Giustizia: 37 morti in 95 giorni… non è “epocale”, ministro Alfano? di Valter Vecellio Notizie Radicali, 5 aprile 2011 Si può provare una simulazione, o almeno immaginare lo scena. In una stanzuccia di pochi metri quadrati sono ammassate alcune persone, in quella stanzuccia ci vivono in promiscuità per molte ore del giorno, per mesi, anni. Per qualche ora possono andare a prendere una boccata d’aria e fare due passi in circolo in un cortile. Quello è il momento buono. Bisogna aspettare quell’ora d’aria; o, magari, aspettare che sia scesa la notte, tutti i compagni di stanza dormono e fingere di avere un attacco di diarrea e andare nel piccolo locale che fa da bagno, separato dalla stanza da un telo di plastica. In ogni modo, bisogna pensarci, cogliere il momento buono, aspettare l’occasione giusta. Poi bisogna prepararsi per tempo. Una corda? Trovarla. Tocca arrangiarsi con quello che c’è. Un lenzuolo. Bisogna ricavarne delle strisce, annodarle. E poi, dove far leva, dove appendersi? Ecco, quel tubo, quella sbarra. Sì, quella tiene, può andar bene. Finalmente solo! Ecco la corda, annodarla in fretta, vedi mai che ci sia un controllo… fatto il nodo, fissiamo l’estremità alla sbarra…ecco, è fatta, un salto e buonanotte, alla faccia di chi dice no all’amnistia, io me la prendo, la mia amnistia definitiva e irrevocabile… Poi si può immaginare il seguito: i compagni di cella che accorrono, oppure gli agenti, la corsa del medico di turno se c’è, chiamare l’ambulanza, di corsa al pronto soccorso…no non c’è nulla da fare, se n’è andato; oppure no, l’abbiamo riacchiappato per un soffio, ancora un minuto e sarebbe stato troppo tardi… Scena, insomma, di ordinari suicidi in un carcere, fate voi se a Milano o a Bologna, a Roma o a Palermo. Non cambia. Perché una simulazione, o cercare di immaginare la scena? Perché quello che si è cercato sommariamente di descrivere non è come aprire una finestra e, in un momento di sconforto, volare giù, oppure se si ha un’arma premere il grilletto e via, roba di un momento. No, in carcere ci devi pensare eccome. Chi lo fa, per forza di cose, ha tutto il tempo per rimuginarsi la cosa. E la sua disperazione, l’insopportabilità della situazione in cui è costretto a vivere non è rubricabile in un momento di sconforto. In una cella, chi decide di farla finita ha tutto il tempo per pensarci e ripensarci, riflettere se quella sia l’unica, sola alternativa che gli è rimasta o se invece può anche giocare altre carte…Provate per esempio a prendere un lenzuolo, ridurlo a strisce, farne una corda: cinque minuti almeno? E comunque occorre farlo senza che nessuno ti veda, sospetti qualcosa…Insomma, c’è tutto il tempo per pensarci e ripensarci. E sono tanti che non ci ripensano. Negli ultimi quattro giorni non ci hanno “ripensato” in tre, forse quattro. Due detenuti sono morti, gli altri sono in gravissime condizioni. Dall’inizio dell’anno non ci hanno “ripensato” in quindici, che tanti sono i detenuti il cui suicidio è stato accertato. In totale sono morti in trentasette. Diciassette sono deceduti, dicono i referti “per cause naturali”; ma possono esistere “cause naturali” in carcere, quando lo Stato si fa garante dell’incolumità fisica e psichica delle persone che vengono private della loro libertà? Altri sette detenuti sono morti per “cause da accertare”. E quando saranno accertate, queste cause? Quando ci verrà comunicato come sono morti, e perché? Tra i morti per “cause naturali” una donna di 44 anni, Loredana Berlingeri, era detenuta nel carcere di Reggio Calabria. È morta il 18 marzo scorso. Qualcuno si è dato pena di sapere come mai è entrata viva, è uscita morta? E perché il 3 aprile Mehdi Kadi, algerino 39enne, detenuto a Padova, appena stato trasferito da Vicenza, condannato con pena definitiva fino al 2023, ha deciso di uccidersi quando è rimasto solo in cella mentre gli altri compagni di reclusione usufruivano dell’ora d’aria pomeridiana? Negli ultimi dieci anni circa un terzo dei decessi nelle carceri italiane è avvenuto per suicidio. Nelle carceri, gli agenti organizzati in organici ridotti all’osso sono costretti a turni massacranti, e i loro sindacati, unanimi, avvertono da sempre che in queste condizioni non sono in grado di assicurare alcun tipo di sicurezza; occorrono educatori e assistenti sociali per assicurare la funzione rieducativa della pena prevista dall’art. 27 della