Il Diritto a essere dimenticati Il Mattino di Padova, 12 dicembre 2011 Se al giornalista si chiede una maggiore precisione nei racconti della cronaca nera, e una verifica più approfondita delle fonti, è anche perché oggi la persona che commette reati non finisce sulle pagine dei giornali o nelle cronache televisive per lo spazio di un giorno, o poco più, ma ci resta a vita in Internet attraverso i motori di ricerca generalisti. E si ritrova a combattere, dopo anni, perché i suoi figli, gli amici, i genitori non debbano ogni volta, digitando il suo nome, ritrovare per primi quegli articoli magari pieni di imprecisioni e di inesattezze. Nella testimonianza di un detenuto che pubblichiamo c’è un piccolo esempio dei danni che può fare la cattiva informazione, mentre è Mauro Paissan, giornalista, membro dell’Ufficio del Garante nazionale della privacy, a parlare di tutela dei diritti delle persone private della libertà personale rispetto all’informazione, e cioè di come si possono “limitare i danni” provocati da notizie, che dovrebbero per lo meno essere reperibili solo negli archivi storici dei giornali, e non anche attraverso i motori di ricerca come Google. Basterebbe che i giornalisti si chiedessero: “E se tra gli imputati ci fosse mio figlio?” Il grave reato che ho commesso immediatamente mi ha scaraventato per più giorni sulle pagine dei giornali ed anche sullo schermo TV. Giusto informare, ma in quale modo? Preciso che, prima di varcare la soglia del carcere, sono stato ricoverato in un ospedale in seguito a un tentato suicidio, e non ero neppure in grado di leggere i giornali che riportavano il mio terribile gesto. Ogni volta poi che dovevo essere portato in Tribunale, mi trovavo di nuovo in prima pagina, ed ecco di nuovo l’ossessiva ripetizione sulle pagine dei giornali dell’accaduto con una altrettanto ossessiva descrizione delle modalità di esecuzione dell’atto da me compiuto. Raccontare “l’abisso” di una persona, scendere nei minimi particolari, che senso ha? Certamente non è utile per una prevenzione di tragedie famigliari come la mia, ed è esasperante il continuo riportare alla ribalta tutti i casi di reati in famiglia considerati in qualche modo “simili”, non è neppure utile, anzi incita alla vendetta. Forse avrebbe più senso un’attenzione sociale diversa, tesa ad analizzare in modo costruttivo quali sono le cause che possono indurre una persona, che fino a quel momento non era mai stata aggressiva, a compiere atti mostruosi, tenendo presente che nessuno può sentirsi esente da rischi. L’ultima riproposizione della mia vicenda risale al giorno precedente l’udienza presso la Corte di Appello: i titoli dei giornali sono rimasti gli stessi, e quello che mi ha fatto star male è l’impatto che hanno avuto su mio figlio, pure lui una mia vittima. Un mio amico mi ha scritto di averlo incontrato davanti all’edicola del paese, con lo sguardo fisso sulle locandine poste a richiamo all’ingresso della rivendita di giornali: stava leggendo il titolo e scuoteva la testa. In un articolo poi che parlava delle condizioni di sovraffollamento delle carceri, riportando alcuni dati della situazione di uno specifico istituto penitenziario relativi alla presenza di detenuti, non so con quale finalità è stato riportato quanto segue: “È presente fra questi (nome e cognome mio), ex direttore di banca che ha ammazzato la moglie, ferito il figlio e cercato di suicidarsi”. Potrebbe essere facile rispondermi: ma potevi pensarci prima! Per la mia sfortunata esperienza ritengo di poter dire che chi commette un reato in determinate condizioni non è in grado di pensare alle possibili vittime, al carcere, a una vita stravolta, al rischio di trascinare tutti i propri cari in un baratro. Per quelli che sono i miei confusi ricordi, ho agito non coscientemente e con nessun progetto, nessun interruttore ha spento una macchina che era fuori controllo. Ecco perché credo sarebbe preferibile se chi fa informazione non proponesse scene doppiamente crudeli rispetto alla realtà dei fatti, e non si trasformasse da giornalista a giudice, a volte basterebbe poco per cambiare rotta, basterebbe che anche i giornalisti si chiedessero: “E se accadesse a me?, e se tra gli imputati ci fosse mio figlio, o mio padre?”. Forse allora nello scrivere i loro articoli farebbero il loro mestiere di informare, lasciando alle Forze di Polizia il lavoro di indagine, ai Giudici la determinazione di una pena “civile”, a criminologi e psichiatri le restanti perizie. Non chiedo di nascondere i reati, ma oggi ancora di più è necessaria l’attenzione, anche perché Internet si allarga dappertutto e i suoi archivi contengono pezzi di vita di tanti cittadini del mondo, e basta un clic per farli apparire su uno schermo e rinnovare ogni volta il dolore che possono suscitare. Ulderico G. Il passato che non passa Per quanto riguarda gli articoli di cronaca nera reperibili in internet, il problema vero sono i motori di ricerca, non tanto il fatto che nell’archivio storico giornalistico di un quotidiano siano ancora presenti quegli articoli: è giusto che vi rimangano dal momento che c’è una intangibilità degli archivi storici. Se noi ripulissimo tutto, giornali e libri, cambieremmo la storia. Il salto di qualità è avvenuto coi motori di ricerca generalisti tipo Google, che consentono a chiunque, digitando un nome e cognome, di pescare determinati articoli. Se c’è un fondamento per richiedere di escludere quegli articoli dalla “pesca” di Google, questo è un fatto positivo e di tutela che noi abbiamo adottato per una serie di persone che si sono rivolte al Garante e che ha funzionato. Il caso drammatico è quello del bambino, del figlio che digita il nome di suo padre e trova fatti a lui sconosciuti. C’è un diritto all’oblio nel nostro ordinamento, per oblio si intende il non essere ricordati come responsabili, come vittime, come testimoni di una certa vicenda che può essere un reato, ma anche un non reato. Voglio ricordare due ambiti entro i quali si commettono offese alla dignità della persona. Il primo è la ripresa fotografica o televisiva di persone in condizioni di contenzione, manette o simili. Il problema è stato riproposto sul piano internazionale dalla ripresa che aveva riguardato Dominique Strauss Kahn, fatto sfilare di fronte alle telecamere con le manette dietro la schiena. La scena ha fatto rumore perché si trattava del direttore generale del Fondo monetario internazionale, ma quanti poveri cristi, quanti normali cittadini vediamo nei telegiornali, fatti sfilare nei corridoi delle questure e ripresi in condizioni di restrizione, con le manette ai polsi. L’altro grande buco nero riguarda la pubblicazione delle foto segnaletiche, vietata anch’essa dal Codice deontologico oltre che da disposizioni del Dipartimento di pubblica sicurezza del Ministero dell’interno. Trattando di cronaca giudiziaria e di cronaca nera è frequente il rischio di incorrere in lesioni gravi alla dignità delle persone. E parlando di dignità delle persone non mi riferisco solamente ai responsabili dei reati, ma al doveroso rispetto delle vittime, o al rispetto dovuto ai testimoni valutando se sia il caso o meno di rivelarne l’identità. I principi ai quali i giornalisti devono attenersi, scrivendo di cronaca giudiziaria e di cronaca nera, sono l’interesse pubblico di quanto riferito informando (quando informano), la verità del fatto e la forma civile dell’esposizione. Ma sono da ritenersi altrettanto importanti: la presunzione di innocenza, tanto bistrattata quando si scrive di cronaca giudiziaria e di cronaca nera; l’accuratezza delle informazioni, perché spesso “tiriamo via” nel dare le notizie; la privacy, cioè la dignità delle persone variamente coinvolte; il diritto all’oblio, in modo specifico. Il diritto all’oblio si può anche chiamare “il passato che non passa”, oppure “l’eterno presente”. Il problema si pone quando la notizia (e quindi la vicenda) viene riproposta così come è stata scritta 5, 10 o 20 anni fa. Un secondo aspetto riguarda gli archivi storici online dei giornali. Il terzo, quando gli stessi archivi storici online dei giornali diventano raggiungibili attraverso i motori di ricerca generalisti. Una delle frasi che nelle lezioni di giornalismo il mio maestro Luigi Pintor ci trasmetteva era: “Ricordatevi che un giornale dopo un giorno serve solo per incartare le patate al mercato; perciò sappiate anche i limiti della vostra attività, perché è un prodotto che si consuma, si butta via”. E gli archivi allora erano nei sotterranei di qualche giornale e nessuno li consultava. Oggi questa frase non avrebbe più senso. I giornali rimangono nel tempo e continuano a produrre effetti talvolta drammatici sulla vita delle persone. E già questo salto di qualità dovrebbe indurre i giornalisti a pensarci qualche secondo in più prima di scrivere, perché una notizia sbagliata, mal scritta, una volta appunto finiva al mercato oggi va in Internet, e se c’è un nome attaccato riemerge con facilità. Mauro Paissan, giornalista e Componente del Garante per la privacy Giustizia: se la crisi è dietro le sbarre… di Valentina Ascione Gli Altri, 12 dicembre 2011 Si è scatenato il caos nel carcere di Montacuto, ad Ancona, quando un detenuto ha preso ago e filo e si è cucito la bocca. E altri si sono armati di lamette da barba e con l’aiuto delle bombolette a gas da campeggio hanno cercato di dare fuoco ad alcune celle, bruciando lenzuola e indumenti. Confusione, paura e fumo nella sezione interessata, ma l’intervento tempestivo della polizia penitenziaria in assetto antisommossa ha evitato il peggio e al termine della giornata non si sono registrati feriti tra i detenuti, né tra gli agenti, riferiscono le agenzie che nel tardo pomeriggio battevano la notizia delle proteste iniziate già la sera precedente. Proteste divampate, pare, per la mancanza di riscaldamento. Un motivo apparentemente banale, forse, ma più che sufficiente ad accendere la miccia di quella polveriera che è la casa circondariale di Montacuto, dove i detenuti dormono sul pavimento perché in 440 sono costretti a spartirsi i 178 posti regolamentari. “Stipati in quattro in celle da uno”, come si legge nella interrogazione parlamentare stilata di recente dai radicali Rita Bernardini e Marco Perduca. La rivolta di Ancona dimostra che la febbre delle nostre galere è in costante aumento. E cresce parallelamente alla popolazione detenuta, che nei giorni scorsi ha nuovamente superato quota 68 mila. Mentre i posti - i posti reali, non quelli ricavati aggiungendo piani ai letti a castello o adibendo a dormitori gli spazi altrimenti destinati alla socialità, all’assistenza sanitaria o alle poche ore di svago - sono meno di 45 mila. Eppure è una protesta ordinaria, quella che si è scatenata ieri a Montacuto. Perché ordinario è il malessere che serpeggia nelle carceri italiane. E che da nord a sud lega, come una catena del dolore, l’esistenza di migliaia di uomini e donne senza diritti, scandita dalla mancanza di spazio, luce e aria, di assistenza medica e psicologica. E, in alcuni casi, perfino di cibo. Un’esistenza ridotta a mera e insopportabile sopravvivenza, alla quale in moltissimi si ribellano con atti di autolesionismo: cucendosi la bocca, come il detenuto maghrebino di Ancona, tagliandosi con le lamette da barba o ingoiandole con pile e altri oggetti. Quest’anno il centro studi e ricerche della Uil Penitenziari ha contato oltre 5 mila episodi. Insieme a 61 suicidi e più di 900 tentativi di suicidio, di chi preferisce la morte a una detenzione illegale e a una vita ai minimi termini. 176 sono invece i decessi complessivi che da gennaio a oggi si sono consumati nelle celle italiane: gli ultimi tre nel giro di una settimana, quella scorsa. A dimostrazione di come, a soli venti giorni dalla fine del 2011, ancora non sia possibile fare un bilancio definitivo di un anno che, comunque, si prospetta drammatico almeno quanto quelli precedenti (nel 2010 si registrarono 184 morti totali, di cui 66 suicidi). Il nuovo Guardasigilli, Paola Severino, ha annunciato lo studio di misure strutturali certamente utilissime per sbloccare la macchina della giustizia e affrontare la crisi delle carceri, tra cui un più ampio accesso alle misure alternative e la reclusione domiciliare come pena autonoma. Crediamo però che questi provvedimenti vadano trainati da soluzioni in grado di interrompere drasticamente e subito lo stato di illegalità delle nostre galere. Da un’amnistia, che numerosi esponenti della comunità penitenziaria - direttori, volontari e altri operatori - ritengono essere ormai uno strumento non solo indispensabile, ma non più negoziabile. Il livello di guardia è infatti superato. Il tempo scaduto. Dietro le sbarre c’è un’altra crisi che ci impone di fare presto. Giustizia: la miccia di Ancona di Eleonora Martini Il Manifesto, 12 dicembre 2011 Repressa la rivolta scoppiata giovedì notte nel carcere di Montacuto, ad Ancona, ieri il provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria ha disposto l’allontanamento dei tredici detenuti che avrebbero innescato per primi la protesta dando fuoco alle bombolette di gas, usate per cucinare, all’interno di sette celle della casa circondariale. Dopo l’isolamento, i detenuti sono stati trasferiti in altri istituti delle Marche. Ma non certo per dare un po’ di respiro ad un carcere che, con i suoi 440 reclusi a fronte di una capienza massima di 178, si colloca al quarto posto, con Catania, nella triste graduatoria del sovraffollamento. Si tratta di extracomunitari, come lo sono il 53% dei detenuti di Montacuto, e maghrebini, come l’uomo che cucendosi giovedì pomeriggio la bocca con ago e filo ha acceso una miccia che potrebbe trasformarsi in detonatore su tutto il territorio italiano. Un allarme lanciato dallo stesso sindacato degli agenti che in tenuta antisommossa hanno stroncato venerdì sera la rivolta. O meglio, è un solo sindacato, il Sappe, quello che ha dato per primo la notizia, a denunciare da tempo “l’esplosività” di Montacuto, dove i “detenuti dormono anche per terra, su materassi di fortuna, stipati in quattro in celle da uno”. Nega tutto invece la Uil penitenziari che senza mezzi termini accusa i colleghi di “diffondere notizie prive di fondamento” e “alimentare ingiustificati allarmismi”, assicurando che “ad Ancona c’è stata una banale protesta di pochi detenuti che si sono limitati a battere le stoviglie sulle grate ed incendiare qualche cartaccia nei corridoi”. Eppure lo stesso capo del Dap Franco Ionta non a caso la settimana scorsa aveva visitato a sorpresa Montacuto definendolo “un carcere difficile”. E la deputata Radicale Rita Bernardini che sul penitenziario di Ancona ha presentato numerose interrogazioni parlamentari insiste: “Oltre ai problemi che accomunano tutti i carceri riguardo l’illegalità e la totale assenza dello Stato, a Montacuto c’è sicuramente qualcos’altro che riguarda la gestione dell’istituto stesso. E i sindacati di polizia penitenziaria farebbero bene a fare emergere e ad isolare eventuali ulteriori illegalità e violenze più volte segnalate”. Giustizia: “codice rosso” in carcere, tra tensioni quotidiane e norme inapplicabili Il Fatto Quotidiano, 12 dicembre 2011 Quasi 300 nel 2011 le aggressioni al personale. Inapplicabile per mancanza di personale la circolare che apre le celle in base ai differenti livelli di pericolosità dei detenuti. “La situazione è stata correttamente affrontata dai responsabili dell’istituto e ricondotta alla normalità”, ha sostenuto il capo dell’amministrazione penitenziaria, Franco Ionta. Già, ma quale normalità? La rivolta scoppiata l’altro giorno nel carcere di Ancona “testimonia la situazione in cui versano tutti gli istituti italiani”, spiega il sindacato Sappe. Secondo la Uil penitenziari, dal primo gennaio 2011 gli episodi di aggressione ai danni del personale ammontano a 291, con un totale di 394 feriti. 