezione integralista e organicista del corpo sociale, la sofferenza delle vittime attraverso la sofferenza degli autori di reato. Se, dunque, il dolore dell’offeso è dovuto alla perdita di una vita, l’irreparabilità di tale perdita può essere compensata solo da un dolore altrettanto irreparabile inflitto a chi, quella privazione assoluta, ha determinato. In altre parole, se quel reato è, per sua stessa natura, non retribuibile in quanto non è restituibile la vita che ha spento, la sola retribuzione (pena) per chi si è reso responsabile di quel reato è, anch’essa, illimitata. Ma questa concezione, che ritiene di affermare una morale intransigente, è invece la negazione di ogni moralità umana. Giustizia: i rifiuti sociali nella discarica penale di Sergio Moccia Il Manifesto, 20 dicembre 2011 “Il paradosso: attraverso la negazione della sicurezza dei diritti agli scarti umani - precari, immigrati, rifugiati - lo Stato si costruisce una nuova legittimazione con la sicurezza penale, proprio quella da garantire contro quelli ai quali la sicurezza è stata negata”. Il mercato ha soppiantato la politica ed ha imposto una sorta di razionalità “tecnica”, oggettiva, che pare non ammettere contraddizioni. Ma l’imposizione “tecnica” di ridurre drasticamente, nel privato e nel pubblico, il numero degli occupati per non meglio precisate finalità di ordine economico, è in realtà un’opzione politica ben precisa, secondo cui i diritti dell’uomo valgono poco o nulla. A ben vedere, all’interno del ciclo produttivo colui che lavora, da soggetto di diritti è tornato ad incarnare unicamente la figura, mortificante, di uno dei fattori della produzione, tanto per intenderci alla stregua di un macchinario o di una merce. Ed è strano che queste opzioni incivili vengano decise da un soggetto inafferrabile, il mercato, di cui si conoscono le pretese, peraltro vincolanti, ma non se ne conoscono né obblighi, né responsabilità. Eppure non è di facile comprensione come mai uno Stato, qual è quello italiano, che basa la propria ricchezza sul lavoro - essendo privo di risorse naturali - possa divenire più ricco, diminuendo il lavoro: si tratta di quello stesso Stato che proprio al lavoro ed al suo fondamentale pregio ha dedicato il primo articolo della Costituzione ancora vigente. Ecco, invece gli ordini, indiscutibili, di derivazione sovranazionale che impongono la libertà di licenziamento da parte dell’impresa, in attesa di un miglioramento delle cose, cioè una fantomatica ripresa del mercato che vorrebbe rimettere a posto la situazione e, dunque, far riespandere le assunzioni: tutto ciò senza fare i conti con le svariate decine di milioni di disoccupati, europei e nordamericani, della cui sopravvivenza - nelle more delle “ripresa” - il mercato, evidentemente, non si dà cura. E questo già dovrebbe favorire qualche dubbio sull’efficacia della cura e, soprattutto, sulle reali cause della malattia. Si tratterebbe, in realtà, soltanto di un ultimo colpo assestato a categorie di soggetti già resi deboli, pauperizzati dall’imposizione di modelli di vita sempre più impossibili da sostenere. A costoro si aggiungano i giovani precari, i pensionati sociali, insieme agli inoccupati, ed a coloro che a quarant’anni e più, perdono il posto di lavoro, condannati all’emarginazione, per non parlare del lacerante, variegato cosmo dell’immigrazione: vite da scarto, rifiuti umani. L’imporsi di un nuovo ordine, teso a soppiantare quello esistente, pare destinato a produrre inevitabilmente materiale di risulta, da smaltire ed eventualmente da riconvertire. E quando il progetto si riferisce alle comunità umane, allora il materiale di scarto, la cui produzione segue parallelamente la costruzione del nuovo ordine sociale, è l’insieme dei “rifiuti umani” - le wasted lives di Bauman - costituito da quegli individui che non si adattano alla forma progettata o non si lasciano adattare: si tratta di residui inutili, da marginalizzare ed eventualmente smaltire attraverso le carceri, la cui funzione di integrazione sociale rappresenta un dover essere astralmente distante dalla realtà. Alla base di questo vortice che stritola le esistenze di tanti esseri umani si ritrova una massima esaltazione del consumismo che produce in abbondanza, assieme a tante merci, tanti rifiuti. Il rifiuto è una presenza sterminata, ma preferiamo non pensarci . Il dramma è che l’idea di rifiuto è ormai spostata dagli oggetti all’uomo, ad un tipo particolare di uomo che è divenuto un rifiuto, un vinto dell’età tecnologica. E la prima categoria di scorie umane è tutta occidentale, sono i giovani degli anni Settanta, quella generazione che viene espulsa da un mercato, tutto concentrato sulla riduzione dei posti di lavoro piuttosto che sul loro incremento. Ma va anche peggio per gli scarti degli scarti, gli esuberi del terzo mondo. Essi incarnano, direttamente, la