Costituzione. Quello del ministro della Giustizia è un bilancio che definire fallimentare è poco. È bravissimo nell’annunciare riforme “epocali” che di epocale hanno solo il tentativo di ingannare l’opinione pubblica, ma i fatti dicono che non si è saputo e voluto fare nulla. E che siano solo i radicali e pochissimi altri ad agitare la questione e cercare di richiamare l’attenzione su questa enorme, quotidiana, emergenza, è anche questo il segno dei tempi che ci tocca vivere. Giustizia: parte civile contro gli agenti per molestie, giovane detenuto in fin di vita di Pierluigi G. Cardone Il Fatto Quotidiano, 5 aprile 2011 Coma irreversibile. Elettroencefalogramma piatto. Parole dure come pietre quelle che contraddistinguono ciò che rimane della vita di Carlo Saturno, 22 anni, di Manduria, impiccatosi giovedì notte in una cella del carcere di Bari, dove stava scontando una pena per furto. A darne notizia sabato è stato l’Osservatorio permanente sulle morti in carcere. Un gesto estremo, forse dettato dalle sue diffìcili condizioni psichiche, triste eredità di una storia vecchia di anni, ma che il 22en-ne non era mai riuscito a dimenticare. Non poteva dimenticare. Carlo, infatti, è uno dei tre ragazzi costituitisi parte civile nel processo in corso davanti alla seconda sezione penale del Tribunale di Lecce contro nove agenti del penitenziario minorile salentino (nel frattempo chiuso), accusati di aver molestato fisicamente e psicologicamente alcuni giovani detenuti, tra cui lui, in un arco di tempo che va dal 2003 al 2005. Secondo la magistratura, gli imputati (l’allora capo degli agenti Gianfranco Verri, il suo vice Giovanni Leuzzi, più altre sette guardie) avrebbero organizzato una “pseudo associazione di intenti” con l’obiettivo di placare con la forza ogni dissenso all’interno del centro. Le testimonianze raccolte dagli inquirenti sono agghiaccianti: minori denudati e picchiati in cella fino “a far uscire il sangue da entrambe le orecchie” e a “spezzare tre denti”, oppure lasciati di notte, nudi, a dormire in una cella di isolamento senza materasso. Accuse infamanti, nonché una presunta barbarie sulla cui veridicità dovrà pronunciarsi la magistratura. Il procedimento giudiziario, del resto, è iniziato a fine febbraio di quest’anno (oggi nuova udienza). La spensieratezza del ragazzo, invece, non era mai ritornata quella di prima. Carlo aveva 16 anni quando finì in carcere per alcuni reati che, nel gergo legale, sono definiti di bassa manovalanza. Furtarelli e ricettazione: lavoro sporco per racimolare qualche centinaia di euro, nonché soldi preziosi per un adolescente con alle spalle una situazione familiare di certo non semplice. Poi l’istituto minorile di Lecce, le presunte vessazioni e l’allegria adolescente che se ne va. Per sempre. Il bisogno di assumere psicofarmaci, la ricerca costante del sostegno e, unico lumicino di speranza nel dramma, una richiesta alla direzione del carcere di Bari: essere trasferito in un penitenziario del nord Italia per poter studiare e imparare un mestiere che gli desse da vivere dopo aver scontato la sua condanna. Progetto naufragato. Chi lo conosce, tuttavia, negli ultimi tempi aveva notato un netto peggioramento nelle sue condizioni di salute. “Ci eravamo incontrati nel tribunale di Manduria una ventina di giorni fa - ha detto al Fatto Quotidiano Tania Rizzo, il suo legale di fiducia. Era irriconoscibile: nervoso, scostante, molto turbato. Purtroppo - ha continuato l’avvocato - in quella occasione non ho avuto modo di parlargli per cercare di comprendere i motivi di questa sua condizione, quindi non so se è successo qualcosa in carcere o se il suo stato di salute sia precipitato per altri motivi. Questo lo può sapere solo Carlo. Di certo, lui ha subito un danno gravissimo dalla vicenda dei presunti soprusi e da allora ha sempre fatto ricorso a tranquillanti. Era una persona fragile, fragilissima”. L’avvocatessa, ovviamente, non ha risposto alla domanda sui possibili collegamenti tra il tentativo di suicidio di Carlo Saturno e quanto accaduto nel carcere minorile di Lecce tra il 2003 e il 2005. Su questo punto, però, è intervenuta l’associazione “Antigone” che, tramite il suo presidente Patrizio Gonnella, ha diffuso una nota in cui chiede chiarezza agli organi competenti per accertare - si legge - “quali siano state le cause del suicidio; se vi siano responsabilità dirette