Giustizia: l’Italia dovrà riaprire i processi giudicati “non equi” dalla Corte di Strasburgo Ansa, 7 aprile 2011 Sentenza della Corte Costituzionale n. 113/2011: scarica da qui la versione integrale in formato pdf. Va riaperto il processo italiano conclusosi con una condanna ma rispetto al quale la Corte europea dei diritti dell’uomo ha sentenziato la non equità del giudizio. Lo ha stabilito la Corte Costituzionale, bocciando l’art. 630 del codice di procedura penale nella parte in cui non prevede un diverso caso di revisione della sentenza o del decreto penale di condanna per conformarsi a una sentenza definitiva della Corte di Strasburgo. La Consulta è così intervenuta, per la seconda volta in tre anni, sul caso di Paolo Dorigo, il militante comunista veneziano condannato a 13 anni di carcere per un attentato alla base Usaf di Aviano nel 1993. Nel settembre del 1998, infatti, la Corte europea dei diritti dell’uomo aveva accertato la non equità della sentenza con cui la Corte di Assise di Udine, nel 1996, aveva condannato Dorigo. Con la decisione della Consulta (n. 113 depositata oggi in cancelleria) si apre la strada alla revisione del processo a carico di Dorigo, come sollecitato dalla Corte di Appello di Bologna che aveva fatto ricorso alla Corte Costituzionale. Già una volta, nel 2008, la questione era arrivata all’esame dei giudici costituzionali che - viene ricordato nella sentenza di oggi - avevano “rivolto un pressante invito al legislatore affinché colmasse, con provvedimenti ritenuti più idonei, la lacuna normativa”. Ciò però non è avvenuto. E la Consulta è ora intervenuta. Il “caso Dorigo” Il “pasticcio” del caso Dorigo e della lacuna italiana si trascina da anni. A seguito della sentenza della Corte di giustizia europea, che aveva accertato l’iniquità di una condanna basata sulle dichiarazioni di tre coimputati non esaminati in contraddittorio, Dorigo, maestro elementare veneto e con un passato di militante in Autonomia operaia e Lotta Continua, è tornato libero dopo diversi anni di carcere: nel 2005 ha ottenuto gli arresti domiciliari; nel marzo del 2006 la Corte di appello di Bologna ha sospeso la pena; nel dicembre dello stesso anno, la Corte di Cassazione ha ordinato la sua liberazione definitiva perché la prolungata inerzia dell’Italia a conformarsi a quanto stabilito da Strasburgo rende la sentenza di condanna ineseguibile. Nel frattempo, però, Dorigo ha presentato istanza di revisione del processo alla Corte di appello di Bologna, che per due volte ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 630 del cpp. Il codice, infatti, consente la revisione del processo solo nel caso in cui si scoprano elementi nuovi che possano portare al proscioglimento del condannato. Ma non per adeguarsi alle norme della Corte di Strasburgo che, come invece stabilito dalla Consulta in riferimento all’art. 117 della Costituzione, “impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivati dagli obblighi internazionali”. Dal momento che - si legge nella sentenza scritta dal giudice costituzionale Giuseppe Frigo - la Corte si è trovata di fronte a un vulnus costituzionale non sanabile in via interpretativa è pertanto ‘tenuta a porvi rimediò bocciando in parte l’art. 630 del codice di procedura penale. Ora la strada che si apre è duplice: da un lato “spetterà ai giudici comuni trarre dalla decisione i necessari corollari sul piano applicativo, avvalendosi degli strumenti ermeneutici a loro disposizione”; dall’altro, sarà compito del legislatore provvedere eventualmente a disciplinare, nel modo più sollecito e opportuno, gli aspetti che - scrive la Corte - apparissero bisognevoli di apposita regolamentazione. Nel primo caso la Consulta rileva come sia di tutta evidenza che non darà comunque luogo a riapertura del processo l’inosservanza del principio di ragionevole durata del processo, dal momento che la ripresa delle attività processuali approfondirebbe l’offesa. Il giudice della revisione, infatti, dovrà valutare anche come le cause della non equità del processo rilevate dalla Corte europea si debbano tradurre, appunto in vizi degli atti processuali alla stregua del diritto interno, adottando nel nuovo giudizio tutti i conseguenti provvedimenti per eliminarli. Quanto infine a un eventuale intervento normativo, la Corte sottolinea che il legislatore resta ovviamente libero di regolare con una diversa disciplina (recata anche dall’introduzione di un autonomo e distinto istituto) il meccanismo alle pronunce definitive della Corte di Strasburgo, come pure di dettare norme su specifici aspetti di esso, aspetti come ad esempio la previsione di un termine di decadenza della domanda per la riapertura del processo, la Consulta precisa di non poter intervenire in quanto di stratta di scelte discrezionali del legislatore. Giustizia: quelle tende che coprono le gabbie dei detenuti… per l’imputato eccellente di Salvatore Scuto (Presidente della Camera Penale di Milano) Il Riformista, 7 aprile 2011 Un sepolcro imbiancato. Sarà forte la metafora? Forse. Ma, se volete, a caldo non ne ho trovata una altrettanto significativa. Succede, infatti, che in vista della prima udienza del processo Ruby (chiamiamolo così seguendo la sintesi della cronaca), per tutta la giornata di ieri, si siano susseguiti freneticamente i lavori di pulizia e di veloce restauro della aula più grande del Palazzo di Giustizia. È un’aula storica, in cui si sono celebrati alcuni dei processi che hanno segnato la storia giudiziaria del Paese e, con essa, la storia della nostra società. È l’aula in cui si svolgono quotidianamente i processi, che non sono pochi, che presentano difficoltà logistiche per il numero significativo degli imputati. Potrebbe sorprendere, pertanto, che venga utilizzata per l’udienza di smistamento di un dibattimento a carico di un solo imputato e poche persone offese, in cui è chiaro a tutti non succederà nulla di significativo. Ma oggi gli occhi dell’intero circuito mediati-co del globo sono puntati su quell’aula, su quella che sarà la sorte di quell’unico imputato. Così, si comprende come si siano imbiancate le pareti, lucidati gli arredi, cambiate le lampadine. Si comprende anche se l’impressione che si sia messa frettolosamente la polvere sotto il tappeto, rimane forte, proprio come quando in una casa arrivino all’improvviso degli ospiti e si riassetti il salotto sperando che non vadano in cucina.... Ma quello che sorprende è che si siano messi dei candidi tendaggi (così narrano le cronache) con uno scopo che desta perplessità: coprire le grandi gabbie dentro le quali centinaia, migliaia di imputati vivono sulla loro pelle il dramma del processo. Perché, allora, il corpo della Giustizia vuole nascondere alla vista di tutti una parte così significativa di se stesso? Perché coprire le gabbie e così con un cerone di scena coprire il volto della Giustizia? Forse un riguardo per l’imputato? Parrebbe di no dati i trascorsi. Forse un riguardo per la sensibilità delle centinaia di cronisti di tutto il mondo che affolleranno quell’aula? Sarebbe strano essendo costoro i protagonisti di una formidabile macchina mediatica che ha ormai metabolizzato ogni cosa. Insomma, quale intima vergogna ha mosso la mano del tappezziere? Difficile dare una risposta, lo farà, se lo vorrà, chi di quell’iniziativa è il protagonista. Rimane, però, un profondo senso di disagio per quelle migliaia di imputati detenuti che ogni giorno affollano le aule di Giustizia, a volte senza una difesa adeguata, sempre destinatari della severità di una Giustizia dal volto fiero e mai imbellettato. Forte il sospetto che ciò sia il frutto di fenomeni di rimozione, come quelli che da sempre tendono ad impedire che l’istituzione carcere sia uno degli specchi della nostra società. Ma quei tendaggi sembrano riproporre un interrogativo di fondo anch’esso oggetto di un fenomeno di rimozione. Può il processo penale sopportare un peso che non gli è proprio? Può la sorte di una lunga stagione politica essere scrutinata attraverso le domande che quel dibattimento postula a tutte le parti che ne saranno protagoniste? È l’interrogativo che, non avendo ricevuto mai una risposta, ha ingessato l’intera società di questo Paese. La progressiva erosione del terreno della politica ha segnato il contemporaneo accrescimento di quello del processo penale, con l’effetto che questo - inevitabilmente - è andato oltre quelli che sono i suoi fisiologici e naturali confini. Continuando a non dare una risposta, il più possibile condivisa, a tale quesito, accade allora che, nel volgere di poche ore, si imbianchino le pareti e si nascondano le gabbie. Si costruisce un set entro cui quel processo dovrà vestire panni diversi da quelli ordinari. Si finisce così, ancora una volta, per non tutelare quel delicato e prezioso congegno di regole e di garanzie che muove il processo penale in una società autenticamente liberale e democratica. Giustizia: Ionta (Dap); l’emergenza carceri è superata, ora riorganizziamo il sistema Ansa, 7 aprile 2011 L’emergenza carceri “è superata” ha detto ieri il capo del dap Franco Ionta durante una riunione con le organizzazioni sindacali della polizia penitenziaria e del comparto ministeri, sul tema relativo al miglioramento della gestione dell’esecuzione penale. Lo rende noto un comunicato dello stesso Dap. Ionta ha illustrato un documento programmatico che è stato consegnato alle