figura di rifiuti di ancor minor pregio, senza alcuna funzione utile da svolgere nella terra del loro arrivo, destinati alle discariche dei ghetti e dei campi profughi, se non delle galere. Le probabilità che costoro vengano riciclati in membri legittimi e riconosciuti dalla società, sono infinitamente remote. La verità è che il panorama globale fa emergere uno scenario inquietante, al cui interno lo Stato non è più in grado di garantire diritti di sicurezza economica, lavorativa, esistenziale di una parte cospicua dei suoi cittadini. E l’effetto immediato è la diffusione di panico e depressione, tra i malesseri più diffusi, specialmente tra i giovani, fra le cui cause evidenti vi sono proprio l’incertezza lavorativa e la conseguente precarietà esistenziale. Tra le prerogative classiche della sovranità, moneta (economia), esercito, potere punitivo, è rimasta in piedi solo quest’ultima ed è proprio facendo riferimento al potere punitivo che, tanto scompostamente, l’istituzione statuale cerca oggi di legittimarsi nei confronti dei consociati: gli individui, così, smettono di essere oggetto di attenzione da parte dello Stato sociale e lo divengono per lo Stato penale, assecondando ed accelerando in tal modo la metamorfosi della cultura dell’uomo quale soggetto di diritti nell’anti cultura dell’individuo rifiutabile. Ma quando lo Stato perde la capacità di difendere i diritti dei singoli, cioè la protezione delle persone, costretto dall’affermarsi, nell’ordine della globalizzazione, di sfrenate politiche neoliberiste, esso deve cercare altre forme di autolegittimazione. E il paradosso consiste nel fatto che attraverso la negazione della sicurezza dei diritti agli scarti umani - precari, immigrati, rifugiati - lo Stato si costruisce una nuova legittimazione tramite un altro tipo di sicurezza, penale, che è proprio quella da garantire contro coloro ai quali la sicurezza esistenziale è stata negata. Di qui la famigerata, ricorrente “questione sicurezza” che fa leva sulla suggestione mediatica di paure indotte, o ingrandite a dismisura, sui pericoli delle attività potenzialmente destabilizzanti di chi ha perso tutto o niente ha mai avuto. Tutto ciò testimonia la crisi di legittimazione dello Stato, che ha finito per perdere il carattere inclusivo che contraddistingueva la natura dello Stato sociale, in favore di un ritorno graduale alla priorità dell’elemento della tutela dell’incolumità personale e del patrimonio attraverso il controllo penale. La ricerca di legittimazione da parte dello Stato di fronte all’incertezza prodotta dai processi di globalizzazione - che incentivano esponenzialmente la precarietà, e la conseguente vulnerabilità, sociale da un lato, e le variabili di rischio che minacciano la sicurezza personale degli individui, dall’altro - passa attraverso la produzione sociale e mediatica di cause diverse da quelle che sono le fonti reali del disagio e determinano la mutazione nello Stato penale. Diversamente dal caso delle minacce generate dalla mancata difesa della sopravvivenza delle persone, la portata dei pericoli predatori per la proprietà e la incolumità individuale viene enfatizzata e colorata con le tinte più fosche, di modo che il mancato concretizzarsi delle minacce possa essere venduto come un evento straordinario, frutto della vigile efficienza e, perché no, della buona volontà degli organi dello Stato. Che fare? Rimettere in discussione tutte le precondizioni politiche, sociali ed economiche che hanno caratterizzato ogni fase della postmodernità, con progettazioni a lungo periodo che, ponendo come fine dell’azione politica la promozione e la difesa dei diritti fondamentali di tutti gli esseri umani, tengano conto con lungimiranza delle conseguenze nel tempo delle soluzioni adottate. Tutto il contrario di quel che caratterizza l’azione politica oggi dominante: essa non è in grado di produrre altro che pseudo-soluzioni discriminatorie, di natura emergenziale e provvisoria, espressioni di una politica dal fiato corto, destinata a modellarsi e a limitare la propria sfera d’azione sui tempi brevi e scenari inquietanti. Tutto ciò che ostacola la corsa incessante alla crescita economica costituisce un ostacolo da rimuovere obbligatoriamente, ma credo che gli esseri umani ai quali si negano i diritti primari possano per breve tempo risultare acquiescenti: è facile prevedere che alla violenza delle istituzioni si possa rispondere con altra violenza . Ed a nulla potranno servire nuove norme penali, ulteriori giri di vite repressivi ,specialmente quando sono funzionali unicamente alla conservazione di una sempre più diffusa condizione di iniquità sociale. Giustizia: quella carceraria non è un’emergenza, ma un’indecenza… di Davide Giacalone Libero, 20 dicembre 2011 Quella carceraria non è un’emergenza, ma un’indecenza. Il ministro della