o indirette da parte di coloro che lo avevano in custodia; se vi è un nesso con il processo che lo vedeva parte lesa per i ripetuti maltrattamenti denunciati quando era recluso nell’istituto per minori di Lecce”. Il motivo di questa presa di posizione da parte dell’associazione che ha diffuso la notizia? “Sgombrare il campo dal sospetto che ci possano essere state ritorsioni da parte degli agenti che lui aveva denunciato”. Solo un sospetto, un terribile sospetto. Giustizia: il processo ai nove agenti è stato rinviato a dopo la prescrizione dei reati Ansa, 5 aprile 2011 È già finito il processo di primo grado ai nove agenti del carcere minorile di Lecce accusati di violenze sui detenuti, rimandato a dopo la prescrizione dei reati. Intanto resta in fin di vita, in rianimazione, Carlo Saturno, parte civile nel processo, che alcuni giorni fa ha tentato il suicidio in cella. Sei anni fa, quando aveva 16 anni, ebbe il coraggio di denunciare le presunte violenze fisiche e psicologiche che aveva subito nel carcere minorile di Lecce dove era detenuto. Il 31 marzo scorso, oggi 22enne, Saturno ha tentato di impiccarsi in cella nel carcere di Bari. Le sue condizioni sono gravi. È tenuto in vita da macchine, ricoverato nel reparto di rianimazione del Policlinico di Bari. A Lecce stamattina è dunque “finito” il processo di primo grado in cui Saturno è parte civile, nel quale sono imputati i nove agenti del carcere minorile di Lecce accusati di violenze e lesioni su tre ex detenuti. Il giudice monocratico del Tribunale di Lecce Fabrizio Malagnino ha rinviato l’udienza al 19 giugno 2012, tra più di un anno, quando tutti i reati saranno ormai prescritti. Cominciato due anni fa, passato attraverso tre diversi giudici, di volta in volta sostituiti perché trasferiti in altri collegi, e ancora oggi alle questioni preliminari, il processo è stato aggiornato a “data immediatamente successiva - ha spiegato il legale di parte civile che rappresenta Saturno, l’avvocato Tonia Rizzo - alla prescrizione dei reati”. Orientamento del tribunale sembrerebbe infatti quello di rinviare tutti quei processi che comunque si prescriverebbero nel breve periodo, per non intasare le sezioni penali già sovraccariche di lavoro a causa della carenza dei giudici. “Non mi risulta nessun orientamento prestabilito da parte della Procura o del Tribunale a far prescrivere i processi”. È stato il commento del presidente dell’Ordine degli Avvocati di Lecce, Luigi Rella, su un presunto indirizzo del Tribunale di Lecce teso a rinviare quei processi a rischio prescrizione oltre i termini. “A Lecce - ha detto Rella - i rinvii sono spesso lunghi, anche di 6-8 mesi, ma i giudici cercano di arrivare a sentenza prima che i reati si prescrivano”. Per i presunti maltrattamenti su Saturno ed i sui compagni, si tornerà dunque in aula tra 14 mesi, per la sentenza di non luogo a procedere a carico di tutti gli imputati per l’avvenuta prescrizione dei reati. Con le accuse di abusi su minori e violenze che sarebbero stati commessi tra il 2003 e il 2005, sono a processo il capo degli agenti penitenziari Gianfranco Verri, il suo vice Giovanni Leuzzi, sette agenti di polizia penitenziaria (Ettore Delli Noci, Vincenzo Polimeno, Alfredo De Matteis, Emanuele Croce, Antonio Giovanni Leo, Fernando Musca e Fabrizio De Giorgi). Intanto sul tentativo di suicidio di Saturno la procura di Bari ha avviato un’indagine, che è solo conoscitiva cioè senza indagati né ipotesi di reato, per chiarire le modalità e le circostanze in cui si è verificato il tentativo di suicidio. Giustizia: la prescrizione che uccide il coraggio di Carlo, un ragazzo di 22 anni di Patrizio Gonnella (Presidente Associazione Antigone) Il Manifesto, 5 aprile 2011 Carlo Saturno si è impiccato in cella dopo aver denunciato le torture di 9 poliziotti. Antigone: “Alfano risponda”. Angelino Alfano è il ministro della giustizia di Berlusconi. Ma è anche il ministro delle carceri italiane mai così sovraffollate nella storia d’Italia. Tra le sue tante incombenze ci piacerebbe si occupasse di una vicenda non piccola che riguarda un ragazzo, Carlo Saturno, 22 anni, che sta lottando tra la vita e la morte. La sua vita oramai è appesa a un filo. Ha tentato di suicidarsi nel carceri di Bari. Nella sua giovane esistenza ha conosciuto le asprezze del carcere, prima quello minorile di Lecce e poi quello per adulti di Bari. Saturno