Giustizia: il ministro “siamo sulla buona strada”… ma il Pdl si prepara a dare battaglia di Liana Milella La Repubblica, 19 dicembre 2011 Lei, il Guardasigilli Paola Severino, è visibilmente soddisfatta. Pronta a lasciarsi andare, a metà del pomeriggio, a un “siamo sulla strada giusta”. Ma i pidiellini - non uno solo, ma in tanti - la aspettano al varco nelle aule parlamentari. Decisi a dare battaglia sulla permanenza dell’arrestato, per 48 ore, nelle camere di sicurezza, la misura del pacchetto carceri che né Angelino Alfano né Nitto Palma, i predecessori della Severino, avevano ipotizzato o tentato. “Il testo non lo abbiamo ancoraletto, mamuoversiper decreto di certo non aiuta il confronto, vedremo che fare in sede di conversione” dice Enrico Costa, capogruppo del Pdl in commissione Giustizia. Gaetano Pecorella fa di più, lancia un vero e proprio “altolà”: “Ma scherziamo? Vogliamo tornare indietro di 15 anni? Allora le camere di sicurezza furono abolite perché non davano garanzie né per l’incolumità dell’ arrestato né per la regolarità dell’inchiesta. Tornare indietro significa solo inquinare il processo, perché è fuori dalle regole lasciare per 48 il detenuto in balia di chi, come le polizie, hanno tutto l’interesse a ottenere il maggior numero di informazioni. Che siano state estorte davvero o che in seguito l’imputato lo millanti, comunque compromette la regolarità del futuro dibattimento”. Ma dopo una domenica mattina intensa accanto al Pontefice, la Severino è ottimista. Eccola dire: “Le parole di Benedetto XVI mi hanno dato un grande conforto e mi hanno resa ancora più convinta che si debba fare tutto il possibile e con grande determinazione”. Sentire Sua Santità che parla di carcere vivibile, di misure alternative, di reinserimento l’ha ancora più convinta che la sua “manovra” sul sovraffollamento va “nella direzione giusta”, quella di puntare su soluzioni alternative alla cella come i domiciliari per gli ultimi 18 mesi da scontare, come la “reclusione” a casa come pena in sé, come la messa in prova. Della sua “manovra” dice Giulia Bongiorno, la presidente della commissione Giustizia della Camera: “Il sovraffollamento trasforma la pena in tortura ed è apprezzabile che sia stata data priorità proprio a questo problema. Quanto alle camere di sicurezza la fattibilità è ancora tutta da sperimentare” Ma quando la Severino riflette su “tutto il possibile” da fare per far calare il sovraffollamento conta anche sulle camere di sicurezza degli uffici di polizia. A cui lei ha già cambiato il nome. Lo aveva raccomandato ai suoi mentre scrivevano il decreto: “Dobbiamo chiamarle in un altro modo, mi raccomando”. Poi a Napoli, mentre con la collega dell’interno Annamaria Cancellieri andavano al San Carlo, le è venuta in mentre l’espressione alternativa: “Sale di custodia, ecco, le ribattezziamo così”. Decisa ad andare avanti, anche se i distinguo le crescono intorno. Convinta che restare nelle sale di custodia evita il trauma, ben più potente, di finire in carcere, con tutto quello che comporta, dalle umilianti perquisizioni alla stessa spoliazione”. Sarà pure, ma quelli del Pdl già puntano i piedi. Perfino un politico prudente, anche per via della sua alta carica istituzionale, come il presidente del Senato Renato Schifani non è affatto convinto: “L’intenzione è buona, ma occorre approfondirla meglio perché bisogna fare un’attenta verifica della vivibilità di queste celle nei commissariati e nei comandi delle forze dell’ ordine”. Ma non solo di questo si tratta. Al Pdl non va giù che, senza una consultazione preventiva, la soluzione delle camere di sicurezza, ora “sale di custodia”, sia passata per decreto legge. Decreto che non è ancora stato spedito al Quirinale in attesa delle verifiche sulla compatibilità finanziaria, ma che dovrebbe essere sdoganato in un paio di giorni. Dice Enrico Costa: “Immagino che il ministro abbia fatto un attento bilanciamento tra gli effetti positivi e gli interrogativi che suscitano queste camere di sicurezza e, ovviamente, stia tenendo conto dei pareri preoccupati del-leforzedipolizia. La via del decreto non aiuta affatto, perché limita la discussione, ma non esclude miglioramenti in sede di conversione. Mi auguro comunque che la Severino abbia fatto tutte le valutazioni necessarie prima di fare di un simile passo. La finalità di evitare la cosiddetta “porta girevole” è lodevole, perché il trauma dell’ingresso in carcere uno se lo tiene per tutta la vita, ma bisogna evitare che magari non ci sia un trauma ben peggiore per essere rimasti, di venerdì sera, nella cella di uno sperduta compagnia dei carabinieri”. Certo è che battute come quella di Maurizio Gasparri, capogruppo Pdl al Senato - “il confronto su questi temi deve procedere con grandissima cautela” - fanno capire che la Severino dovrà utilizzare tutta la sua verve di noto avvocato per portare a casa il suo decreto. Giustizia: il Papa; celle affollate, una doppia pena di Gian Guido Vecchi Corriere della Sera, 19 dicembre 2011 La chiesa del “Padre nostro” dentro Rebibbia è a pianta circolare, fuori c’è una statua di padre Pio e dentro, lungo la parete di mattoni a vista, i secondini circondano i trecento detenuti che nell’attesa sono invitati a cantare “Tu scendi dalle stelle”: il carcere è davvero un modo a parte se il cappellano sente il bisogno di spiegare a quegli uomini dagli sguardi induriti e insieme dolenti, come fossero bimbi, che “il Papa nuovo si chiama Benedetto XVI” ma “il suo nome è Joseph Ratzinger”. Eppure quel senso di distanza svanisce quando entra il pontefice e i carcerati si sporgono per tendergli la mano e lui comincia a dialogare con loro, più tardi nel seguito papale si considererà con stupore: “Mai nessun Papa aveva parlato così spontaneamente ai carcerati. Mai”. Perché c’è l’intervento nel quale Benedetto XVI denuncia il “sovraffollamento e degrado delle carceri” che “possono rendere ancora più amara la detenzione”, chiede alle “istituzioni” una “attenta analisi” tra “strutture, mezzi e personale” in mondo che “i detenuti non scontino mai una doppia pena”, invoca “il ricorso anche a pene non detentive o a modalità diverse di detenzione”. Ma poi, soprattutto, c’è il dialogo con i carcerati, “sono commosso da questa amicizia”, il Papa che risponde a sei domande e a braccio dice cose straordinarie. Come quando un detenuto dell’infermeria, Federico, gli dice che “troppo poco si parla di noi, spesso in modo così feroce come a volerci eliminare dalla società”, e Benedetto XVI replica con un sorriso: “Dobbiamo sopportare se alcuni parlano in modo feroce, parlano in modo feroce anche contro il Papa e tuttavia andiamo avanti, bisogna andare avanti”. n pontefice ricorda che “lo stesso Signore Gesù ha fatto l’esperienza del carcere” e “là dove c’è un carcerato, lì c’è il Cristo”. Le sue parole non cadono dall’alto, con semplicità spiega: “Sono venuto qui perché so che in voi il Signore mi aspetta”. Omar l’africano gli dice “ti voglio bene” e piange. “Anche io ti voglio bene”, mormora il Papa. “Non mi fanno tornare a casa”, protesta il neo papà Alberto, e Ratzinger: “È importante che il padre possa tenere in braccio la figlia”. Gianni lo abbraccia “a nome di tutti”, gli regalano pure uno strudel, alla fine gli applausi non finiscono più. Come per il Guardasigilli Paola Severino (“ministro!”) che saluta il pontefice con le parole di una lettera consegnatale da un detenuto a Cagliari (“Non c’è posto, oggi come duemila anni fa, per chi è senza voce...”) e conclude: “La custodia in carcere deve essere sempre disciplinata in modo da rappresentare una misura veramente eccezionale e transitoria” perché ogni sanzione “deve coniugare riparazione, rieducazione e reinserimento sociale”. Dietro le grate con il bucato appeso ad asciugare alcuni gridano “amnistia, amnistia” all’uscita del Papa. Ma di questo, ieri, non si è parlato. Del resto le parole del pontefice suonano in sintonia con la linea del Guardasigilli. Dentro la chiesa si sorride quando Ratzinger - sarà che vive a Roma da trent’anni - ripete tre volte l’espressione “il nostro governo”. Lo fa mentre spiega che la sua visita è certo “personale, a voi” ma vuole anche essere “un gesto pubblico”: per ricordare “ai nostri concittadini, al nostro governo, che ci sono grandi problemi e difficoltà nelle carceri italiane”. La giustizia “implica come primo fatto la dignità umana”. E le carceri “devono essere costruite in modo che tale dignità sia rispettata e non attaccata”. Quindi aggiunge: “Abbiamo sentito come il ministro della Giustizia senta con voi, come senta tutta la realtà vostra, e così possiamo essere convinti che il nostro governo e i responsabili faranno il possibile per migliorare questa situazione”. Perché una cosa è essenziale: “Non creare un abisso tra la realtà carceraria concreta e quella pensata dalla legge. La vita umana appartiene a Dio solo, e non è abbandonata alla mercé di nessuno”. Giustizia: l’abisso tra realtà carceraria e la legge denunciato dal Papa di Valter Vecellio Notizie Radicali, 19 dicembre 2011 Riferiscono le agenzie e i giornalisti che hanno seguito la visita di papa Ratzinger al carcere romano di Rebibbia che al suo passaggio si levava un coro: i carcerati compostamente, hanno scandito in coro “Amnistia”. E sempre urlando “Amnistia” lo hanno salutato quando ha lasciato il carcere dalle finestre delle celle e dietro le transenne dove si erano assiepati. E analoga richiesta-invocazione è stata rivolta al ministro della Giustizia Paola Severino. È da credere che analogo coro si sarebbe levato da qualsiasi carcere; e che anzi, i carcerati di tutti i 206 istituti di pena abbiano seguito con trepidazione e speranza, quella visita, quegli incontri; augurandosi, magari, che una voce si levasse anche in occasione dell’Angelus. Ratzinger ha comunque parlato, e detto una cosa precisa, somiglia molto a quella “prepotente urgenza” sillabata nell’ormai 28 luglio scorso disse il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. “C’è un abisso tra la realtà carceraria reale e quella pensata dalla legge, che prevede come elemento fondamentale la funzione rieducatrice della pena e il rispetto dei diritti e della dignità delle persone”, ha detto Ratzinger. E anche il laico più incallito, l’anticlericale più acceso (etnia alle quali chi scrive si onora di appartenere) non può riconoscere che meglio, con maggior precisione non si poteva dire. Il “Riformista” di domenica, in prima pagina, ha pubblicato una nota del suo direttore Emanuele Macaluso che avremmo con grande piacere voluto leggere su “l’Unità”, su “Europa”, uno di quegli editoriali che sarebbe bello poter leggere su “Repubblica” o sul “Corriere della Sera” (e per questo difficilmente accadrà). “Carceri. Manca l’azione del Pd”, si intitola l’editoriale di Macaluso. “C’è un tema, che attiene alla cultura politica dei gruppi dirigenti dei partii e di chi governa le istituzioni, e che oggi è all’ondine del giorno: le drammatiche condizioni in cui vivono i carcerati. La domanda che mi pongo è questa: perché la sinistra è poco sensibile rispetto a una questione che attiene alla condizione umana? La destra in Italia ha una tradizione forcaiola, repressiva. La sinistra socialista e democratica no. Anche nel Pci, dove non mancavano posizioni repressive, c’era una forte corrente sensibile ai temi carcerari. Giancarlo Pajetta, ogni volta che qualche membro della Direzione chiedeva aumenti di pena anche per reati gravi, lui che il carcere l’aveva fatto per più di dieci anni, insorgeva e trovava consensi. Negli anni del terrorismo però nel Pci prevalse una logica diversa e ha lasciato un segno. L’alleanza con Di Pietro non è stata certo una cura per gli eredi confluiti nel Pds-Ds-Pd. Non è quindi un caso che anche su questo tema siano i radicali, e particolarmente Marco Pannella, a condurre una battaglia sacrosanta. E non è un caso che il presidente della Repubblica abbia mostrato particolare sensibilità al tema ricevendo il leader radicale. La richiesta di un’amnistia per svuotare in parte le carceri non è stata recepita. La destra ha sabotato e la sinistra non ha combattuto. Ora la ministra della Giustizia ha fatto alcune proposte che possono attenuare il fenomeno di cui si parla e la Lega ha attaccato con violenza il governo che “mette tasse e libera i delinquenti” (titolo della “Padania”). Il tema è rilevante per l’attenzione che viene data o non data a ciò che si verifica nelle caserme, nei tribunali e nelle carceri, dove si amministra giustizia e ingiustizia, e si misura il grado di civiltà di una società. La sinistra democratica è tale se su questi temi ha una posizione liberale in senso più alto della parola e per farla valere svolge una costante e coerente azione politica e culturale”. I detenuti e le ragionevoli richieste avanzate in modo più che civile; un pontefice che individua il nodo della questione: “l’abisso tra la realtà carceraria reale e quella pensata dalla legge”; un padre nobile della sinistra che a Pierluigi Bersani, al Pd, ma in definitiva a tutti noi, ricorda quello che non si è capaci di essere, e quello che dovrebbe essere la bandiera dei riformatori, e che invece non è. Come dice Macaluso, “la sinistra democratica è tale se su questi temi ha una posizione liberale in senso più alto della parola e per farla valere svolge una costante e coerente azione politica e culturale”. “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. È l’articolo 27 di quella “Costituzione che voi dite essere la più bella del mondo”, compagno Bersani, compagni del Pd. Giustizia: no del Pd all’amnistia, mentre l’ex ministro Palma chiede limiti più stretti di Dino Martirano Corriere della Sera, 19 dicembre 2011 L’Osservatore Romano scrive che il decreto “svuota carceri” varato venerdì dal governo è stato accolto dietro le sbarre come “un regalo del Papa”. E probabilmente oggi nel carcere romano di Rebibbia - dove Benedetto XVI si recherà in visita - i carcerati ringrazieranno anche il Guardasigilli Paola Severino che però, da domani, si dovrà misurare con il Parlamento per la conversione del decreto legge. E in particolare con le polemiche sul trattenimento nelle 706 camere di sicurezza dei commissariati e delle caserme degli arrestati in flagranza di reato in attesa (massimo 48 ore) della convalida da parte del giudice. Ora contro questa norma - che prevede il dimezzamento della custodia pre cautelare (da 96 a 48 ore) ma introduce il trattenimento degli arrestati nelle camere di sicurezza (comprese quelle della polizia municipale) - si sono già espressi i sindacati degli agenti: “Attenzione, così il personale di polizia destinato alla custodia verrà necessariamente sottratto al controllo del territorio”, avverte Claudio Giardullo, segretario del Siulp. E si è mosso anche l’ex sottosegretario all’Interno, Alfredo Mantovano (Pdl), che parla di “micro celle, adatte per lo più a trattenere per qualche ora, ma inadeguate, per dimensioni e arredo, a ospitare per qualche giorno”. Emanuele Piano e Andrea Orlando del Pd, pur “ringraziando il ministro per la priorità assegnata al problema carcere”, chiedono al governo un incontro per “verificare ipotesi alternative dopo un confronto con i sindacati di polizia”. L’alternativa, sulla linea indicata dall’ex Guardasigilli Francesco Nitro Palma, viene individuata anche da Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, negli arresti domiciliari obbligatori in attesa della convalida. Ma sul piatto c’è anche la timida apertura del ministro sull’amnistia: “Se il Parlamento la propone certamente non mi opporrei”. Tanto basta, dunque, per riaprire un dibattito che solo i radicali hanno tenuto in vita. Ma il Pd risponde negativamente: “L’amnistia sarebbe un alibi, che in breve tempo si rivelerebbe anche inutile”, taglia corto Luciano Violante. Nel Pdl, invece, l’ex ministro Altero Matteoli è “favorevole affinché il Parlamento discuta e voti un’amnistia”. Per l’ex ministro Palma, tuttavia, bisognerebbe chiarire qual è la portata dell’amnistia: “Fino 3-4 anni oppure fino a 10 anni come propongono i radicali? In questo caso, fuori da ogni prassi, andrebbero amnistiati reati gravissimi come la corruzione, il peculato, parte delle violenze sessuali”. Oggi davanti al Papa, come anticipato a Radio Vaticana, il ministro annuncerà che ora il governo punta su un provvedimento finalizzato al reinserimento del detenuto. E padre Federico Lombardi, portavoce della sala stampa vaticana, ha già fatto capire qual è il timore di Benedetto XVI: “Le preoccupazioni per la crisi economica non devono far dimenticare chi è ai margini della società”. Giustizia: intervista a Rita Bernardini; svuota-carceri, la riforma va nella direzione giusta di Daniela Limoncelli Il Mattino, 19 dicembre 2011 “Le misure indicate dal ministro della Giustizia Paola Severino vanno nella giusta direzione”. Anche se per Rita Bernardini, deputata radicale della commissione Giustizia della Camera, presidente dell’associazione “Certi Diritti”, il prossimo passo deve essere “l’amnistia”. Del resto, afferma Bernardini, “l’amnistia c’è già, ma noi facciamo finta di non vederla”. E spiega: “Su 5milioni e 200mila procedimenti penali pendenti, infatti, ogni anno circa 183mila procedimenti cadono in prescrizione. E non è neanche previsto un risarcimento per la vittima che, invece, potrebbe essere stabilito in un provvedimento”. Il piano svuota-carceri, a suo avviso, non è allora un’amnistia mascherata come hanno sottolineato i leghisti... “Assolutamente no. L’amnistia è un’altra cosa. Ma lasciamo perdere i leghisti che non si preoccupano delle violazioni che sono quotidianamente in atto nelle carceri italiane. Un solo esempio: i detenuti di San Vittore, tranne le due ore di aria al giorno, sono costretti a vivere in scarsi due metri quadrati a testa e in condizioni igieniche drammatiche. Per non parlare del 30 per cento dei detenuti tossicodipendenti o del 20 per cento dei casi psichiatrici che dovrebbero essere ricoverati e curati piuttosto che essere chiusi in una cella superaffollata. Siamo di continuo condannati dall’Europa per le nostre carceri, siamo un Paese fuorilegge”. Come giudica il provvedimento del ministro Severino? “Ho molto apprezzato, innanzitutto, il fatto che il ministro abbia sceltolo strumento del decreto legge in quanto ha così dimostrato di riconoscere la necessità e l’urgenza di intervenire immediatamente sull’emergenza-carceri. Se così non fosse avrebbe infatti optato per lo strumento del disegno di legge come fece, all’epoca, Alfano”. E nel merito? “Il ministro ha saputo ben individuare alcuni problemi. A iniziare dall’istituto di messa alla prova o dal fatto che il magistrato possa scegliere, in alcuni casi, la condanna agli arresti domiciliari”. Ma la permanenza degli arrestati non in carcere ma nelle camere di sicurezza ha sollevato critiche anche da parte delle forze di polizia per l’inadeguatezza delle strutture... “Il principio è giusto, poi la realizzabilità richiede i suoi tempi. Anche su questo tema, a mio avviso, il ministro ha saputo cogliere due punti delicati e importanti. Il primo: prevedere che sia consentito - in quanto attualmente non lo è - l’accesso nelle camere di sicurezza anche del sindacato ispettivo dei parlamentari, una garanzia necessaria dopo casi come Cucchi. Il secondo punto è proprio quello di prevedere di attrezzarle. Ma lo sa quanti arrestati sono portati in carcere e poi dopo tre giorni sono scarcerati? Intanto, dal colloquio con io psicologo all’apertura della cartella clinica, dietro ognuno di loro c’è anche un lavoro immenso in carcere. Un lavoro inutile che sarebbe così risparmiato”. Giustizia: la questione immorale di Luigi Manconi L’Unità, 19 dicembre 2011 Se quella del carcere è, in tutta evidenza, una fondamentale questione politica e morale, perché mai, a interessarsene, sono pressoché esclusivamente i pontefici della Chiesa cattolica e i Radicali? Una possibile risposta risiede nel fatto che la politica, nella migliore delle ipotesi, considera il carcere un problema umanitario. Il che corrisponde al vero, ma rischia di delegare la questione a una dimensione volontaristica e, tutto sommato, sentimentale: roba per “anime belle” e per chi abbia “un cuore grande così”. E invece, come si è detto, è questione innanzitutto politica. Per due ragioni: perché riguarda il rapporto tra cittadino e Stato in quello che è il suo nodo cruciale: la libertà personale. In altre parole, lo Stato, le istituzioni e la politica, trovano il fondamento della loro legittimazione giuridica e morale nella capacità o meno di tutelare la libertà dei cittadini e di garantire che la privazione di quel bene supremo (la libertà, appunto) avvenga solo quando strettamente indispensabile, nelle condizioni e nei limiti previsti dalla legge. Tutto ciò che neghi questa impostazione, finisce col