Giustizia, Paola Severino, fa bene a occuparsene. Ma faccia attenzione a non confondere le cause con gli effetti e a non immaginare soluzioni, come quelle di cui si sente parlare, che suonano come un favore ai colpevoli e uno sfregio per gli innocenti. Il fatto che il Pontefice si sia recato a Rebibbia e abbia pronunciato parole dure (e giuste) contro il sovraffollamento, mi fa rizzare le orecchie, perché già le parole del suo predecessore, pronunciate in Parlamento, furono utilizzate per favorire un provvedimento oltraggioso e inutile, l’indulto. Nel caso delle galere, quel che causa il problema non è il moltiplicarsi del crimine, ma il crescere dell’inciviltà giuridica. La causa è la mala-giustizia, l’effetto il sovraffollamento. Più della metà dei detenuti italiani non stanno scontando una pena, ma aspettano di sapere se devono scontarla. Sono “in attesa di giudizio”, come il titolo del film con Alberto Sordi (regista il grande Nanny Loy), che più lo guardi più ti arrabbi, perché le cose sono peggiorate, restando immutabili. Più della metà dei carcerati, quindi, devono, secondo la Costituzione e la Convenzione Europea Diritti dell’Uomo, essere considerati innocenti. Non ci si deve chiedere dove metterli, ma come dar loro giustizia. Se, invece, si parte dalle celle, saltando i tribunali, va a finire che si presentano proposte come quelle che il ministro ha formulato: mandare agli arresti domiciliari chi ha ancora 18 mesi da scontare, oppure rilasciare chi ha condanne inferiori ai 4 anni, pensando a pene alternative. Misure concepite per sfoltire le presenze, ma che portano a una singolare e abominevole conseguenza: escono i condannati e restano dentro gli innocenti. È già successo con l’indulto, e siamo fra i pochi che protestarono. Il tema è così delicato, e di così rilevante portata, che tutti dovrebbero proibirsi le sparate propagandistiche. Aggiungo subito, quindi, che il ministro fa bene a dire che il tema dell’amnistia deve essere preso in considerazione, e vado oltre: è necessaria, si deve fare. Al contrario dell’indulto, che cancella solo la pena, l’amnistia cancella anche il reato e il procedimento, quindi evita che il sistema soffochi sotto al peso dell’arretrato. È un provvedimento ingiusto, repellente. È uno schiaffo in faccia alle persone oneste, una stilettata al cuore degli innocenti. Ma è necessario. Solo che deve essere fatta dopo la riforma della giustizia, non al suo posto. Deve prendere corpo dopo avere liberato i palazzi di giustizia dai corporativismi, dalle politicizzazioni e dalla nullafacenza, non materializzarsi quale succedaneo di ciò che non si è capaci di fare. Perché in questo secondo caso la vergogna sarebbe incancellabile e la rabbia incontenibile. Ai non condannati il ministro pare abbia rivolto una sola attenzione, immaginando che gli arrestati possano restare per due giorni nelle celle di sicurezza delle polizie. Idea pessima. Consapevole di quel che significa pare lo stesso ministro abbia suggerito di cambiare loro il nome, denominandole “sale di custodia”. Ora, a parte il fatto, cui non voglio credere, che l’idea sarebbe venuta, a lei ed alla collega dell’Interno, nel mentre andavano alla prima del San Carlo, cambiare il nome alle cose non muta le cose stesse: la cella di sicurezza, senza controlli e garanzie, è roba medioevale. Toglietevelo dalla testa. Ciascuna persona civile non può non sentirsi offesa dallo stato delle nostre carceri. Ciascun cittadino non può non avvertire che la soluzione deve portare maggiore giustizia, come anche certezza che i condannati scontino la pena. Noi che abbiamo dedicato alla giustizia tanta parte della nostra vita una cosa l’abbiamo imparata: la bontà delle intenzioni non conta nulla. Contano i risultati. Giustizia: se la Chiesa parla al mondo con la voce di chi soffre in carcere di Angelo Scelzo Il Messaggero, 20 dicembre 2011 Tra i grandi pellegrinaggi ai quattro angoli del mondo, può accadere che il più grande sia. forse, un viaggio appena fuori porta, i pochi chilometri di distanza tra il Vaticano e Rebibbia. Oltre che alle altre visite nei penitenziari romani - come dimenticare lo splendido “esordio”, nel dicembre del 1958. a Regina Coeli. appena un mese dopo l’elezione, di Giovanni XXIII? - rincontro di Papa Benedetto ha ricordato quel lungo “viaggio nella storia” compiuto, 25 anni fa, da Giovanni Paolo II. Quasi a pochi passi da casa, sul Lungotevere, Karol Wojtyla fu il primo Pontefice a varcare la soglia di una Sinagoga. Se quella visita di Papa Wojtyla segnò un tempo nuovo nel rapporto tra cristiani ed ebrei, il pellegrinaggio di Papa Ratzinger a Rebibbia è parso il punto di svolta per la natura stessa di un pontificato sempre più originale e vivo, tanto da prendere forza proprio al contatto con realtà giudicate più ostiche e impegnative. Parlare della visita alla maggiore delle