è originario di Manduria e oggi si sarebbe dovuto presentare al tribunale di Lecce come parte lesa in un processo per maltrattamenti. Purtroppo il processo continuerà senza di lui. Nei mesi scorsi aveva avuto il coraggio di costituirsi parte civile contro 9 agenti di polizia penitenziaria accusati di abusi e vessazioni. I fatti risalgono al 2003, quando - secondo il pm - nell’istituto minorile di Lecce un gruppo di agenti avrebbe costruito una “squadretta” col compito di governare l’istituto con la violenza, trasformando la vita dei ragazzi in un inferno e quella degli altri operatori in un incubo. Dalle testimonianze raccolte tra i ragazzi e tra gli operatori - tra l’altro dall’ex magistrato e sottosegretario oggi senatore Pd Alberto Maritati - si evincono violenze, abusi, vere e proprie sevizie. Si riferiscono episodi di “ragazzini denudati e pestati in cella”, fino a “far uscire sangue da entrambe le orecchie” o “spezzargli tre denti”. O ancora, di un ragazzo lasciato “per un’intera notte completamente nudo a dormire in isolamento senza materasso”. Uno di quei ragazzi era Carlo Saturno. Il Gup non ha avuto dubbi nel rinviare a giudizio i 9 imputati poliziotti, ossia l’intera “squadretta”. A proposito di prescrizione breve, il processo purtroppo viaggia lentamente, troppo lentamente. Si teme che tutto finisca in nulla. Mentre un giovane coraggioso versa in condizioni disperate: si è impiccato, tentando - praticamente riuscendoci - di ammazzarsi una settimana prima che il processo riprendesse. Non è facile che un detenuto decida di denunciare un poliziotto e di costituirsi parte civile. Teme ripercussioni e ulteriori violenze. Nel buio del carcere di Bari qualcosa è successo anche a Carlo Saturno. A questo punto due domande chiedono una risposta immediata: 1) dove prestavano servizio i 9 agenti sotto processo al momento del gesto tragico di Carlo Saturno? 2) quali misure sono state prese a sua protezione? Chiediamo al ministro e ai giudici baresi di procedere aprire un’inchiesta rapida che accerti responsabilità e legami tra il gesto estremo di Saturno e il suo essere parte lesa in un processo per maltrattamenti. Chiediamo alla magistratura salentina di procedere speditamente verso la fine del processo per le violenze nell’istituto minorile di Lecce in modo da evitare la prescrizione. Il processo va portato avanti nel nome di Carlo Saturno, coraggiosa parte civile in un procedimento per fatti che non possiamo chiamare tortura solo a causa della mancanza di questo odioso reato nel nostro codice penale. Giustizia: la sorella di Carlo; mio fratello è stato lasciato da solo, ora voglio la verità Corriere della Sera, 5 aprile 2011 Non smetto mai di guardare la foto dove stiamo tutti insieme e mi viene da piangere perché ho tanta paura, non so quando vi posso riabbracciare, non so quando uscirò, non so niente e questo mi fa stare molto triste, non provo più un pizzico di felicità”. Questo scriveva Carlo Saturno alla sorella Anna una decina di giorni prima che s’impiccasse in carcere. Ora il giovane, 22 anni, di Manduria, è ricoverato in condizioni disperate nella rianimazione del Policlinico di Bari. La sua lettera che porta la data del 18 marzo, è l’ultima ricevuta dai familiari di Saturno trovato in fin di vita lo scorso 30 marzo nel carcere di Bari dove stava scontando una pena per furti in appartamento. Il nome di Saturno era noto alla cronaca perché fu tra i primi coraggiosi ex detenuti del minorile di Lecce a testimoniare contro le guardie carcerarie finite sotto inchiesta per presunti episodi di violenza fisica e psicologica compiuti nei confronti dei reclusi tra il 2005 e il 2007. L’indagine della Procura ha aperto il processo ancora in corso che vede dietro la sbarra nove agenti di polizia penitenziaria tra cui l’ispettore capo Gianfranco Verri. Il giovane, con altri due ex minori detenuti, figura come parte lesa nel processo. Per la sorella Anna, destinataria dell’ultima lettera scritta dal fratello dieci giorni prima che tentasse il suicidio, gli episodi del minorile di Lecce “lo hanno sicuramente danneggiato nella psiche ma non riguardano quello che è successo a Bari”. Per la donna che vive a Pulsano, in provincia di Taranto, “bisognerebbe piuttosto indagare su cosa è successo negli ultimi giorni di vita” nel penitenziario barese. “Non dovevano lasciarlo solo, doveva essere controllato a vista