40 le risse scoppiate in 28 carceri. Sono stati 5. 200 gli atti di autolesionismo, oltre seimila i detenuti che hanno operato almeno un giorno di sciopero della fame, oltre mille coloro che hanno rifiutato, per protesta, le terapie. Quale normalità ci può essere con una popolazione penitenziaria che ha superato quota 68 mila a fronte di una capienza regolamentare di 44 mila? Domande che si deve essere posto il capo della Direzione generale detenuti, il magistrato Sebastiano Ardita, quando, a fine novembre, prima di tornare alla Procura di Catania, ha firmato una “rivoluzione”. Sicuramente teorica, altrettanto sicuramente, però, inapplicabile nella pratica. In carcere sono stati introdotti - con una circolare, meno vincolante rispetto a un decreto - i “codici” come quelli che si usano nei pronto soccorso. I colori bianco, verde, giallo e rosso, che in ospedale servono a classificare la gravità dei pazienti, tra le mura dei penitenziari potranno essere utilizzati per diversificare i detenuti e rendere la loro permanenza più vivibile. Il codice bianco sarà riservato a coloro che non hanno commesso reati di violenza e hanno mantenuto una buona condotta. Per loro le sbarre rimarranno aperte per la maggior parte della giornata. Il verde evidenzierà chi si è macchiato di violenza, ma si è comportato bene. Il giallo chi ha commesso violazioni disciplinari. In entrambi i casi le celle potranno rimanere aperte solo dopo un’attenta osservazione. I codici rossi, autori di reati in carcere o di tentativi di evasione, invece resteranno dentro. A decidere sarà un’equipe interna all’istituto che in ogni momento potrà modificare le assegnazioni. “Un intento nobile - confida al Fatto un agente penitenziario che preferisce l’anonimato -, ma solo teorico. Sarà praticamente impossibile da attuare. Manca il personale persino per accompagnare i detenuti in infermeria (la polizia penitenziaria è sotto organico di settemila unità, ndr), ma mancano anche educatori e psicologi necessari, secondo la stessa circolare, a dare un supporto”. E invece, per esempio, “nella sezione nuovi giunti del carcere romano di Regina Coeli - spiega Irene Testa, segretario dell’associazione radicale ‘ Il detenuto ignoto ‘ - c’è un unico psicologo per 40/50 ingressi quotidiani. I colloqui durano pochi minuti. Ed è una sezione in cui i detenuti dovrebbero fermarsi qualche settimana e invece ci rimangono anche un anno e mezzo”. Sempre a Regina Coeli, il rapporto tra educatori e reclusi è di uno a 300. Nonostante sia lo stesso Ordinamento penitenziario a prevedere che la cella sia soltanto una stanza di pernottamento, demandando ai Direttori degli istituti la discrezionalità dell’apertura delle sbarre, questo accade soltanto in poche carceri, proprio perché il sovraffollamento non consente la libera circolazione. Come potrebbe essere diversamente a Milano San Vittore, per esempio, dove i detenuti sono 1649 (dati Uil), 937 in più rispetto alla capienza regolamentare, dove si sono già verificati 213 scioperi della fame, 84 atti di autolesionismo e 9 tentati suicidi? Far circolare liberamente i codici bianchi significa inoltre mettere insieme etnie diverse (un terzo della popolazione carceraria è straniera) e situazioni giudiziarie diverse. E quale Direttore deciderà di accrescere le responsabilità individuali del personale, in caso di incidenti, sapendo che poi gli avvocati certo non li paga il Dap? La circolare ha intenti nobili, in una situazione “normale”. Ma la normalità, oltre il muro, non esiste. Giustizia: il ministro Severino; sto preparando un decreto legge sulle misure alternative Agi, 12 dicembre 2011 Il ministro della Giustizia Paola Severino punta sulle misure alternative alla detenzione per affrontare l’emergenza del sovraffollamento delle carceri italiane. “Sto preparando un decreto, non posso entrare nei dettagli ora, sarebbe scorretto. Prima devo presentarlo al Governo”, ha spiegato il ministro parlando con i giornalisti all’uscita del carcere di Buoncammino, a Cagliari, da dove ha cominciato una serie di visite negli istituti penitenziari. “Le misure cui sto lavorando sono la detenzione domiciliare, la messa in prova, forma che veniva utilizzata solo per i minori in alternativa alla carcerazione e che potrebbe essere tranquillamente estesa anche ai maggiorenni. Penso anche ad alcune forme di depenalizzazione che già sono state elaborate e studiate dalle commissioni che si sono succedute all’interno del ministero della Giustizia. Queste sono certamente alcune delle forme alternative al carcere che terrò presenti e inserirò nel decreto”. Uso braccialetto solo dopo verifica costi “Il braccialetto elettronico è la misura che ha colpito di più chi ha ascoltato i miei vari discorsi. Ma non è l’unica misura alla quale ho pensato. Potrà essere utilizzato solo quando ci sarà stata una seria e attenta verifica dei costi e cioè solo se i costi del braccialetto risulteranno inferiori a quelli della detenzione e soltanto se da un punto di vista tecnico esso sarà ritenuto adeguato alle esigenze di controllo e di monitoraggio”. Lo ha precisato il ministro della Giustizia Paola Severino al termine della sua visita al carcere cagliaritano di Buoncammino dove ha incontrato, tra gli altri detenuti, le compagne di cella di Monia Bellofiore, la tossicodipendente che si è uccisa alcuni giorni dopo il suo arresto per l’omicidio della madre, l’ex infermiera Maria Irene Sanna, trovata morta carbonizzata alla fine dell’ottobre scorso. “Se a queste due domande dovessi ricevere una risposta positiva, allora il braccialetto potrebbe rientrare tra i vari mezzi alternativi alla detenzione”, ha aggiunto Severino. “Intanto, si possono introdurre tutte le altre misure, avere il tempo per fare questa verifica per poi aggiungere il braccialetto”. Giustizia: l’Anci chiede incontro al ministro Severino per discutere condizione delle carceri Asca, 12 dicembre 2011 “Un incontro che possa trattare in tempi più rapidi le questioni relative alla situazione dei Comuni italiani che ospitano strutture penitenziarie, alla necessità di garantire un ambiente decoroso e vivibile a tutti coloro che, a qualsiasi titolo, frequentano il carcere e, non ultimo, alla creazione di opportunità lavorative in favore della popolazione detenuta”. È questa la richiesta contenuta in una lettera che il Presidente dell’Anci, Graziano Delrio ha inviato al Ministro della Giustizia, Paola Severino. Dopo aver segnalato al ministro che “‘la gravità della questione ci impone l’individuazione di soluzioni tecnico-manutentive, di armonizzazione dei provvedimenti e di collaborazione tra Amministrazioni”, Delrio sottolinea che già dai ministri Alfano e Nitto Palma, in tema di piano carceri, avevamo ricevuto rassicurazioni sul coinvolgimento dell’Associazione in un Tavolo dedicato alle città individuate per ospitare nuove carceri nonché all’ampliamento delle case circondariali esistenti. “Data l’urgenza della situazione, e alla luce del tempo già trascorso - aggiunge il Presidente dell’Anci - ribadiamo la disponibilità a partecipare ai due tavoli di lavoro. Inoltre l’Anci, impegnata nella promozione della cultura della legalità, considera prioritario l’impegno nella definizione di azioni congiunte volte alla creazione di una rete occupazionale per i detenuti. Ciò nella convinzione che - conclude Delrio - attraverso il lavoro, si possa individuare una valido percorso finalizzato alla riabilitazione e al reinserimento nella società di chi ha commesso degli errori, isolando così il crimine e la sopraffazione e consentendo al detenuto di riappropriarsi dei valori etici”. Giustizia: Vitali (Pdl); carceri in situazione di emergenza, il ministro rispetti impegni presi Asca, 12 dicembre 2011 “La situazione nelle carceri è arrivata ad un punto di non ritorno nonostante il piano carceri varato dal governo Berlusconi e la relativa dichiarazione di emergenza”. È quanto afferma Luigi Vitali, responsabile nazionale dell’ordinamento penitenziario del Pdl commentando le ultime notizie di disordini negli istituti italiani. “Nell’audizione del neo Ministro della Giustizia Severino in commissione è emersa - spiega Vitali - l’assoluta consapevolezza nel Guardasigilli della gravità della situazione ed il suo impegno ad intervenire tempestivamente. Nelle sue proposte abbiamo apprezzato alcune misure deflative che hanno bisogno, però di norme ad hoc. Non c’è altro tempo da perdere e ritengo che la gravità della situazione legittimi anche la decretazione d’urgenza. Sia il Ministro consequenziale agli impegni assunti”. Giustizia: Palomba (Idv); urgente ripristinare organico della Polizia penitenziaria Adnkronos, 12 dicembre 2011 “Bisogna in primo luogo ripristinare l’organico del Corpo di Polizia penitenziaria. Il numero delle unità era stato stabilito in 45.000 quando la capienza massima era di 43.000 detenuti ed il Corpo non effettuava le traduzioni”. Lo afferma il deputato di Idv Federico Palomba in merito alla visita del ministro di Grazia e Giustizia Paola Severino oggi al Buoncammino di Cagliari, esprimendo “apprezzamento della sua scelta prioritaria di occuparsi dell’emergenza carceri, per avere iniziato proprio da quello cagliaritano”. “Ora il sovraffollamento - afferma Palomba - è rappresentato da 68.000 detenuti (in Sardegna l’eccedenza delle presenze è superiore al 20%) mentre la copertura dell’organico è scesa a 40.000 unità: quindi, da un rapporto di circa 1 a 1 si è passati a quello di 1,5 detenuti per una unità di personale. Se si considerano i sempre più ricorrenti episodi di autolesionismo e di aggressione alla polizia penitenziaria (incolpevole e vittima), si capisce come sia assolutamente prioritario il ripristino di un più corretto rapporto numerico tra popolazione detenuta e unità del corpo, per decomprimere le pressione sul personale e perché sia favorito un miglior recupero sociale”. “Occorre potenziare ed accelerare l’edilizia penitenziaria - prosegue Palomba -, per la quale è necessario chiedere ed ottenere i fondi. Ottima idea quella del Ministro di prelevarli dal Fondo per la giustizia - conclude -, senza farseli scippare dal Ministero dell’interno o dal Tesoro. Su queste linee incoraggio il Ministro a procedere con determinazione”. Giustizia: più soldi in cella, i boss fanno festa di Francesco Bonazzi Secolo XIX, 12 dicembre 2011 Spese extra, 900 euro al mese: più facile arruolare picciotti per i regolamenti di conti. C’è un posto, in Italia, dove nel 2012 si recupererà tutta l’inflazione maturata nel periodo 2007-2011. Anzi, addirittura il quintuplo: il 53,8% contro l’8,3% del resto della nazione. Ma non è affatto un’isola felice nel Paese che sta bloccando la rivalutazione delle pensioni, perché questo luogo è il carcere. L’ultima circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) dispone che dal prossimo primo gennaio il limite massimo del cosiddetto sopravvitto possa salire a 900 euro al mese. Un “argent de poche” che pochi possono permettersi, non solo dietro le sbarre. E che in carcere non farà altro che aumentare la possibilità dei mafiosi di arruolare nuovi picciotti, in modo da aumentare prestigio e potere. La circolare del ministero della Giustizia, firmata dal capo del Dap Franco Ionta, porta la data dello scorso 11 novembre ed è diretta ai magistrati di sorveglianza, ai provveditori regionali e ai direttori di tutti gli istituti penitenziari. Dispone che “a decorrere dal primo gennaio 2012 e in considerazione dell’aumento del costo della vita nel frattempo intervenuto”, i limiti massimi fissati dalla precedente circolare del 9 febbraio 2007 “per gli acquisti e la corrispondenza vengano elevati a 800 euro al mese e 200 euro a settimana”. Ma il tetto massimo può arrivare a 900 euro mensili (225 a settimana) “con le spese per la corrispondenza epistolare, telefonica e telegrafica”. Le intenzioni del Dap, che deve farsi perdonare tassi di sovraffollamento indegni di un paese civile, sono certamente lodevoli. E non solo perché aumenta di molto anche la spesa consentita alle detenute madri che scontano la pena con i propri figli, nelle apposite sezioni degli istituti. Con l’incremento dello spesino settimanale, si tenta di alleviare in qualche modo le sofferenze di una popolazione in continuo aumento e superiore di un terzo a quanto prevedrebbe la legge (68 mila detenuti per 45 mila posti letto). Un sovraffollamento che ha effetti ben chiari in termini di maggiori rivolte e incremento dei suicidi (61 dall’inizio dell’anno e 624 sventati dalla polizia penitenziaria), ma anche di carenza di cibo sui carrelli del vitto passato dall’amministrazione. Non solo, barbarie nella barbarie, in Italia oltre quattro detenuti su dieci sono in attesa di giudizio, il 35% sono immigrati e uno su sei è tossicodipendente. Segno che le nostre prigioni sono ormai a metà tra l’ammortizzatore e la discarica sociale. Mentre la Costituzione affiderebbe all’esecuzione della pena il compito di preparare il reinserimento del cittadino nella società. In questo contesto di evidente povertà, colpisce il fatto che il ministero della Giustizia consenta ora a un detenuto di poter spendere fino a 900 euro al mese in tabacchi, cibi migliori del rancio e prodotti per la cura della persona. Oltre ad aumentare la diseguaglianza anche dietro le sbarre, il rischio che vedono molti magistrati e tanti direttori di carcere riguarda il potere dei boss é degli uomini che appartengono alle varie mafie. Con la motivazione del “recupero dell’inflazione”, vengono ammessi aumenti della capacità di spesa del 53% sull’ultimo quinquennio. Significa che camorristi e mafiosi vari avranno sempre più sigarette e generi alimentari da regalare ai compagni di cella più poveri, spesso extracomunitari, in cambio di favori e servizi vari. “Dietro le sbarre, più puoi spendere, più compri le persone e più comandi”, riassume brutalmente un magistrato dell’Antimafia. E l’illogicità dell’aumento dei massimi di spesa sconfina nel regno dell’assurdo laddove si pensi che, in assenza di precedenti penali per mafia, la stragrande maggioranza dei detenuti che possono permettersi simili cifre è ammessa al gratuito patrocinio. E non paga neppure