carceri romane come di un successo oltre le aspettative significa affermare una verità, ma allo steso tempo, limitare il valore di un gesto, inserendolo in una specie di catalogo delle “sorprese” venute da Papa Ratzinger; di fatto delle smentite, seppure di segno positivo, a qualcosa che da questo Papa quasi non era lecito attendersi. Ma oltre ad essere diventate fin troppo frequenti per essere definite tali, queste “sorprese”, una dopo l’altra, stanno sempre più delineando il volto non solo del pontificato ma della Chiesa dei tempi di Papa Benedetto; una Chiesa che si sta scoprendo in profondo e naturale dialogo con il mondo. Prima di tutto con il mondo dei cosiddetti lontani, e di coloro che pongono domande difficili, come Nwaihim detenuto beninense del reparto G11 che voleva sapere dal Papa, “perché Dio non li ascolta. Forse Dio - ha incalzato - ascolta solo i ricchi e i potenti che invece non hanno fede?”. Nessuna domanda, in Papa Ratzinger, trova il silenzio, ma neppure la risposta è fatta per troncare discorsi, così che tutto confluisce in quella particolare forma di dialogo che non si nutre solo di parole messe a confronto, ma di volontà e di cuori che, talvolta anche inconsapevolmente, si cercano. A Rebibbia, questa naturale sintonia di mondi apparentemente lontani si è manifestata ancora prima che ai detenuti fosse data la parola, per esprimersi davanti al Papa. Ognuno di essi, anche di nessuna o diversa fede, dava per scontato un ascolto, tanto difficile da ottenere altrove, quanto riconosciuto come valore costitutivo alla Chiesa, così da poterle affidare non solo richieste, ma innanzitutto le proprie emozioni. E Papa Ratzinger, l’umanissimo Papa attorniato dai reclusi, si è così trovato tra le mani la foto di Gaia, un mese di vita, trovando a sua volta parole tenerissime per papà Alberto (l’augurio di “poter presto tenere in braccio la figlia”). Il clima di intensa commozione vissuto a Rebibbia non può, tuttavia, avere un semplice valore emotivo. Non si è trattato di un “bel gesto” di Natale, ma di un evento che va ad arricchire il patrimonio spirituale di un pontificato passato attraverso tempi difficili, che non sono riusciti, tuttavia, ad ostacolarne il cammino. Anche sotto questo profilo la visita ai detenuti è stata un simbolo eloquente. A un sieropositivo che lamentava la ferocia dei giudizi di chi è all’esterno, il Papa ha replicato che anche a lui tocca talvolta la stessa sorte. E in quel “tuttavia andiamo avanti”, con il verbo declinato al plurale, come compartecipi di una stessa sorte, è lecito vedere un tratto fondamentale del pontificato: la ricerca dell’essenziale, un albero sempre da scuotere per liberarlo e alleggerirlo dalle foglie morte. Di fronte ai detenuti è mutato solo l’oggetto della metafora. “Permettici di aggrapparti a te come un cavo elettrico che comunichi con il Signore”, ha detto al Papa un detenuto. E allora, rispondendo a tono, il punto centrale offerto da Benedetto è diventato quello di “un’unica cordata che va verso il Signore”. Parole da Rebibbia, ma parole per il mondo e per la Chiesa. Con una conferma: il magistero pastorale, fatto di gesti, come quello dell’incontro con i reclusi, è il caposaldo di questo pontificato. Sulla cattedra di Pietro non siede solo un grande teologo, ma un illuminato Pastore d’anime. Rebibbia ha avuto il valore ulteriore di rendere visibile questo tratto di pontificato che, in un certo senso, ha varcato, a due passi da casa e a Roma, sede della sua Cattedra episcopale, una soglia ancora più alta nel cuore dell’umanità. Lettere: il Papa e la saggezza dei carcerati di Paola Severino www.ilsussidiario.net, 20 dicembre 2011 Domenica il ministro della Giustizia, Paola Severino, ha partecipato alla visita di Benedetto XVI nel carcere romano di Rebibbia. Un momento toccante, nel quale il Papa ha parlato di giustizia umana, di misericordia divina, e ha detto che occorre “reintegrare chi ha sbagliato senza calpestarne la dignità e senza escluderlo dalla vita sociale”, fare il possibile per contrastare il sovraffollamento e il degrado. Così, mentre si accende il confronto sulle misure allo studio del Guardasigilli, è lo stesso ministro Severino a riflettere anzitutto sulla visita e le parole del Papa, con queste righe scritte appositamente per il nostro giornale. “È estremamente difficile anche solo cercare di descrivere i sentimenti suscitati dalla visita del Papa a Rebibbia in chi ha avuto la fortuna di parteciparvi. In primo luogo il calore umano, che superava ogni barriera ed ogni pregiudizio è stato veramente straordinario: trovarsi con 300 detenuti per ogni specie di reato, senza mai provare un solo momento di timore o di disagio, ma sentire, al contrario, un solo afflato che ci univa tutti e ci portava verso pensieri di speranza e di redenzione. In secondo luogo, la spontaneità ed il profondo