delegittimare Stato e istituzioni. Ma c’è un’altra ragione che rende politicamente decisivo il problema del sistema penitenziario. Ed è il fatto che quelle celle sovraffollate e promiscue, miserabili e alienanti, rappresentano l’appendice finale - la più dolente e intollerabile - della crisi complessiva della giustizia in Italia. Quelle celle sono la spia più eclatante del collasso dell’intero sistema dell’amministrazione della giustizia: e ci parlano dell’intasamento dei tribunali e di un codice penale vetusto, della drammatica carenza di risorse di personale e della macchinosità dei dibattimenti. Ecco, in quei letti accatastati e in quei cessi davanti ai fornelli, c’è la rappresentazione non solo di una condizione umana diventata disumana, ma anche di un funzionamento generale della giustizia (tutta, compresa quella civile), tanto lenta fino all’estenuazione quanto insipiente fino all’ottusità. Dunque, quando Benedetto XVI afferma che il sovraffollamento è una “doppia pena” sta dicendo, e lo fa anche esplicitamente, che è la stessa idea di pena e, pertanto, di tribunale e di giustizia, che va ripensata. Tutto questo è contenuto, nei termini considerati possibili, nei provvedimenti annunciati dal ministro della Giustizia Paola Severino. Misure che vanno tutte nella giusta direzione - anche se, a mio parere, con eccessiva lentezza - e che alludono a un progetto di riforma della giustizia e del sistema penitenziario, assai lungimirante, razionale e intelligente. Prevedibile la reazione della Lega, di alcuni settori del Pdl e dei giornali di destra che - coerentemente con una pulsione forcaiola mai doma - titolano: “A noi tasse, ai ladri libertà”. Non c’è da stupirsi: per questi ultimi la categoria di habeas corpus riguarda esclusivamente il perimetro del corpo del Sovrano. Sorprende, piuttosto, la risposta di molti segmenti del centro sinistra. Approvazione da buona parte del Pd, ma aggressiva ostilità dall’Italia dei Valori. Per quest’ultimo partito l’argomento, espresso in termini non proprio da giure consulti, sarebbe il seguente: il provvedimento che consente di scontare in detenzione domiciliare la pena di diciotto mesi, costituirebbe “una amnistia preventiva e selettiva”, dal momento che non verrebbero esclusi i reati dei colletti bianchi (corruzione e falso in bilancio). Una simile affermazione si presta magnificamente a illustrare quale sia il significato anche morale di un discorso sul carcere. Innanzitutto perché si trascura il fatto che la detenzione domiciliare è propriamente detenzione: privazione della libertà, appunto. Dimenticarlo, per ignoranza o per calcolo, segnala l’immoralità di quelle posizioni, oltre che il loro connotato inequivocabilmente reazionario. Ma ancor più immorale è la motivazione addotta. Se la mia azione tesa a emancipare (o liberare o soccorrere) dieci persone, può portare alla emancipazione di uno o due che non lo meritino, moralità è correre il rischio del bene. Che, dovrebbe saperlo pure chi non ha letto Sant’Agostino, contiene sempre al proprio interno anche il male. Se per evitare di beneficiare un manigoldo, evito di prestare aiuto, o anche solo di ridurre la sofferenza, di altri, incorro nel massimo di immoralità. Giustizia: suicidi in cella, tabù per il papa di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 19 dicembre 2011 Ieri, per novanta minuti, il papa è stato in visita nel carcere romano di Rebibbia. La visita, ha spiegato L’Osservatore romano, “è stata dettata proprio dalla gravità della situazione delle carceri dove la disperazione è compagna quotidiana. Quando non diventa assassina”. Venerdì il governo ha approvato il decreto proposto dalla ministra della giustizia Paola Severino che consentirà nel prossimo anno l’uscita anticipata dal carcere, verso la detenzione domiciliare, di più di tremila detenuti. Il che permetterà di alleggerire un po’ la pressione nelle carceri sovraffollate, anche se con questi ritmi di ingresso saranno ancora 20mila i detenuti in eccesso rispetto alla capienza massima. La visita di Benedetto XVI a Rebibbia, si è detto, ha contribuito a non far vacillare il governo e il carcere è diventato la prima vera emergenza per il governo Monti, oltre la crisi economica. La ministra Severino, le va riconosciuto, ha imposto l’argomento senza preoccuparsi delle resistenze presenti nei due principali partiti che appoggiano l’esecutivo, Pdl e Pd, e della contrarietà di Lega e Idv, del resto già fuori dalla maggioranza. Tutto bene, dunque? Non tutto. Ci sono i limiti del decreto legge - riconosciuti dalla guardasigilli - di fronte a una situazione talmente drammatica e urgente da non lasciare alternative, nell’immediato, all’amnistia. Che resta molto improbabile viste le posizioni in parlamento. Ci sono poi tutti i rischi che presenta una delle soluzioni avanzate, è cioè la permanenza degli arrestati nelle camere di sicurezza delle questure, per 48 ore, in attesa del processo per direttissima. Basta ricordare che molti abusi sono accaduti proprio tra quelle mura dove le garanzie previste per la detenzione in carcere non ci sono, neanche sulla carta. La soluzione rischia di risolversi nello spostamento dei detenuti da un luogo a un altro meno sicuro. Se i problemi del carcere sono di questa durezza, spiace che “L’Osservatore” eviti persino di pronunciare la parola “suicidi”, confermando quella chiusura che 50 anni fa faceva scrivere a Fabrizio De André la ballata del galeotto suicida sepolto “senza un prete e una messa”. Nascondere la realtà porta a sviste clamorose. “Solo nell’anno che sta per chiudersi i morti nelle carceri italiane sono stati una settantina”, scrive l’organo della santa sede. Magari. Quelli sono solo i suicidi (e i suicidi tentati un migliaio). I morti in carcere sono molti di più: 180 nel 2011, anno che può essere il più tragico degli ultimi dieci. Giustizia: a Rebibbia il ministro Severino legge la lettera di un detenuto davanti al Papa Sardegna Oggi, 19 dicembre 2011 “Se aiuteremo la barca di nostro fratello ad attraversare il fiume, anche la nostra barca avrà raggiunto la riva”. Sono le parole che il ministro della Giustizia, Paola Severino, domenica ha letto davanti a Papa Benedetto XVI durante la visita al carcere di Rebibbia. Non le ha scritte lei, bensì un detenuto nel carcere cagliaritano di Buoncammino che ha consegnato la lettera al ministro durante la visita dello scorso 6 dicembre. Alfio Diolosà, catanese di 52 anni, si trova nel carcere del capoluogo per scontare un cumulo di pena, circa trent’anni, per vari reati, dalla rapina all’estorsione, all’associazione di stampo mafioso. Una quindicina di anni li ha già scontati, ora dovrà rimanere recluso un’altra decina. Ma nell’istituto penitenziario si è impegnato in alcuni laboratori diventando il “maestro” del Presepe. Proprio una miniatura del presepe è stata consegna da lui stesso nelle mani del ministro assieme alla lettera. Ecco il testo: “Mettersi in contatto con persone recluse nelle carceri, o internate negli ospedali psichiatrici giudiziari, vuol dire mettersi in contatto con un mondo di sofferenza, solitudine, umiliazione, che non deve essere ignorato, dimenticato a chi chiede ascolto, comprensione, rispetto e soprattutto spirito fraterno. Quando si riesce a dare tutto questo senza giudicare, senza pregiudizi o falsi moralismi, ma cercando soltanto di far capire, di scoprire l’umanità di ognuno, facendo distinzione tra errore ed errante, allora il dialogo si apre e si illumina come una finestra verso la luce. È triste e frustrante aver sbagliato perché prima o poi, si mette in discussione se stessi, si dubita delle proprie capacità di recupero e di reinserimento, e ci si convince di essere incapaci di poter cambiare vita, e allora viene meno la speranza di venire accettati come persone degne di stima, macchiate per sempre, e si perde la forza di vivere. Tutto questo lo si sente dai nostri racconti di vita, dalla solitudine affettiva alla paura di perdere gli affetti lasciati fuori dalle mura, dalla disperazione repressa del sentirsi inutile, senza un lavoro che ti aiuti a sentirti vivo alla rabbia e all’impotenza davanti alle mille ingiustizie della vita carceraria. Non c’è posto, oggi come duemila anni fa, per chi è senza voce, per chi non ha mezzi, prestigio, potere, ed è per questo che si scatena la lotta e la Pace resta un’utopia nonostante le tante parole, le marce e persino le preghiere, se queste non si tramutano in fatti concreti così come ci ha insegnato nostro Signore Gesù Cristo. In carcere ci sono persone delle culture più diverse, psicologie più varie fino a quelle patologiche, persone con reati diversi, dal piccolo ladruncolo al pluriomicida, persone di età diverse, dai quattordicenni agli ultraottantenni, posso affermare che in tutti, salvo qualche eccezione, ho trovato e trovo tutt’oggi una certa sensibilità, spesso repressa o come impolverata, ma capace di risplendere di nuova luce usando comprensione, sincerità, coerenza, amicizia e soprattutto disponibilità di accoglienza nella società. Ogni anno, in certi eventi come la Natività di Nostro Signore, o per la Santa Pasqua, ci sentiamo naturalmente tutti più Buoni, ma penso che al punto in cui siamo arrivati, non si tratta soltanto di fare qualche opera buona, ma di operare giustizia facendo “posto” nella società, così sfacciatamente opulenta, a coloro che vivono ai margini, perché anche noi siamo parte integrante di questa nostra società. Se aiuteremo la barca di nostro fratello ad attraversare il fiume, anche la nostra barca avrà raggiunto la riva. Buon Natale”. Giustizia: il piano svuota-carceri distoglierà magistrati dalle grandi inchieste di Bruno Tinti Il Fatto Quotidiano, 19 dicembre 2011 È un sollievo occuparsi delle iniziative legislative del ministro della Giustizia: finalmente non si tratta di evitare la prigione a B., anche a costo di distruggere l’intero sistema giudiziario. Detto questo, il ministro Severino il sistema giudiziario lo azzopperà parecchio, sia pure con le migliori intenzioni di questo mondo. Le riforme di cui si ha notizia sono due: 48 ore per decidere la sorte degli arrestati quotidiani, i ladruncoli, i micro spacciatori, qualche ubriaco manesco; e l’innalzamento a 18 mesi della pena detentiva che si può scontare a casa. Qui mi occupo della prima; della seconda (che è pure peggiore) scriverò un’altra volta. Questa la procedura di legge per gli imputati arrestati in