organizzazioni sindacali, insieme ad un progetto riguardante i circuiti penitenziari. Ha evidenziato che l’emergenza penitenziaria è superata, anche se il 2011 deve essere considerato un anno di transizione: “quindi, in virtù di ciò, possiamo pensare di progettare il futuro, riorganizzando il sistema”. La riorganizzazione dovrebbe riguardare sia la parte strutturale, con la costruzione dei nuovi edifici e padiglioni, sia il personale, sia i circuiti penitenziari. Il sindacato autonomo Sappe - prosegue la nota - “ha evidenziato che non siamo assolutamente usciti dall’emergenza, anche se l’ingresso dei detenuti si è per il momento attenuato, perché i tanti problemi che ci sono negli istituti e la carenza di risorse fanno in modo che il personale lavori sempre e continuamente in emergenza. La costruzione di nuovi istituti e nuovi padiglioni, vista che è questa la strada scelta dalla politica, non potrà dare i risultati attesi se non ci sarà un adeguato incremento dell’organico della polizia penitenziaria, già carente di 6500 unità. Forse si poteva agire anche su altri aspetti, ad esempio facendo uscire dal carcere i circa 15000 tossicodipendenti, attraverso la costruzione di strutture adeguate e programmi idonei per il recupero, così come sarebbe opportuno far scontare la pena nel loro paese agli stranieri. Giustizia: Idv; le carceri sono una bomba ad orologeria, Alfano intervenga subito Ansa, 7 aprile 2011 “Il Ministro Alfano non si rende conto che sul problema carceri è seduto su una vera e propria bomba a orologeria. Il compito del ministro della Giustizia è ormai derubricato a risolvere solo i problemi giudiziari del premier. È una vergogna infinita per un Paese civile”. Lo ha dichiarato il presidente del Gruppo Italia dei Valori al Senato, Felice Belisario, a proposito della vicenda dello sciopero ad oltranza delle agenti del carcere femminile di Rebibbia per denunciare la tragica carenza di organico. “Il governo, mentre spreca il personale disponibile tra auto blu e scorte non necessarie, capisca in fretta che il problema del carcere femminile di Roma Rebibbia - ha aggiunto - non può essere ulteriormente ignorato perché, ne sono certo, si estenderà anche in altre carceri italiane. È un’emergenza che coinvolge la dignità professionale, il diritto alla salute e alla sicurezza e le finalità di reinserimento sociale dei detenuti, così come previsto dalla Costituzione e per questo è doverosa una tempestiva soluzione”. “Il ministro Alfano - ha concluso Belisario - intervenga immediatamente se non vuole passare alla storia come il nuovo Ponzio Pilato”. Giustizia: Pd; nelle carceri condizioni disumane anche per gli agenti, Alfano riferisca Ansa, 7 aprile 2011 Il Pd sollecita al ministro della Giustizia a “rispondere in Parlamento delle gravissime condizioni in cui versano le carceri italiane”. “I trattamenti disumani non sono solo quelli subiti dai detenuti il cui numero supera la capienza degli istituti penitenziari, ma anche quelli cui è costretta la polizia penitenziaria”, ha denunciato la capogruppo Democratica in commissione Giustizia al Senato, Silvia Della Monica. “La protesta degli agenti di polizia del carcere femminile di Rebibbia - ha spiegato - portata avanti anche con lo sciopero della fame e del sonno, merita non solo attenzione e rispetto, ma soprattutto risposte. Spieghi il ministro perché si persegue una politica sbagliata aumentando a dismisura il numero dei reati e i casi di custodia cautelare obbligatoria, perseguendo una politica securitaria inseguendo la Lega e perché si impegnano ingenti risorse per un fantomatico piano carceri, mentre si dovrebbe depenalizzare, prevedere misure alternative, assumere nuovo personale di polizia penitenziaria e consentire a chi tutela lo Stato - ha concluso Della Monica - di svolgere il proprio lavoro in condizioni dignitose”. Giustizia: Carlo Saturno muore dopo 7 giorni di coma, si indaga per istigazione al suicidio Ansa, 7 aprile 2011 Si indaga per istigazione al suicidio, per la morte avvenuta questa mattina di Carlo Saturno, il giovane detenuto del carcere di Bari trovato dalla polizia penitenziaria con un cappio al collo fatto con un lenzuolo. Secondo le indagini del pm Isabella Ginefra e dell’aggiunto Pasquale Drago, il giovane potrebbe essere stato indotto al suicidio da persone che al momento risultano ignote. Il fascicolo della Procura, infatti, è passato da modello 45, indagine conoscitiva, a modello 44, ossia contro persone da identificare. “I segni sul collo sono esclusivamente compatibili con il lenzuolo - tiene a precisare il medico legale Francesco Introna, smentendo categoricamente la notizia di stampa diffusa questa mattina da un quotidiano. Hanno scritto falsità, non ho mai sollevato dubbi su come sia avvenuto il soffocamento e comunque non ho avuto alcun mandato formale né ho depositato alcuna perizia”. Dunque sarebbe confermato, per il momento, che Saturno si sia suicidato, ma su istigazione di qualcuno. Ma di chi? Senza muovere accuse, sembra che alcune ombre si siano estese su alcuni agenti della polizia penitenziaria di Bari. Secondo la Procura, prima del suicidio il giovane sarebbe stato picchiato da alcuni agenti. I motivi non sono ben chiari, anche se si ipotizza che possano essere sorti contrasti quando fu deciso il trasferimento di cella di Saturno. In quell’occasione, fu disposto il trasferimento nella cella di isolamento. Agli atti, poi, risultano alcuni trascorsi sempre con la polizia penitenziaria. Quando Saturno era rinchiuso nel carcere minorile di Lecce, sarebbe stato picchiato da alcuni agenti della penitenziaria. Per quell’aggressione è ancora in corso un processo per lesioni, contro nove agenti del carcere di Lecce. Al momento, dunque, la Procura vuole accertare se dietro il suicidio del giovane, ci siano state pressioni da parte di alcuni agenti della polizia penitenziaria. Perquisizioni nel carcere di Bari Perquisizioni sono in corso nel carcere di Bari da parte della polizia giudiziaria su disposizione della Procura, nell’ambito dell’indagine sulla morte del detenuto 22enne di Manduria Carlo Saturno. La polizia giudiziaria sta acquisendo fascicoli e documentazione utili a ricostruire i giorni precedenti a quello che sembra essere un suicidio. Dopo la morte, avvenuta questa mattina nel reparto di rianimazione del Policlinico di Bari, la Procura ha modificato l'iscrizione del fascicolo d’inchiesta che fino a ieri era a "modello 45", cioè senza indagati nè ipotesi di reato. L'aggiunto Pasquale Drago e il sostituto Isabella Ginefra, ai quali è affidata l’inchiesta, indagano ora per istigazione al suicidio contro ignoti. E’ stata disposta l’autopsia e nelle prossime ore sarà affidato l’incarico ad un medico legale. Il Pm: sul corpo nessuna lesione recente Le indagini finora compiute dalla procura di Bari non avrebbero accertato alcun segno recente di lesioni provocate da terzi sul corpo di Carlo Saturno, il 22enne morto oggi nel reparto di rianimazione del policlinico dopo che il 30 marzo era stato trovato appeso ad un lenzuolo in una cella del carcere di Bari. Lo si apprende da fonti giudiziarie. Sul corpo del giovane sarebbero state invece trovate vecchie ferite, probabilmente procurate da terzi negli anni scorsi. Per questo motivo, fino a stamani il fascicolo d’indagine, affidato ai pm Pasquale Drago e Isabella Ginefra, era iscritto a "modello 45", cioè senza ipotesi di reato e senza indagati. Con la morte del giovane, avvenuta poco fa, i magistrati inquirenti potrebbero rivedere, per motivi procedurali, la loro impostazione di lavoro in vista dell’autopsia che probabilmente decideranno di disporre e di affidare al medico legale dell’università di Bari, Francesco Introna. Questi nei giorni scorsi, su richiesta dei pm, ha visitato Saturno in rianimazione. Gonnella (Antigone): l’autopsia faccia luce su questa morte “L’autopsia faccia luce, senza lasciare dubbi, sulle reali cause della morte di Carlo Saturno e su ciò che è accaduto nei suoi ultimi giorni di vita”. Lo chiede Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone che si batte per i diritti nelle carceri, dopo la morte del giovane detenuto del carcere di Bari. “L’inchiesta interna disposta dal Dap faccia anche chiarezza sul perché - aggiunge - il ragazzo fosse stato posto in isolamento e se ciò fosse legittimò. ‘È inoltre da verificare se fossero state adottate misure di sostegno - prosegue Gonnella - per una persona che aveva manifestato paura e depressione”. Il presidente di Antigone annuncia, infine, che il caso di Carlo Saturno sarà segnalato alle autorità sovranazionali e che “sulla vicenda del processo alle guardie penitenziarie, in cui il giovane era parte lesa, rinviato a dopo la prescrizione dei reati, è pronto un esposto al Csm”. Ionta (Dap): disposta inchiesta interna dell’amministrazione penitenziaria Il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Franco Ionta ha già disposto un’inchiesta amministrativa per fare “massima chiarezza” sulle cause della morte di Carlo Saturno, il ragazzo di 22 anni trovato il 30 marzo scorso appeso ad un lenzuolo nella sua cella del carcere di Bari. “Dal momento però che è in corso un’indagine penale - ha spiegato Ionta contattato dall’Ansa - chiederò il nulla osta alla procura di Bari per non interferire con l’autorità giudiziaria”. Se i pm daranno il via libera all’inchiesta amministrativa, questa - sottolinea Ionta - “sarà