sentire che accompagnavano le domande e le preghiere preparate dai detenuti: quale carica di saggezza, di dolore ma anche di fede sgorgavano da quelle parole lette con voce commossa da uomini i cui pensieri erano resi profondi da lunghe ore e giorni trascorsi da soli, a confronto con la propria coscienza ed il senso delle proprie colpe. Ed ancora e soprattutto, la grandezza di un Papa che ha saputo coniugare umanità e teologia, dando al Suo discorso ed alle Sue risposte una dimensione universale che ha abbracciato insieme morale cristiana e morale laica, accomunandole nella ricerca di una strada che porti alla riabilitazione ed al reinserimento sociale del detenuto. Nell’attraversare le due ali di folla che ci circondavano e ci tendevano la mano all’uscita dalla chiesa, cercando il nostro conforto, ho pensato che un solo momento come quello poteva illuminare il percorso di un’intera vita. Il mio pensiero va, pieno di gratitudine, a chi ha reso possibile tutto ciò”. Liguria: Pagani (Uil); in carceri mancano poliziotti, educatori, assistenti sociali e direttori Asca, 20 dicembre 2011 “Quelle delle carenze organiche costituisce una delle più gravi criticità, ed è evidente che questa situazione è di grave nocumento al raggiungimento degli obiettivi di rieducazione e risocializzazione che la Costituzione affida al sistema penitenziario e determina anche un grave vulnus alla sicurezza sociale. A scorrere bene i dati - prosegue Pagani - si appalesano forti vacanze organiche anche nei profili degli operatori demandati al trattamento intramoenia. All’appello, infatti, mancano 4 direttori (previsti 17 - presenti 13), 15 contabili (previsti 39 - presenti 24), 19 assistenti sociali (Previsti 60 - presenti 41), 13 educatori (Previsti 40 - presenti 27), ma soprattutto mancano 265 Poliziotti Penitenziari (previsti 1264 - presenti 999). Questi numeri sono parte integrante della deriva dell’universo penitenziario ligure, che nel solo 2011 in Liguria dal 1 gennaio ad oggi annovera: due suicidi (entrambi a Marassi), 33 tentati suicidi, 207 atti di autolesione grave ed 11 aggressioni al personale per un totale di 15 agenti feriti (di cui 12 a Marassi). Ciò che preoccupa - conclude amaramente il Segretario Regionale - è l’incapacità dell’Amministrazione, ai vari livelli, di arginare le criticità e che se non fosse per la professionalità, la dedizione, la competenza della polizia penitenziaria da tempo sarebbe diventato un cumulo di macerie. E - chiosa Pagani - se non si può certo continuare ad aprire nuove strutture senza assumere personale è anche vero che qualche unità in meno nei palazzi del potere potrebbe alleviare i sacrifici di quel personale che per garantire la funzionalità delle carceri spesso è costretto a rinunciare ai propri diritti elementari come risposi settimanali e ferie”. Pordenone: muore suicida un Assistente capo della Polizia penitenziaria Adnkronos, 20 dicembre 2011 Un assistente capo della polizia penitenziaria in servizio al carcere di Pordenone si è suicidato ieri pomeriggio, nell’abitacolo della propria automobile, sparandosi un colpo con la sua di pistola di ordinanza. A riferirlo è il sindacato Uil-Penitenziari. L’uomo, Antonio Caputo di 43 anni, intorno alle 14, finito il turno di servizio, si è messo in auto ed ha raggiunto San Vito al Tagliamento, dove in un luogo appartato si è sparato. La moglie non vedendo rincasare il consorte ha dato l’allarme e il cadavere è stato rinvenuto intorno alla 18. “Grande commozione ha suscitato questa ennesima tragedia, si tratta del quinto suicidio, di un basco blu del 2011, anche perché Caputo era apprezzato da tutti per la sua professionalità e disponibilità - sottolinea il segretario generale della Uil-Penitenziari, Eugenio Sarno - In questi giorni, ai colleghi è apparso tranquillo e sereno svolgendo servizio nelle sezioni detentive. Insomma, nessun segnale che avrebbe potuto far presagire la sua drammatica decisione”. Per Sarno, “quello dei suicidi in seno alla polizia penitenziaria è evidentemente un fenomeno che deve essere indagato a fondo perché assume dimensioni davvero preoccupanti. In dieci anni, infatti, sono circa 80 i suicidi di poliziotti penitenziari. Non intendiamo assolutamente strumentalizzare queste morti: ma se non è possibile collegare direttamente le volontà suicide a motivi di lavoro, nemmeno possiamo escludere che l’ambito lavorativo, con il suo carico di disagio, sia totalmente estraneo nelle dinamiche che portano alle auto soppressioni”. Sappe: nulla viene fatto “Siamo sgomenti e sconvolti. Un assistente capo di Polizia penitenziaria in servizio presso il carcere di Pordenone, nato in Svizzera da genitori siciliani, si è suicidato a San Vito al Tagliamento nella giornata di ieri. Non sono ancora chiare le ragioni che hanno spinto l’uomo, 43 anni, sposato e con tre figli, a compiere il gesto