perché aveva già tentato di uccidersi tagliandosi le vene”, racconta Anna mostrando con un dito la parte della lettera dove il fratello fa riferimento a quell’episodio. “Cara sorellina mi dispiace di averti fatto piangere, vedi che non mi sono tagliato tutto ma è stato un momento di crisi che sto passando tuttora”, si legge nella missiva carica di altri evidenti segni di sofferenza. “Sosò (sorella mia, nda), ti aspetto tanto, quando vieni? Scrivimi presto per favore, statemi vicino” Anche il fratello Ottavio è convinto che Carlo si sarebbe potuto salvare “se solo avessero voluto”. “Quando lo hanno tirato giù - racconta - mio fratello non respirava da un pezzo, chissà quanto tempo è stato appeso prima che lo soccorressero”, conclude Ottavio che si è già rivolto ad un legale di fiducia per perorare la causa del fratello. Toccante, infine, la frase che Saturno scrive sul retro della lettera alla sorella Anna: “Ti voglio tanto bene, statemi vicino, vieni presto per favore perché voglio vederti”. La Procura indaga sul caso Una indagine conoscitiva per chiarire le modalità e le circostante del gesto di Carlo Saturno, il giovane parte civile nel processo contro 9 poliziotti del carcere minorile di Lecce. La Procura di Bari ha avviato un’indagine conoscitiva, per chiarire le modalità e le circostanze in cui si è verificato il tentativo di suicidio del 31 marzo scorso nel carcere di Bari di un giovane di Manduria di 22 anni. Il fascicolo d’inchiesta, iscritto a modello 45, cioè senza indagati né ipotesi di reato, dovrà far luce sulle possibili cause ed eventuali responsabilità che hanno portato al gesto. Giustizia: Casellati; garantire la speranza e la rieducazione ai detenuti è un nostro dovere Il Velino, 5 aprile 2011 La tutela della salute del detenuto e il ruolo della polizia penitenziaria, il sovraffollamento delle carceri e il reinserimento nella vita sociale dopo aver scontato la pena. Sono alcuni dei temi affrontati dal convegno “Garantire la speranza è il nostro compito” nella Biblioteca “Giovanni Spadolini” del Senato, durante il quale è stato presentato un manuale che contiene i racconti di vita di medici ed agenti all’interno del penitenziario, una realtà diversa da quella che spesso emerge dai fatti di cronaca. Le informazioni sanitarie riportate all’interno della pubblicazione costituiscono un supporto importante per consentire alla polizia penitenziaria di conoscere le patologie contagiose diffuse in carcere. Il progetto è nato nel novembre 2010 dopo l’incontro tra detenuti ed istituzioni presso la casa circondariale di Regina Coeli sull’emergenza sanitaria nei penitenziari italiani, a 18 mesi dall’entrata in vigore della legge e sull’importanza dell’azione svolta quotidianamente dalle fiamme azzurre che spesso vivono e lavorano in condizioni critiche, con una carenza di personale di 5.539 unità. Nel suo intervento, il sottosegretario alla Giustizia, Maria Elisabetta Casellati, ha focalizzato l’attenzione sull’importanza del ruolo degli agenti penitenziari: “Il carcere è una primaria esigenza di ciascuna società e bisogna rivolgere particolare attenzione al ruolo della polizia all’interno della casa circondariale, una risorsa primaria e strategica per il reintegro del detenuto e del suo diritto alla tutela della salute. Garantire la speranza è un nostro dovere perché il compito delle istituzioni e del governo è quello di tendere alla rieducazione del condannato”. “È giusto che il soggetto colpevole di un reato paghi il suo debito con la giustizia. Le carceri, però, devono essere anche luoghi di rieducazione per reinserire a pieno titolo il cittadino nella società”. “Prendo in prestito la parola speranza perché meglio di altre - continua - traduce il compito del Governo: restituirla ai detenuti. Qual è il modo migliore per farlo se non attraverso un serio percorso rieducativo?”. Secondo Casellati, quindi, “è la rieducazione la vera chiave di volta. Un obiettivo che, però, chiama in causa tutti, dalle istituzioni alle persone che lavorano negli istituti penitenziari. Rieducare richiede un impegno corale come, del resto, è corale l’effetto che essa produce. La promozione di corsi e attività di formazione nelle carceri, infatti, serve a restituire una speranza a chi si trova dietro le sbarre, ma anche alla collettività. Non è forse l’intera società – conclude - a beneficiare del completo reinserimento di chiunque sia stato allontanato dalla sua comunità?”