le fotocopie dei fascicoli penali che li riguardano. Ultima perla della circolare buonista, l’innalzamento a quota 350 euro della somma che un recluso può mandare ogni mese a familiari e conviventi. Con il taglio degli stanziamenti per il lavoro in carcere, sembra una beffa. Giustizia: al di là delle sbarre un piccolo mondo di libri di Lorenzo Fazzini Avvenire, 12 dicembre 2011 Leggendo un libro bellissimo, Mondo piccolo di Guareschi, ho appreso che nella vita di tutti i giorni ci può essere una bellissima storia, basta capirne le sfumature nascoste”: Enrico, carcerato della II Sezione detenuti Definitivi, Como. “Il libro assume un’importanza rilevante durante il tempo che un detenuto trascorre nell’espiazione della propria pena, arrivando ad assumere la forma di alternativa all’abbrutirsi dentro una cella, contribuendo a mantenere la giusta attività mentale che poi potrebbe, un giorno, portare una persona migliore a uscire dal carcere”: Stefano, detenuto al “Due Palazzi” di Padova, dal 2010 bibliotecario della Biblioteca Tommaso Campanella nello stesso carcere. “Qui (in biblioteca) mi sono sentito capitan Nemo nel suo sommergibile, sono stato nello spazio con Armstrong, ho condiviso la cella con Nelson Mandela, mi sono immedesimato con le varie letture, provando le emozioni legate alle più disparate esperienze”: Franco, carcere di Como. “L’afflusso nella biblioteca del nostro carcere è in crescita: di recente sono nati gruppi di lettura, anche in lingua araba”: Rossella Favero, responsabile della cooperativa “AltraCittà”, attiva al Due Palazzi di Padova. Istantanee dall’ai di là delle sbarre: leggono e cosa gli oltre 65 mila detenuti nelle prigioni italiche? Serve a qualcosa il libro là dove si viene privati della libertà? Già nel 1903 il socialista Filippo Turati definiva la lettura come “un diritto” da far valere anche in cella. A inizio Novecento era attiva una biblioteca nel femminile del “Regina Coeli” di Roma. Si è però dovuti aspettare il 1975 perché una legge imponesse l’equazione “un carcere, una biblioteca”. Una ricognizione degli anni Novanta dava risultati deludenti: nel 1996, delle 205 carceri italiane solo 10 avevano un sistema di prestito qualificato di libri. “C’è una bella differenza tra una biblioteca e una stanza con un po’ di libri” sottolinea Emanuela Costanzo, bibliotecaria dello Iulm di Milano, “anima” dell’Associazione biblioteche carcerarie italiane. Oggi qualcosa è cambiato, in meglio: le 4 carceri di Roma hanno biblioteche inserite nel circuito comunale (come richiesto dal nuovo ordinamento delle carceri, articolo 21). Funzionano i servizi a Padova, Ravenna, Torino, nei vari penitenziari di Milano, a Treviso, Verona, Bologna. Ma anche a Modena, Foggia, in Sardegna, Volterra e Pisa. Elvira Sellerio, la scomparsa editrice sicula, nel 2001 regalò una copia dei suo catalogo alle biblioteche dei penitenziari. “La regione Marche ha stanziato di recente 20 mila euro per questo” spiega Costanzo. “Vi sono librerie da 14 mila volumi, come quella di Como, altre da 10 mila, altre semplici stanze con dentro un po’ di libri”. A Opera sono disponibili 8mila testi. Insomma, la situazione è come la classica “pelle di leopardo”, “buone pratiche” in certi centri, meno in altri. Così come nel resto del mondo. Negli Usa il carcerato ha diritto a 5 ore alla settimana tra i libri, in Brasile esistono solo 18 “stanze con libri” in altrettante prigioni; in Inghilterra è invece addirittura funzionante un sistema per registrare i racconti che i detenuti possono inviare ai loro figli. Decisamente migliore la situazione francese: in 114 delle 185 carceri vi si trovano 165 biblioteche. In certe piccole prigioni il tasso di lettura sfonda L’80%, secondo quanto riporta la rivista Biblioteche oggi. Ma cosa serve in carcere per la lettura? “L’ultimo bisogno sono i libri. Che arrivano grazie a donazioni e a volontariato. Servono le biblioteche: un bravo bibliotecario che faccia circolare i libri” annota Costanzo. E però i tagli in ambito culturale hanno intaccato anche le raccolte librarie comunali, dalle quali dipendono quelle carcerarie. Chi vive la realtà penitenziaria quotidianamente, come lo scrittore Edoardo Albinati, docente di italiano nella scuola di Rebibbia, puntualizza: “Attenzione: non fate arrivare i libri superflui in prigione, dove lo spazio è ridotto. Serve qualità e scelta. Noto un certo trend di maggior interesse per i libri, anche come antidoto all’abbruttimento causato dal sovraffollamento”. Gli fa eco Giorgio Montecchi, docente di biblioteconomia all’università di Milano, da anni impegnato nella questione: “La crescita di biblioteche nelle carceri negli ultimi anni è andata molto meglio di quanto ci si aspettava. La lettura è in grande ripresa in carcere. A Opera, ad esempio, si legge tantissimo. Le ospiti del carcere femminile hanno contribuito all’allestimento della biblioteca comunale per ragazzi a Rozzano”, nel Milanese, dove sorge il penitenziario. Rossella Favero, dal carcere di Padova, conferma: “Da noi la lettura cresce. Abbiamo attivato, oltre a quella centrale (13 mila volumi), anche biblioteche di sezione”. Tra il 2010 e il 2011 l’aumento dei prestiti bibliotecari a Padova è stato del 60%; nei primi due mesi di quest’anno sono stati prestati 573 testi. Folta la presenza di volumi in lingua straniera, 850, dall’albanese al greco all’arabo. Cosa si legge dietro le sbarre? Vanno forte poesia e narrativa, ma pure la saggistica, “anche quella più bizzarra: mi chiedono testi di filosofia orientale come Il libro dei morti tibetani”, rimarca Albinati. “I miei studenti mi dicono: “Fammi leggere belle poesie”. Sui banchi di scuola scoprono Dante: non immaginavano fosse così bello. Ma domandano anche gialli, libri sulla mafia e la criminalità, testi di storia del XX secolo”. Iva Morosini, che nel 2002 ha messo in piedi la biblioteca Bissone a Como (oltre 600 reclusi), afferma: “Ci sono richieste anche di libri di religione, come Gesù di Nazareth del Papa e Vito Mancuso. Le donne chiedono testi sull’interpretazione dei sogni”. I best-seller? “David Grossman e Isabel Allende su tutti”. Come evolve la lettura in prigione? “Rispetto a 10 anni fa si legge di più: la biblioteca è l’unico posto in cui il detenuto viene in libertà. Ogni giovedì teniamo un evento culturale: a fronte di 30 disponibilità, ho più di 120 richieste di partecipazione”. A Verona i reclusi hanno fatto parte della giuria di un premio letterario: “Circa 150 detenuti (su 900) hanno letto i tre volumi finalisti al “Salgari”. Abbiamo fatto un incontro con ciascun autore - racconta la garante dei detenuti Margherita Forestan. Dopo qualche imbarazzo, tra autori e ospiti si è creata subito complicità”. Anche la Bibbia è molto richiesta: “Con i seminaristi faccio catechismo ai ragazzi del Beccaria e agli adulti a Bollate - spiega don Gino Rigoldi, cappellano, volto noto nel sociale. E il Vangelo mi viene chiesto spesso da chi ha uno sguardo “vergine” su Gesù. I carcerati si stupiscono: “Davvero si arrabbiava? E stava con le donne?”. Anche i detenuti islamici mi chiedono copie della Bibbia”. Ma dunque perché favorire la lettura per chi si è macchiato di crimini? “Puntare sulla cultura dei detenuti è un investimento per la società perché abbassa il tasso di recidiva - risponde Iva Morosini. La lettura arricchisce gli strumenti culturali di una persona. Molti carcerati sono poveri culturalmente: la Costituzione afferma che il carcerato va rieducato. In questo la cultura è decisiva”. Sintetizza Montecchi: “La lettura, e la cultura in generale, sono fondamentali per il recupero di un carcerato”. Insomma, lib(e)ri oltre le sbarre! Moni Ovadia: a San Vittore con i detenuti incontri davvero eccezionali Andando in carcere con i libri, si possano stabilire relazioni umane che sottolineano la dignità della persona”. Moni Ovadia, attore, scrittore, regista, è un habitué delle patrie galere per motivi culturali: a Como, al San Vittore di Milano, in altre carceri ha portato la sua simpatia e verve, oltre che i suoi libri. Perché questa sua disponibilità per il mondo carcerario? “Lo dico sempre ai detenuti: io sono “fuori” per sbaglio. In quanto ebreo, 70 anni fa sarei stato in carcere. Non dimentichiamo che le prigioni sono strapiene di povera gente. Il sovraffollamento attuale non è degno di un Paese civile, ricorda piuttosto alcune dittature sudamericane. Ricordiamoci che i veri furfanti sono fuori, non vengono raggiunti dalla giustizia e vivono sotto il pelo dell’ingiudicabilità. Teniamolo presente sempre: se un essere umano può venir privato della sua libertà, anche a chi ha commesso il peggior crimine non deve mai esser sottratta la dignità umana”. Cosa ricorda delle sue visite in carcere? “Ho vissuto incontri eccezionali: i detenuti mi hanno spesso sorpreso. Ho ben presente due figure. Un ragazzo africano, Remy, parlava un ottimo francese. Mi disse, durante un dibattito sul riscatto dei detenuti: “Ma se poi alla fine prevalgono gli iniqui? E se poi noi abbiamo contribuito a far sì che siano loro a usurpare questo mondo?”. Gli ho risposto: “Caro Remy, tu mi obblighi a pensare tutta una vita”. In effetti ciò solleva la domanda sull’evidente prevalenza del male sul bene”. E l’altro incontro? “In una conferenza sulla cittadinanza degli immigrati, cosa che io sostengo, un detenuto, il signor Barbaro, se ne uscì così (notare la dizione): “Però, dottor Ovadia, questi poi s’imparano la nostra lingua?”. E intervenne un signore tunisino in un italiano impeccabile: “Oh Barbaro, noi due finiremo la nostra pena nello stesso periodo. Ti invito a mie spese in Tunisia. E se trovi uno dei tanti imprenditori italiani che vengono da noi a far fortuna (portando anche lavoro, eh!), ti pago a peso d’oro”. Quell’immigrato, alla domanda dove avesse imparato l’italiano così bene, disse: “Al liceo italiano di Tunisi”. Questo per dire le sorprese che si possono avere in carcere”. Dunque cultura e lettura restano valori da esportare anche nei penitenziari. “Portare dei libri nei penitenziari significa suscitare relazioni umane e riabilitare la dignità di queste persone. Troppo spesso noi “liberi” non ne parliamo. E invece questo è quello che mi accaduto durante i miei fugaci incontri in carcere”. Giustizia: orari, lividi, sangue… gli ultimi tre giorni di Cristian De Cupis di Salvatore Maria Righi L’Unità, 12 dicembre 2011 I buchi nella ricostruzione sulla fine del 36enne, “morto nel sonno” a Viterbo Cosa è accaduto dopo la stesura del verbale? Perché quel “giro” di ospedali? I vestiti restituiti in parte alla famiglia: mancano quelli a contatto con le ferite. La sciarpa della Roma stretta al collo, sopra le ecchimosi e i lividi che scendono dalla nuca alle spalle, gli occhi chiusi per sempre, quello sinistro piuttosto gonfio e tumefatto, come un pò tutta quella parte del viso che è violacea. Altre ecchimosi sul fianco sinistro e vasti ematomi sulle mani, letteralmente devastate. Almeno quattro ferite di forma circolare e di una certa profondità nella parte frontale del cranio, una lesione su quella parietale sinistra e un’altra più profonda dietro, sulla nuca, da cui deve essere uscito molto sangue, visto che sul giubbino - lavato o comunque smacchiato da qualcuno - restano degli aloni rossi. L’ultima immagine di Cristian De Cupis, un destino nel cognome, assomiglia un pò ai suoi ultimi tre giorni, sghemba, poco nitida, violenta. Ma è proprio quell’alone opaco che rende così dura la fine piuttosto strana di un uomo che pure era abituato a remare controcorrente e senza paracadute. Ha perso la madre che era ancora un bambino, non ha mai avuto un vero padre, e all’età in cui si prende la patente si era già infilato sulla sua cattiva strada, già molto scivolosa. Dentro e fuori da caserme, celle e comunità: detenuto a Regina Coeli, Rebibbia, poi Terni, Viterbo, Velletri, Secondigliano, alternando periodi di cura ad Amelia da Pierino Gelmini, a Bologna, Ravenna, Milano, ma anche a San Patrignano, l’ultima volta, nel luglio scorso, due mesi e poi fuori, perché Cristian non ce la faceva più a passare da una prigione a un centro di recupero. Denunce, verbali, carabinieri, polizia. Piccoli furti per racimolare qualche soldo per la dose, e dopo la dose daccapo coi furti, e via così per settimane, mesi, anni. Non ne faranno un santino, ma certo non meritava di diventare un fascicolo per omicidio colposo sul tavolo di un magistrato. Tocca a Stefano D’Arma, pm di Viterbo, e forse tra poco a un suo collega di Roma dove potrebbe essere trasferita l’inchiesta, cercare di capire come e perché è morto Cristian De Cupis. A cominciare da quella mattina di un mese fa, il 9 novembre, all’incontro tra Cristian e gli agenti della Polfer al binario 10. Sono le 7.45, Termini brulica di pendolari e studenti. “Esco per lasciare un po’ di curriculum”, aveva detto uscendo di casa alla Garbatella, dove viveva da sempre con la zia e la nonna. Sperava in un lavoro nuovo e in una vita nuova, dopo aver pagato l’ultimo conto con la legge. Quello che è successo da lì in poi, però, al momento è tutto scritto in un verbale della Polfer. E in quelle poche pagine, più dubbi che certezze. I tre poliziotti che lo hanno arrestato raccontano che stavano assistendo una persona colta da malore, quando De Cupis ha preso ad apostrofare uno di loro, minacciando lui e i suoi colleghi. Lo avrebbe colpito con un pugno e poi strattonato per il cinturone, prima di essere immobilizzato e caricato di peso sul veicolo elettrico. La scena non dura molto, dieci minuti o poco più, e passa inosservata, tra la gente che arriva, tolto l’avvocato che è l’unico testimone oculare. Fatto sta che alle otto Cristian è già negli uffici della Polfer. Ci rimarrà sei ore, fino alle 14: un tempo notevole, anche per un arresto a seguito di “resistenza a pubblico ufficiale, lesioni e danneggiamento aggravato”. Soprattutto, un tempo vuoto, perché nessuno sa cosa sia successo là dentro e perché Cristian ci sia rimasto ben oltre la stesura del verbale, fatta alle 11. Su quei fogli, gli agenti annotano anche atti di autolesionismo da parte di De Cupis che tra l’altro, scrivono, “danneggia le manette sbattendole al muro”. Verso le 14 lo portano via con l’ambulanza, equipaggio 803, una volante al seguito, con direzione policlinico Umberto I. Dove, però, non lo prendono, nonostante passi oltre un’ora prima che entri al Santo Spirito: perché non resta al Policlinico? E che fa prima di essere condotto altrove? Forse c’entra la sua sieropositività? Gli ospedali che hanno reparti per infettivi, a Roma, sono appunto l’Umberto I, il Gemelli, lo Spallanzani, poi come carceri c’è Rebibbia, che ha un reparto ad hoc, e Regina Coeli, attrezzata alla meglio. Cristian aveva fatto un check-up due giorni prima allo Spallanzani, dove era sotto controllo medico, ed era tutto a posto. Pesava 86 chili e voleva mettersi a dieta: più che florido, per uno con quei problemi. Inoltre, per la legge 135/90, “l’accertata infezione da Hiv non può costituire motivo di discriminazione”. Significa