estremo. Sappiamo che dopo aver terminato il turno di servizio alle 14, il collega è ritornato in carcere verso le 15 per ritirare la pistola d’ordinanza ma nulla faceva presagire l’imminente tragedia. Siamo impietriti per questa nuova immane tragedia, anche perché avviene a brevissima distanza di tempo dal suicidio di altri appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria, in servizio ad Avellino, Mamone Lodè, Caltagirone, Viterbo, Torino e Roma”. Così Donato Capece, segretario generale del Sindacato autonomo polizia penitenziaria (Sappe) commenta la morte di un agente di polizia penitenziaria in servizio a Pordenone. Una tragedia avvenuta, secondo Capece, “nell’indifferenza assoluta e colpevole dell’Amministrazione Penitenziaria che continua a sottovalutare questa grave realtà. Noi ci stringiamo con tutto l’affetto e la solidarietà possibili al dolore indescrivibile della moglie, dei figli, dei familiari, degli amici, dei colleghi.” Continua il segretario generale del Sappe: “Dal 2000 ad oggi si sono uccisi 100 poliziotti penitenziari, 1 direttore di istituto (Armida Miserere, nel 2003 a Sulmona) e 1 dirigente regionale (Paolino Quattrone, nel 2010 a Cosenza). E sette suicidi in pochi mesi sono sconvolgenti. Da tempo sosteniamo che bisogna comprendere e accertare quanto hanno eventualmente inciso l’attività lavorativa e le difficili condizioni lavorative nel tragico gesto estremo posto in essere. L’Amministrazione penitenziaria, dopo la tragica escalation di suicidi degli scorsi anni - nell’ordine di 10 casi in pochi mesi, accertò che i suicidi di appartenenti alla Polizia Penitenziaria, benché verosimilmente indotti dalle ragioni più varie e comunque strettamente personali, sono in taluni casi le manifestazioni più drammatiche e dolorose di un disagio derivante da un lavoro difficile e carico di tensioni. Proprio per questo il Dap assicurò i sindacati di prestare particolare attenzione al tragico problema, con la verifica delle condizioni di disagio del personale e l’eventuale istituzione di centri di ascolto. Sarebbe però curioso sapere - e come primo Sindacato della Polizia Penitenziaria abbiamo più volte sollecitato al Dipartimento di monitorare la questione - cosa concretamente è stato fatto, a livello centrale e periferico, in adempimento alle disposizioni emanate nel tempo sulla triste e tragica realtà dei poliziotti e più in generale sul benessere del personale. Ma lo sappiamo già: praticamente zero, nulla, niente. Ed oggi ci ritroviamo con una ennesima Commissione, che peraltro non sappiamo da chi è concretamente composta, che suggerirà sicuramente ulteriori valide proposte che però, come tutte quelle fino ad oggi indicate, saranno relegate in qualche cassetto dipartimentale”. “Chiediamo al Ministro della Giustizia Paola Severino di farsi carico in prima persona di questo importante problema - conclude il Sappe. Lo abbiamo detto e lo ripetiamo: l’istituzione di appositi Centri specializzati di psicologi del lavoro in grado di fornire un buon supporto agli operatori di Polizia - garantendo la massima privacy a coloro i quali intendono avvalersene - può essere un’occasione per aumentare l’autostima e la consapevolezza di possedere risorse e capacità spendibili in una professione davvero dura e difficile, all’interno di un ambiente particolare quale è il carcere, non disgiunti anche dai necessari interventi istituzionali intesi a privilegiare maggiormente l’aspetto umano ed il rispetto della persona nei rapporti gerarchici e funzionali che caratterizzano la Polizia penitenziaria. Su queste tragedie non possono e non devono esserci colpevoli superficialità o disattenzioni”. Ristretti Orizzonti: le carceri non siano più fabbriche di morti Il tasso di suicidio tra i carcerati è 20 volte superiore rispetto a quello della popolazione ‘liberà. Tra i poliziotti penitenziari è circa 3 volte superiore alle altre forze dell’ordine. Un nuovo lutto scuote la polizia penitenziaria, in seguito al suicidio dell’assistente capo Antonio Caputo a Pordenone. Da Ristretti Orizzonti - che da tempo denuncia le precarie condizioni carcerarie e gli effetti che queste possono avere non solo sui detenuti ma anche sul personale del carcere - arriva un messaggio di cordoglio e vicinanza. Ristretti ricorda i numeri della tragedia: “Negli ultimi dieci anni il sistema penitenziario italiano ha visto al suo interno un numero impressionante di suicidi: quasi 700 i detenuti e 100 i poliziotti penitenziari che si sono tolti la vita”. Numeri che non possono essere ignorati, come non possono passare sotto silenzio le “condizioni di conclamata inciviltà delle carceri, che inevitabilmente si ripercuotono sulla salute fisica e psichica di chi vi lavora, come di chi vi è ristretto” incalza l’associazione padovana, secondo cui “il tasso di suicidio tra i carcerati è 20 volte superiore