. Secondo Angiolo Marroni, garante dei detenuti del Lazio, “il carcere deve essere una pena estrema, per tutto il resto servono pene alternative”. Marroni ha poi denunciato il sovraffollamento delle carceri nel Lazio, 6.500 i detenuti nella nostra regione nonostante una capienza di 4.500 unità. Ma non tutte le case circondariali sono sfruttate al meglio, ad esempio quella di Rieti potrebbe accogliere 450 detenuti (attualmente ce ne sono solo 150) a causa della mancanza di personale. Identica situazione nel carcere di Velletri: nonostante abbia un intero padiglione vuoto, non può accogliere ulteriori carcerati per carenza di personale tra gli agenti penitenziari. E sul reinserimento dei detenuti all’interno della società, l’assessore regionale agli Enti locali e alla sicurezza, Gangemi, ha annunciato che nei prossimi giorni 10 detenuti saranno assunti con un contratto a tempo determinato dall’Ama, l’azienda municipale per l’ambiente. “È importante alleviare il confine tra dentro e fuori - ha aggiunto Gasperini, assessore alle politiche culturali e centro storico del comune di Roma - ed utilizzare anche il linguaggio artistico all’interno delle attività penitenziarie”. E la vita dei detenuti dentro il carcere è raccontata proprio attraverso 50 opere esposte presso la mostra di arte contemporanea “ Shut-out” nel centro Studi Cappella Orsini. Le opere, realizzate da artisti contemporanei, hanno come tema l’esclusione sociale dei detenuti e il rapporto tra il penitenziario e la storia dell’arte. Giustizia: Casellati; piano carceri e federalismo, strada per tutelare salute dei detenuti Adnkronos, 5 aprile 2011 “Piano carceri e federalismo. La strada per tutelare la salute dei detenuti è tracciata. Grazie a queste due misure, infatti, si potrà completare il processo di trasferimento delle competenze sanitarie dal Ministero della Giustizia al Sistema sanitario nazionale, già avviata nel 2008”. Lo dice il sottosegretario alla Giustizia, Elisabetta Alberti Casellati, a margine del convegno “Garantire la speranza è il nostro compito”. “La tutela della salute in carcere - continua Casellati - è una questione che si affronta su più livelli. Insieme a Regioni e Asl, il governo continuerà ad assolvere un ruolo centrale. Lo stesso piano di edilizia carceraria è segno tangibile di un impegno serio da parte nostra. La sfida è, infatti, cercare di risolvere il problema dell’emergenza sanitaria nei penitenziari attraverso una netta e incisiva riduzione del sovraffollamento”. Agenti penitenziari risorsa primaria Il sottosegretario elogia, infine, la professionalità e l’impegno della polizia penitenziaria: “La nostra attenzione e gratitudine sono rivolte a questo corpo. È una risorsa, d’altronde, sulla quale abbiamo deciso di investire - conclude - e non a caso, il Dap ha messo al centro del suo piano la formazione triennale”. “È importante sottolineare come sia l’intera società a beneficiare del reintegro di un detenuto e in questo senso bisogna volgere uno sguardo informato sulle malattie infettive e il diritto alla tutela della salute. In questo contesto particolare attenzione per il ruolo degli agenti penitenziari che sono una risorsa primaria e strategica della società”. Giustizia: Sappe; più misure alternative al carcere e chiusura degli Opg Il Velino, 5 aprile 2011 Più misure alternative al carcere e la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari: è la richiesta di Donato Capece, segretario generale del Sindacato autonomo Polizia penitenziaria Sappe, intervenendo alla Biblioteca del Senato della Repubblica alla presentazione del volume “Garantire la Speranza è il nostro compito: La tutela della salute del detenuto e il ruolo della Polizia Penitenziaria” realizzato dal Centro Studi Cappella Orsini. “Il carcere come istituzione - ha spiegato - lo riteniamo superato perché non è più un deterrente ma è considerato un contenitore nel quale si getta tutto ciò che la società non accetta: noi riteniamo che una grande occasione è stata, ancora una volta, persa, cioè l’indulto approvato nel 2006, a cui dovevano seguire le riforme strutturali per prevedere un carcere invisibile sul territorio a cui affidare da un lato tutti coloro che commettono un reato che non crea allarme sociale e, dall’altro, un carcere di massima sicurezza, per i 41 bis, o comunque riservato