flagranza di reato: 1) entro 24 ore il verbale dell’arresto deve essere trasmesso al pm; 2) nelle successive 48 ore il pm formula le sue richieste al giudice: scarcerazione, convalida dell’arresto e prigione, processo per direttissima; 3) nelle successive 24 ore il giudice deve decidere: scarcera l’imputato, lo manda in prigione, accetta il patteggiamento (se l’imputato lo chiede e il pm è d’accordo) o lo processa per direttissima. In tutto sono 96 ore. Allora. Se le notizie giunte finora sono fondate, le nuove norme prevedono che l’arrestato non deve essere portato in carcere: resterà in camera di sicurezza per non oltre 48 ore, la metà del tempo di cui oggi si dispone per deciderne la sorte. È vero: “nelle” 24 ore, “nelle” 48 ore non significa alla scadenza; si può procedere anche prima. Però gli arrestati sono tanti e anche adesso i pm e i giudici di turno fanno i salti mortali per rispettare i termini, non parliamo di anticiparli. Spesso un solo pm o un solo giudice non bastano e bisogna affiancargliene un altro; tutta gente che, a questo punto, non può occuparsi del lavoro ordinario. E il lavoro ordinario significa omicidi, traffico di droga, di essere umani, di armi; e anche riciclaggio, bancarotte, corruzioni, frodi fiscali, roba più importante assai dei micro reati che commettono gli arrestati giornalieri. Gran parte di questi processi per reati gravi già oggi si prescrivono; e domani? Se l’arrestato non viene scarcerato subito, la scelta è tra la prigione, il patteggiamento e la direttissima. Se va in prigione o se patteggia non ci sono problemi, abbiamo solo occupato il doppio delle risorse giudiziarie per risolvere il caso due giorni prima di quanto avviene oggi. Ma, se si decide di processarlo per direttissima, allora si che siamo nei guai. Quanti giudici devono essere a disposizione per celebrare queste direttissime? A disposizione significa che, in quel giorno, quando sono di turno, non devono fare nient’altro. Va detto che questo succede anche oggi: un sacco di giudici bloccati per le direttissime; che è il motivo per cui il processo per direttissima è una stupidaggine, massima efficienza per la fuffa e per i processi importanti si fa quello che si può, cioè poco. In ogni modo, con il nuovo sistema, i giudici della fuffa dovranno essere il doppio. Il tutto per la soddisfazione di condannare subito un ladro d’auto; il quale, comunque, in prigione non ci andrà mai, per via delle riforme dissennate dei vecchi governi e di quella, ugualmente dissennata, del ministro Severino, sull’incremento della detenzione domiciliare. A livello di organizzazione pratica, le cose si fanno drammatiche. Nelle grandi città le camere di sicurezza sono in Tribunale; almeno così è per Torino, Milano e Roma. Non sono molto numerose e le ammucchiate di detenuti sono all’ordine del giorno; ma è per poco tempo e, d’altra parte, di andare a commettere reati non gliel’ha ordinato nessuno. Ma cosa succederà dove le camere di sicurezza in Tribunale non ci sono? Quasi dappertutto si dovrà andare presso i vari comandi di Polizia, Carabinieri, Guardia di Finanza. E, attenzione, soprattutto per i Carabinieri, le camere di sicurezza sono sparse nel territorio e non accentrate. Quanti pm e giudici dovranno passare la mattina, destreggiandosi tra una caserma e un’altra? Moltiplichiamo ancora il numero degli addetti alla fuffa? E come si sposteranno? Con la macchina di servizio? E quante ne serviranno? E quanti autisti? E quanta benzina (che non c’è)? E, se si sposteranno con la loro macchina, i soldi della benzina citi glieli rimborserà? Va a merito del ministro Severino aver detto le cose come stanno: c’è un’emergenza carceri, 68.000 detenuti contro 43.000 posti, bisogna sfollarle. Ma la sincerità non fa diventare giusto il rimedio proposto che resta inaccettabile. Perché è assurdo sottrarre risorse a un sistema, come quello giudiziario, che non riesce a far fronte, da decenni, alla domanda di giustizia dei cittadini. Perché è immorale e criminogeno non far seguire al reato la sanzione, il che è la conseguenza certa dell’inevitabile aumento dei tempi processuali, a sua volta dipendente dalla sottrazione di risorse umane e materiali al lavoro ordinario perde-stinarle alla gestione della microcriminalità. Perché la soluzione corretta è, da sempre, quella di costruire nuove carceri. Nell’attesa che siano pronte, il sovraffollamento carcerario è il male minore rispetto all’impunità generalizzata. Giustizia: svuotare le carceri… ma c’è un dilemma “l’indulto aumenta la criminalità”? di Silvia Mastrantonio Il Giorno, 19 dicembre 2011 A maggio del 2007 un’indagine del Dipartimento della pubblica sicurezza controfirmata dall’allora capo della Polizia, Gianni De Gennaro, fece tremare i palazzi. Nero su bianco riportava i dati sulla criminalità antecedente e successiva all’indulto del 2006 per concludere: “Nel periodo agosto-ottobre 2006 si è registrato, rispetto all’anno precedente, un incremento di 1.952 rapine e di 28.830 furti”. Nel luglio precedente era stato approvato, con i 2/3 del Parlamento, l’indulto. Quel provvedimento determinò la scarcerazione di 26.201 persone (16.158 italiani e 10.043 stranieri). Prima e dopo. Il Viminale, allora, fu chiaro: “Fino al mese di luglio tali fenomeni presentavano una leggera flessione. Tra gennaio e luglio del 2006 c’era stata una diminuzione di 1.048 rapine e di 23.323 furti rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente”. Di qui la conclusione che le variazioni dei reati potessero essere addebitate all’effetto indulto. Non è una considerazione da poco, in giorni in cui si parla di come svuotare le carceri. Ma non è abbastanza per convincere Rita Bernardini, deputata radicale, che la via da seguire sia un’altra. “Sono 5.200.000 i procedimenti penali pendenti (nel civile ce ne sono 5.400.000 sospesi); ogni anno circa 183.000 procedimenti cadono in prescrizione quindi senza che si arrivi ad alcun risarcimento per le vittime. Risarcimento che, invece, può essere previsto in un provvedimento di amnistia”. Cifre contro cifre e studi contro studi: “La ricerca del professor Torrente per l’Associazione “A Buon diritto” dimostra - sottolinea la Bernardini - che chi ha avuto accesso all’indulto ha una recidiva inferiore a chi, invece, ha scontato tutta la pena”. “Negli ultimi anni i procedimenti caduti in prescrizione sono stati circa 2.000.000. Senza considerare - riprende la deputata radicale - che oltre 28.000 detenuti sono in attesa di giudizio e 14.000 attendono il primo giudizio. La metà di loro, all’esito del processo, sarà riconosciuta innocente”. Ma non tutti la pensano come la Bernardini. Donatella Ferranti del Pd è assolutamente contraria a ogni ipotesi di amnistia o indulto. Il partito democratico, fa capire tra le righe, è ancora scottato da quel che seguì al provvedimento del 2006. “Quella decisione fu usata in campagna elettorale contro il governo Prodi”. Ma il punto principale è un altro: “Non serve, non risolve il problema. Dopo tre anni ci sono più detenuti di prima”. Per la Ferranti le misure, e le riforme codice penale compreso, dovrebbero essere altre a partire dalla legge ex Cirielli. “L’inasprimento delle pene, la configurazione di nuovi reati, la ex Cirielli che impedisce, con una sorta di automatismo, la concessione dei benefici penitenziari. Tutto questo intasa le carceri mentre si devono studiare percorsi adeguati per il lavoro, per il miglioramento delle condizioni di vita”. Il primo passo, per la deputata democratica, è rivedere quell’”automatismo” che elimina ogni beneficio con la terza condanna. Per il resto “No a indulti o amnistie. È come il condono: non si può e non si deve svuotare il principio di legalità”. Giustizia: l’emergenza e le parole del Papa.. adesso costruiamo più carceri di Giuseppe Sanzotta Il Tempo, 19 dicembre 2011 Non so a quanti sia capitato di entrare in un carcere. Chi ha avuto la ventura di farlo ricorderà il senso di partecipazione e di solidarietà, a volte di commozione davanti a degli uomini, apparentemente come noi, eppure destinati a vivere lunghi anni privati della libertà, lontani dagli affetti. C’è dolore dietro a quelle sbarre. Dietro ognuno c’è una storia, un passato lontanissimo da molti di noi. Sì perché quegli uomini hanno sbagliato, sono stati protagonisti di crimini, di reati, di violenze. Ma sono sempre uomini a cui non può essere negatala speranza, a cui deve essere concessa una nuova possibilità. Uomini che hanno diritto a non perdere, nemmeno in cella, la propria dignità. Il Papa entrando nel carcere di Rebibbia ha voluto portare parole di conforto. Ha voluto testimoniare l’attenzione sua e della Chiesa per la sofferenza, ha voluto far sentire quegli uomini meno soli, non abbandonati qualunque errore abbiano commesso. Devono pagare per i loro delitti, secondo legge, ma non può essere inflitta loro una pena aggiuntiva. E, purtroppo, senza che l’abbia deciso alcun giudice, senza che sia previsto da una legge dello Stato, ai carcerati questa pena supplementare deriva dal sovraffollamento. In troppi in una cella, in troppi ovunque. Il che non solo limita lo spazio, ma aumenta la violenza, la pericolosità. A questo ha pensato il Papa. Il resto sono solo fantasie e supposizioni. Certamente durante la visita dalle celle è partita la richiesta di amnistia. Ed è anche naturale che il condannato chieda un atto di clemenza. Ma il Papa ha fatto il pastore di anime. Al legislatore resta il compito di legiferare. Detto questo la visita coincide con la decisione di far scontare gli ultimi mesi di pena ai domiciliari. Ma la scelta è determinata da un programma di reinserimento o soltanto dal numero troppo alto di detenuti? Il problema è tutto qui. Indulto, amnistia o altro non sono un tentativo di umanizzare le carceri, il tentativo di favorire il reinserimento del condannato. Se dietro ci fosse un progetto si potrebbe discutere. No, il principio operante è semplicemente questo: fuori perché siete in troppi. In questo modo si dà un calcio a quel principio sbandierato da tutti e poco rispettato nella realtà che è quello della certezza della pena. Quante volte opinione pubblica e politici si sono scandalizzati davanti a eventi criminali commessi da pregiudicati, da persone che già in passato si erano resi colpevoli dello stesso reato? Quante volte ci si è chiesto perché a quelle persone sia stato concesso di girare liberamente? Pene troppo