centralizzata”, nel senso che verrà condotta dall’ufficio ispettivo del Dap e dalla direzione generale detenuti. In questo caso - conclude Ionta - l’inchiesta interna dovrebbe concludersi nel giro di “una settimana-dieci giorni”. Senatori Pd: cosa succede all’interno delle carceri italiane? “Vogliamo chiarezza, vogliamo sapere cosa succede all’interno delle carceri italiane. Non è possibile assistere impotenti ogni giorno al suicidio di detenuti, spesso giovani, che avvengono in circostanze poco chiare. C’è un ragazzo, Carlo Saturno, che è morto nel Policlinico di Bari per un presunto suicidio, ma sono molti i punti oscuri che portano ad avanzare dubbi sulla veridicità del suicidio a cominciare da quelli manifestati dai medici del reparto che assistono il ragazzo”. Lo affermano i senatori Pd Roberto Della Seta e Francesco Ferrante che annunciano un’interrogazione per fare chiarezza su quanto accaduto all’interno del carcere di Bari. “Il giovane - spiegano i senatori - aveva testimoniato in passato contro 9 agenti penitenziari accusati di lesioni all’interno del carcere minorile di Lecce dove era precedentemente recluso. Anche per questo e per fugare ogni possibile relazione tra questo episodio e il tentativo di suicidio del ragazzo chiediamo che sia avviata un’indagine amministrativa e giudiziaria che chiarisca le cause del suicidio e accerti le responsabilità di quanti avevano in custodia Carlo Saturno”. “Abbiamo più volte denunciato che il sovraffollamento delle carceri costringe il personale ad un surplus di lavoro eccessivo e spesso insufficiente a far fonte al controllo delle persone detenute. È quindi necessario, per scongiurare che accadano episodi gravi come quello qui denunciato, che il governo prenda in seria considerazione le nostre proposte perché si avvii una politica di rivalutazione delle misure alternative al carcere. Ma occorre far presto, ogni detenuto che muore è un atto d’accusa per tutti noi”, concludono i senatori Pd. Interrogazione di Dario Ginefra Un’interrogazione parlamentare è stata rivolta al ministro della Giustizia Alfano dal parlamentare del Pd Dario Ginefra, in merito al tentativo di suicidio nel carcere di Bari di un giovane detenuto. “L’Osservatorio permanente sulle morti in carcere - scrive Ginefra - ha dato notizia che lo scorso 31 marzo un 22enne di Manduria (Ta), recluso nella Casa Circondariale di Bari, avrebbe tentato il suicidio per impiccagione. Secondo la nota diffusa, a trovarlo penzoloni sono state le guardie che lo hanno tirato giù quando respirava appena. In suo aiuto è intervenuto il personale dell’infermeria e del 118 di Bari. Trasportato in ospedale è ora ricoverato in condizioni disperate nella rianimazione del policlinico, dove è mantenuto in vita dalle macchine. L’elettroencefalogramma di ieri è risultato piatto, come quello del giorno precedente, per cui da un momento all’altro i sanitari potrebbero decidere di staccare la spina del respiratore”. Il ragazzo - prosegue il parlamentare del Pd - è parte civile in un processo contro nove agenti di polizia penitenziaria del carcere minorile di Lecce accusati di maltrattamenti e vessazioni nei confronti di alcuni ospiti dell’istituto di pena per minori, tra i quali lo stesso 22enne che era ospite della struttura 6 anni fa. Dai primi riscontri sembrerebbero dubbie le circostanze del tentativo di suicidio e diffuse le ecchimosi presenti sul corpo del ragazzo. Da qui la mia interrogazione al ministro Alfano perché vengano chiarite tutte le circostanze ed ogni eventuali responsabilità delle autorità competenti”. Giustizia: la sorella; Carlo è stato ucciso, vogliamo la verità di Francesca Russi La Repubblica, 7 aprile 2011 I familiari si sono affidati a un legale. “Carlo stava pagando per i suoi errori, non meritava quella fine”. “Vogliamo la verità, vogliamo scoprire chi ce l’ha ammazzato, vogliamo soltanto la verità”. Grida e piange Anna Saturno, la sorella di Carlo, il detenuto 22enne che lo scorso 30 marzo, è stato trovato impiccato nella sua cella nel carcere di Bari. È appena uscita al reparto di Rianimazione del Policlinico di Bari dove il giovane è ricoverato da una settimana con l’elettroencefalogramma piatto. Che cosa pensa sia accaduto a suo fratello? “È quello che vogliamo sapere. Vogliamo sapere cosa è successo in quella cella, è meglio che chi sa parli altrimenti andrà a finire molto male”. Lei non si è fatta un’idea? Suo fratello le aveva mai raccontato qualcosa di strano? “Carlo mi diceva sempre di andarlo a trovare, mi diceva che mi voleva bene, lo avevo sentito pochi giorni prima, stavo rispondendo alla sua lettera quando ho avuto la notizia giovedì scorso. Mio fratello non era pazzo, era solo un ragazzo che aveva preso una strada sbagliata ma stava pagando per i suoi errori. Mio fratello non si è suicidato ma è stato ammazzato”. È stato trovato impiccato nella cella. Perché dice che è stato ammazzato? “Lo hanno fatto morire. Sono degli assassini, si devono vergognare, non devono più uscire di casa. Quelli trattano i detenuti solo come delinquenti quando potrebbero essere i propri figli”. Chi sono quelli? Gli agenti di polizia penitenziaria? “Sì”. Crede che lo picchiassero in carcere? “Sicuramente, anche se lui mi diceva di stare tranquilla. Come accadeva a Lecce. Ora voglio sapere la verità. Voglio sapere di chi è la colpa. Voglio sapere perché al posto di educare, dato che a questo dovrebbe servire il carcere, facevano altro. Bisogna invece perdonare e rieducare. Se solo fossero stati loro figli”. Ora che pensate di fare? “Vogliamo andare fino in fondo. Mio fratello non era un assassino, aveva solo sbagliato, ma stava scontando la sua pena e io adesso lo voglio vicino a me, voglio abbracciarlo, non lo voglio nella tomba, non voglio un fratello sotto terra. Ora sto pregando, ma i medici non ci hanno dato buone notizie. A questo punto non ci rimane altro che la verità. La verità e la giustizia”. L’ultima lettera: ho tanta paura, statemi vicino “Non smetto mai di guardare la foto dove stiamo tutti insieme e mi viene da piangere perché ho tanta paura, non so quando vi posso riabbracciare, non so quando uscirò, non so niente e questo mi fa stare molto triste, non provo più un pizzico di felicità”. È datata 18 marzo l’ultima lettera che Carlo Saturno ha scritto dal carcere alla sorella Anna. Il giovane fa riferimento su quel pezzo di carta anche a un altro recente tentativo di suicidio. “Cara sorellina mi dispiace di averti fatto piangere, vedi che non mi sono tagliato tutto ma è stato un momento di crisi che sto passando tuttora”. Il 22enne aveva infatti provato a tagliarsi le vene ma non ci era riuscito. “Ti aspetto tanto, quando vieni? Scrivimi presto per favore, statemi vicino. Vieni presto per favore perché voglio vederti”. Così si concludono le poche righe scritte dal giovane di Manduria alla sorella che adesso vive a Pulsano a pochi chilometri da Taranto. Dopo dodici giorni, il tentativo di suicidio. Giustizia: il “caso Uva” va in aula a Varese… e c’è un nuovo imputato La Provincia, 7 aprile 2011 Il processo per la morte di Giuseppe Uva si è aperto ieri, a poco meno di tre anni da quella notte maledetta, ma la notizia è un’altra: perché la procura chiama ora a risponderne per colpa professionale anche un altro medico, il terzo, dopo lo psichiatra Carlo Fraticelli, (contro il quale è intestato il processo), e Matteo Catenazzi (medico operante in pronto soccorso, sul cui non luogo a procedere pronunciato in sede di udienza preliminare pendono ricorsi per cassazione da parte della stessa procura varesina, della procura generale e delle parti civili). È la dottoressa Enrica Finazzi, psichiatra, già interrogata dai pm Agostino Abate e Sara Arduini, per la quale è stata formulata formale imputazione per cooperazione colposa nella morte di Giuseppe Uva con gli altri due medici dell’ospedale di Circolo che gli somministrarono dosi massicce di calmanti nonostante fosse in stato di alterazione alcolica. L’interazione di quei farmaci con l’alcol, secondo la procura, è la causa che ha condotto alla morte dell’artigiano varesino. avvenuta il 14 giugno 2008. La notizia non è propriamente un colpo di scena, perché già il giudice per l’udienza preliminare Cristina Marzagalli aveva individuato la presenza di un referto redatto da un terzo medico. Il professionista era stato convocato in procura ancora a gennaio, ed ora i pm Abate e Arduini hanno chiuso le indagini, chiedendone appunto il rinvio a giudizio. Peraltro, proprio il referto a firma della dottoressa Finazzi, medico specialista, che indicava come necessaria la somministrazione a Uva di farmaci antipsicotici (Talofen e Farganasse IM), è la ragione principale per la quale il dottor Catenazzi (difeso dagli avvocati Gianfranco Orelli e Andrea Orelli), era stato prosciolto: proprio perché quest’ultimo aveva chiesto il consulto dello specialista. Presieduto dal giudice Orazio Muscato, ieri si è dunque aperto il processo contro lo psichiatra comasco Carlo Fraticelli, contumace, difeso dall’avvocato Renato Piccinelli. Udienza riservata alla formazione del fascicolo (il dibattimento si apre il 30 aprile), con richiesta di ammissioni prove e testi avanzate dalle parti. Si è conclusa quattro ore dopo con la riserva da parte del giudice sull’istanza più importante: una nuova perizia per determinare la causa della morte di Giuseppe Uva, se necessario con la riesumazione del