rispetto a quello della popolazione ‘liberà, tra i poliziotti penitenziari la frequenza dei suicidi è circa 3 volte superiore a quella registrata nelle altre forze dell’ordine”. L’appello è di non lasciare che le carceri continuino a essere “fabbriche di morte”: “Servono con urgenza interventi legislativi e amministrativi per riportarle a essere luoghi di umanità e legalità”. Roma: il Garante; detenuto si proclama innocente e per protesta ingoia dei bulloni Dire, 20 dicembre 2011 “Da diversi giorni è in sciopero della fame e della sete per protestare contro quello che ritiene essere un errore giudiziario perpetrato dalla giustizia italiana nei suoi confronti. Protagonista della vicenda un cittadino tunisino di 34 anni, Soufiane Aoun. È quanto riferisce, in una nota, il garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni. “Giunto in Italia a seguito dei moti popolari della scorsa primavera a Tunisi - spiega Marroni - Soufiane è stato arrestato a novembre con l’accusa di rapina aggravata (furto di un telefonino) e false generalità e condannato in primo grado a 3 anni e 6 mesi di reclusione. Rinchiuso nella sezione G12 di Rebibbia Nuovo Complesso, dal 14 dicembre scorso l’uomo, che al momento dell’arresto ha ingerito dei bulloni, è stato ricoverato nella struttura protetta per detenuti dell’ospedale Sandro Pertini di Roma a causa delle sue precarie condizioni di salute frutto dello sciopero della fame iniziato in carcere e proseguito anche nel nosocomio. Dal momento del suo arrivo nella struttura protetta, infatti, il detenuto rifiuta in modo cosciente cibo e acqua ed ogni terapia”. “Per sospendere la protesta Soufiane - prosegue il garante - che è stato collocato in una stanza di degenza adibita al monitoraggio dei parametri vitali, chiede un incontro con il magistrato di sorveglianza per spiegare le proprie ragioni”. “L’uomo sostiene, infatti - spiega ancora Marroni - di non aver commesso il furto che gli viene addebitato, e di aver fin da subito segnalato all’ufficio immigrazione di Bari l’errore nelle generalità scritte sul proprio permesso di soggiorno temporaneo”. In queste ore Soufiane, si legge nella nota, ha effettuato colloqui con i medici, con lo psichiatra e con gli operatori del Garante dei detenuti. Secondo i medici le sue condizioni potrebbero deteriorarsi, con concreti rischi per la vita, se non si sospende lo sciopero. A tale proposito il medico del reparto ha inviato una relazione agli uffici competenti (tra cui il magistrato di sorveglianza, il direttore del carcere e l’avvocato) sulle condizioni sanitarie dell’uomo. “Da quanto riferitomi dai miei collaboratori e dalle relazioni dei sanitari del Pertini - ha detto il Garante dei detenuti - quest’uomo sta mettendo seriamente a rischio la propria vita per denunciare quello che ritiene essere una ingiustizia commessa ai suoi danni. Non voglio entrare nel merito della vicenda giudiziaria di Soufiane, credo che però il buon senso possa servire a disinnescare una situazione che potrebbe concludersi tragicamente. Per questo - conclude - ho personalmente invitato il presidente del Tribunale di sorveglianza ad affrontare, al più presto, il caso di Soufiane”. San Cataldo (Cl): le volontarie vincenziane donano prodotti per l’igiene dei detenuti La Sicilia, 20 dicembre 2011 Un gesto di solidarietà e simpatia, un augurio di Natale con doni al contempo utili e generosi: con questo spirito, le componenti della sezione di Caltanissetta de “I gruppi di Volontariato Vincenziano” si sono recate alla Casa di reclusione, per offrire dei particolari regali ai detenuti. A recarsi presso la struttura di via Libertà, sono state la presidentessa dell’associazione, Anna Maria Lapis e le componenti Marianna Pullara, Fiorella Macaluso e Mariolina Tornatore. “I gruppi di Volontariato Vincenziano” rappresentano, a livello nazionale, un’associazione di laici cattolici volontari. L’associazione riunisce persone che intendono vivere la solidarietà e la carità cristiana secondo il Vangelo, ispirandosi all’opera del proprio fondatore, San Vincenzo de Paoli, sacerdote francese vissuto tra il Cinquecento ed il Seicento, fondatore e ispiratore di numerose congregazioni religiose. Le componenti dell’associazione hanno incontrato il direttore del penitenziario, dott. Angelo Belfiore, il comandante del corpo di Polizia penitenziaria, commissario Alessio Cannatella, ed il responsabile dell’area educativa Michele Lapis. A loro sono stati consegnati i regali natalizi che i gruppi di volontariato hanno destinato ai ristretti: si tratta di prodotti per l’igiene, quali saponi, shampoo, bagnoschiuma, dentifrici e quant’altro. I doni sono stati messi a disposizione dalla ditta gestita a Caltanissetta da Laura Leto Assennato. Come spiegato dall’educatore Michele Lapis, i prodotti saranno molto utili ai detenuti della Casa di reclusione, tra