che De Cupis, per le sue condizioni cliniche, aveva diritto ad essere accolto e ricoverato ovunque, a Roma: invece è finito addirittura a Viterbo. Fatto sta che entra al pronto soccorso del Santo Spirito alle 15.15 (ed esce alle 18.52), con lesioni alla spalla e all’emitorace sinistro, oltre che al bacino e al cuoio capelluto. Racconta di essere stato percosso e i medici descrivono almeno tre episodi di “amnesia post traumatica” connessi a perdita di memoria. Gli fanno Tac, ecografia e raggi X, ma è tutto negativo: certo, per un codice verde è un bel po’ di roba, un trattamento di lusso vien quasi da dire. Negative anche le risposte a cocaina, cannabis e anfetamine. Cristian è positivo alle benzodiazemine e gli viene prescritto il Rivotril in gocce. Sul referto viene scritto che è in trattamento con metadone, ma la famiglia smentisce e nemmeno al Sert, a quanto pare, risulta. Lo ricoverano in medicina generale, dove rimarrà per un giorno, prima di essere trasferito al Belcolle, nella struttura di medicina protetta. Chi ha deciso quel trasloco e perché? E che succede a Cristian in quelle 24 ore? Il suo avvocato di fiducia, Davide Verri, viene avvisato alle 17, ossia 9 ore dopo il fermo sul binario: non è stata certo una comunicazione tempestiva. L’udienza di convalida viene fatta venerdì 11, ma quando il giudice entra in aula Cristian non c’è. Da Viterbo dicono che “non è trasportabile”, eppure la sera prima lo avevano portato via dal Santo Spirito. Chi ha disposto quel trasferimento? E perché? Eppure, perfino per i medici del Belcolle è tutto ok, anche se poi fanno una parziale retromarcia: De Cupis era inquieto e nervoso, altro che uno che fischietta sotto alla doccia prima di mettersi a letto, contento per la prospettiva dei domiciliari. E ai familiari, i medici avrebbero confermato che le percosse ci sono state, e che verosimilmente sono state il motivo del ricovero. Cristian - dicono - muore alle 5 e mezzadi sabato 12 novembre, “morto nel sonno” dicono, ma quando la zia Maria e il fratello Claudio vedono il cadavere, cominciano ad avere qualche dubbio. I tempi dilatati diventano frenetici. Già il lunedì, pur con un fascicolo aperto in Procura, si fa l’esame autoptico. Ci sono i familiari ma non c’è il loro consulente: un’assenza che potrebbe avere un peso. Secondo le prime conclusioni dell’autopsia eseguita da Maria Rosa Aromatario, medico della Sapienza, sul cadavere non c’erano lesioni di organi interni. Però non c’è neppure il motivo per cui Cristian è steso su quel tavolo della morgue, perché “l’arresto cardiaco” è - diciamo - l’effetto meccanico, e non la causa, di ogni decesso. Di certo, le foto scattate con un telefonino non depongono a favore di una morte improvvisa e naturale. E di certo non vengono restituiti la gran parte degli indumenti che Cristian indossava: non c’è traccia della maglietta, della felpa, degli slip e dei calzini. Tornano alla famiglia solo il giubbino, i pantaloni e le scarpe, ossia gli abiti non a contatto con le parti interessate dalle ferite. E restano le domande, molte. La più grande di tutte: cosa è successo a Cristian, 36 anni, tre giorni dopo essere uscito di casa per cercare lavoro? Lettere: la vera notizia sulla “rivolta” nel carcere di Ancona… di Adriano Sofri Il Foglio, 12 dicembre 2011 “Rivolta nel carcere di Ancona. In fiamme alcune celle. I detenuti barricati con delle lamette”. Traduco in italiano. Nelle celle di Ancona si muore di freddo, i detenuti - cui non basta trovarsi ammucchiati gli uni sugli altri per riscaldarsi - hanno dato fuoco alle lenzuola, non avendo altro. “È divampata la rivolta”, dicono ancora le cronache. Le lenzuola bruciano male, non divampano, fanno fumo, e pessimo. Quando si fa una protesta in galera, bisogna prima munirsi di lamette o (dato che le lamette sono spesso vietate) qualcosa di piccolo o affilato, da tenere a portata di mano, o di preferenza sotto la lingua, per ferirsi e sanguinare e così evitare di essere troppo malmenati. La notizia esatta era questa. Lettere: il problema delle carceri? sta anche in una società poco “accogliente” di Luisa Prodi (Presidente Seac) Avvenire, 12 dicembre 2011 Gentile direttore, di fronte al collasso carcerario, l’alternativa amnistia - braccialetto elettronico rappresenta una questione mal posta. Possiamo pensare di percorrere ambedue le ipotesi, che non sono realmente antitetiche. Ma sia l’una che l’altra non sono soluzioni del problema. Anzi, agendo sul sintomo rischiano di far perdere di vista la malattia e quindi di non dare luogo a interventi efficaci. Il carcere è pieno di persone “difficili” perché portatrici di disagio sociale. In carcere ci sono tossicodipendenti, immigrati (quasi sempre privi del permesso di soggiorno), malati psichici, rom, senza dimora. Mandarli fuori con amnistia o con braccialetto può migliorare le condizioni di vita di chi rimane dentro, e in parte anche di chi esce dal carcere, purché abbia un tetto sotto cui ripararsi, un lavoro con cui guadagnarsi il pane, una rete di affetti e di relazioni che possano rendere significativa la vita. E qui viene il punto: in Italia abbiamo varato leggi che, applicando il principio rieducativo della pena, stabilivano che dopo la condanna avesse luogo una serie di attività, dal nome piuttosto grigio di “trattamento”, nel quale al detenuto fosse data la possibilità di costruire qualcosa per il suo futuro (formazione professionale, scuola, rapporti con la famiglia ecc.). La modalità della pena, poi, poteva essere in qualche modo rivisitata nel corso dell’espiazione, prevedendo misure alternative alla detenzione, come la semilibertà, l’affidamento in prova al Servizio sociale e altro. L’uscita dal carcere veniva preparata mediante azioni mirate, “assaggi” di libertà, che hanno dimostrato di essere capaci di abbattere in modo significativo la recidiva. Rendere operative queste leggi negli anni è diventato sempre più difficile, sia perché si sono posti vincoli importanti alla loro applicabilità concreta (basti l’esempio della legge Cirielli sulla recidiva), sia perché gli operatori preposti sono troppo pochi rispetto alla mole di lavoro. Ma il vero problema arriva dalla società cosiddetta “libera”, ancora troppo poco accogliente nei confronti di chi si trova a scontare una pena. Gli enti locali stanno trovando sempre meno fondi per sostenere progetti di reinserimento, anche a causa degli ogni giorno più magri trasferimenti da parte dello Stato. Le cooperative e i privati che davano lavoro ai detenuti hanno visto cessare il finanziamento della Legge Smuraglia che prevedeva sgravi fiscali per questa categoria. C’è bisogno di un ripensamento globale della questione penale, cui la comunità cristiana può contribuire in modo significativo. Emilia Romagna: per le carceri della regione una situazione vicina al tracollo Il Fatto Quotidiano, 12 dicembre 2011 Tra rivolte, suicidi, sovraffollamento e mancanza di risorse economiche i penitenziari di Ferrara, Parma e Bologna sono al collasso. Durante del Sappe: “In regione mancano 650 unità di personale per gestire decentemente il problema” Una settimana fa un maghrebino rinchiuso nel carcere bolognese della Dozza era morto dopo aver inalato del gas dalla bombola per il fornelletto. Il 18 novembre un colombiano, arrestato per narcotraffico, si era impiccato. E ancora, a Reggio Emilia, un paziente si era tolto la vita nell’Opg mentre a Parma, dove è rinchiuso anche il boss di cosa nostra Bernardo Provenzano in regime di 41bis, alcune rivolte avevano anche di recente portato al ferimento di diverse persone. Inoltre è recentissimo il tentato suicidio nel carcere di Ferrara, dove un tunisino ha cercato di farla finita impiccandosi ed è stato salvato in extremis da un agente di turno che ha dato l’allarme. La situazione negli istituti di pena dell’Emilia Romagna, segnalato da tempo dai sindacati, è vicina al tracollo. E a conferma giunge ora un’indagine della Uil penitenziari, in base alla quale la regione si classifica terza per sovraffollamento. Qui, infatti, ci sarebbe il 75,6% dei detenuti in eccesso rispetto al numero di posti previsto. Peggio che in Emilia va solo in Puglia (84%) e nelle Marche (83,9), che si “aggiudicano” il primo e il secondo posto nella graduatoria. A seguire ci sono Friuli (75,1%) e Lombardia (74%). Le percentuali associate a ogni regione sono state individuate partendo dal totale della popolazione carceraria, che a fine 2011 raggiunte quota 68.017 persone (65.121 sono gli uomini mentre 2.896 invece le donne) a fronte di una capienza massima, a livello nazionale di 44.386 detenuti. Il saldo in negativo è dunque di 23.632 reclusi, che fa arrivare la percentuale del sovraffollamento al 53,4%. In base alle singole carceri e non più a livello regionale, la situazione peggiore è quella di Lamezia Terme (183,3%), Brescia Canton Mombello (177,2 ), Busto Arsizio (162,9), Como (150,9) e Ancona Montacuto (145%), dove nei giorni scorsi si è registrata l’ennesima rivolta dei detenuti. Tornando poi su base nazionale, nel 42% dei casi, sono in attesa di una condanna definitiva e per il 36,2% è rappresentato da cittadini stranieri (24.638 in totale, di cui 23.452 uomini e 1186 donne). Esplosiva dunque la situazione, a partire dall’allarme suicidi. Dall’inizio del 2010 sono 61 i reclusi che si sono uccisi e 925 il numero delle persone che ha tentato di farlo. Inoltre in 28 prigioni si sono verificate 40 risse tra arrestati e con gli agenti della polizia penitenziaria sono state 291 con 394 feriti (389 poliziotti, 3 medici e un paramedico). Invece sono 59 le battute collettive (16 a Lecce, 7 a Parma, 5 a Roma Regina Coeli). “In Italia”, ha detto Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe, dopo il tentato suicidio di Ferrara, “mancano 6500 unità di personale (agenti, sovrintendenti, ispettori e commissari) e in Emilia Romagna 650. Ferrara non è esente da tali difficoltà perché solo qui “mancano circa 50 agenti: dei circa 230 previsti ce ne sono circa 170. I detenuti sono 476, a fronte di una capienza di 256 posti. Poche settimane fa l’associazione magistrati ha stanziato 500 euro e li ha donati al carcere perché acquistassero la carta per stampare i fax”. Vicenda, quest’ultima, che era stata raccontata a metà dello scorso ottobre. Per quanto riguarda invece il carcere bolognese della Dozza, lo psichiatra Vito Totire, portavoce circolo Chico Mendes, aveva già dichiarato nei giorni scorsi che si tratta di “una struttura inagibile dal punto di vista igienico sanitario” anche alla luce dei 1050 detenuti circa mentre ce ne staserebbero meno della metà, 502. Un terzo dei reclusi a Bologna soffre di problemi di tossicodipendenza (probabile ragione della morte della settimana scorsa), mentre la carenza di agenti ha ormai raggiunto quota 200 persone. Parma: detenuti bruciano lenzuola per protesta, un agente intossicato Agi, 12 dicembre 2011 Dopo la rivolta avvenuta nel carcere di Ancona, sabato sera, verso le 20.30, è scoppiata una violenta protesta in un reparto del carcere di Parma. Lo dice Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe, il sindacato autonomo polizia penitenziaria, che aggiunge: “I detenuti hanno gettato nei corridoi bombolette di gas, bastoni, scope e generi alimentari, poi hanno dato fuoco alle lenzuola, creando una grossa nuvola di fumo, tanto da intossicare l’agente della polizia penitenziaria in servizio nella sezione detentiva. L’agente, dopo essere stato visitato dai medici, ha avuto una prognosi di 15 giorni. Successivamente, grazie alla professionalità del personale di polizia penitenziaria tutto è tornato nella normalità”. Durante rileva: “Temiamo che le proteste possano estendersi in altri istituti del Paese, dove ormai diventa difficile gestire la situazione, a causa delle gravi difficoltà operative, dovute alla carenza di personale di polizia penitenziaria ed al sovraffollamento dei detenuti. In Italia ci sono 68047 detenuti, a fronte di una capienza di 45636 posti. L’Emilia Romagna è una delle regioni più affollate d’Italia, con una percentuale di oltre il 180%: i detenuti presenti sono 4041, a fronte di una capienza di 2394 posti. In Italia mancano 6500 unità di personale (agenti, sovrintendenti, ispettori, commissari), in Emilia Romagna ne mancano 650. Parma non è esente da questa drammatica situazione: mancano 170 unità di personale, in un carcere dove bisogna gestire oltre 50 detenuti sottoposti al regime del 41 bis. Ci sono molte persone detenute nel circuito di massima sicurezza, paraplegici, tossicodipendenti e detenuti comuni. Si tratta di una delle strutture più complesse d’Italia”. Sel, Verdi e Idv intervengono sulla rivolta in via Burla La rivolta nel carcere di Parma di ieri sera richiama immediatamente l’attenzione sulle condizioni in cui versano le carceri in Italia. Il carcere di Parma che è un carcere difficile in cui convivono detenuti in regimi di detenzione particolare, come il 41 bis e detenuti per reati comuni, è sovraffollato, con mancanza cronica di personale di sorveglianza e di operatori sociali, con strutture che per quanto moderne, versano in condizioni di degrado con pochissimi spazi comuni per la socialità. È facile che in situazioni come queste possano sorgere richieste e proteste per il miglioramento delle condizioni di vita all’interno della struttura. “Al di là dei facili proclami delle destre, contro la presenza nella carceri della nostra regione di detenuti stranieri, dato fra l’altro in assoluta controtendenza rispetto al resto dell’Europa, - dicono Hassan Bassi e Federica Barbacini portavoce dei Verdi e Sel - vi è la necessità e l’urgenza di riforme vere ed immediate per contrastare il sovraffollamento ed elevare gli standard di tutela dei diritti umani nelle carceri. È necessario favorire l’utilizzo della detenzione domiciliare, la riduzione della custodia cautelare, l’affidamento in prova, percorsi di cura per i tossicodipendenti, percorsi di inserimento socio-lavorativo; l’investimento nelle pene alternative alla detenzione permette non solo di ridurre la recidiva,di aumentare la sicurezza, di alleggerire il carico delle strutture carcerarie, ma anche di risparmiare denaro pubblico trasformando costi in benefici. Tutte le istituzioni del territorio sono chiamate a fare il massimo per contribuire all’attivazione di percorsi virtuosi di avviamento al lavoro e di reinserimento sociale per detenuti. “ Ci pare chiaro quale sia stato il mandato che il passato governo ha dato alle nostre forze dell’ordine, attraverso la redazione di leggi fanatiche e retrograde che hanno riempito le nostre carceri , con spreco di energie e denaro alla ricerca di una condanna mediatica delle fasce più deboli della popolazione. I risultati sono stati il peggioramento significativo delle condizioni di vita dei detenuti e delle condizioni di lavoro per il Corpo di Polizia Penitenziaria che continua ad operare in condizioni difficilissime. “Ancora una volta siamo costretti ad apprendere notizie sulla criticità di una struttura carceraria messa in