cadavere, come chiesto dagli avvocati di parti civili Fabio Anselmo e Alessandra Pisa. Sono stati ammessi, su richiesta del pm Abate, la cartelle clinica, tre file audio delle chiamate alle centrali operative di 112, 113 e 118, e 26 fotografie dell’esame autoptico. Ammessi, su richiesta dell’avvocato Piccinelli, il documento che le procedure per la contenzione fisica in ospedale, oltre a due consulenti di parte: con il loro ingresso nel processo sale a 10 il numero di periti. Anche in virtù di questa considerazione, il giudice non se l’è sentita di disporre una nuova perizia (contro la quale, oltre al pm si era espresso anche l’avvocato di Fraticelli). La posizione dei parenti di Uva, che adombrano responsabilità terze, in particolare per quanto avvenuto durante il periodo trascorso da Uva al comando provinciale dei carabinieri di via Saffi, è nota, ed ha contribuito a creare il “caso Uva”. Peraltro, prima dell’avvocato ferrarese Anselmo, noto per la vicenda Aldovrandi, si erano rivolti, in successione, ad altri due legali varesini che, con un propri periti, erano addivenuti alle stesse conclusioni della procura. Giustizia: "caso Papini", una vicenda esemplare di giustizia dell’emergenza di Paolo Persichetti Liberazione, 7 aprile 2011 Conferenza stampa a Montecitorio. I legali denunciano: "Quello di Papini è stato un processo ai sentimenti. Quando venne arrestato, la digos di Bologna sapeva già da un anno, grazie alle intercettazioni telefoniche, che andava in carcere a trovare la Blefari con l’accordo della direzione dell’istituto di pena per tentare di impedire i suoi propositi suicidari dichiarati in una lettera. L’inchiesta è stata una montatura". Dopo l’assoluzione crolla il teorema accusatorio messo in piedi dai pm bolognesi che hanno pilotato da lontano anche l’inchiesta romana e il processo. I magistrati dovrebbero archiviare la sua posizione nell’inchiesta sull’attentato a Marco Biagi, ma sotto le due torri esiste una delle peggiori procure d’Italia. Chissà cosa avrebbe pensato il marziano di Flaiano se fosse atterrato ieri mattina davanti a Montecitorio? Mentre i post-girotondini del popolo viola presidiavano la piazza per protestare contro il modo in cui il governo e la sua maggioranza parlamentare affrontano i temi della giustizia, srotolando un tricolore lungo circa 60 metri per dare inizio alla giornata della democrazia accanto a molte bandiere dell’Italia dei valori, FdS e Sel, dentro la Camera si teneva una conferenza stampa quasi deserta sul caso di Massimo Papini: uno degli esempi drammaticamente più concreti di come si esercita la giustizia in Italia. 17 mesi e 23 giorni di carcere duro in custodia preventiva, quando andava bene in regime di alta sicurezza nel braccio speciale di Siano, in Calabria, dove sono rinchiusi una parte dei detenuti politici di sinistra; altrimenti in regime di totale isolamento, peggio del 41 bis, quando durante i lunghi mesi del processo era appog giato al piano terra del reparto G12 di Rebibbia. Sempre solo in un cubicolo, senza diritto alla socialità con altri detenuti, e con le ore d’aria (per così dire) da passare in un rettangolo di cemento di pochi metri quadrati circondato da alte mura e con il cielo coperto da una grossa griglia metallica. Tutto questo per un’accusa senza fondamento: aver fatto parte delle cosiddette “nuove brigate rosse”, solo perché non aveva rinunciato ad assistere la sua ex fidanzata, Diana Blefari Melazzi, precipitata dopo l’arresto nel labirinto della sofferenza psichiatrica. Strada senza ritorno sfociata nel suicidio, poche settimane dopo l’arresto di Massimo, il 31 ottobre 2009. Una morte quasi indotta da una persecutoria volontà di sfruttare la sua malattia come una opportunità per le indagini. "Assolto per non aver commesso il fatto" hanno stabilito lo scorso 23 marzo i giudici della prima corte d’assise di Roma, ribadendo che la solidarietà, anche per chi è stato dichiarato colpevole, non è reato. Un caso "paradigmatico" hanno spiegato i suo legali, Caterina Calia e Francesco Romeo presenti alla conferenza stampa insieme a Gianluca Peciola, consigliere provinciale Sel e alla deputata radicale (lista Pd) Rita Bernardini, che ha seguito il caso, incontrato più volte Papini in carcere e portato radio radicale a registrare le udienze del processo. Attenzione mediatica che ha infastidito molto la pubblica accusa. Tra i banchi solo qualche sparuto giornalista e gli amici di Massimo, animatori del comitato che l’ha sostenuto nei suoi 17 mesi di detenzione. La piazza era piena ma la sala era vuota. Eppure si parla tanto di giustizia al punto che – direbbero i sociologi – questo tema è divenuto il maggiore repertorio di mobilitazione dell’azione politica. Fa scorrere fiumi d’inchiostro, riempie tg e salotti televisivi, ma quando ci si trova di fronte a casi concreti l’interesse svanisce. Davvero una strana idea di giustizia: la destra che grida alle toghe rosse e vede complotti delle procure ovunque si allinea subito dietro l’azione repressiva della magistratura, quando questa si riversa contro soggetti estranei al mondo imprenditoriale, alle classi possidenti; la sinistra, che inneggia alla costituzione e si erge a paladina delle legalità, perde vista, udito e parola di fronte agli abusi, per non parlare del carattere sistemico delle pratiche inquisitorie condotte dalla magistratura inquirente, grazie anche ad una legislazione speciale che gli offre mano libera. Insomma ci si agita molto per non fare nulla. L’arena giudiziaria appare solo il luogo dove si è trasferito lo scontro politico. Alla fine, della giustizia, della giustizia giusta, delle garanzie, non interessa a nessuno. Vince solo la demagogia penale: in galera tutti meno quelli che ci mandano gli altri. E così vicende come quelle di Papini restano sullo sfondo, ignorate. Nessuno chiederà conto alla procura di Bologna che – è già accaduto in altri casi – ha pilotato da lontano l’arresto di Papini e il processo, occultando prove a discarico dell’imputato, come ha denunciato l’avvocato Romeo. Nessuno vorrà sapere perché i testi citati dalla difesa sono stati inchiestati durante il processo, al punto da dover temere che l’azione difensiva fosse diventata un delitto. Il marziano di Flaiano non ha esitato, ha ripreso il volo disgustato. Giustizia: sfiorato un altro caso Spaccarotella; buco nel parabrezza di auto di passaggio Secolo XIX, 7 aprile 2011 Il sovrintendente capo Umberto Gagliano lo dice quasi sussurrando: “A guardare quel buco nel parabrezza del “civile”... Abbiamo rischiato un altro Spaccarotella”. Il parabrezza è quello dell’Opel Corsa guidata da Cristian Conti: ha un foro proprio all’altezza del conducente. Spaccarotella, invece, è il poliziotto della Stradale condannato in primo grado perché, nel 2007, sparò da un’area di servizio all’altra, sull’Ai in provincia di Arezzo, e uccise il tifoso laziale Gabriele Sandri. Spari, pistole, fughe, l’autogrill: normale che Gagliano pensi al collega della Polstrada, al clamore di quell’omicidio e al “civile”. Umberto Gagliano è stato sentito a lungo dai carabinieri di Sestri Levante, proprio come il collega Raffaele Ferrante. Entrambi hanno dichiarato: “Ci siamo fermati per fare rifornimento. Il detenuto Pietro Noci è rimasto sul furgone, ammanettato, mentre noi, con Giovanni Vitali, siamo scesi al distributore dell’area di servizio. Noci ha sfondato la porta della gabbia, quindi siamo intervenuti, ma è riuscito ad aprire il portellone e scappare. A quel punto, lo abbiamo inseguito. Infine, abbiamo sparato”. Però la ricostruzione dei due poliziotti non convince pienamente. Testimoni hanno riferito di aver visto i tre agenti uscire dall’autogrill e poi correre verso il furgone. Un benzinaio ha raccontato di aver notato Gagliano e i colleghi puntare le pistole al cielo, ma i segni sull’asfalto sono inequivocabili. Così come il foro di proiettile sul parabrezza dell’auto del giovane Conti. Hanno sparato in aria, è vero, ma hanno pure sparato ad altezza d’uomo, sia nell’area di servizio, sia in via di Santa Vittoria, con le auto e i motocarri, i pedoni e gli scooter che continuavano a transitare. “Siamo inciampati - hanno detto agli investigatori Gagliano e Ferrante. Non sappiamo chi ha sparato né chi ha ferito Vitale e il detenuto”. Ci penseranno i carabinieri della Sezione Rilievi della compagnia di Sestri Levante a far luce su questo punto e a chiarire come e perché Noci sia scappato. Lettere: gettare le chiavi? di Antonio Cappelli Terra, 7 aprile 2011 Vorrei vederli qui, quelli che vogliono “gettare le chiavi delle celle”, davanti a questo ragazzo ventiduenne, analfabeta, sieropositivo, epilettico sin dalla nascita, incapace di reggersi in piedi stordito com’è dalle malattie e dai farmaci inutilmente somministrati per tentare di controllare una forma di epilessia ribelle alla terapia. Vorrei che lo guardassero in viso quando si illumina per un gesto di comprensione o ride fanciullescamente per una battuta. Vorrei che lo ascoltassero quando nel suo stretto dialetto racconta con rassegnazione la sua storia di ragazzo cresciuto nei bassi napoletani, abbandonato a se stesso, costretto a sopravvivere di momentanei espedienti, chiuso in carcere da anni grazie a un cumulo di condanne per piccoli reati e con la prospettiva di rimanere dentro ancora a lungo, senza istruzione e senza lavoro, in una cella divisa con sei compagni di pena che si alternano