lievi, oppure troppe concessioni. Comunque immancabile dopo un evento criminale la richiesta di rigore, di pene severe. Di Giustizia. Poi presto questa indignazione passa in secondo piano. Diventa più di attualità la denuncia sulle carceri. Scoppiano, sono disumane per i detenuti e per le guardie. Certo è un problema, un problema di Giustizia, un problema di umanità. Ma lo si può risolvere aprendo le porte in anticipo? Certamente no. Questa non è la soluzione è la resa. È una conduzione che mescola legge e arbitrio, che non serve a reintegrare uomini che hanno sbagliato, ma spesso rimette sulle strade ladri, rapinatori, individui pericolosi per la società. Non redenti, ma violenti graziati, amnistiati, cacciati per mancanza di spazio. E la certezza della pena che fine ha fatto? Se è vero che non c’è bisogno di inasprire le pene, che basterebbe applicare le nostre leggi, c’è bisogno però che la detenzione sia quella stabilita dal giudice e non affidata al caso. È mai possibile che una persona debba scontare per intero la detenzione se ci sono meno criminali in galera in quel periodo e un’altra che ha commesso lo stesso reato, invece torni libera prima perché ci sono troppi carcerati? Assolutamente no. Inutile nascondere il problema. Se c’è bisogno, come suggerisce il Papa, il governo deve intervenire. Costruendo nuove carceri. Da anni è quello il problema. Sconti di pena possono essere concessi a chi li merita. Non in maniera generalizzata. I detenuti scontino la loro pena in modo civile. È interesse di noi tutti, della società, che possano tornare in libertà diversi, disposti a cambiare vita, a cercare di reinserirsi nella società. E certo questo sforzo di recupero può avvevire solo in condizioni civili. Allora, se non si vuole passare da un’emergenza all’altra occorre costruire nuovi edifici. Non è una vergogna, ma la costatazione che spendere quei soldi è necessario, è opportuno per evitare la doppia pena determinata dal sovraffollamento. Indispensabile per dare dignità alla Giustizia. Giustizia: Pannella a Napolitano; dobbiamo vederci, dobbiamo fare qualcosa per le carceri Adnkronos, 19 dicembre 2011 “Caro Presidente, io la devo vedere. Dovremo pure inventare, nel senso buono di trovare, qualcosa”. Lo ha detto Marco Pannella, nel corso della consueta conversazione con Radio radicale, tornando sulla proposta di “amnistia per la Repubblica” e rivolgendosi al Capo dello Stato, Giorgio Napolitano. Pannella ha ricordato che ieri, al termine dell’incontro con il Papa, “i carcerati a Rebibbia hanno gridato dalle celle quello che nessuno ha potuto nemmeno mormorare per un secondo, nemmeno con un sinonimo di amnistia, nella cerimonia ufficiale”. Ed ha aggiunto: “La nostra proposta amnistia per la Repubblica non è una metafora. Se è una Repubblica dal comportamento criminale, noi vogliamo che attraverso lo strumento dell’amnistia si avvii un processo strutturale delle ragioni per le quali siamo condannati per la durata inaccettabile dei processi, per il sovraffollamento di cause e processi, oltre che per la condizione delle carceri”. “In questo senso, ha aggiunto, i “provvedimenti che il ministro Severino ha annunciato interessano forse qualche migliaio di detenuti. Siamo qui per dire: siamo coerenti”. Pannella, in sciopero della fame da due settimane, ieri mattina, al termine della cerimonia con il Papa, ha parlato di “quei detenuti che, finito il tutto, trasmesso ovviamente in diretta televisiva da Raiuno, da Sky, sono esplosi gridando la parola che non solo non era stata pronunciata, ma che non era stata nemmeno adombrata nell’incedere e nel corso della cerimonia”. “Essendo come noto arrivato a due settimane di tranquillo sciopero della fame, devo dire che lì - mentre loro gridavano in cella - per 10-15 minuti ho mangiato per rabbia. Credo che la mia rabbia dimostri che è vero che lotte come queste indeboliscono, ma anche in alcuni momenti rafforzano, ma c’è anche il senso di solitudine di un cittadino che sta tentando con tanti altri di aiutare il suo Presidente della Repubblica”. Giustizia: Bonino (Ri); no a dibattiti falsati sull’amnistia, vedremo presto in Parlamento Agi, 19 dicembre 2011 “La questione amnistia è uno degli snodi principali della vicenda italiana. Lo si vedrà in Parlamento, perché già mi immagino che - come accadde per l’indulto - saranno chiamati in tv solo coloro che sono contro il decreto varato dal Governo”. Lo ha detto Emma Bonino, nella intervista del lunedì con Radio Radicale. “L’intero dibattito sulle carceri e la giustizia nasce falsato”, ha detto Bonino. “Basta vedere i titoli dei giornali (“A noi le tasse, i ladri fuori”), in un misto di voglia di manette, populismo, disinformazione creata, che caratterizza da lungo tempo il nostro Paese. Il modo più drammaticamente semplice di compiere questa operazione consiste nell’espulsione del corpo Radicale, e in particolare di quello di Marco Pannella. E con lui anche i detenuti che gridano amnistia al Papa”. “Da qui l’appello di Pannella, che chiede di essere ascoltato dal Capo dello Stato non perché Napolitano non conosca il problema, ma perché forse gli sfugge la manipolazione che di questo problema viene fatta, e verrà fatta. Mi sembra che siamo già avviati sul solito dibattito con presupposti falsi”, ha concluso la Bonino. Giustizia: Bongiorno (Fli); clima giusto per riforme, bene governo su carceri Agi, 19 dicembre 2011 Il Terzo polo “crede fermamente nella possibilità di utilizzare il tempo restante della legislatura” per mettere in campo “una serie di misure” che, “con questa diversa atmosfera, permettano di riavviare la giustizia paralizzata”. Lo sottolinea la presidente della Commissione Giustizia alla Camera, Giulia Bongiorno, al termine dell’incontro con i rappresentanti della magistratura associata. “Se il Governo verrà messo nella condizione e se la maggioranza che lo sostiene avrà la volontà di mettere da parte il passato - dice infatti - si potranno varare misure a costo zero”. Vanno dalla riforma del processo per gli irreperibili, lentissimo a causa del non buon esito delle notifiche, alla revisione delle circoscrizioni giudiziarie perché “per una giustizia più veloce qualche sacrificio si può fare”. Bongiorno non manca di sottolineare l’apprezzamento al Governo “per aver detto che la priorità è nel problema costituito dalla situazione in cui versano le carceri”. Una pena “non è infatti accettabile se è una tortura”. Quanto all’uso delle celle di sicurezza per i fermati che entro 48 ore devono ottenere in loco la convalida o meno del fermo da parte del magistrato: “siamo aperti a vedere le diverse soluzioni. Valuteremo sul campo - ha risposto - tenendo presente il totale rispetto per il detenuto” che in questo caso non è ancora passato al vaglio neanche di un processo per direttissima. Giustizia: Palamara (Anm); sì a detenuti nelle celle di sicurezza, ma servono accorgimenti Il Velino, 19 dicembre 2011 Sì all’utilizzo delle celle di sicurezza in attesa della convalida del fermo, ma con alcuni “accorgimenti” che tengano conto dei problemi sollevati dagli operatori del settore. È questa la posizione del presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Luca Palamara, che questa mattina, insieme al segretario dell’Anm Giuseppe Cascini, ha incontrato a Montecitorio una delegazione del Terzo polo guidata da Pier Ferdinando Casini e dalla presidente della commissione Giustizia della Camera Giulia Bongiorno. “Si tratta - ha spiegato Palamara - di misure che tengono conto del difficile momento che vive la popolazione carceraria. Quello che è stato fatto fotografa la realtà attuale, quello che avviene tutti i giorni nelle grandi città italiane. Quindi va bene, con la necessità di apportare alcuni accorgimenti tecnici che mi auguro nel corso del dibattito possano essere apportati”. Sulle celle di sicurezza, ha aggiunto, “siamo d’accordo, perché la disposizione fotografa quello che avviene nelle principali città italiane, Roma, Milano, Napoli, Torino. Chi viene arrestato viene portato nelle celle di sicurezza e poi la mattina dopo davanti al giudice per il processo. È ovvio che dobbiamo tener conto delle problematiche sollevate dagli operatori del settore, dalle forze di Polizia: le celle di sicurezza non sono paragonabili al carcere, pongono dei problemi dal punto di vista dell’assistenza medica, dell’ampiezza dei locali”. Giustizia: Unione Camere Penali; servono scelte coraggiose e più misure alternative Notizie Radicali, 19 dicembre 2011 Per realizzare la riforma penitenziaria e porre freno all’emergenza sovraffollamento, ci vogliono “scelte coraggiose, prevedendo misure alternative svincolate da lacci e lacciuoli che ancora le rendono di difficile e residuale applicazione, improntate come sono ad una legislazione penale che mette al centro il tipo di autore e privilegia, più che le istanze di tutela sociale della sicurezza, la propaganda securitaria”. L’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali Italiane, in un documento, sollecita la politica a fare “delle scelte di fondo, culturali, prima ancora che politiche, e per ottenere questo bisogna avere un’idea complessiva ed omogenea del problema”. “Se si avrà il coraggio di fare questo - incalza l’Ucpi - saremo in presenza di quella auspicata inversione di tendenza che sino ad oggi la politica non ha saputo operare, e i penalisti saranno ancora una volta pronti a dare il loro contributo per porre rimedio alle illegittime condizioni delle carceri”. Misure quali quelle ipotizzate dal Governo, (dalla riforma della custodia cautelare che renda effettivamente eccezionale la detenzione in carcere, all’incremento di misure alternative come l’istituto della messa alla prova anche per la cognizione ordinaria, ovvero per operare una depenalizzazione di alcuni reati di minor allarme sociale e valutare i costi e l’effettiva applicabilità di strumenti elettronici per il controllo dei detenuti in regime domiciliare), aggiunge l’Osservatorio, “possono sortire l’effetto deflattivo previsto solo se avranno il coraggio di eliminare la maggior parte delle preclusioni soggettive ed oggettive che oggi paralizzano l’applicazione della legge Gozzini”. Per la riuscita di una riforma strutturale “si devono innanzi tutto accantonare le logiche di esclusione che hanno caratterizzato la politica penitenziaria degli ultimi decenni, a destra come a sinistra”. L’Ucpi cita infine dati già noti della