cui anche extracomunitari ed indigenti. Milano: porte aperte al carcere di Bollate di Tilde Napoleone www.linkontro.info, 20 dicembre 2011 Lo scorso 17 dicembre, nel carcere di Bollate si è svolta un’insolita iniziativa aperta al pubblico. Dopo un’intensa attività preparatoria che ha coinvolto detenuti, educatori, volontari, poliziotti, alle 17,00 le porte del carcere si sono aperte a circa 100 visitatori che avevano chiesto di partecipare attraverso un indirizzo mail appositamente creato per l’evento. L’apertura delle porte si è poi ripetuta alle ore 19,00 e alle ore 21.00 per altre 150 persone. I tre gruppi durante il percorso hanno incontrato un vero e proprio mercato natalizio, come quelli che si vedono in questo periodo nelle piazze di tanti paesi. La prima “piazza”, era destinata ai cuochi che di fronte al pubblico cucinavano panzerotti e frittelle e ad altri che avevano preparato cibo per il buffet, ma in cella. La seconda “piazza” era dedicata alla musica, dove i gruppi musicali nati e cresciuti all’interno dell’Istituto si sono esibiti senza interruzione tra le 17,00 e le 23,00. La parte finale era il luogo del mercato vero e proprio, dove, lungo un corridoio che collega due reparti detentivi, le cooperative o i singoli detenuti che in carcere costruiscono, progettano, creano prodotti di artigianato o di arte o prodotti dell’orto, insieme alle redazioni dei due giornali nati a Bollate, Carte Bollate e Salute Ingrata”, hanno esposto e venduto le loro opere al pubblico. Il clima era disteso, non ci sono stati incidenti, a dimostrazione del fatto che il carcere aperto all’esterno e dove i detenuti sono liberi di muoversi e di esprimersi non è un’utopia né una follia. 100 visitatori insieme a 100 detenuti, artisti venuti dall’esterno, poliziotti, operatori non hanno creato insicurezza ma un’insolita sicurezza fondata su un obiettivo comune che ha coinvolto tutti dal primo momento in cui l’idea è nata. Ognuno era concentrato sul compito assegnatogli e ognuno per la parte che lo riguardava. Ancora una volta è stato dimostrato che il carcere, se aperto, e non luogo oscuro, è un luogo sicuro, dignitoso, rispettoso della legge e dei diritti dei singoli. I luoghi oscuri sono insicuri, i luoghi dove entra la luce sono sicuri perché ci si guarda, ci si conosce, e perché sono generativi di cose vive. Francia: record per il numero di detenuti, il governo vuole costruire nuove carceri Liberation, 20 dicembre 2011 Mai ci sono state tante persone incarcerate in Francia. Secondo le statistiche mensili dell’amministrazione penitenziaria (Ap), il numero di detenuti nelle prigioni francesi ha battuto, il 1° dicembre, un nuovo record storico, con 65.262 persone incarcerate. Il sistema penitenziario, che conta 57.255 posti, è dunque nettamente sovraffollato con un tasso d’occupazione del 113,9% (113% il 1° novembre). Le statistiche di dicembre rappresentano un aumento del 6,2% in rapporto al dicembre 2010 (61.473), e dello 0,9% in rapporto al 1° novembre 2011 (64.711), precisa l’Ap in un comunicato. Nel dettaglio, il numero di imputati (in attesa di giudizio) si innalza a 16587, ossia il 25,4% delle persone incarcerate. I detenuti minorenni sono 750, in aumento dell’8,7% in rapporto al mese precedente (690). Essi rappresentano l’1,1% delle persone incarcerate. Infine, 10698 persone beneficiano di commutazione di pena (semilibertà, braccialetto elettronico, etc.), dispositivo che è progredito del 25,4% in un anno e del 43,7% in due anni. Già, nel giugno scorso, il record d’incarcerazioni era stato battuto con 64971 persone rinchiuse. Questo sovraffollamento carcerario non è dunque stato impedito dalle costruzioni di prigioni, iniziate dal governo. Non meno di dodici stabilimenti penitenziari hanno aperto le loro porte tra il 2008 e il 2011 (Mont-de-Marsan, Saint-Denis de la Réunion, Roanne, Lyon-Corbas, Nancy-Maxéville, Poitiers-Vivonne, Béziers, Le Mans, Bourg-en-Bresse, Rennes-Vezin, le Havre e Lille-Annoeullin). Quest’aumento del 12,3% della capacità operativa dell’istituto penitenziario non ha dunque saputo colmare le mancanze già stabilitesi da lunga data. Per tentare di ridimensionare la situazione, il governo prevede la costruzione di più di 20.000 posti di prigione supplementari per fine 2017, nell’ottica di un istituto carcerario di 80.000 posti. Con grande dispiacere dell’Osservatorio internazionale delle prigioni (Oip), un’associazione di difesa dei diritti dei detenuti, che ha chiamato i parlamentari a votare contro la legge di programmazione che prevede questo nuovo aumento, “economicamente costoso” e, secondo lui, “contro produttivo in termini di prevenzione della recidiva”. Nel suo primo rapporto dopo sei anni, pubblicato la settimana scorsa, l’Oip stima inoltre che le condizioni di detenzione non avevano conosciuto maggior progresso questi ultimi anni.