per assisterlo quando cade a terra travolto da una delle sue crisi quasi quotidiane. Mi piacerebbe che gli “uomini dabbene”, quelli che invocano a gran voce “la certezza della pena”, mi spiegassero a che cosa serve un carcere così, incapace di curare e di educare, volto solo a reprimere e ad escludere, incurante delle motivazioni umane e sociali della devianza, insensibile alle sofferenze inutilmente inflitte, inadeguato a creare prospettive di speranza per un futuro diverso. Aspirerei a decifrare la logica di questa pena fine a sé stessa, di questa sofferenza inutilmente inflitta, di questa forma crudele di reclusione, sorda ad ogni richiamo di umanità, impassibile davanti alla solitudine e al dolore, chiusa ad ogni prospettiva di redenzione e di speranza. Ricorrere per un caso come questo agli eruditi richiami delle garanzie costituzionali mi sembra persino eccessivo. Basta un pò di umanità per percepire il “male di vivere” insito nelle forme di sofferenza arbitrariamente aggiunte alla reclusione; ed è sufficiente il buon senso per comprendere il rischio sociale derivante da forme di carcerazione così afflittive, capaci solo di mostrare a chi ha sbagliato il volto arcigno e lo sguardo spietato della legalità. Se nulla cambia il piccolo ragazzo napoletano tornerà prima o poi, da libero, nella società criminogena che conosce sin dalla nascita; tornerà, ormai uomo fatto, colmo di frustrazione e di rabbia, indurito dalla sofferenza, reso esperto dalla informale ma efficace scuola di delinquenza che è il carcere in cui è stato ristretto. Per sopravvivere dovrà allora ricorrere all’unica esperienza che la comunità in cui ha sempre vissuto gli ha offerta, quella del crimine, piccolo o grande che sia. E allora la gente dabbene - tanto sensibile alle altrui responsabilità quanto incurante delle proprie - si confermerà nella sua convinzione fatta di celle da sbarrare e di chiavi da gettar via. Bisogna rassegnarsi? O forse invece vale la pena di battersi per costruire qualche prospettiva diversa, per illuminare con la luce della speranza il buio, che ci circonda, della fredda indignazione e del conformismo dilagante. Lettere: affetti e carcere, il problema della sessualità di Simona Carandente www.ilmediano.it, 7 aprile 2011 L’argomento è spinoso e poco trattato. Ogni tanto il tema riappare e si discute circa la necessità di riconoscere quello all’affettività come un vero e proprio diritto, inviolabile. Quello della sessualità in carcere, e più in generale della mancanza di soddisfacimento, in senso lato, delle esigenze affettive dei detenuti è argomento non semplice, spinoso, affrontato poco e da limitate sfere di intellettuali. Chi ha vissuto un’esperienza carceraria sa che, anche in caso di brevi periodi di detenzione, si ha un vero e proprio stravolgimento del sé: se l’attività affettiva viene seriamente limitata, quella sessuale scompare del tutto, ininterrottamente. Dal punto di vista formale, la questione connessa al binomio sesso-carcere, di stampo marcatamente penitenziario, attiene alla fase dell’esecuzione della pena detentiva, in particolare a quella che concerne il trattamento della criminalità. Fra i primi, Michele Coiro, direttore del Dap scomparso di recente, aveva sollevato il problema dell’affettività in carcere, emanando circolari dove chiedeva ai direttori dei penitenziari di pronunciarsi sulla possibilità di umanizzare le case di reclusione. Nel 2002 se ne discute ancora, nell’ambito di un progetto di riforma del sistema penitenziario, già avanzato della precedente legislatura, partendo dall’assunto che quello all’affettività venga riconosciuto come vero e proprio diritto, inviolabile, riconducibile al ben più ampio diritto riconosciuto dall’art. 2 della Carta Costituzionale, di poter esprimere la propria personalità sotto ogni aspetto. Attualmente, la fonte normativa di riferimento del diritto penitenziario rimane la legge del 1975, che si occupa in più punti del problema dell’affettività in carcere. Se l’art. 28 istituzionalizza il legame dei detenuti con le proprie famiglie di origine, l’art.30 ter riconosce ai condannati meritevoli, e non socialmente pericolosi, la possibilità di godere di permessi premio di durata non superiore ai 15 giorni, proprio allo scopo di coltivare interessi affettivi, culturali e di lavoro. Tuttavia, stante soprattutto la difficoltà nell’ottenere permessi premio, è evidente come l’aspetto marcatamente sessuale della sfera affettiva, specie se avulso da componenti affettive interne, assuma nel tempo una valenza abnorme, esasperata e ingrandita da fantasie che, a lungo andare, si trasformano in rituali, cioè in forme coercitive ed ossessive se non addirittura maniacali. Il panorama internazionale sul punto appare variegato ed interessante: se in Svezia alle consorti, o compagne dei ristretti, è concesso il diritto di visite non controllate, nei Paesi dell’America Latina tale diritto è addirittura codificato, giungendo in paesi come il Venezuela a permettere che, all’interno del carcere, i detenuti ricevano addirittura la visita di prostitute autorizzate. Lettere: nessun pregiudizio contro carcerati… ma quanti incensurati non trovano lavoro? www.targatocn.it, 7 aprile 2011 Un nostro lettore replica ad una lettera nella quale un cuneese lamenta che un suo amico pregiudicato da tempo non trova un impiego. “Egregio direttore, vorrei cortesemente fare qualche osservazione in merito alla lettera inviata dal signor Ferrero, il quale si lamenta per le difficoltà incontrate nel trovare un impiego ad un carcerato italiano, condannato a più di due anni di reclusione per un non meglio precisato reato. Fermo restando che a chiunque deve essere concessa una possibilità di riscatto, vorrei ricordare che, al di là del caso specifico, ci sono tantissimi cuneesi incensurati, spesso bravissimi ragazzi, magari anche diplomati o addirittura laureati, che stanno cercando affannosamente un lavoro senza trovarlo ed altri ancora, anche padri di famiglia, lo hanno perso o stanno per essere licenziati. Avere un precedente penale non deve precludere qualsiasi possibilità di reinserimento, ma non può neanche diventare quasi un titolo di merito, così come il colore della pelle a prescindere dalla voglia di lavorare non può assolutamente essere a priori il criterio di valutazione delle persone assunte in tanti nostri stabilimenti. Ci sono fannulloni italiani e fannulloni extracomunitari così come ci sono tanti bravissimi lavoratori di tutte le nazionalità. Nel momento in cui si chiede di accantonare un preconcetto nei confronti di un detenuto non si può cadere nell’estremo opposto, quello cioè di un pregiudizio razziale in base al quale ad esempio il pluriripetente figlio di Bossi (facile fare l’opposizione stando al governo) sarebbe comunque migliore di un suo coetaneo meno fortunato non figlio del dio Po e neanche figlio di papà... sarà per questo che ha meritato un’ottima sistemazione mentre tanti altri stentano a trovare un qualsiasi impiego?”. Corrado Beccacini Napoli: emergenza salute a Poggioreale, infermieri denunciano i tagli allo straordinario Il Mattino, 7 aprile 2011 Terapie somministrate in ritardo. Esami clinici rinviati. Difficoltà nei trasferimenti dalle celle al pronto soccorso interno. L’assistenza in carcere è in difficoltà, a causa delle carenza di personale in organico e la situazione si è aggravata con i tagli al lavoro straordinario, disposti nell’ultimo mese. Lo segnalano gli infermieri in servizio nella casa circondariale di Poggioreale, attraverso una lettera trasmessa ai vertici dell’Asl Napoli 1 e ai dirigenti della struttura penitenziaria. E aggiungono: “La situazione lavorativa è insostenibile”, stigmatizzando nella missiva le carenze sul fronte della salute e della sicurezza. Ad alzare la tensione è, appunto, la riduzione delle ore extra di lavoro, con un tetto fissato a 18 ore. Ma “tale monte ore - si legge nel documento presentato dai lavoratori - è totalmente insufficiente a garantire la regolare attività lavorativa”. L’effetto? “Significherà senza dubbio, gravi ripercussioni a danno degli ospiti dell’istituto, mettendo a repentaglio la loro sicurezza”. E sul caso il segretario provinciale della Cisl sanità, Andrea Arciuolo, sottolinea: “Ciascun operatore la notte è chiamato a seguire anche 700 detenuti, che si trovano in diversi padiglioni. Il direttore del dipartimento degli istituti penitenziari dell’Asl ha già presentato più relazioni sulle difficoltà nel coprire i turni di servizio senza fare ricorso al lavoro straordinario. E, come sindacato, più volte abbiamo chiesto un incontro per affrontare la riorganizzazione dei servizi, ma senza ottenere alcun risultato. È paradossale che nell’Asl non ci sia confronto con le organizzazioni sindacali”. Claudio Palma da anni lavora nella struttura e, in qualità di delegato sindacale, con i colleghi Luciano Padere e Antonio Di Fuzio, accetta di spiegare quali sono le difficoltà, e i disagi più pesanti riscontrati sul campo. “La settimana scorsa - afferma - non si sono potuti effettuare dodici prelievi ematici, programmati in mattinata, per mancanza di personale nei reparti Milano e Napoli; mentre le terapie intramuscolari sono slittate dalle 16 alle 18 nel reparto Salerno”. Stesse difficoltà nel rispettare gli orari di somministrazione delle terapie orali e, ad esempio, quelle per il trattamento del diabete; motivi per cui “le