situazione penitenziaria attuale “ormai al collasso. Costringere oltre 68 mila persone in spazi destinati ad ospitarne 45 mila - si sottolinea - non è fisicamente possibile, così come è intollerabile, a causa di una carenza di organico per oltre 6.500 unità circa, costringere a turni massacranti gli operatori”. La cifra “che non può e non deve rimanere una fredda valutazione matematica - conclude l’Ucpi - delle morti in carcere: 180 fino a oggi nel 2011, e di queste 64 si sono suicidate; dal 2.000 ad oggi i morti sono stati 1.750, di cui 630 per suicidio”. Giustizia: da Cisl e Uil scetticismo su svuota-carceri, ma approvano il fermo in caserma Corriere di Como, 19 dicembre 2011 Decreto svuota-carceri: il giudizio è sostanzialmente negativo. Anche se con alcune riserve. Così si esprimono i rappresentanti sindacali della polizia penitenziaria, sul pacchetto di norme varato per l’emergenza del sovraffollamento delle prigioni. “Il rischio è che ancora una volta si tratti di un intervento tampone. Un provvedimento usato per arginare un momento di emergenza”, dicono Angelo Urso, segretario nazionale Uil di categoria e Fabiano Ferro della Uil Como, quest’ultimo in forza al Bassone. Condivisa la decisione di trattenere in camera di sicurezza gli arrestati che devono affrontare un processo per direttissima. “Ci sono migliaia di detenuti che entrano ed escono dal penitenziario nel giro di 3 giorni - ha detto venerdì pomeriggio il ministro della Giustizia, Paola Severino. Nel giro di 48 ore questi detenuti andranno davanti al giudice, il quale potrà decidere se disporre i domiciliari, la libertà o la detenzione”. Spiegazioni “assolutamente condivisibili da tutti noi”, ribadiscono i rappresentanti della Uil. È inoltre previsto il prolungamento a 18 mesi del periodo di “fine pena” da scontare ai domiciliari. Questa norma porterà alla liberazione graduale di migliaia di detenuti. “Mi sembra che si tratti di palliativi - interviene Massimo Corti, segretario provinciale della federazione sicurezza della Cisl - Pensate che dal carcere di Opera, in occasione dell’ultimo decreto svuota-carceri, soltanto 15 detenuti vennero mandati fuori. E poi c’è anche un altro tema importante: facciamo uscire all’improvviso alcuni detenuti? Bene, ma dove pensate che possano andare? Dove vivranno? Inevitabilmente ricadranno in qualche guaio”. Giustizia: Clemenza e Dignità; le nostre proposte per una riforma del processo penale Agenparl, 19 dicembre 2011 “Trascorse solamente poche ore dalle toccanti parole pronunciate dal Papa Benedetto XVI e dal Ministro della Giustizia Severino, in occasione della visita del Pontefice al carcere di Rebibbia, riproponiamo di seguito e sino al termine, nella speranza che ciò possa essere di contributo e di aiuto alle Istituzioni per migliorare la drammatica situazione carceraria di oggi, uno stralcio del Documento aperto per una riforma della Giustizia penale, redatto nel lontano anno 2006 dal movimento Clemenza e Dignità”. È quanto afferma in una nota Giuseppe Maria Meloni, presidente di Clemenza e Dignità, movimento sorto per i diritti dei detenuti e per il progresso del diritto punitivo. “In particolare, Clemenza e Dignità sente dover esprimere la necessità, condivisa anche da moltissimi cittadini, di un nuovo processo penale che abbia la sua radice e la sua ratio, nelle esigenze del rispetto dei valori insiti nella personalità dell’individuo, personalità, che andrebbe, d’ora in poi, sempre compiutamente accertata e valutata anche nei suoi aspetti sociali, culturali, ambientali e psichici. Necessita, quindi, l’introduzione di un nuovo processo che si ponga l’obiettivo non solo di punire ma anche del recupero e/o della tutela degli aspetti positivi della personalità dell’individuo. L’introduzione di un nuovo processo penale, teso al recupero delle valenze positive, insite in qualsiasi essere umano, teso al loro sostegno e sviluppo. L’introduzione di un nuovo processo penale che in tutti i suoi aspetti si ponga come strumento, possibilmente, non traumatico, capace di responsabilizzare il più possibile la persona, attraverso l’introduzione di nuove stimolazioni positive. Un nuovo processo in cui la implicazione punitiva, venga canalizzata ai fini della redenzione, in modo che il contatto con gli apparati della giustizia e l’ingresso nel circuito penale, servano per una possibile uscita dal penale. Occorre, quindi, secondo le libere osservazioni del Movimento Clemenza e Dignità: 1) un processo ordinario in cui sia anche assicurata la integrata partecipazione di nuovi componenti, in modo che il processo stesso valga a produrre non solo la legalità, attraverso la componente togata, ma anche le innumerevoli valutazioni multi-disciplinari sulla personalità del singolo imputato. 2) nuovi strumenti processuali nel processo ordinario, che, anziché sospendere l’esecuzione della pena, sospendano il corso del processo, per fornire, istantaneamente e non dopo il processo e l’irrogazione della pena, all’autore del reato, l’opportunità di un riscatto, attraverso una messa alla prova. Una messa alla prova, durante la quale, l’individuo debole e/o bisognoso, possa anche usufruire di idonee attività di trattamento e sostegno. Una messa alla prova, per valutare, nel tempo di sospensione del processo, le evoluzioni comportamentali dell’individuo, per responsabilizzare il comportamento dell’individuo stesso anche nell’attività di riparazione delle conseguenze e nella riconciliazione. Una messa alla prova, che, responsabilizzando senza punire, possa essere, pure, momento ed occasione per l’integrazione, culturale, sociale, giuridica delle persone immigrate. Una messa alla prova, in grado anche di estinguere il reato, in caso di suo esito favorevole. 3) nuovi strumenti processuali nel processo ordinario, in grado di fornire la possibilità al giudice di astenersi dal pronunciare il rinvio a giudizio, di astenersi dal pronunciare condanna, quando rilevate le circostanze per la valutazione ai fini della pena, presuma con certezza che il colpevole si asterrà dal commettere ulteriori reati. 4) nuovi strumenti processuali nel processo ordinario, che valutando il pregiudizio che l’ulteriore corso del procedimento può recare all’indagato o all’imputato, per la sua personalità, per le sue esigenze di salute, di studio, di famiglia, di lavoro, siano, contemporaneamente, meccanismo deflattivo del sistema penale, in grado, quindi, di produrre statuizioni di non luogo a procedere, nelle ipotesi in cui il fatto ascritto, appaia privo di significato criminoso e di concreta rilevanza sociale, alla stregua del grado della colpevolezza, della tenuità delle conseguenze prodotte e della occasionalità del comportamento deviante. 5) nuovi strumenti processuali nel processo ordinario, che tengano conto anche delle condotte riparatorie, idonee a soddisfare le esigenze di riprovazione del reato e quelle di prevenzione, determinando così in caso di riparazione del danno e di eliminazione di tutte le sue conseguenze dannose o pericolose, prima dell’esercizio dell’azione penale, anche l’estinzione del reato. Inoltre, spostando l’attenzione dai citati aspetti processuali, Clemenza e Dignità vuole esprimere la considerazione, condivisa anche da moltissimi cittadini, che la nostra sicurezza non nasce ad esempio dalle attenuate inibizioni concernenti l’utilizzo di armi a difesa della persona e della casa. Non tutti hanno le capacità fisiche e/o la coerenza morale e religiosa di difendersi in questo modo. Vuole esprimere la considerazione, condivisa anche da moltissimi cittadini, che la rieducazione dei condannati, rappresenta il principale mezzo di garanzia della nostra sicurezza. Vuole esprimere la considerazione, condivisa anche da moltissimi cittadini, che la rieducazione non può essere dissociata dalla punizione, lasciata solo alla buona volontà degli operatori, ma deve essere connaturata in nuove punizioni, capaci ex se di rieducare. Vuole esprimere la considerazione, condivisa anche da moltissimi cittadini, che il carcere e la privazione di libertà personale, non possono continuare ad essere la pena giusta per ogni tipo di reato, ma debbono essere la conseguenza necessitata dei reati gravi e dei condannati realisticamente pericolosi per la sicurezza sociale. Per realizzare una valida ed effettiva rieducazione dei condannati e, quindi, per garantire ed accrescere la sicurezza dei cittadini, occorre che vengano codicisticamente previste delle nuove pene, diverse dal carcere, che abbiano anche un certo grado di specificità in relazione alla tipologia del reato commesso e che contemplino anche il compimento di prestazioni di servizio civile e di lavori di utilità sociale. Occorre, quindi, secondo le libere osservazioni del Movimento: 1) l’introduzione ordinaria di lavori di utilità sociale, ovvero prestazioni di attività non retribuita in favore della collettività, da svolgere presso lo Stato, le Regioni, le Province, i Comuni o presso enti o organizzazioni di assistenza sociale e volontariato. Prestazioni di attività non retribuita che contemplino a mero titolo esemplificativo la pulizia nei quartieri e dei parchi, la pulizia degli arenili, la manutenzione e la riparazione dei manti stradali, la raccolta differenziata dei rifiuti urbani, il lavoro presso musei e siti culturali-archeologici-artistici, le attività di sensibilizzazione sui rischi determinati da abuso di sostanze alcoliche e stupefacenti. Giustizia: Erika De Nardo farà l’insegnante per i bambini del Madagascar www.ilquotidianoitaliano.it, 19 dicembre 2011 “Erika farà l’insegnante in Madagascar per cinque o sei mesi, dove ci sono 600 bambini che hanno bisogno di essere alfabetizzati”. Sono queste le parole di Don Mazzi in un’intervista al sito “La Stampa” in cui parla della ragazza da poco fuori dalla comunità dopo dieci anni di condanna per l’omicidio di sua madre e suo fratello nel febbraio 2001, quando aveva 16 anni, con il suo all’epoca fidanzato Omar. Il sacerdote sa che in Italia non avrebbe molte possibilità di poter realizzare il suo desiderio di mettersi dietro la cattedra e così la porta con sè in una missione in Africa. Perché per lei, come per tutti gli ex detenuti, ora comincia la vera vita e il percorso di reinserimento nella società, soprattutto lavorativo. Che non è per niente facile. Se Erika ha trovato Don Mazzi che vuole aiutarla in questo, altri giovani o meno giovani che hanno passato