ai soggetti che si macchiano di gravissimi reati. Meno carcere e più misure alternative alla detenzione e, soprattutto, un potenziamento della Legge Gozzini, che conceda una ulteriore chance a coloro che dimostrano chiaramente la volontà del reinserimento sociale”. “Caratteristiche uniche del nostro Paese - ha proseguito Capece - sono il flusso e i periodi di permanenza in carcere. Ogni giorno entrano ed escono centinaia di persone dal carcere, un movimento che comporta uno stress enorme del sistema soprattutto in una fase, quella dell’accoglienza, che è la più delicata e la più difficile da gestire. Il sovraffollamento può peggiorare le capacità dell’Amministrazione di tenere distinti i detenuti in base alla loro posizione giuridica, anche per il numero molto elevato di quelli in attesa di giudizio - circa il 42 per cento - e di condannati a pene molto brevi. Questo quadro complesso è reso ancor più difficile dalla eterogeneità della popolazione ristretta, in gran parte costituita da stranieri, da tossico-dipendenti e da persone con problemi mentali”. Capece ha dunque proposto un nuovo ruolo per l’esecuzione della pena in Italia: “È statisticamente provato che guadagnare la libertà in modo graduale, con un tutoraggio e un accompagnamento sul territorio da parte degli operatori, abbatte sensibilmente la recidiva”. “Il lavoro all’esterno - ha argomentato il segretario nazionale del Sappe - rappresenta un modo concreto per sperimentare la volontà reale del detenuto di lavorare e di reinserirsi nella società civile. Più attività lavorative in carcere fanno acquisire la consapevolezza di essere protagonisti loro stessi del proprio futuro. Bisogna pensare un carcere che non peggiora chi lo abita, non lo incattivisce, non crea nei suoi abitanti la convinzione di essere una vittima: questi risultati si possono realizzare con il coinvolgimento del sociale. La polizia penitenziaria deve connotarsi sempre più come polizia della esecuzione oltreché di prevenzione e sicurezza ed è dunque certamente quella più propriamente deputata al controllo dei soggetti ammessi alle misure alternative.” Ampia condivisione si è registrata sulle proposte del Sappe di chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari e passaggio alle Asl - “una soluzione praticabile per il superamento degli Opg potrebbe essere quella di realizzare una esperienza di clinica riabilitativa e di psichiatria forense nella gestione del paziente psichiatrico autore di reato” - e di moltiplicazione sul territorio nazionale delle Case per detenute madri con figli minori, anche alla luce del provvedimento recente approvato dal Parlamento. Al riguardo, la Regione Lazio ha assicurato in tempi brevissimi la messa a disposizione di una struttura destinata ad istituto a custodia attenuata per detenute madri (Icam). Giustizia: liberare le detenute madri… dimenticandosi dei detenuti padri www.libertiamo.it, 5 aprile 2011 È stato approvato da pochi giorni il disegno di legge 2568 intitolato “Modifiche al codice di procedura penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, e altre disposizioni a tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori”. Il ddl, con relatrice la sen. Gallone, rafforza le tutele per le madri detenute rispetto al precedente quadro normativo. Le principali novità prevedono l’innalzamento da tre a sei anni di età del periodo nel quale il figlio può restare con la madre detenuta e la possibilità per la madre di scontare la detenzione in un istituto a custodia attenuata (Icam) o agli arresti domiciliari. In più la donna potrà visitare il figlio, anche oltre i sei anni, in caso di malattia o di ricovero ospedaliero, secondo tempi e modalità permessi dal giudice. Il sostegno ad una riforma che andasse a favorire la condizione delle madri dietro le sbarre è stato bipartisan, anche se i Radicali ed il centro-sinistra hanno espresso critiche alla formulazione finale della legge, astenendosi nel voto finale al Senato. Le valutazioni negative riguardano il fatto che gli Icam permangano sotto l’amministrazione penitenziaria ed il fatto che resti nebuloso il percorso di effettiva realizzazione e messa a regime di tali istituti e delle case protette per la detenzione domiciliare. In definitiva le forze politiche si sono divise tra chi considera sufficiente la legge approvata e chi avrebbe voluto una legge che si spingesse anche