lamentele dei detenuti e del personale penitenziario sono continue”. Nel carcere di Poggioreale sono ammalati afflitti da patologie severe, con cardiopatie, malattie epatiche e infettive, tra cui l’Aids. “Per questi pazienti - sottolinea Palma - è fondamentale che le terapie siano assunte in tempi regolari”. E invece, può pure accadere che “alcuni farmaci non siano disponibili anche per mancanza di tempo nel ritiro delle scorte, a causa della mole enorme di lavoro”. Non basta: “Capita che un detenuto, colpito da infarto o altre patologie acute, debba essere portato al ponto soccorso interno, ma l’infermiere è impegnato in altri padiglioni. Quindi l’agente è costretto ad accompagnare, da solo, il paziente perché sia visitato immediatamente dal medico”. Tra le situazioni d’emergenza rientrano i tentativi di suicidio. Dalla direzione sanitaria del carcere di Poggioreale, se da una parte confermano le carenze in organico, dall’altra aggiungono che, per fronteggiare la situazione, è allo studio un piano di riorganizzazione, per accorpare i reparti e anche per rimodulare e rendere ancora più efficienti le modalità di lavoro degli infermieri. La risposta dell’Asl “Le carenze in organico sono all’attenzione della direzione generale dell’Asl Napoli 1” assicura Marco Papa, responsabile del settore programmazione. Che spiega: “Le difficoltà dipendono anche dal blocco delle assunzioni che riguarda tutte le aziende ospedaliere e sanitarie in Campania e sarà vigente fino a quando non sarà completato il piano di rientro”. In che modo l’Asl sta cercando di affrontare la situazione? “Una soluzione al vaglio in queste settimane è il trasferimento di infermieri nei settori più critici, anche in considerazione della riorganizzazione complessiva della rete di assistenza, avviata con l’attuazione del piano ospedaliero regionale”. In attesa di provvedimenti, la riduzione del lavoro straordinario ha però accentuato le carenze. Perché andare a colpire un settore delicato, come quello dell’assistenza ai detenuti? “Il monte ore è fissato per legge. Se si supera il tetto, si può anche incorre in sanzioni da parte dell’ispettorato del lavoro. La decisione di ridurre i carichi di lavoro straordinario, dunque, è stata stabilita in tutti i servizi dell’Asl per applicare quanto disposto dalla normativa vigente. Unica alternativa possibile è spalmare il numero di ore necessario per tamponare le carenze su più lavoratori impegnati nei servizi in difficoltà. E anche questo tipo di soluzione è presa in considerazione dall’Asl”. Messina: all’Opg di Barcellona s’inaugura domani il reparto di custodia “attenuata” Gazzetta del Sud, 7 aprile 2011 Si avvia una nuova fase per i malati di mente che hanno commesso reati. L’Ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona apre da domani, con la cerimonia inaugurale prevista per le 11, il reparto esterno nel quartiere Oreto, in un edificio concesso in comodato dal Comune di Barcellona, intitolato alla psichiatra Carmen Sampietro (già vice direttrice dell’Opg) e che ospiterà, in una struttura innovativa priva di agenti penitenziari e col supporto scientifico del Dipartimento di salute mentale, i primi 12 ricoverati. Il reparto attenuato, esterno rispetto al complesso edilizio penitenziario, propone, come spiegato dal direttore dell’Opg Nunziante Rosania, “modelli assolutamente innovativi, rispetto allo standard penitenziario, che sono stati riassunti in apposite norme di attuazione”. Con l’inaugurazione di questa nuova realtà, si fa infatti riferimento alla comunità terapeutica protetta destinata ad un numero limitato di pazienti, con un adeguato rapporto “assistenti-assistiti”, per garantire il regolare svolgimento di attività riabilitative. I pazienti dimessi presto saranno inseriti nel mondo del lavoro attraverso il progetto “Luce e libertà” che prevede l’impiego nel settore del fotovoltaico. Gorizia: il ministero vuole chiudere il carcere entro un paio di mesi Messaggero Veneto, 7 aprile 2011 Nel giro di un paio di anni il carcere di via Barzellini potrebbe essere dismesso. Il silenzio tombale che avvolge da qualche tempo a questa parte il futuro della casa circondariale di Gorizia sarebbe in qualche maniera giustificato dalla volontà del ministero della Giustizia di chiudere la fatiscente struttura, che in normali condizioni può oggi accogliere non più di trenta detenuti. Al momento, nessuna comunicazione ufficiale è giunta alle competenti autorità. Ma, secondo quanto trapela da fonti vicine agli ambienti penitenziari, il commissario delegato per il Piano carceri, Franco Ionta, avrebbe inserito la casa circondariale del capoluogo isontino tra quelle da dismettere, pronto a far firmare al Guardasigilli Alfano l’apposito decreto di chiusura. Della questione si occuperanno stamani il segretario generale della Cisl isontina, Umberto Brusciano, e il segretario regionale della Fns-Cisl, Ivano Signor, che hanno convocato un incontro con la stampa proprio per far luce sulla vicenda. Classificato come struttura di media sicurezza, il carcere di via Barzellini può ospitare i detenuti che devono scontare pene inferiori ai cinque anni. Due anni fa la capienza è stata più che dimezzata a causa delle gravi condizioni di fatiscenza in cui versa la struttura adiacente al Palazzo di giustizia: per ripristinare la piena funzionalità del penitenziario sarebbe necessario un investimento non inferiore ai quattro milioni di euro. Una cifra che il governo non pare intenzionato a spendere a Gorizia, nonostante il pressing del sindaco, Ettore Romoli, che un mese fa aveva scritto al ministro Alfano: “Sono convinto che Gorizia, in qualità di capoluogo dell’Isontino, non possa e non debba privarsi della sua struttura carceraria - aveva scritto Romoli ad Alfano, la quale deve però poter garantire ai detenuti e agli operatori dignità e adeguate condizioni di sicurezza. Vincoli, questi, che oggi risultano essere del tutto disattesi”. Lo scorso autunno il primo cittadino aveva dato disposizione ai propri uffici di individuare sul territorio comunale aree potenzialmente adatte ad ospitare un nuovo carcere: lo studio aveva permesso di inquadrare cinque distinti siti in cui realizzare la nuova casa circondariale. La soppressione del carcere potrebbe finire con l’innescare un pericoloso effetto domino, che rischierebbe di mettere in seria discussione anche la permanenza del Tribunale. La struttura è fatiscente e degradata Fu il consigliere regionale Giorgio Brandolin a lanciare l’allarme-carcere qualche mese fa. Visitò anche la struttura e l’ispezione evidenziò che nel carcere goriziano, la cui capienza è di 30 posti, erano ospitati a quella data 47 detenuti: di questi, 30 erano detenuti comuni, 7 con condanna definitiva, 27 in attesa di giudizio, 7 in appello e 6 ricorrenti. Venti i tossicodipendenti, sei dei quali sotto metadone. Il questionario compilato nel corso della visita rivelò poi che nella popolazione carceraria sono due i casi di epatite C, sette quelli psichiatrici, 24 gli stranieri e 9 i detenuti dipendenti dall’amministrazione penitenziaria. “Le condizioni dall’ambiente carcerario si sono rivelate difficili: ogni cella ha 21 metri quadrati. Le ore passate in cella sono 20, le ore d’aria 4”, denunciò in quell’occasione. Roma: Belisario (Idv); grave silenzio di Alfano su protesta delle agenti di Rebibbia Adnkronos, 7 aprile 2011 “È da lunedì scorso che abbiamo denunciato l’inizio dello sciopero della fame e del sonno da parte delle agenti di polizia penitenziaria del Carcere femminile di Rebibbia, esasperate per l’insostenibile carenza di organico. Ogni ora che passa spinge la protesta sull’orlo della tragedia, il silenzio del Ministro Alfano è grave e inaccettabile: il Governo agisca subito prima che sia troppo tardi”. Lo afferma il capogruppo dell’Idv in Senato, Felice Belisario, che ha ricevuto un messaggio dalle agenti nel quale hanno denunciato la perdita di lucidità, la debilitazione fisica e i primi malori di molte di loro. “Le drammatiche condizioni di salute delle agenti e la stessa sicurezza dell’istituto -aggiunge- non possono essere ignorate dal Ministero della Giustizia e dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. La situazione dell’Istituto femminile di Rebibbia, sul punto di esplodere a causa del sovraffollamento dei detenuti e della gravissima carenza di personale, è la punta dell’iceberg della crisi dell’intero sistema carcerario nazionale. Non servono soluzioni tampone ma sono necessari interventi di sistema, per risolvere una volta per tutte le emergenze”. “È ora - prosegue - di tradurre nei fatti le dichiarazioni di intenti, di fronte agli enormi rischi della protesta in atto va garantito subito lo stanziamento di nuovo personale per consentire il normale funzionamento della struttura e condizioni dignitose alle lavoratrici. L’Italia dei valori si rivolge alle opposizioni, a partire dal Partito democratico: serve un appello fermo e risoluto di tutte le forze responsabili - conclude Belisario - per ottenere una risoluzione positiva di una protesta dai risvolti sempre più preoccupanti”. Trani (Ba): venerdì un sit-in di protesta dei sindacati di Polizia penitenziaria www.traniweb.it, 7 aprile 2011 Dopo l’ultimo fallimentare incontro con la direzione della casa circondariale di Trani le organizzazioni sindacali di polizia penitenziaria Osapp, Fp Cgil, Cisl Fns, Cnpp Fsa, Ugl Pp e Sinappe (che rappresentano