ginocchio dalle gravi carenze strutturali e dalla solita mancanza di personale.” Con queste parole la Coordinatrice di Parma Paola Zilli, interviene in merito a quanto accaduto la scorsa notte al carcere di Parma dove alcuni detenuti hanno gettato nei corridoi bombolette di gas, bastoni, scope e generi alimentari e poi hanno dato fuoco alle lenzuola, creando una grossa nuvola di fumo. “ Un fatto molto grave - prosegue la Zilli - che ha messo a rischio la vita di un agente in servizio nella sezione cui è stata riscontrata una intossicazione. Oltre ad evidenziare il grave problema del sovraffollamento carcerario, l’Italia dei valori esprime solidarietà nei confronti dell’agente colpito e del personale addetto ai penitenziario. In Emilia-Romagna, come sappiamo - ha concluso la Zilli - ne mancano 650 di cui 170 sono le unità che mancano a Parma. Una situazione particolarmente difficile e delicata considerando che in quel carcere sono detenuti oltre 50 detenuti sottoposti al regime del 41 bis. In tale situazione, non è pensabile una simile carenza di personale e di agenti che sono costretti a gestire un carcere sovraffollato e, alla luce di quanto accaduto, insicuro.” Cisl: fino a quando la fortuna continuerà ad assisterci? Questa la lettera aperta al ministro della Giustizia diffusa dalla Federazione Nazionale della Sicurezza della Cisl in merito alla rivolta dei detenuti nel carcere di Parma: “Anche stavolta ce la siamo cavata… (per modo di dire): un solo agente ha subito un’intossicazione da fumo guaribile in 15 giorni e la protesta dei detenuti presso il carcere di Parma che hanno gettato di tutto nei corridoi per poi dare fuoco alle lenzuola, creando una grossa nuvola di fumo che si è estesa in tutta la sezione, è stata sedata senza ulteriori conseguenze. Ci chiediamo però fino a quando la fortuna continuerà ad assisterci e perché non si possa intervenire prima che tali episodi si manifestino. I problemi delle carceri italiane sono noti e riferibili innanzitutto al sovraffollamento (68.047 detenuti, a fronte di una capienza di 45.636 posti) ed alla carenza di personale di polizia penitenziaria. Le soluzioni sono altrettanto conosciute ma chissà perché non perseguite con determinazione. Ad esempio, per attenuare il sovraffollamento si potrebbe rafforzare lo strumento delle espulsioni dei detenuti extracomunitari, facendogli scontare la pena nei paesi d’appartenenza, far permanere gli arrestati nelle celle di sicurezza fino all’udienza preliminare ove si decide del loro eventuale ingresso in carcere, incrementare i circuiti alternativi alla detenzione, e così via. Per ridurre il problema della carenza d’organico, oltre all’adozione di un piano per l’assunzione di un’aliquota di personale adeguata, si dovrebbe finalmente investire sulle assunzioni regionali, anziché illudere il personale circa la possibilità di fare ritorno presso la propria regione d’origine e/o alimentare logiche poco chiare e, per arginare i prepensionamenti e i passaggi a ruolo civile, riconoscere la specificità della professione, dare seguito alle previsioni contrattuali, garantendo i diritti soggettivi ad oggi costantemente negati, cancellare la mannaia del blocco di scatti ed automatismi contrattuali che ha ridotto le buste paga del personale in divisa, più che per tutti gli altri dipendenti del pubblico impiego, assicurare il rispetto delle norme sulla sicurezza dei luoghi di lavoro, anch’esse mai applicate nella stragrande maggioranza delle carceri italiane, garantire dignitose sistemazioni alloggiative e idoneo sostegno psicologico al personale in servizio, ecc., ecc. Ma degli Istituti di Pena ci si ricorda solo quando ci sono eventi che balzano agli onori della cronaca o quando, per affrontare emergenze contingenti, si devono spostare detenuti da un carcere all’altro. Ed allora ci si trova di fronte a scelte cervellotiche che impongono di incrementare la capienza detentiva di un Istituto, in assenza, o quasi, di un adeguamento dell’organico, laddove già non è possibile garantire il rispetto dei diritti previsti dal Ccnl agli uomini in divisa o di creare strani circuiti detentivi, distinti per colore, ipotizzando una sorta di mondo dei sogni ispirato al superamento del criterio di perimetrazione della vita penitenziaria all’interno della camera di pernottamento, senza nessun confronto con chi quotidianamente opera in prima linea, né alcuna aderenza alla realtà, ovvero alla drammaticità della situazione strutturale e logistica di gran parte delle carceri italiane. E così, a Parma ci viene chiesto di accogliere ulteriori 80 detenuti riaprendo sezioni chiuse per mancanza di personale, ma non si danno risposte alle richieste ripetute da anni, quali quelle di inviare personale del Gom per la gestione dei detenuti 41/bis, di omogeneizzare i reparti detentivi, in special modo nelle sezioni miste (protetti/comuni, AS1/AS3), di liberare sezioni quali il transito e l’accettazione per poterle utilizzare come in origine, e cioè per la gestione di detenuti nuovi giunti sia dal punto di vista trattamentale che sanitario”. Parma: detenuto si uccise in cella con il gas, i famigliari chiedono 2 milioni € al ministero di Georgia Azzali Gazzetta di Parma, 12 dicembre 2011 Si era ucciso inalando la “piccola neve”. Lo chiamano così in carcere, il butano delle bombolette sistemate nelle celle, per il piccolo sballo che può dare. Ma con quel gas si cerca spesso la morte, come aveva fatto S.T., l’8 dicembre di sei anni fa in via Burla. E ora per quel suicidio il pm Roberta Licci ha chiesto il rinvio a giudizio dell’allora direttore, Silvio Di Gregorio, dell’ex comandante della polizia penitenziaria dell’istituto, Augusto Zaccariello, e del responsabile sanitario del carcere, Michele Serventi. Per tutti l’accusa è di omicidio colposo. Ma a rispondere, in caso di condanna, potrebbe essere chiamato anche il ministero della Giustizia: il gup Alessandro Conti, su richiesta della madre, della sorella e dei due fratelli di S.T., che si sono costituiti parte civile, lo ha infatti citato come responsabile civile per l’udienza di mercoledì prossimo. I familiari dell’uomo hanno chiesto complessivamente 2 milioni di euro come risarcimento per i danni morali subiti. Ma, al di là dell’entità della cifra che sarà poi stabilita in sede di giudizio, se si arriverà a una condanna, il ministero sarà chiamato a pagare in solido con gli imputati. Una storia processuale ancora tutta da scrivere, comunque. Anche altri due poliziotti della penitenziaria in servizio in via Burla erano stati iscritti nel registro degli indagati, ma alla fine dell’inchiesta il pm ha chiesto di archiviare la loro posizione. Mentre, per l’accusa, rimarrebbero le “colpe” dell’ex direttore, del commissario Zaccariello e del medico. S.T. era infatti gravemente depresso, ma i tre avrebbero “omesso di predisporre e attuare un’effettiva sorveglianza”. Nella richiesta di rinvio a giudizio il pm sottolinea che già due mesi prima del suicidio, le condizioni dell’uomo erano tali da aver imposto “l’attuazione da parte del personale corpo di polizia penitenziaria della massima sorveglianza onde poter prevenire l’eventuale messa in atto di gesti autolesionistici e/o auto soppressivi”. Due giorni dopo quella relazione, infatti, il direttore invitò il medico a valutare l’ipotesi di ritirare gli oggetti “pericolosi” presenti in cella. A distanza di 48 ore anche Zaccariello ribadì quel provvedimento. Sei giorni dopo, inoltre, Di Gregorio dispose ancora la “grande sorveglianza” e chiese agli operatori, di fronte anche al minimo sospetto che S.T. potesse farsi del male, di far sparire dalla cella gli oggetti a rischio. Però, nulla cambiò tra quelle sbarre. Le disposizioni erano state date, eppure tutto rimase come prima. In particolare, il fornelletto a gas restò al suo posto. Ma quali sarebbero le responsabilità dei tre imputati? Il dirigente sanitario, secondo l’accusa, avrebbe omesso di far effettivamente ritirare gli oggetti dalla cella, mentre sia Di Gregorio che Zaccariello, oltre a non imporre quel provvedimento, non avrebbero verificato “l’efficacia delle disposizioni assunte e le modalità d’attuazione delle direttive emanate dal 2 novembre 2005”. Da parte di tutti e tre, dunque, ci sarebbe stata una sottovalutazione dei problemi di S.T., considerando anche - si legge sempre nella richiesta di rinvio a giudizio - che l’uomo aveva già tentato il suicidio in altre carceri, in un caso sempre inalando gas dal fornelletto. Accuse di negligenza, imprudenza e imperizia che le difese dei tre imputati respingono, ritenendo di aver agito in base ai regolamenti previsti e considerando le condizioni psico-fisiche dell’uomo. Nel frattempo Di Gregorio è stato promosso a direttore dell’Ufficio nazionale del personale del Corpo di polizia penitenziaria e Zaccariello da alcuni mesi ha ottenuto un prestigioso incarico sempre nel Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Tutti e due, però, insieme al dirigente medico, rischiano il processo. Mentre il ministero della Giustizia, come è già avvenuto in alcuni casi di morti in carcere, potrebbe essere costretto a contribuire al risarcimento dei familiari. Ancona: l’associazione Antigone visita Montacuto; la contestazione passa ma i problemi restano Corriere Adriatico, 12 dicembre 2011 Sabato mattina una delegazione composta dal presidente di Antigone Marche, Samuele Animali, dal consigliere regionale di Sel, Massimo Binci, e dal deputato Pd, Oriano Giovannelli, si è recata in visita presso la casa circondariale di Ancona Montacuto, per monitorare la situazione in istituto dopo le notizie circolate in merito ad una rivolta scoppiata nei giorni scorsi. Si è riscontrata una situazione di relativa tranquillità sia per quanto riguarda i detenuti che per quanto riguarda gli operatori penitenziari. Ieri sera, d’altra parte si era già diffusa la notizia che i disordini si erano conclusi. Oggi la delegazione ha constatato che, salvi gli atti di autolesionismo dei quali si era già accennato nei giorni scorsi sui giornali, non sono stati registrati ferimenti né a danno degli agenti di polizia penitenziaria, né a danno dei detenuti implicati e che non si sono verificati danneggiamenti evidenti alla struttura. A fronte di questo esito della protesta, l’associazione Antigone chiede anzitutto massima attenzione nella applicazione del provvedimento di allontanamento già disposto dal Dap per i detenuti coinvolti, ricordando che in nessuna norma di legge il trasferimento è elencato tra le possibili sanzioni disciplinari, che sono altre e previste tassativamente dal legislatore. Chiede altresì che venga fatto ogni sforzo per non compromettere i loro rapporti con la famiglia ed il territorio. Vale la pena ribadire la drammaticità delle condizioni di detenzione del carcere di Ancona e del resto delle Marche dove al 30 novembre 2011, nei 7istituti di pena, a fronte di una capienza di 775 detenuti, ne erano ospitati ben 1.201, e Montacuto, con i suoi 440 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 172, risultava il quarto istituto d’Italia per sovraffollamento e caratterizzato da diversi problemi strutturali e di manutenzione, con le pareti ricoperte di muffa e scrostate, il riscaldamento e l’acqua calda spesso non funzionanti, i camminamenti per lo più scoperti e totalmente esposti al sole nei periodi estivi e alle intemperie in quelli invernali. Ancona: dopo la rivolta dei detenuti, la testimonianza di un operatore della Polizia Penitenziaria Corriere Adriatico, 12 dicembre 2011 Sono scoppiati commenti dopo la rivolta in carcere. Ma siccome un conto sono i numeri, un altro il dramma vissuto in diretta, ecco il racconto di Luca, nome di fantasia di un assistente capo di polizia penitenziaria al carcere di Montacuto. “Prima o poi doveva succedere, una sezione dove fino a tre anni fa c’erano 48 detenuti, ce ne sono 80, quasi il doppio. Tre in celle da due, a volte quattro. Sembrano loculi, il letto a castello è per tre, sopra c’è il soffitto. il quarto dorme per terra. Dove si mangia rancio e polvere. “Gli sgabelli non bastano, allora apparecchiano sul materasso estratto dalle brande, seduti per terra come i giapponesi”. Le docce? “Prima le facevano tutti i giorni, adesso a giorni alterni, e la caldaia ogni tanto salta, il riscaldamento non funziona. L’amministrazione ci ha provato, non c’è riuscita”. I poliziotti invece riescono a riportare alla calma i detenuti esasperati. “Capita che si prendano a pugni solo perché sparisce un pacchetto di sigarette, noi li teniamo buoni”. E succede di raccogliere cadaveri: quattro decessi in due anni. “Se un tossico che fa uso di farmaci non rispetta la terapia... A volte si passano le pillole, le accumulano per scambiarle con gli altri detenuti, fingono di bere e risputano la pasticca nel bicchiere. Noi controlliamo ma non possiamo arrivare dappertutto”. Non c’è più alcol per fortuna. “Prima con vino a medicinali, soprattutto coi magrebini era una mazzata”. A proposito. “Sono tantissimi i nordafricani, poi ci sono gli albanesi”. Stranieri in maggioranza. Due anni fa l’altra protesta clamorosa. “Era agosto. Funziona così… guardano la tv, c’è un parlamentare che propone qualcosa che li riguarda, loro iniziano a battere i piatti contro celle e finestre e urlare “amnistia e libertà”. È dura con l’organico ridotto all’osso. “Siamo pochissimi: 121 su 198. Ma ogni turno siamo in 50, e 18 distaccati a Barcaglione e in altre sedi”. Fiatone, ma niente paura. “Ho firmato da agente penitenziario faccio il mio lavoro. Dovrei fare 6 ore, sono sempre 8, anche 10”. Si rischia di saltare i congedi. E pure qualche sganassone. “Qualche aggressione l’abbiamo subita, un collega è stato preso a pugni”. E va bene che “poi certe questioni si regolano tra reclusi, sanno che devono lasciarci in pace perché è meglio per loro”. Sotto la divisa batte un cuore che spinge ad appoggiare il manganello, e allungare una mano pietosa. “Non siamo al campo di concentramento, chiudiamo un occhio. Se un detenuto si sente male chiamiamo subito un dottore e insistiamo che arrivi al più presto. Ma manca personale”. Le scene dall’inferno di Montacuto. “Giovedì sera un magrebino si è cucito la bocca perché era freddo, il giorno dopo lo ha fatto un compagno di cella. Poi con le bombolette a gas hanno incendiato magliette e materassi e la sezione con 80 detenuti si è riempita di fumo. Cercavano di non farci avvicinare con le lamette, ma così distruggevano il carcere”. Un attimo di pausa. “Hanno esagerato, sono stati separati”. Impossibile metterli in isolamento. “Non esiste più l’isolamento nel carcere. Non c’è spazio”. Fin qui la testimonianza, più efficace del gran commentare, eccessivo per la direttrice del carcere Santa Lebboroni. “È un allarme inadeguato rispetto a quello che è successo, che capita in tutti gli istituti di pena”. Firenze: lettera “aperta” dei detenuti del carcere di Sollicciano al Consiglio Comunale www.firenzetoday.it, 12 dicembre 2011 Per il garante Franco Corleone: “Condizione di invivibilità