un periodo di reclusione non hanno tutti la stessa fortuna. Le associazioni e cooperative in Italia che si occupano, di loro, è vero, sono molte. Sportelli di orientamento e centri d’impiego a Bologna, centri di mediazione a Milano, progetti di sensibilizzazione sul tema delle pene e delle carceri con una redazione di un bimestrale e libri costituita da volontari ed ex detenuti a Padova, solo per citare qualche esempio. Invece a chi non ha la possibilità di essere seguito così da vicino, o chi ha perso anche famiglia o beni al momento dell’arresto e ha bisogno di un lavoro per sopravvivere, cosa succede? Le testimonianze evidenziano un abbandono da parte delle istituzioni pubbliche. Gli unici impieghi più facili da trovare possono spaziare dal parcheggiatore abusivo, alla sicurezza fuori dalle discoteche, all’operatore ecologico. Tutti di poca durata e per la maggior parte “a nero”. È quello che rimane disponibile per chi è passato attraverso l’esperienza della reclusione. Dicono inoltre in carcere ci sono delle possibilità, grazie agli impieghi che i detenuti hanno all’interno della stessa casa circondariale, o per chi ha migliore condotta, c’è l’art. 21 della Costituzione che, in convenzione con alcune aziende, offre la semilibertà nell’orario in cui si recano al lavoro, ma fuori non sempre le porte sono aperte per loro. Perché il momento peggiore è quello dei colloqui di lavoro in cui, non appena si mostra insieme al CV il certificato penale, tutto cambia. Il preguidizio limita le loro possibilità e quando fortunatamente questo non c’è, soprattutto i meno giovani, a causa di quel “buco nero” nel loro recente passato, non possiedono l’età o le competenze che il mercato del lavoro oggi richiede. Erika quindi è una mosca bianca che è stata aiutata dopo la detenzione, assieme a coloro che rispetto ai tanti, hanno la fortuna di incorrere in datori di lavoro che guardano solo al futuro e al presente. La sensibilizzazione e i corsi di formazione nelle comunità aiutano e aiuteranno, ma per adesso la divisione tra coloro disponibili alla reintegrazione degli ex detenuti e coloro che la vedono come ingiusta perché vogliono “rubare” posti di lavoro che già scarseggiano, resta. Ma è giusto etichettare per sempre una persona che ha sbagliato e ha pagato la sua pena? Lazio: protesta dei detenuti di Roma e Velletri per le condizioni di vita in cella Redattore Sociale, 19 dicembre 2011 “I detenuti di alcune carceri del Lazio (Regina Coeli e Velletri) hanno iniziato a protestare con la tradizionale battitura sulle inferriate delle celle per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica sulle drammatiche condizioni di vita all’interno delle carceri”. Lo rende noto il garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni. “I detenuti hanno manifestato, ancora in modo non organizzato, negli orari riservati al pranzo e alla cena - spiega Marroni - A Regina Coeli si è anche registrato il caso del lancio di una bomboletta di gas accesa contro un agente di Polizia penitenziaria. I problemi sollevati dai detenuti sono quelli noti che affliggono il sistema carcerario italiano: sovraffollamento, scadente qualità di vita nelle celle, carenza di agenti di polizia penitenziaria, di educatori e di risorse finanziarie che rendono scarse o nulle le possibilità di socializzazione o di intraprendere un percorso di formazione professionale da utilizzare al di fuori del carcere. Le proteste dei detenuti si aggiungono a quelle, dei mesi scorsi, degli agenti di Polizia penitenziaria che a più riprese hanno protestato contro la situazione delle carceri italiane”. “Sono ormai mesi che, indistintamente, tutte le componenti del pianeta carcere denunciano il rischio che il sistema possa collassare- prosegue il garante dei detenuti del Lazio. Nelle carceri quotidianità vuol dire convivere con un’emergenza perenne, in strutture affollate e prive di supporti concreti che, troppo spesso, diventano fonti di sofferenza e di atti di suicidio. In questi prime settimane di attività, il nuovo ministro Severino ha dimostrato di aver capito qual è il problema; tra le soluzioni proposte, quella del braccialetto elettronico e quella dell’utilizzo delle celle dei commissariati, ci lasciano perplessi. In ogni caso, fino a quando non si metterà mano ad una legislazione vigente fatta apposta per creare nuovi detenuti, credo che ogni misura sarà destinata a fallire. Ripeto, non c’è più tempo da perdere - conclude Marroni. Questo è anche il messaggio che viene dalla visita di papa Benedetto XVI a Rebibbia”. Sicilia: Fleres; trasferimenti pregiudicano diritto studio Ansa, 19 dicembre 2011 Il garante dei Diritti dei detenuti della Sicilia, il senatore Salvo Fleres, ha inviato una nota al direttore generale del Dap, Franco Ionta, con la quale lamenta il ripetuto trasferimento di reclusi che frequentano in carcere la scuola dell’obbligo. “Tale situazione - afferma Fleres, che è anche coordinatore nazionale dei garanti regionali - vanifica il diritto allo studio di quei soggetti che, a causa dei trasferimenti, sono costretti ad interrompere il ciclo didattico”. Fleres auspica l’adozione dei necessari provvedimenti, rendendo pieno l’esercizio del diritto allo studio, sancito dalla Costituzione. Verona: avvocati diffidano ministro affinché provveda a migliorare condizioni dei detenuti Ansa, 19 dicembre 2011 Una diffida al ministro della Giustizia affinché provveda a migliorare le condizioni dei detenuti del carcere di Verona è stata inviata al Guardasigilli da cinque avvocati veronesi. I legali Guariente Guarienti, Fabio Porta, Paolo Guarienti, Vittorio Ciccolini e Giuseppe Gortenuti, con la collaborazione del professor Giovanni Sala, ordinario di diritto amministrativo all’università di Verona, della garante dei detenuti Margherita Forestan e l’approvazione del direttore del carcere, hanno raccolto 526 sottoscrizioni dei detenuti di diverse sezioni della casa circondariale veronese. In particolare i promotori dell’iniziativa diffidano il ministro della giustizia a “porre in essere tutti gli atti e i comportamenti necessari affinché vengano garantite le condizioni di detenzione, conformi alle vigenti disposizioni normative e regolamentari garantite dalla Costituzione (art. 27) e dalla Carta europea dei diritti dell’uomo (art. 3) in particolare per quanto riguarda lo spazio minimo a disposizione per i carcerati”. La casa circondariale di Verona, inaugurata nel 1994, con la previsione di ospitare, nelle sezioni maschili, 251 detenuti, oggi ne ospita mediamente tra gli 850 e i 900, che hanno a disposizione, ciascuno, tre metri quadrati scarsi, comprensivi di letto, tavolino, armadietto e sedia. La diffida oggi notificata, precisa Guariente Guarienti, segue all’invito fatto ieri dal Papa, durante la visita a Rebibbia, ed è proposta sulla base dell’art. 3 del decreto legislativo 20.12.2009 n. 198 (Class Action). Decorsi novanta giorni dalla notifica della diffida, senza provvedimenti seriamente migliorativi, il ministro potrà essere citato dinnanzi al Tribunale Amministrativo Regionale. Ancona: presidio davanti al carcere di Montacuto per l’amnistia www.guidamarche.it, 19 dicembre 2011 Sabato scorso gli attivisti dei centri sociali delle Marche si sono dati appuntamento davanti all’ingresso del carcere di Montacuto in Ancona dopo le proteste dei detenuti nei giorni scorsi. “Amnistia, misure alternative, dignità” questo lo striscione utilizzato per denunciare la gravità della situazione all’interno degli istituti di pena e la necessità di un intervento urgente. Negli interventi che si sono succeduti nel corso dell’iniziativa è stata evidenziata l’insufficienza delle misure predisposte dal ministro Severino e la non rinviabilità, in tempi brevi, di un provvedimento di amnistia e di indulto. La regione Marche risulta attualmente tra le regioni a maggiore sovraffollamento carcerario “con conseguenti gravissime ripercussioni sotto il profilo igienico-sanitario - scrivono i Centri Sociali delle Marche in un comunicato - e delle condizioni di vita dei detenuti al di sotto di ogni livello di sopportabilità. La situazione di sovraffollamento e di precarietà è la diretta conseguenza sia della crisi - che alimenta i reati di mera sopravvivenza - sia di irrazionali disposizioni normative come quelle riconducibili alla disciplina delle sostanze stupefacenti e dell’immigrazione, che producono reclusione a fronte di condotte prive di un’effettiva pericolosità sociale. Con il presidio si è voluto anche sottolineare la necessità che la problematica connessa alla situazione carceraria fuoriesca dal perimetro carcerario per entrare direttamente nella società che oggi più che mai deve essere protagonista di un processo volto a ripristinare le condizioni di dignità dei detenuti. Un processo all’interno del quale sono passaggi fondamentali la depenalizzazione dei reati di scarso allarme sociale, il ripristino dell’amnistia e dell’indulto come strumenti di garanzia democratica e di tutela dei diritti fondamentali della persona, l’estensione in maniera effettiva dell’utilizzo delle misure alternative - considerato che il nostro paese, nel quadro europeo, è ultimo per ciò che riguarda tali misure. Per quanto concerne le misure alternative che necessitano di un riferimento domiciliare deve inoltre essere denunciata la condizione di discriminazione a cui vengono sottoposti sia i migranti privi di permesso di soggiorno che nella qualità di senza fissa dimora sono impossibilitati ad accedere alla detenzione domiciliare; sia i tossicodipendenti costretti al carcere per la mancanza di adeguate strutture con finalità terapeutica. Milano: ad Opera già dato il via libera all’ampliamento della casa di reclusione Dire, 19 dicembre 2011 Il giorno dopo l’entrata in vigore del decreto “svuota-carceri” proposto dal neo guardasigilli Paola Saverino, l’Amministrazione comunale di Opera ribadisce come la necessità di avere istituti di detenzione che rispettino i diritti umani dei carcerati sia una strada già intrapresa ma subordinata ad una finalità ben precisa: poter garantire la certezza della pena ai detenuti. “Attraverso la concessione che abbiamo sottoscritto per l’ampliamento del carcere di Opera - spiega infatti il sindaco Ettore Fusco - il nostro intento è quello di implementare una struttura idonea ad ospitare, anche per lunghi periodi, più detenuti garantendo quelli che sono gli standard minimi previsti