il 70% del personale di polizia sindacalizzato), hanno organizzato un sit-in di protesta di tutti gli agenti di polizia penitenziaria in servizio nella sede di Trani, nei pressi della zona filtro: la protesta avrà luogo venerdì 8 aprile davanti ai cancelli del carcere, a partire dalle ore 9. L’11 aprile la stessa manifestazione verrà ripetuta a Bari presso la sede del provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria. “I poliziotti penitenziari di Trani - si legge nella nota - protestano poiché i vertici del provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria di Puglia hanno inopinatamente ed unilateralmente deciso di trasferire 150 detenuti dalla casa circondariale di Bari a quella tranese, che si vanno ad aggiungere agli attuali 280 reclusi, più 45 nella sezione femminile della stessa città penitenziaria della Bat e che superano di gran lunga la capienza massima regolamentare di 220 detenuti. Il trasferimento viene effettuato senza un adeguato e congruo numero di agenti. Le organizzazioni sindacali a più riprese hanno richiesto a gran voce il rientro nel carcere tranese delle numerose unità di personale, distaccate in altre sedi degli uffici regionali, ma in pianta organica previste presso il carcere di Trani. Di fatto, vi è la necessità di avere un 30% di personale in più rispetto a quello attualmente in servizio, che consta di circa 250 agenti. Inoltre, illegittimamente è stata soppressa l’unica fonte di benessere del personale dipendente e, quindi, non è ulteriormente tollerabile la chiusura, disposta da una settimana, dello spaccio agenti con annessa sala convegni, di cui le organizzazioni sindacali hanno chiesto l’immediata riapertura”. Torino: parenti vittima aggrediscono un detenuto, resta ferito un agente penitenziario Ansa, 7 aprile 2011 Marco Savatteri, 40 anni, agente di polizia penitenziaria, è rimasto ferito al volto, questa mattina, nel tentativo di difendere un detenuto dall’aggressione dei familiari della vittima. È accaduto nell’aula 85 del Palazzo di Giustizia di Torino, dove era in corso un’udienza per il processo per la morte di Pasquale Cardillo, addetto alle pulizie della stazione ferroviaria Porta Nuova, morto, secondo l’accusa, in seguito all’aggressione di un senzatetto. Alla vista del detenuto, chiuso all’interno del gabbiotto di sicurezza dell’aula, i parenti della vittima hanno prima iniziato a inveire contro di lui, poi, si sono avvicinati alle sbarre e hanno cercato di afferrarlo. A questo punto i due agenti di polizia penitenziaria presenti sono intervenuti, cercando di allontanare gli aggressori. Nella concitazione, però, un agente è stato colpito da una testata da un familiare della vittima. Subito soccorso e trasportato in ospedale, al Maria Vittoria, è stato medicato. La prognosi è di sette giorni. L’altro agente, invece, ha subito danni alla divisa. Sconcerto e rabbia da parte dell’Osapp, l’organizzazione sindacale autonoma di polizia penitenziaria che ha ribadito la necessità di un potenziamento. “Dopo le aggressioni da parte dei detenuti - ha commentato Leo Beneduce, segretario generale dell’Osapp - adesso dobbiamo subire anche quelle da parte dei parenti delle vittime. Il vero problema - ha aggiunto - è che siamo sempre di meno in particolare per quanto riguarda le traduzioni dei detenuti”. Infine è stata espressa solidarietà nei confronti dell’agente ferito. Nuoro: detenuti a confronto con gli studenti La Nuova Sardegna, 7 aprile 2011 “Il mio consiglio per voi ragazzi: state lontano da tutti i tipi di droga, per non cadere negli errori che possono cambiare il vostro senso alla vita, non regalate la vostra giovinezza, non buttatela nel fuoco e state attenti a non perdere la vostra pazienza in nessun caso, perché non c’è altro di più bello che la Libertà”. È uno dei tanti messaggi forti codificati negli scritti e nelle poesie che i detenuti-allievi del Cip-Eda (Centro territoriale permanente-educazione adulti) di Mamone, che fa capo alla scuola n. 4 di Nuoro, hanno rivolto nell’incontro di gemellaggio, a Galtellì, agli alunni della scuola media. Hanno partecipato i docenti Ctp, il preside Marco Caria e il dirigente amministrativo Graziella Me, un gruppo detenuti-allievi, il direttore Cocco, educatori e la bibliotecaria di Mamone Maria Ausilia Montis, studenti, docenti e il preside della scuola di Galtelli Carrabs e l’assessore Paolo Cosseddu. L’iniziativa fa parte del progetto “Il carcere va a scuola” elaborato dai docenti di Mamone (Maria Lucia Sannio, Bastiano Calia, Graziano Massaiu, Giovanna Cottu, Michele Falconi, Luisella Siotto) in collaborazione con la bibliotecaria e il sostegno degli educatori e polizia penitenziaria.Gli alunni di Galtellì, guidati dalla docente di educazione musicale Noemi Marratzu, hanno cantato accompagnati dalla chitarra e flauto. Poi i detenuti in cattedra: hanno letto elaborati nei quali si parla della vita all’interno della casa penale e si è affrontata la tematica della legalità, evidenziando la mancanza di libertà e affetti. I ragazzi di Galtellì (docente Antonella Tocco) hanno poste domande in un clima di emozioni. Dice un detenuto: “Confido nelle mie forze e nella maturità che ho raggiunto per riniziare a vivere, per recuperare tutto quello che ho perso”. Poi pranzo e visita al centro storico, nei luoghi del Parco Deleddiano, fra cui la “Basilica pisana” dove si recavano le dame Pintor del romanzo “Canne al vento”. I detenuti sono rientrati a Mamone con un pezzo di Galtellì sul cuore per quella ventata di “libertà” che, come recita uno scritto, “Per tante persone è oro e anche di più dell’oro, è vita”. Palermo: i detenuti del Pagliarelli avranno un campo da calcio e una loro squadra Redattore Sociale, 7 aprile 2011 Con il progetto “Calcio d’inizio”, 48 detenuti del carcere Pagliarelli saranno impegnati prima nella realizzazione di un campo di calcio e poi nella formazione di una squadra. Il tutto sotto la guida dell’ex allenatore del Palermo, Ignazio Arcoleo. I detenuti del carcere Pagliarelli, guidati dall’ex allenatore della squadra del Palermo Ignazio Arcoleo, molto presto avranno una loro squadra e si alleneranno in un campo realizzato da loro. L’iniziativa si inserisce nell’ambito del progetto “Calcio d’inizio”. Questa mattina, nel corso del seminario “Calcio D’Inizio: l’universo carcerario tra ricerca e intervento”, nella Sala Martorana di Palazzo Comitini, è stata presentata la sua seconda fase operativa. “Calcio d’inizio” è un progetto biennale di formazione, educazione e reinserimento sociale dei detenuti del carcere “Pagliarelli” di Palermo, realizzato dall’Accademia Psicologia Applicata, dal Coni, dalla Confcooperative, dall’associazione Orizzonti Onlus e dall’associazione Idea. I 48 partecipanti, scelti su un campione di 162 detenuti, saranno impegnati in quattro percorsi diversi divisi per gruppi di 12. L’obiettivo è quello fare realizzare da alcuni di loro un campo di calcio dentro la struttura carceraria e, successivamente, dare seguito alla formazione di una squadra di calcio sotto la guida proprio dell’ex allenatore del Palermo, Ignazio Arcoleo. Il campo di calcio verrà realizzato, infatti, dalla manovalanza degli stessi detenuti che, dopo appositi percorsi formativi, si distingueranno in operai edili, elettricisti, custodi e manutentori del campo. Durante il seminario, organizzato dall’associazione Orizzonti Onlus, sono stati illustrati i criteri di selezione che hanno permesso di individuare i 48 detenuti che lavoreranno al progetto. La ricerca è stata condotta su un campione di 162 detenuti, utilizzando nella prima fase del protocollo di intervento degli strumenti psicologici per analizzare la pericolosità sociale e le caratteristiche personologiche, e valutare così l’idoneità dei detenuti al percorso formativo del progetto. Un aspetto innovativo della ricerca è stato l’utilizzo della grafologia, l’analisi della scrittura, per valutare gli aspetti personologici e di orientamento al lavoro dei detenuti. I risultati alla fine hanno portato a identificare il target dei soggetti che beneficeranno dei percorsi di formazione e work experience del progetto. Tra le novità, è stata anche presentatala la figura dell’Ocp (Operatore criminologico penitenziario), una figura professionale innovativa e trasversale, che svolge la funzione di accompagnamento, mediazione e transizione, rispetto al percorso all’interno e fuori dell’istituzione penitenziaria. “Questi progetti possono aiutare la persona a capire che la condizione di detenuto non è una condanna definitiva nei confronti della società - ha riferito l’assessore regionale alle attività sociali Andrea Piraino. Oggi i progetti di inclusione sociale non mancano ma occorrerebbe attivarsi di più per collegare l’esperienza dentro il carcere con quella dopo il periodo di reclusione in modo da favorire quell’integrazione socio-lavorativa della persona indispensabile per non farla tornare a delinquere. Sulla possibilità di creare un ponte stabile tra questi due momenti delicati della persona detenuta c’è ancora da lavorare tanto”. “Questo è, senz’altro, un esempio di come, attraverso la politica dei piccoli passi, si può cercare di arginare in qualche modo il disagio sociale - ha detto la direttrice del carcere Pagliarelli Francesca Vazzana -. Sicuramente l’attività sportiva è uno degli aspetti su cui fondare il processo di recupero educativo della persona”. “È nostro