assoluta”. Il giudizio in Consiglio comunale durante la relazione 2010 sulla situazione del carcere fiorentino. Carcere di Sollicciano: capienza regolare 470 detenuti circa, attualmente, al 12 dicembre 2011, sono 1056 i carcerati dentro la struttura; 586 teste in sovrannumero, ben oltre il 100%. Parlare di numeri oltre il consentito avrebbe un sapore troppo dolce. Piaga, ferita, inciviltà, aderiscono perfettamente all’attuale realtà atematica. Per Franco Corleone, il garante dei detenuti del Comune di Firenze, questi numeri e percentuali significano una cosa sola: “Vogliono dire una condizione di invivibilità assoluta”, ha pronunciato quest’oggi in Consiglio comunale presentando la relazione 2010 sul carcere fiorentino. Invivibilità a Firenze ed in altre carceri italiani. Problema diffuso, a macchia d’olio, tra sovraffollamento di massa, l’assenza di fondi e strutture fatiscenti. Da nord a sud il quadro non cambia. “Due giorni fa - ha continuato Corleone - c’è stata la protesta nel carcere di Ancona, ieri a Parma: temo che l’incendio possa dilagare. Per evitare questo servono di scelte politiche, del Governo, dell’amministrazione penitenziaria e, assieme, da Regione, Provincia e Comune di Firenze”. Per questo la necessità di un “un tavolo Stato-Regioni per affrontare questo problema: bisogna investire sulle persone e non nella costruzione di nuove carceri”. Tra i problemi segnalati dal garante uno su tutti, decisivo, la presenza dei tossicodipendenti nelle carceri toscane: “Non devono stare in carcere, ma in comunità e centri. In Toscana sono 1500 su un totale di 4500 detenuti. E inoltre sono troppi quelli in carcerazione preventiva. Affrontare e risolvere questi due aspetti vorrebbe dire non stare più qui a parlare di sovraffollamento”. “A Firenze - ha detto ancora Corleone - bisogna anche trovare, in città, una struttura poco carceraria per i detenuti semiliberi”. Per il garante, infine, “sarebbe un segno importante la chiusura degli Opg, a cominciare da Montelupo”. Alla fine della relazione il presidente del Consiglio Comunale Eugenio Giani ha letto la lettera scritta dai detenuti e dalle detenute di Sollicciano. Di seguito il testo: “Egregio Sindaco, Spettabile Consiglio Comunale, con la presente cogliamo l’occasione per partecipare anche noi a questo Consiglio che prevede l’audizione del Garante dei Detenuti Dott. Corleone. Gli argomenti che vorremmo sottoporvi sarebbero infiniti: è così raro far sentire le nostre considerazioni in ambito pubblico. Tuttavia ci limiteremo a quelle essenziali: per noi ma anche per la società civile che voi rappresentate e che prima o poi ci rivedrà presenti in essa. Il sovraffollamento è cronico: senza troppe parole, numeri: su una capienza di 400 posti, siamo in 1.100. Scusate la brutalità: un suino ha diritto in allevamento a 6,2 metri quadri a capo, noi ne abbiamo 2,6. Essere tanti vorrebbe dire avere a disposizione molto personale del Ministero, prima di tutto guardie carcerarie. Senza di loro noi non possiamo frequentare tutto ciò che serve al nostro reinserimento nella società che è lo scopo primario della detenzione: la nostra rieducazione ai valori di convivenza e civiltà. Le guardie sono sempre presenti per i nostri spostamenti dentro e fuori del carcere, per i vari corsi scolastici, per le diverse attività lavorative, alle visite mediche interne ed esterne. Tutto questo si rallenta, si dilata, insieme ai tempi di consegna della posta e dei pacchi; la cucine devono, con le stesse strutture per 400 persone, cucinare per 1.100 per tre volte al giorno. Tutto diventa difficile, rarefatto, facendoci vivere i giorni, i mesi e gli anni in un’Italia borbonica. È questa la nostra rieducazione? O è affidata solo alla buona volontà dei nostri educatori, troppo pochi, pochissimi, a volte unico baluardo davanti ad un mare di richieste fondamentali per la nostra vita in carcere e futura, ma che si trasformano in inaccessibili. Le Associazioni di volontariato, che ringraziamo per l’impegno, non ce la faranno mai ad assolvere tutte le nostre richieste: siamo tanti e non veniamo da realtà semplici. Una soluzione migliorativa c’è, come sostenuto e proposto dal Garante Dott. Corleone: fare anche di Sollicciano un carcere di sperimentazione, senza aspettare leggi “svuota carceri”, ma con azioni concrete: 1. I tossicodipendenti: accoglierli in comunità di recupero che sono preposte a ciò. Qui imparano ben poco e rientrano in società con lo stesso stato d’animo con il quale sono stati espulsi. Un dialogo fra Regione e Ministero potrebbe portare al raggiungimento di questo obiettivo. 2. Ultimo anno di detenzione: maggiore applicazione legge 199 per i domiciliari. 3. C’è l’esigenza di rivedere alcune leggi come la Cirielli, quella sulla tossicodipendenza e sugli immigrati: abbiamo amici di cella che neanche hanno fatto in tempo a vedere una città italiana che conoscono Sollicciano. È invece importante la piena applicazione della Gozzini. 4. Sollecitiamo il rifinanziamento della Legge Smuraglia per la nostra assunzione con sgravi fiscali per le aziende. D’altro canto invitiamo le Amministrazioni pubbliche a fare gare rivolte alle cooperative sociali, nel rispetto della Legge 381. Tutto ciò che affermiamo lo avete potuto accertare attraverso la Vostra presenza, qui a Sollicciano. L’impegno attuale degli Assessorati alla Sicurezza sociale del Comune e della Provincia saranno ridotti a causa dei tagli agli Enti Locali. E allora, quali prospettive per noi? O si attivano degli strumenti o buttate via le chiavi. Infine Sig. Sindaco oltre ad invitarla di nuovo con il Consiglio a Sollicciano, Le chiediamo di impegnarsi a portare all’attenzione del nuovo Ministro di Giustizia Dott.ssa Paola Severino queste nostre proposte di “cambiamento”. Firenze: Odg della Commissione pace contro il sovraffollamento e per la tutela dei diritti umani www.firenzetoday.it, 12 dicembre 2011 La presidente Agostini: “Le parole del Presidente Napolitano sulla condizione carceraria siano la nostra guida”. “Azioni di immediato contrasto al sovraffollamento tese ad elevare gli standard di tutela dei diritti umani nelle carceri da parte del Governo Italiano per gli Istituti di pena fiorentini: una rapida ed efficace iniziativa riformatrice che si distingua per ripristinare il rapporto numero dei detenuti/ numero di personale necessario sia per vigilare che per agevolare la rieducazione alla pena e il diritto alla salute, per gli adulti e per i bambini reclusi con le famiglie”. Questo l’impegno contenuto nell’ordine del giorno predisposto dalla commissione Pace e approvato oggi in Consiglio comunale. Con l’atto i consiglieri dichiarano “la propria solidarietà umana alle persone detenute, a gli agenti di polizia penitenziaria, ai lavoratori ed i volontari che operano nelle tre sedi carcerarie che hanno sede a Firenze” La presidente Susanna Agostini ha ricordato la dichiarazione fatta dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che in merito alla condizione carceraria, testualmente afferma: “ troppo spesso appare distante dal dettato costituzionale sulla funzione rieducativa della pena e sul rispetto dei diritti e della dignità delle persone”. Si allega l’ordine del giorno Odg collegato alla Relazione al Consiglio Comunale sulla attività del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale nel Comune di Firenze detenuti, Franco Corleone. Il Consiglio Comunale, vista la dichiarazione recentemente fatta dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che in merito alla condizione carceraria, testualmente afferma: “ troppo spesso appare distante dal dettato costituzionale sulla funzione rieducativa della pena e sul rispetto dei diritti e della dignità delle persone”; dichiarazione che, riferita alla questione emergenza carceri, suona come un monito di grave inadempienza al rispetto dei diritti umani; Visto altresì che l’attuale Governo fin dall’insediamento si è pronunciato in merito alla volontà specifica di attuare “riforme strutturali” ed interventi “molto articolati e duraturi” per affrontare complessivamente la questione del sovraffollamento delle carceri Italiane, che crea condizioni di vita insostenibili,. sottolineando la necessità di interventi che vadano a toccare le strutture portanti del sistema carcerario con provvedimenti che vadano in profondità e a lungo termine e cercando quelle soluzioni che riescano a contemplare tutti gli elementi in causa; Constatato, anche a seguito dell’esposizione dei contenuti della Relazione dell’anno 2010, oggetto dell’odierno dibattito, l’aggravarsi della situazione carceraria fiorentina in tutti e tre i presidi carcerari del territorio di nostra competenze: Complesso penitenziario di Sollicciano, Istituto Mario Gozzini, Istituto Minorile Giampaolo Meucci; Ricordati gli atti votati unanimemente n. 485/2009, 360/2011, e il Consiglio Comunale svolto nel Carcere di Sollicciano in data 14/3 c.a, con i quali venivano ribadite le necessità impellenti per garantire una sostenibilità igienico ambientale e sanitaria alle sedi carcerarie e una qualità della vita all’interno dell’organizzazione quotidiana delle attività; atti dei quali chiediamo oggi lo stato di attuazione; Considerato che recentemente a Firenze ha aperto la propria sede il Robert F: Kennedy Europe Training Institute, centro di formazione riconosciuto a livello internazionale per essere all’avanguardia per gli studi relativi ai Diritti Umani. Da uno scambio di opinioni con i rappresentanti responsabili di questo Istituto, abbiamo avuto l’opportunità di condividere la necessità di attivarci anche congiuntamente, proprio sul tema dei diritti delle persone costrette e a garanzia anche di impellenti proposte per riforme atte a trasformare l’attuale organizzazione/condizione carceraria; Impegna l’amministrazione comunale Ad adoperarsi perché vengano messe in atto azioni di immediato contrasto al sovraffollamento tese ad elevare gli standard di tutela dei diritti umani nelle carceri da parte del Governo Italiano per gli Istituti di pena fiorentini: una rapida ed efficace iniziativa riformatrice che si distingua per ripristinare il rapporto numero dei detenuti/numero di personale necessario sia per vigilare che per agevolare la rieducazione alla pena e il diritto alla salute, per gli adulti e per i bambini reclusi con le famiglie. Dichiara la propria solidarietà umana alle persone detenute, a gli agenti di polizia penitenziaria, ai lavoratori ed i volontari che operano nelle tre sedi carcerarie che hanno sede a Firenze. Catania: l’On. Fleres presenta denuncia contro il sovraffollamento al Magistrato di Sorveglianza Ristretti Orizzonti, 12 dicembre 2011 Il Garante dei diritti dei detenuti della Regione siciliana, sen. Salvo Fleres e l’Associazione nazionale forense di Catania, nella persona dell’avv. Vito Pirrone, denunciano al Magistrato di sorveglianza del capoluogo etneo le condizioni di sovraffollamento del carcere di Piazza Lanza di Catania e chiedono un risarcimento per i reclusi interessati. Il Sen. Salvo Fleres, Garante per i diritti dei detenuti per la Regione Siciliana, e Coordinatore nazionale dei Garanti, con l’avv. Vito Pirrone, Presidente dell’Associazione Nazionale Forense, sede distrettuale di Catania, in esecuzione di un apposito protocollo d’intesa tra le parti, hanno presentato al Magistrato di Sorveglianza di Catania un ricorso con il quale evidenziano lo stato di detenzione inumana e degradante cui sono sottoposti i detenuti ristretti presso la Casa Circondariale di Catania - Piazza Lanza. I ricorrenti evidenziano che l’istituto di Catania, attualmente, ha un indice di sovraffollamento almeno del 135 % della capienza massima disponibile, che in ogni cella sono collocati otto, dieci, dodici detenuti, che ogni detenuto, talvolta, ha meno di 2 mq. a propria disposizione ed è costretto a trascorrere circa ventidue ore all’interno di una cella, nella quale non si può stare in piedi tutti insieme, per mancanza di spazio. Il bagno all’interno della cella non è dotato di acqua calda e l’impianto di riscaldamento frequentemente non viene attivato. Sono disattese le espresse previsioni degli artt. 5 e 6 legge 26 luglio 1975 n.354, delle Convenzioni internazionali e costantemente ribaditi dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Premesso che la reclusione comporta la privazione della libertà, ma non della dignità e dei diritti umani minimi, i ricorrenti eccepiscono la violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e qualificano la situazione esposta come “trattamento degradante, generato dal massiccio sovraffollamento” tale da integrare la tortura, o il trattamento inumano (v. recente decisione del Magistrato di Sorveglianza di Lecce). La Corte europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo, con una decisione del luglio 2009, ribadendo il criterio stabilito dal Comitato Permanente contro la Tortura, ha ritenuto sussistere il trattamento inumano e degradante in una detenzione che non garantisca la collocazione in celle che abbiano uno spazio minimo destinato ad ogni recluso di 7 mq, 4 mq ciascuno, nel caso di più reclusi. Il Sen. Fleres e l’avv. Pirrone, con il loro ricorso, ritengono la competenza del Magistrato di Sorveglianza a valutare la situazione proposta in virtù di una decisione della Corte costituzionale, ribadita da diverse pronunce della Corte di Cassazione, che prevedono una tutela giurisdizionale degli atti dell’amministrazione penitenziaria lesivi dei diritti di coloro che sono sottoposti a restrizione della libertà personale. Con il ricorso, si chiede che il Giudice accerti che, a causa del sovraffollamento, le celle mancano dei requisiti minimi di vivibilità per spazio e condizioni igieniche; in esito a questo disponga il ripristino delle condizioni di legalità e conseguentemente, a titolo di risarcimento, liquidi un indennizzo per detenuto. Nei prossimi giorni, analoga iniziativa sarà intrapresa per le altre strutture carcerarie che presentano problematiche simili. Il Garante Sen. Dott. Salvo Fleres Milano: nel carcere di San Vittore, a rischio il servizio di psichiatria Corriere della Sera, 12 dicembre 2011 Già è difficile, per un detenuto senza altre pene da scontare se non la propria, cercarsi una via di reinserimento quando esce: il che sarebbe ogni volta - ricordiamolo perché non guasta - non solo un bene per lui, ma un punto in più di sicurezza per la società. Figurarsi la fatica per quei detenuti (tanti) col carico ulteriore di un “disagio psichico” sulle spalle. Ecco: una cosa positiva è che a San Vittore, da sei anni, c’è un servizio che si occupa di loro. Con grande impegno. Quella negativa è che adesso, causa fine dei soldi, rischia di chiudere. Il servizio in questione si chiama “Sulla soglia” e i suoi operatori, come spiega la coordinatrice Simona Silvestro, lavorano per dare “supporto riabilitativo, continuità terapeutica e sostegno alla reintegrazione sociale e lavorativa di detenuti con disagio psichico in dimissione dai tre istituti penali