dalla legge. Questo non perché vogliamo creare strutture di villeggiatura ma per permettere alla giustizia di fare il suo corso senza che i governi possano utilizzare lo strumento delle celle sovraffollate come alibi per fare sconti di pena e rendere incerta l’applicazione delle pene stesse”. Pare avere una finalità differente, invece, il decreto svuota-carceri: per decongestionare gli istituti di pena, il ministro ha adottato due linee di intervento: l’estensione dell’utilizzo della detenzione domiciliare per i detenuti che hanno un residuo di pena di 18 mesi e, per impedire il fenomeno delle “porte girevoli”, il fermo nelle camere di sicurezza dei commissariati per non oltre 48 ore per chi deve essere processato per direttissima. Una misura che convince poco anche i sindacati di polizia, gravati dall’obbligo della sorveglianza e della garanzia della sicurezza pubblica, anche se si tratterebbe di una norma transitoria con scadenza dicembre 2013, data in cui verrebbero ultimate nuove strutture carcerarie o ampliate quelle già esistenti. “Proprio per evitare i cosiddetti decreti svuota-carceri - conclude il Sindaco Fusco - tanto cari in particolare alla sinistra a cui questo Governo Monti si è affiliato per ovvie ragioni, abbiamo acconsentito all’ampliamento della struttura di Opera che interesserà 27000 mq di cui 17000 su territorio operese e i restanti su quello di Milano. Il nuovo padiglione che ospiterà 400 nuovi detenuti, che si aggiungono ai 1400 già presenti, sarà realizzato all’interno dell’attuale perimetro delimitato dalle mura di cinta e quindi non avrà alcun impatto sull’area circostante se non quello di produrre maggiore occupazione per l’incremento del numero di agenti della Polizia Penitenziaria e più lavoro per l’indotto rappresentato dai fornitori esterni”. Sassari: il riscaldamento non funziona, per protesta i detenuti battono sulle sbarre La Nuova Sardegna, 19 dicembre 2011 Tensione nel carcere di San Sebastiano. Mercoledì, tra la mezzanotte e le due, i detenuti hanno inscenato una protesta battendo pentole e posate contro le sbarre. All’origine della rumorosa manifestazione il freddo nelle celle. L’impianto di riscaldamento è andato in blocco perché è mancato il gasolio, e la temperatura non era sopportabile. Dalle case nelle vicinanze del carcere sono partite le segnalazioni alle forze dell’ordine e in via Enrico Costa è arrivata anche una pattuglia dei carabinieri. Ma a scaldare gli animi dei reclusi di San Sebastiano non sono stati solo i termosifoni freddi. Il malumore sta montando da quando, con l’arrivo del nuovo direttore Francesco D’Anselmo, sono state cambiate le modalità di acquisto nello spaccio, che sarebbero più difficoltose. Antonio Cannas, segretario provinciale del Sappe, conferma la situazione di tensione. “I problemi sono tanti e occorre risolverli - afferma. Con il precedente direttore, Teresa Mascolo, in due anni abbiamo avuto solo cinque incontri. Ora ci auguriamo che il dialogo possa riprendere”. Sassari: il pm chiede archiviazione sul suicidio in cella, la famiglia spera nel gip La Nuova Sardegna, 19 dicembre 2011 Non riescono ad accettare che il pm abbia chiesto l’archiviazione per tre dei quattro indagati per il suicidio di un loro familiare, impiccatosi in cella il 17 luglio 2010 pochi giorni dopo l’arresto. Sarà un gip a valutare l’opposizione alla richiesta della Procura. L’inchiesta sulla morte di un artigiano vede al momento come unico indagato per omicidio colposo Mario Usai: l’agente di polizia penitenziaria in servizio quel giorno. Secondo gli accertamenti del sostituto procuratore Maria Grazia Genoese, la tragedia avrebbe in qualche modo potuto essere evitata. Questo perché uno specialista, dopo la visita di ingresso in carcere del detenuto aveva avvertito: alto rischio suicidio. L’artigiano era disperato perché accusato di aver abusato di sua figlia. Una insinuazione che, se anche fosse stata spazzata via da una assoluzione, gli avrebbe lasciato l’onta a vita. Questo aveva detto ai suoi, dopo l’arresto. Pochi giorni dopo era arrivato il suicidio. L’uomo aveva rifiutato di uscire per l’ora d’aria e, una volta solo, aveva usato i lacci delle scarpe per impiccarsi. Quella stessa mattina il comandante della polizia aveva firmato un provvedimento per segnalare il pericolo ai subordinati. Quelle disposizioni sono sembrate sufficienti al pm per chiedere l’archiviazione del comandante, appunto, ma anche dell’allora direttore del carcere, Teresa Mascolo che aveva dato disposizioni perché fosse vigilato in modo costante. Richiesta di archiviazione anche per il poliziotto che divulgò l’ordine. È rimasto l’agente in turno, assistito dall’avvocato Sergio Milia. Usai aveva ricevuto l’ordine di prestare un’attenzione particolare a quel detenuto, ma che era arrivato nella sua cella quando ormai era troppo tardi. Quella domenica l’agente era solo. È possibile che il suo ritardo sia spiegabile con la necessità di controllare l’intero reparto promiscui. Reggio Calabria: trascorse quasi un anno di carcere da innocente, risarcito 95 mila euro Gazzetta del Sud, 19 dicembre 2011 Soldi, tanti soldi. Sono quelli che lo Stato dovrà sborsare per risarcire Domenico Albanese, 23 anni. Esattamente 95 mila euro che la Corte d’appello di Reggio ha quantificato per il periodo di ingiusta detenzione sofferta. Il giovane, assistito dai procuratori Gregorio Cacciola e Domenico Ascrizzi, si era rivolto ai giudici chiedendo circa 1 milione per i danni, compresi quelli morali, subiti per una carcerazione durata quasi 10 mesi e un ulteriore mese scontato agli arresti domiciliari. L’incredibile vicenda risale al 12 maggio del 2009, quando in località Valle-Amena e precisamente in zona “Petripodi” di Gioia Tauro, in un terreno in prossimità dell’azienda agricola condotta da Teresa Guerrisi e Domenico Albanese, madre e figlio, gli agenti della Squadra mobile, dell’Unità anticrimine e del Commissariato di Gioia Tauro, avevano scoperto, interrate in contenitori di plastica, una quantità considerevole di armi, munizioni e droga. Cinque fucili calibro 12 di cui uno a pompa e uno a canne mozze, due mitragliette di fabbricazione straniera, un revolver, sei candelotti di dinamite, centinaia di munizioni, tre panetti da un chilo ciascuno di hascisc, due passamontagna e altro materiale. Per i due erano scattati immediatamente gli arresti disposti dal gip di Palmi. Mentre la donna era stata posta domiciliari per accudire la figlia minore, Albanese era finito diritto in carcere, girando i penitenziari mezza Italia, da ultimo a Torino, fino a pochi giorni dell’inizio del processo col rito abbreviato, quando gli erano stati concessi gli arresti domiciliari, nella primavera del 2010. Sia la madre che il figlio si erano sempre dichiarati innocenti sostenendo che con quelle armi e quelle munizioni non centravano nulla, visto che il luogo dove erano stati trovati non ricadeva nella loro proprietà. Stessa tesi sostenuta dai legali, che attraverso indagini difensive accurate hanno chiesto una sentenza di assoluzione piena scegliendo di andare a processo con le forme del rito abbreviato, visto che le prove della loro innocenza erano schiaccianti. Nel corso del processo, infatti, i due difensori grazie a precise perizie tecniche e a numerose dichiarazioni di testimoni hanno ribadito le ragioni della richiesta. Assoluzione richiesta e assoluzione arrivata. Il giudice dell’udienza preliminare Santo Melidona ha infatti assolto il giovane, nonostante la pesante richiesta del pubblico ministero: 10 anni di carcere. A seguito della sentanza, i due legali hanno immediatamente attivato il procedimento per il risarcimento del danno, che è arrivato: Albanese avrà 95 mila euro. La Guerrisi se ne era già visti riconosciuti 50 mila. Adesso comunque con ogni probabilità ci sarà un ulteriore ricorso alla Corte di Cassazione. La richiesta di risarcimento era, infatti, ben più alta, circa un milione di euro, dieci volte meno di quanto i giudici della Corte d’appello reggina gli hanno di fatto riconosciuto. Ma al di là della quantificazione economica resta un dato emblematico. La disavventura giudiziaria di un ventenne, rinchiuso in carcere per circa un anno in maniera poi scoperta ingiusta. Dopo poco più di 2 anni, la vicenda si chiude nel migliore dei modi, anche se dal punto di vista prettamente economico il giovane si aspettava qualcosa in più. Ma probabilmente l’ultima parola spetterà alla Cassazione. Terni: detenuto albanese evaso un anno e mezzo fa catturato dalla polizia penitenziaria Asca, 19 dicembre 2011 Evade durante un permesso premio, ma viene catturato dopo un anno e mezzo a pochi chilometri dal proprio paese natale, in Albania. Decisivo l’aiuto della Polizia penitenziaria. A conclusione di una lunga e complessa indagine, coordinata dalla Procura di Terni ed eseguita dal personale del reparto di Polizia Penitenziaria di Terni, è stato arrestato dall’Interpol un detenuto albanese di 45 anni, evaso dalla Casa Circondariale di Terni nell’agosto del 2010. L’uomo era stato arrestato per aver ucciso tre ragazze in provincia di Lucca nel 2000 durante un inseguimento. Condannato a 20 anni, non aveva fatto rientro dopo un permesso premio. Ma la polizia penitenziaria, dopo complesse indagini, è riuscito a rintracciarlo grazie anche al lavoro della Polizia penitenziaria - ispettore capo Mauro Scipioni e assistente capo Michele Coldebella - che hanno dato preziosi elementi all’indagine. Non marginale il ruolo della polizia trevigiana, che ha compiuto una serie di accertamenti e di appostamenti presso l’aeroporto Canova e l’abitazione della fidanzata dell’evaso, che vive a Treviso. Israele: liberati altri 550 palestinesi in cambio di Shalit, attuata seconda fase dell’accordo Tm News, 19 dicembre 2011 Sono liberi i 550 prigionieri palestinesi che Israele ha deciso di rilasciare dando attuazione alla seconda fase dello scambio con il soldato franco-israeliano Gilad Shalit, rilasciato in ottobre dopo cinque anni di detenzione nella Striscia di Gaza, nelle mani di Hamas. L’accordo era stato siglato a inizio ottobre e prevedeva la liberazione di Shalit in cambio di mille palestinesi: in una prima fase, infatti, Israele aveva liberato 450 detenuti palestinesi. Ora gli altri 550 tutti provenienti dalla Cisgiordania. Per il movimento islamista di Hamas, che ha sequestrato Shalit nel 2006, questo accordo è una vittoria contro lo Stato ebraico.