principale desiderio poter offrire alla comunità scientifica anche uno spazio di confronto - sottolinea il presidente dell’associazione Orizzonti onlus Ernesto Mangiapane - e dibattito su tutto ciò che riguarda le problematiche del sociale e dell’inclusione socio lavorativa dei soggetti svantaggiati”. Immigrazione: permesso di soggiorno per motivi umanitari per 14.500 tunisini di Marco Ludovico Il sole 24 ore, 7 aprile 2011 Arriva con un decreto del presidente del Consiglio il permesso di soggiorno per motivi umanitari. Il testo dovrebbe essere approvato oggi dal Consiglio dei ministri e sarà destinato a tutti gli immigrati - in stragrande maggioranza tunisini presenti nelle tendopoli e negli altri “Cie (centri di identificazione ed espulsione) temporanei” sorti in questi giorni. Il documento per circolare liberamente sul territorio nazionale durerà sei mesi per l’Italia, di cui tre anche per gli altri Stati dell’area Schengen. Al momento i possibili beneficiari sono 14.500, cioè le presenze stimate dal Viminale nei vari centri. Non si può escludere che il permesso sarà concesso anche agli altri migranti in arrivo. Nella scelta italiana gli aspetti indefiniti, incerti e fonte di contrasto internazionale sono però parecchi. Intanto, l’accesso ai confini è consentito in base agli accordi con i singoli Stati. Se, insomma, la Francia è preoccupata - si veda l’articolo a fianco - anche perché è la principale destinazione d’arrivo dei tunisini, è anche vero che il solo permesso di soggiorno umanitario non è sufficiente per andare nello stato transalpino se sono richiesti altri documenti (il passaporto, per esempio). Così Maroni, ieri, ha fatto intendere nel confronto con le regioni che vuole avere la copertura dell’Unione europea per suggellare l’operazione. La procedura diventa così più complicata della decisione del singolo Stato, ma consentirebbe di ridurre al minimo i conflitti tra nazioni e potrebbe avviare finalmente quel coinvolgimento europeo chiesto finora invano. Maroni chiederà l’applicazione della direttiva 55 del 2001, per la protezione dei rifugiati in fuga dalle zone di guerra. La richiesta italiana dovrebbe essere formalizzata il prossimo 11 aprile a Bruxelles, durante il consiglio dei Ministri dell’Interno dell’Unione europea. Osserva però Mario Staderini (Radicali): “È quantomeno contraddittorio che il governo italiano chieda l’applicazione della direttiva n. 55 quando non ha ancora recepito l’altra importante direttiva dell’Unione europea, che sancisce un percorso molto più graduato della Bossi Fini sui rimpatri degli immigrati clandestini”. Di certo i rimpatri dei tunisini, per ora, sono sospesi, in attesa di verificare le certezze sull’accordo tra il Governo italiano e quello di Tunisi. Sul fronte dell’emergenza umanitaria e del rilascio del permesso di soggiorno - che sarà consegnato in formato elettronico, secondo le norme Ue va considerato poi il fronte dei costi. Stime definitive ieri non erano ancora state fatte - la voce degli oneri nel Dpcm era ancora in bianco - ma è indubbio che l’assistenza umanitaria prevede oneri protratti nel tempo. Di sicuro si può ipotizzare che ogni migrante in un Cie costa circa 40 euro al giorno: un mese di permanenza dei 14.500 migranti, dunque, costa 17,4 milioni di euro. Fondi, peraltro, che l’anno scorso non potevano essere stati stanziati per il 2011, non potendo prevedersi un maxi-esodo di questa portata. Non solo: il Viminale deve trovare altri fondi per i Cie ordinari perché nel 2010 - azzerati di fatto gli sbarchi a Lampedusa la presenza nei centri si era quasi dimezzata: le risorse previste per quest’anno sono dunque ridotte mentre ora i centri sono stracolmi e bisognerà trovare i fondi integrativi per sostenere le spese. C’è poi la questione delle forze dell’ordine impegnate: a rotazione, finora, per l’emergenza umanitaria sono state oltre 2.200 unità al giorno. Tanto che ieri si è svolto un incontro al Dipartimento di pubblica sicurezza con i sindacati per definire nuove modalità organizzative. “Vogliamo sapere - dice Claudio Giardullo (Silp-Cgil) - se il governo intende prevedere risorse specifiche per l’emergenza. I costi dell’operazione non devono essere scaricati sulla gestione ordinaria della sicurezza per non creare contraccolpi gravissimi”. Sottolinea Felice Romano (Siulp): “Ci sono poliziotti che hanno lavorato per dieci giorni consecutivi, con senso assoluto di responsabilità. Adesso, però, diventa urgente l’assunzione di unità aggiuntive, almeno 2mila persone. Altrimenti rischiamo di toglierle ai servizi essenziali sul territorio”. Immigrazione: 34 € al giorno per “ospite”; Gruppo francese gestirà Cie-Cara di Gradisca La Repubblica, 7 aprile 2011 Gestione internazionale in vista per il Cie e il Cara di Gradisca. Sarà la costituenda associazione temporanea d’impresa guidata dalla francese Gepsa (in associazione con Cofely Italia e le coop italiane Acuarinto di Agrigento e Synergasia di Roma) a curare i servizi interni dei due centri per immigrati nei prossimi tre anni. Lo farà con impegno economico giornaliero a immigrato inferiore di 8 euro rispetto alla gestione attuale: 34 euro contro i 42 oggi richiesti dalla Connecting People di Trapani. La notizia è stata ufficializzata dalla Prefettura, che ha dunque provveduto all’affidamento temporaneo dell’appalto. La nuova gestione diventerà esecutiva a partire dal 1° maggio. Nel frattempo la Prefettura completerà tutte le necessarie verifiche sulle autocertificazioni (in particolare quelle antimafia) presentate dalle ditte. Infine - ricorsi delle imprese escluse permettendo - si provvederà alla stipula del contratto. E al definitivo cambio della guardia con l’attuale ente gestore, il consorzio siciliano Connecting People in sella dal 2009. La decisione della Prefettura ha dunque confermato quella che era stata la graduatoria provvisoria comunicata nelle scorse settimane. Il consorzio d’impresa fra il colosso transalpino Gepsa, la Cofely e le due associazioni italiane Acuarinto e Synergasia occupava già allora il primo posto nella graduatoria. Gepsa e Cofely sono partner sul mercato: la prima in particolare collabora col ministero dell’Interno francese nella gestione delle carceri. La seconda è una società di servizi. Le due coop italiane che fanno parte della cordata, invece, si occupano di assistenza alla persona e inserimento sociale degli stranieri. Niente riconferma dunque per il consorzio cooperativistico siciliano Connecting people. Nella graduatoria provvisoria era invece giunta terza la goriziana Minerva (primo gestore nel 2006) e quarta la cooperativa La Ghirlandina di Modena. Seguivano Sovrano Ordine di Malta e Albatros di Caltanissetta. Alle prime 4 classificate la Prefettura aveva richiesto riscontri documentali, chiedendo in pratica di giustificare un ribasso ritenuto “anomalo” rispetto alla base d’asta, fissata in 15 milioni per i prossimi tre anni. La miglior valutazione tecnica era inizialmente risultata quella dell’attuale gestore Connecting People (60 punti, il massimo), seguita da Minerva (57) e Gepsa (56.5). Al contrario, la cordata francese aveva presentato l’offerta economicamente più vantaggiosa con circa 14.6 milioni per tre anni (34.6 euro al giorno per ogni ospite). Seconda Connecting people con 16.9 milioni, poi Minerva e Ghirlandina, entrambe con circa 18 milioni. L’Ordine di Malta aveva offerto 17.5 milioni, mentre la richiesta più alta era stata quella presentata da Albatros con ben 23.7 milioni. Libano: rivolta in carcere provoca 2 morti e 13 feriti; familiari detenuti bloccano strada Ansa, 7 aprile 2011 Due detenuti morti, nove civili e quattro soldati libanesi feriti è il bilancio di scontri avvenuti all’interno e all’esterno del penitenziario di Rumie, sulle colline a est di Beirut, dove da domenica è in corso una violenta rivolta inscenata da alcuni prigionieri. Decine di parenti dei detenuti di Rumie hanno bloccato di nuovo la strada che conduce al carcere e la polizia ha tentato di disperderli. Nei disordini sono rimasti feriti 9 familiari dei prigionieri e 4 militari. Libia: tre giornalisti di Al Jazeera ancora detenuti Ansa, 7 aprile 2011 Arrestati, rilasciati, arrestati per una seconda volta. È successo a quattro giornalisti di Al Jazeera in Libia, al momento tre risultano ancora detenuti, uno è stato rilasciato. Ahmed Vall Ouldeddin della Mauritania, Ammar al-Hamdan della Norvegia, Kamel al-Tallou dell’Inghilterra e Lotfi al-Massoudi della Tunisia erano stati arrestati a marzo da militanti pro Gheddafi, quindi erano stati rilasciati a metà della scorsa settimana per poi essere nuovamente trattenuti lo stesso giorno. Dei quattro solo Lotfi al-Massoudi è stato liberato, ma degli altri tre ancora nessuna notizia, nonostante i molteplici appelli dell’emittente Al Jazeera e delle organizzazioni internazionali in difesa dei giornalisti e della libertà di stampa. Crescono le pressioni sulle forze di Gheddafi per rilasciare i giornalisti ancora detenuti e perché smettano di prendere di mira giornalisti, fotografi e reporter. Forte è anche la preoccupazione per quegli operatori dell’informazione che al momento risultano ancora scomparsi e di cui non si ha notizia. “Siamo sollevati per il rilascio di Lotfi al-Massoudi - spiega Abdel Dayem di Committee to Protect Journalists (Cpj) - ma restiamo preoccupati per la sorte degli altri giornalisti scomparsi e detenuti in Libia”.