milanesi”. Attivo dal 2005, è articolato in tre progetti principali. Il primo è il Centro diurno di San Vittore, per il quale i finanziamenti della Regione erano scaduti in giugno e finora ha tenuto botta grazie al ministero della Giustizia e a un contributo di Arci Milano. Poi c’è il servizio di “Sostegno psicologico, psichiatrico e di continuità terapeutica” in senso stretto, andato avanti con l’aiuto della Fondazione Cariplo. Infine quello per il “Reinserimento socio lavorativo e housing”, col sostegno (anche) del Comune. Se ne parla al presente, perché allo stato è ancora tutto lì. Con i suoi 107 detenuti-pazienti da seguire. Ma tra giovedì prossimo e il 31 gennaio i vari settori andranno a scadenza, anche se un po’di fiato è venuto proprio in questi giorni dalla Fondazione banca del Monte Lombardia: servirà a guadagnare qualche settimana mentre gli altri enti interessati, dalla Regione al provveditorato delle carceri, stanno cercando una soluzione. “La crisi c’è per tutti - riconosce la coordinatrice - ma ogni detenuto recuperato è un cittadino restituito alla società”. Ed è proprio nei momenti di crisi che c’è bisogno di tutti. Ferrara: detenuto tenta il suicidio, è in fin di vita all’ospedale La Nuova Ferrara, 12 dicembre 2011 Si è legato il lenzuolo attorno al collo, con un cappio rudimentale, e si è impiccato nella sua cella dell’Arginone dove era arrivato quattro giorni fa. L’intervento di un agente penitenziario che stava svolgendo il servizio di controllo lo ha strappato per un soffio alla morte, ma le sue condizioni sono ritenute disperate. Dramma ieri pomeriggio nella casa Circondariale ferrarese, dove un detenuto marocchino di 36 anni ha tentato di togliersi la vita utilizzando le lenzuola. L’uomo, già condannato in primo grado per omicidio, era in attesa del processo d’appello e prima di arrivare all’Arginone si trovava agli arresti domiciliari. In carcere c’era finito di nuovo perché non aveva rispettato le regole della detenzione domiciliare. Da quattro giorni dunque si trovava nella struttura di via Arginone e ieri pomeriggio poco prima delle 18 ha ceduto alla disperazione e ha deciso di farla finita. È stato salvato grazie alla prontezza di un agente di polizia penitenziaria che, durante il giro di sorveglianza, lo ha visto ormai agonizzante e lo ha subito liberato dal cappio. È intervenuta immediatamente un’ambulanza del 118 e il personale dell’emergenza sanitaria ha provato a rianimarlo sul posto per 40 minuti. Il paziente è stato intubato e trasportato all’ospedale Sant’Anna, dove si trova ricoverato nel reparto di Rianimazione, in fin di vita. Nel corso di tutto il 2011 all’Arginone non si erano mai verificati casi di suicidio o di tentato suicidio. Radicali: la riforma del carcere parta con un’amnistia Siamo venuti a conoscenza del tentativo di suicidio da parte di un detenuto trentaseienne di origini marocchine, avvenuto nel carcere di Ferrara. Di fronte ad eventi tragici di questo tipo noi radicali continueremo a denunciare lo stato di illegalità in cui versano le carceri italiane, ultimo stadio di un sistema giudiziario in agonia, e pur consci del fatto che la maggior parte dei cittadini su questa materia ha avuto e continuerà ad avere una informazione scarsa e deformata, chiediamo con la nostra piccola voce che lo Stato trovi il coraggio di affrontare l’opinione pubblica, che ha fin qui anestetizzato, per porre fine a questa situazione che è ormai intollerabile per tutti: famiglie delle vittime, detenuti in attesa di giudizio, condannati in via definitiva, guardie carcerarie, direttori delle carceri, personale sanitario e così via, fino ad arrivare al sistema economico che non vede investimenti esteri (quelli puliti s’intende) proprio perché le aziende sono le prime a non avere fiducia in una giustizia lenta e inefficace. I riflettori che le tv accedono sui soliti due o tre casi di cronaca nazionale, ormai spettacolarizzati oltre ogni limite della decenza, sembrano essere orientati proprio per non poter fare luce là dove iniziano i problemi reali delle carceri e della giustizia, che a quanto pare meritano solo pochi minuti ai margini dei telegiornali. Ed è così che le decine di suicidi che ogni anno si contano tra carcerati e guardie carcerarie vengono presto dimenticati, così come gli atti eroici di tutti gli altri soggetti del “pianeta giustizia”, come quello della guardia carceraria di turno che ha salvato in extremis il giovane marocchino. Si tratta di persone trovatesi a lavorare in un ambiente reso ostile proprio dallo Stato, che sulla questione ha scelto di non intervenire nonostante tutto. Vorremmo dunque che fosse evidente a tutti l’urgenza di iniziare un processo di depenalizzazione e di revisione delle procedure, e da subito si proceda con la concessione di un’amnistia per consentire alle riforme di partire e alle carceri di ritornare ad essere un luogo civile. Bari: nella nostra visita al carcere abbiamo visto situazioni inimmaginabili di Marco Guida (presidente giunta Anm Bari) La Repubblica, 12 dicembre 2011 Mercoledì scorso la giunta dell’Associazione magistrati di Bari, unitamente a diversi altri colleghi, ha fatto visita al carcere di Bari, grazie al presidente del Tribunale di sorveglianza D’Addetta e al direttore del carcere Sagace. Dopo l’esperienza i qualche giorno addietro presso il carcere di Turi, con la visita ai detenuti unitamente a Giovanni Impastato, anche questa è stata un’esperienza intensa, molto intensa. Difficilissima la situazione della sezione femminile: è la più disastrata, con celle e ambienti comuni fatiscenti. Non risulta essere stata oggetto di interventi di ristrutturazione da decenni. Le celle sono piccolissime, con ambienti igienici al di sotto del livello minimo di dignità. Passare nel corridoio, affacciarci in quei minuscoli microcosmi in cui vi è il disperato sforzo di conservare un po’ di umanità è stata una sofferenza, ripetuta passo dopo passo. Per fortuna non vi sono detenute con bambini piccoli con sé e il numero delle detenute è ridotto (sono venti) per cui non vi è problema di affollamento. Alcune di loro le abbiamo trovate intente nelle lezioni mattutine con le insegnanti verso le quali mostrano affetto e gratitudine. Quando hanno saputo che eravamo un gruppo di magistrati sono rimaste molto impressionate, ma subito è prevalsa l’umanità e abbiamo appreso alcune delle loro storie. Spaventosa la sezione con le cosiddette “celle di passaggio” che dovrebbero essere quelle celle ove vengono provvisoriamente alloggiati i nuovi detenuti (ma spesso rimangono per settimane) in attesa di essere allocati nelle varie sezioni: abbiamo visto due celle una con 15 e l’altra con 13 detenuti, con un solo bagno e con letti a castello fatti di quattro file in altezza, con l’ultima fila a quasi tre metri e quasi a ridosso del soffitto. Gli odori che provenivano da queste celle sono inimmaginabili. Difficile credere di essere in Italia, in Europa. Mi ha ricordato il film “Fuga di mezzanotte” una storia sulle carceri turche anni 80. Ma qui era, è tutto vero. Le altre sezioni sono state ristrutturate più o meno recentemente, ma in celle per due si sta anche in tre, quattro di norma. Il carcere di Bari ha anche diversi spazi per attività di laboratorio, di intrattenimento, ma sono assolutamente insufficienti e vengono solo parzialmente sfruttati per mancanza di risorse. Il direttore ci ha detto che se non vi fosse il preziosissimo aiuto delle associazioni di volontariato, laico o delle parrocchie, la situazione sarebbe ancora più drammatica. I detenuti che possono essere coinvolti in attività lavorative interne al carcere (pulizie, cucine, distribuzione vitto, attività scolastiche) o di intrattenimento sono non più del 30% e viene svolta una turnazione, il che vuol dire che il 70%dei detenuti non fa assolutamente nulla durante il giorno, salvo le due ore di vita comune negli spazi appositi, mattina e pomeriggio. Con il passaggio delle competenze mediche alle Asl anche la situazione sanitaria ha avuto un peggioramento, perché non si trovano medici disponibili a un lavoro strutturato all’interno del carcere. Abbiamo visitato anche la zona ospedaliera interna, una decina di celle con persone allettate o con problemi di autonomia, e ognuna era assistita da un “piantone” ovvero un altro detenuto che vive con loro (e che viene pagato). Anche qui storie umane: ho visto un detenuto dalla età imprecisabile, sembrava l’abate Faria, con capelli e barba lunga e bianca: mi hanno detto che è allettato da circa due anni, riceve visite molto sporadiche dai parenti, è sostanzialmente abbandonato al suo destino. I numeri sono impressionanti: il carcere di Bari può ospitare allo stato (attesa la chiusura della II sezione) circa 300 detenuti; potrebbe arrivare ad una capienza di 350. Mercoledì ne aveva 527. Le parole non bastano, bisogna vedere. Credo che dovrebbe essere obbligatorio svolgere una visita in carcere per tutti gli operatori del diritto, soprattutto i giovani magistrati. È gente che ha sbagliato, è che gente che ha commesso crimini, è gente che deve pagare per il male, per il dolore che ha arrecato. Ma continuano a rimanere esseri umani. Mercoledì, a volte, non riuscivamo a ricordarcelo. Ed è evidente anche la sofferenza degli operatori della polizia penitenziaria, che si arrangiano come possono, con grande professionalità e umanità e ho visto la loro soddisfazione per la nostra visita, perché anche noi potessimo comprendere quel mondo in cui loro svolgono la loro impegnativa attività. Come giunta Anm Bari continueremo a promuovere iniziative all’interno delle carceri, unitamente alle altre associazioni che lavorano in questo settore. Livorno: carcere a rischio crolli, 240 detenuti saranno trasferiti entro Natale in altri penitenziari Il Tirreno, 12 dicembre 2011 Sono circa 240 i detenuti del carcere delle Sughere di Livorno che dovranno essere trasferiti entro Natale in altri penitenziari. Un edificio della casa circondariale livornese, infatti, avrebbe mostrato problemi di staticità che, durante un sopralluogo di funzionari del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), avrebbero spinto alla decisione del trasferimento. Oggi sono stati evacuati un primo gruppo di 50 detenuti. Secondo quanto appreso il trasporto degli ospiti, in buona parte extracomunitari, è avvenuto senza problemi: i detenuti sarebbero stati trasferiti nei penitenziari di Sollicciano e “Gozzini” a Firenze e negli istituti di San Gimignano (Siena) e Porto Azzurro (all’isola d’Elba). Domani è in programma un secondo trasferimento di altri 50 detenuti. “Siamo sollevati per la decisione del Dap - dichiara Mauro Barile, segretario provinciale della Uil Penitenziari - perché in quel padiglione ormai non riuscivamo più a lavorare con tranquillità per i detenuti e per noi. Da tempo avevamo segnalato la condizione della struttura”. Il garante dei detenuti di Livorno, Marco Solimano, chiede da una parte “che venga garantita la territorialità della pena e che, per esempio, i detenuti toscani restino in Toscana” e dall’altro lato “che venga rimesso rapidamente in sicurezza il padiglione: non si pensi di destinare il nuovo edificio in costruzione ad altra cosa perché i detenuti che vengono trasferiti oggi devono tornare a Livorno e le Sughere devono mantenere la funzione di importante struttura circondariale che ha”. Alle Sughere, costruito nel 1984, è in costruzione un padiglione (da 200 posti circa) che potrebbe essere aperto già entro l’estate del 2012. Attualmente i detenuti a Livorno sono circa 460 a fronte di una capienza di 265. Modena: appello del Pd al Governo; il carcere di S. Anna è una “priorità assoluta” La Gazzetta di Modena, 12 dicembre 2011 Il capogruppo del Pd in Provincia, Luca Gozzoli, raccoglie l’appello dell’associazione Carcere Città e sollecita, attraverso i parlamentari, un intervento del governo sull’emergenza del carcere di S. Anna. “Tra le “emergenze” della giustizia - oltre all’efficienza della giustizia civile e alla nuova mappa dei Tribunali - c’è il sovraffollamento nelle carceri, giunto a livelli insostenibili. A dirlo è lo stesso ministro dell’Interno, Paola Severino, dimostrando, anche da questo punto di vista, una sensibilità nuova rispetto al passato. Il nostro auspicio è che - date queste premesse - si passi rapidamente dalle parole ai fatti e si affronti finalmente il problema del sovraffollamento per quello che è: una priorità assoluta dell’azione di governo; che riguarda anche Modena e il carcere di S. Anna, come hanno ribadito i volontari dell’associazione Carcere città in occasione della Giornata del detenuto. Le carceri dell’Emilia-Romagna sono al secondo posto in Italia per tasso di sovraffollamento: oltre 4 mila 300 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 2.394. Al S. Anna di Modena la situazione è pesantissima: quasi il doppio di detenuti rispetto ai 221 previsti dalla capienza regolamentare. Una situazione che rischia di diventare ancora più esplosiva, se si considera che la prevista apertura del nuovo padiglione, in corso di ultimazione, potrebbe comportare l’arrivo di altri 150 detenuti. A completare il quadro le carenze d’organico ormai croniche che costringono gli agenti a turni massacranti. Le nostre proposte per superare l’emergenza sono note: diminuire il sovraffollamento, incrementare il personale di sorveglianza, aumentare il ricorso a misure alternative, favorire l’attività esterna al carcere attraverso i lavori di pubblica utilità e la formazione professionale, garantire il diritto all’istruzione con il ripristino dei corsi scolastici. Il ministro Severino punta molto sulle misure alternative: più spazio alla detenzione domiciliare, porte aperte alla “messa alla prova”, via libera a una “carta dei diritti e dei doveri dei detenuti”, e rilancio del braccialetto elettronico. Ai nostri parlamentari chiediamo di sostenere il governo nella sua azione riformatrice, sollecitare l’attuazione in tempi rapidi delle misure annunciate, spingere per un incremento del personale di sorveglianza che resta comunque insufficiente”. Ascoli: i detenuti al lavoro per il Comune di Grottammare, ripuliranno la città Corriere Adriatico, 12 dicembre 2011 Il Comune di Grottammare stipula una convenzione con la casa circondariale di Marino del Tronto. Per tutto l’anno, i detenuti del carcere ascolano saranno chiamati a lavorare nella cittadina rivierasca per portare avanti attività atte al bene della comunità e nondimeno al loro reinserimento nella società. È di ieri mattina la firma della convenzione stipulata tra l’assessore ai servizi sociali Daniele Mariani e la direttrice della casa circondariale Lucia Di Feliciantonio dopo che quattro detenuti, dalle prime ore del mattino, si sono adoperati nella pulizia della Pineta Ricciotti, nel centro città. “In occasione del 63° anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani - ha detto l’assessore Mariani - abbiamo voluto presentare questa nuova iniziativa: una giornata ecologica in collaborazione con il carcere di Marino”. L’idea è nata dopo aver raccolto l’appello fatto nel periodico d’informazione “Io e Caino” scritto proprio dai detenuti, i quali chiedevano alle amministrazioni locali la possibilità di adoperarsi nella pratica di lavori socialmente utili. “Vista l’attuale difficoltà economica del Comune - ha detto Mariani - e quella delle carceri in genere, abbiamo pensato fosse giusto darsi una mano a vicenda. L’amministrazione, infatti, si sdebiterà mediante un contributo fatto di beni indispensabili per l’igiene”. Un’iniziativa lodevole, che vuole portare alla luce non solo le criticità presenti nelle carceri italiane ma soprattutto vuole dare la possibilità ai detenuti di reinserirsi nella società, magari oltrepassando quell’ostacolo invisibile rappresentato dal pregiudizio. “Non è la prima volta che Grottammare si mostra sensibile alla nostra realtà - ha detto la direttrice Di Feliciantonio - già diverse associazioni collaborano con noi. Ma fare in modo che i detenuti possano uscire dalle celle e rendersi utili fa in modo che la pena sia anche educativa”. A tal proposito il comandante della guardia penitenziaria, Pio Mancini, auspica che anche altri Comuni aderiscano a questa iniziativa. Prossimamente, i detenuti saranno chiamati nuovamente in città per intervenire nella pulizia delle spiagge e dei parchi. Venezia: detenute e sarte, le loro creazioni in passerella La Nuova Venezia, 12 dicembre 2011 Una sfilata di 21 abiti confezionati dalle detenute del carcere femminile del Giudecca. Il pezzo forte una reinterpretazione, imbastisci, taglia e cuci, di una giacca indossata del mitico John Lennon dei Beatles. Poi alcuni abiti disegnati su tessuti, “preziosi e a fantasia orientale”, spiegano le sarte, donati dalla stilista Marta Marzotto. E le modelle, 19 ragazze prestate da volontarie all’occasione e un solo ragazzo, ma anche due studenti spagnoli in Erasmus “capitati quasi per caso”, hanno calcato senza imbarazzi la scena della ribalta. La sfilata, voluta dal cooperativa Il Cerchio, ieri sera, negli spazi espositivi dell’istituto provinciale per l’infanzia Santa Maria della Pietà, ha “sorpreso” un pubblico nutrito, tra cui il sindaco Giorgio Orsoni e il vicesindaco Sandro Simionato. Una platea sorpresa dalla bravura delle detenute, che per quanto isolate al di là del mondo e destinate a scontare la pena dietro il ferro delle sbarre, hanno saputo restituire se stesse alla vita, giocando di fantasia e creatività. Lo ha ricordato Gianni Trevisan, presidente dell’associazione il Cerchio, che da anni si occupa delle detenute e della loro reintroduzione nella società. Trevisan ha spiegato che sono poco più di un centinaio le recluse nella struttura penitenziaria della Giudecca, di cui cinque sono impegnate nella sartoria e oltre dieci nella lavanderia industriale. Altre detenute hanno, invece, scelto di dedicarsi alla coltivazione dell’orto che rifornisce il carcere. Lavoratrici a tutti gli effetti, insomma, retribuite anche grazie alle 14 borse lavoro messe a disposizione dal Comune di Venezia. In totale sono 40 le detenute occupate in attività lavorative. Solo la sartoria del carcere, che ha creato i modelli protagonisti della sfilata, di per sé registra un bilancio d’una piccola azienda, ha sottolineato Gianni Trevisan, “280 mila euro l’anno” è la cifra riportata nell’ultimo bilancio. Quasi un’isola della “felicità”, la struttura femminile della Giudecca, soprattutto se lo scenario che vi si contrappone, nondimeno nel carcere maschile di Venezia, è una situazione analoga al sovraffollamento che caratterizza le strutture penitenziarie italiane. Il carcere maschile di Venezia ospita 370 detenuti, ma i posti disponibili sarebbero 160. E sono frequenti alle cronache i casi di suicidio o gli incidenti sospetti, spie d’un malessere immutato. “Siamo davanti ad associazioni di volontariato che operano nonostante le note difficoltà in cui versano le carceri e questa serata ne dà un esempio molto bello”, ha detto Giorgio Orsoni in apertura della sfilata. Interessanti le fotografie di Giacomo De Giorgi che ha documentato come si svolge il lavoro quotidiano delle detenute nelle celle e che sono state proiettate in anteprima. Molti degli abiti che hanno sfilato ieri e anche altri oggetti di artigianato minore, fiocchi e borse ad esempio, sono in vendita al “Banco Lotto N. 10”, vetrina delle opere artigianali delle detenute, che si trova a Castello, Salizada Sant’Antonin. Verona: dal 16 al 18 dicembre il primo “Banco Editoriale”, per donare libri ai detenuti Ristretti Orizzonti, 12 dicembre 2011 Si terrà a Verona, durante il prossimo fine settimana, il Banco Editoriale, iniziativa ideata da alcuni volontari veronesi con il patrocinio del Comune di Verona e con la collaborazione del Garante dei Diritti dei Detenuti, Margherita Forestan, degli istituti Don Calabria, Stimmate e Seghetti. Nelle giornate di venerdì 16, sabato 17 e domenica 18 dicembre i clienti di otto librerie del centro potranno acquistare libri per donarli alla biblioteca del carcere di Montorio e agli ospiti delle case famiglia del Don Calabria. “Analogamente alla raccolta di alimenti che si è tenuta nelle scorse settimane - ha commentato Tosi - il Banco Editoriale consentirà di effettuare una vera e propria “colletta culturale” che andrà a favore dei detenuti del carcere di Montorio e dei minorenni ospitati nelle case famiglia del Don Calabria. La solidarietà dei veronesi potrà questa volta regalare libri, saggi, romanzi, testi di poesia o racconti per ragazzi, in grado di far trascorrere attimi di svago a chi sta vivendo un momento difficile”. Le librerie che vedranno all’opera i 130 giovani volontari del Banco Editoriale sono: Gheduzzi, Ghelfi e Barbato, Pagina 12, le due Paoline, Bocù, Libreria Editrice Salesiana, Fede & Cultura e Rinascita. I volontari saranno ragazze e ragazzi degli istituti superiori Stimmate e Seghetti, che aiuteranno i partecipanti a scegliere il loro libro per destinarlo in beneficenza. Ulteriori informazioni sono disponibili sul sito www.bancoeditoriale.org Stati Uniti: le “nuove Guantánamo” nelle prigioni federali www.ilpost.it, 12 dicembre 2011 Il numero di detenuti per terrorismo scende a Guantánamo, ma cresce nelle altre prigioni americane. “Un arcipelago di carceri nascoste nel paese”, scrive il New York Times, nelle quali vengono create condizioni simili a quelle del carcere cubano che Obama aveva promesso di chiudere: settori occupati in maggioranza da detenuti musulmani, spesso in isolamento, controlli strettissimi e condanne generalmente molto lunghe. Dopo il picco nel 2003, il numero di detenuti a Guantánamo è sceso progressivamente da 700 a 171. Nel contempo però è salito progressivamente anche il numero di condannati per terrorismo internazionale nelle carceri federali di massima sicurezza (come la Supermax a Florence, in Colorado), anche se lontano da quel picco: da poco più di 50 nel 2001 si è passato ai 269 di oggi (che sarebbero 362 se si contano anche i detenuti legati al terrorismo domestico). Ci sono diverse ragioni che spiegano questo cambiamento di rotta. Innanzitutto, Guantánamo è un luogo che attira ancora oggi molte critiche da parte degli attivisti per i diritti umani. La settimana scorsa, per esempio, c’è stata l’ultima polemica: il Senato statunitense ha approvato il National Defense Authorization Act, che in pratica permetterebbe alle autorità militari di detenere qualsiasi cittadino americano senza limiti di tempo, se sospettato di associazione terroristica internazionale o di attentati contro gli Stati Uniti. Ora il disegno di legge potrebbe essere approvato anche dalla Camera dei Rappresentanti, ma Obama ha già detto che in ogni caso porrà il veto. Inoltre, la giustizia militare americana si è spesso dimostrata inefficiente ed eccessivamente costosa per le casse del governo. Un detenuto a Guantánamo costa allo Stato circa 800mila dollari all’anno, mentre nelle prigioni federali si parla di soli 25mila dollari. Le pene, tuttavia, rimangono più o meno le stesse. Chi è accusato di terrorismo rischia statisticamente di rimanere molto più tempo in carcere, scrive il Times. Anche chi viene giudicato colpevole di reati solo marginali nell’ambito del terrorismo, spesso viene condannato ad almeno dieci anni di carcere per via di un preciso programma di “prevenzione” da parte delle autorità statunitensi, le quali pensano che una condanna più lunga del normale sia un ottimo deterrente per i potenziali recidivi. Altre volte, invece, sono le false testimonianze a mettere nei guai gli imputati, come capitato a Yassin M. Aref, un curdo-iracheno immigrato negli Stati Uniti. Le testimonianze dirette sono i principali elementi di indagine dell’FBI, alle quali, dal 2001, si è affidata nel 40 per cento dei casi. C’è un altro motivo. Dal 2001 circa 300 prigionieri hanno scontato brevi pene e sono stati scarcerati dal carcere di Guantánamo (la metà di essi è stata espulsa). Di questi, però, circa il 25 per cento è recidivo ed è rientrato nelle fila del terrorismo internazionale, come accaduto al cittadino kuwaitiano-canadese Mohammed Mansour Jabarah, che addirittura è diventato temporaneamente informatore dell’FBI per poi tradire gli agenti americani - ed essere condannato all’ergastolo. Coloro che vengono rilasciati dalle prigioni federali, invece, molto raramente ritornano a compiere reati dello stesso tipo, secondo le statistiche, anche perché sono seguiti a vista dall’FBI. Ma di più non si riesce a sapere. Il Bureau of Prisons statunitense, infatti, non permette alla stampa di avere rapporti con i suoi impiegati, né con i detenuti nelle carceri federali per terrorismo. I quali, anche quando escono di prigione, sono molto restii a parlare. Panama: l’ex dittatore Manuel Noriega estradato dalla Francia, sconterà 20 anni in patria Agi, 12 dicembre 2011 L’ex dittatore panamense, Manuel Noriega, è partito in aereo da Parigi per essere estradato in patria dove sconterà 20 anni di carcere per omicidi commessi durante il suo regime, tra il 1983 e il 1989. Il 77enne “faccia d’ananas”, rovesciato dagli Usa nel 1989 con l’Operazione Giusta causa, ha lasciato il carcere parigino di La Santè ed è stato imbarcato su un volo per Madrid da dove ha una coincidenza per Panama. Nello Stato centroamericano, dove nel 1995 era stato condannato in contumacia per 11 omicidi tra cui la decapitazione di un medico che minacciava di rivelarne i legami con il narcotraffico, Noriega sarà detenuto in una cella speciale circondata dalla giungla vicino al Canale. Trasferito e condannato negli Usa nel 1992, l’ex generale doveva essere scarcerato nel 2007 ma è stato estradato in Francia per scontare una condanna a 10 anni per riciclaggio e traffico di cocaina. Ora, fisicamente provato e ormai politicamente finito, finirà i suoi giorni in un carcere nel suo Paese che negli ultimi anni ha goduto di un boom economico. Cina: muore in carcere Xue Jinbo, aveva partecipato a proteste contro le espropriazioni forzate Ansa, 12 dicembre 2011 È morto sotto custodia della polizia cinese l’uomo che a settembre aveva partecipato alle proteste contro le espropriazioni forzate, da parte delle autorità, di terre nel suo villaggio. Xue Jinbo tre giorni fa era stato arrestato dalla polizia per aver partecipato, nello scorso settembre e a novembre di nuovo, a proteste di piazza a a Wukan, nella provincia industriale del Guangdong, contro le requisizioni di terre e la corruzione. In un comunicato, il governo della regione dello Shanwei a cui appartiene la città di Lufeng (della quale Wukan è sobborgo) ha scritto che l’uomo si è aggravato ieri e nonostante le cure dei medici, è morto per un attacco cardiaco. La notizia si teme possa rinfocolare le proteste che hanno visto migliaia di persone convocate con il passaparola ma anche con il twitter cinese a scendere in piazza contro gli espropri forzati. In migliaia a settembre e alla fine di novembre hanno risposto all’appello urlando slogan contro “la dittatura”. Proteste contro le requisizioni delle terre si erano già verificate a Wukan nel 2009 e nel 2010. In Cina la terra è teoricamente proprietà del popolo, ma di fatto viene amministrata dai governi locali, che spesso la vendono ai costruttori per nuovi progetti di sviluppo. Gli acquirenti sono imprese pubbliche o private ma comunque legate alle amministrazioni locali. Bahrein: regime apre le prigioni a visite del Comitato Internazionale della Croce Rossa Ansa, 12 dicembre 2011 Il Bahrein lascerà libero accesso a una missione del Comitato Internazionale della Croce Rossa (Cicr) nelle prigioni nel Paese. Lo ha riferito oggi la tv panaraba satellitare al Jazira. L’emittente precisa che in seguito alla pubblicazione del rapporto della Commissione investigativa del Bahrein, in cui viene denunciata la violazione dei diritti umani nel Paese, il Cicr e il ministero degli interni di Manama hanno firmato un accordo in base al quale viene permesso ai membri della Croce rossa di visitare i penitenziari dell’emirato del Golfo. Secondo l’accordo, la Croce Rossa - riferisce sempre al Jazira - organizzerà dei corsi di formazione sui diritti umani e sul diritto internazionale umanitario per i dipendenti del ministero degli Interni del Bahrein. Martedì prossimo inoltre una delegazione dell’Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite (Unhcr) sarà in visita a Manama e incontrerà le autorità del Paese. Congo: tentativo di evasione da una prigione, almeno 3 morti e numerosi feriti Tm News 12 dicembre 2011 Numerosi detenuti hanno perso la vita o sono rimasti feriti ieri nel tentativo di evasione da una prigione militare di Kinshasa. Un numero imprecisato di prigionieri ha tentato la fuga, sfidando le forze dell’ordine, ha detto una fonte della polizia senza fornire un bilancio esatto delle vittime. Secondo quanto spiegato, almeno tre o quattro persone sono morte e decine sono rimaste ferite nel tentativo di fuga dal carcere, situato a Ndolo, nel centro di Kinshasa. Yemen: dodici detenuti membri di al Qaida evadono da carcere Aden Tm News 12 dicembre 2011 Dodici detenuti membri di al Qaida sono evasi dalla prigione centrale di Aden, principale città del sud dello Yemen. Lo ha riferito un responsabile dei servizi di sicurezza sottolineando che i prigionieri, in totale 14, sono riusciti a fuggire attraverso un tunnel di sei metri scavato sotto al carcere. Il 22 giugno, una sessantina di uomini legati ad al Qaida era riuscito ad evadere da una prigione di Moukalla, nel sud-est dello Yemen, dopo aver attaccato i secondini. Questa nuova evasione avviene in un momento in cui il gruppo terroristico sta estendendo la sua influenza nel sud dello Yemen, in preda all’instabilità politica. Venerdì scorso, un governo di unità nazionale, guidato dall’ex capo dell’opposizione yemenita Mohammed Basindawa, ha prestato giuramento a San’a. Il nuovo esecutivo si deve occupare della transizione politica nel Paese arabo sfinito da dieci mesi di crisi e contestazioni contro il presidente Ali Abdallah Saleh.