oltre a difesa dei diritti delle detenute madri. Nessuno invece ha invece portato l’attenzione su uno degli aspetti apparentemente più evidenti della normativa, cioè il fatto che ceteris paribus i padri siano esclusi dai benefici conferiti alle madri. Il padre, in base alla legge, risulta una sorta di “genitore residuale”, che può accedere a benefici solamente nel caso “la madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole”. Del resto, malgrado ragioni di opportunità abbiano spesso suggerito di inquadrare il tema delle detenute madri come una questione di diritti dei bambini, è in realtà abbastanza evidente che le leggi sull’argomento sono percepite e vissute dalla politica in primo luogo come leggi “per le donne”. Non è un caso che la legge Finocchiaro del 2001 sia stata varata l’8 marzo e che anche quest’anno la nuova riforma facesse parte del “pacchetto 8 marzo”, al pari delle quote rosa nei CdA, anche se poi ragioni tecniche hanno fatto slittare l’approvazione di qualche giorno. È chiaro che, in questa logica, per i papà non ci può essere molto posto. Vi è, peraltro, una certa ipocrisia in politiche per le “pari opportunità” che da un lato stigmatizzino il persistere nel nostro paese di una suddivisione tradizionale dei ruoli di genere e dall’altro riaffermino l’identità della donna quale genitore prioritario e prevalente per la cura dei figli, ogni volta che da tale condizione possano scaturire dei vantaggi. La legge approvata continua ad essere apertamente discriminatoria nei confronti degli uomini carcerati che si trovano privati della possibilità di un contatto con i propri figli, alle medesime condizioni che invece sono consentite alle donne. È una violazione palese dell’art. 3 della Costituzione ed al tempo stesso compromette le prerogative del ruolo genitoriale così come riconosciute dall’art. 30 della Carta. Va detto che l’attuale asimmetria di genere non è sostenibile neppure in nome dell’interesse del bambino. Dal punto di vista del minore, infatti, se il “focus” è il suo diritto a non trascorrere la propria infanzia dietro le sbarre, è evidente che tale esigenza potrebbe essere assicurata anche attraverso strumenti alternativi rispetto alla scarcerazione della madre - come ad esempio l’affidamento ad altri membri della famiglia o se, questo non si rivela possibile, a coppie che si rendano disponibili. Se invece il “focus” è sul diritto del bambino a mantenere un rapporto di contatto diretto con il genitore, come si può pensare che questo rapporto debba riguardare solamente la mamma? Si tratterebbe, evidentemente, di una violazione dei principi che negli ultimi anni si è sempre più cercato di affermare nel dibattito politico-culturale a proposito del superamento della cristallizzazione dei ruoli nell’ambito della famiglia ed a proposito della riabilitazione dell’importanza della funzione paterna anche a livello di accudimento diretto. In questo senso, ad esempio, la legge 54/2006 sull’affido condiviso ha affermato il principio del diritto del minore ad un rapporto “equilibrato e continuativo” con entrambi i genitori, un diritto soggettivo ed indisponibile che - come si legge nella proposta Tarditi che ha dato origine alla 54/2006 - è “da collocare nell’ambito dei diritti della personalità”. È interessante notare come il fenomeno dei detenuti padri sia numericamente molto più importante di quello delle detenute madri e come quindi la rilevanza sociale di una strategia di riavvicinamento tra gli uomini dietro le sbarre ed i loro figli sarebbe notevole. Alcune analisi evidenziano, tra l’altro, come il mantenimento del rapporto tra padri carcerati e figli diminuisca per i primi la probabilità di recidività, per i secondi il rischio di disadattamento. In definitiva, al di là della breve fase dell’allattamento, è difficile individuare ragioni sostenibili per discriminare la posizione dei padri e delle madri, salvo contraddire in modo evidente il percorso sociale e normativo verso nuovi paradigmi genitoriali e di rapporto tra i generi. O i “benefici” per i genitori rappresentano un vulnus all’impianto del sistema penale compromettendo tanto la valenza punitiva tanto quella di deterrenza della sanzione o rappresentano, al contrario, un elemento di umanizzazione della pena e di valorizzazione del suo elemento rieducativo. Nel primo caso il problema della legittimità e della “sostenibilità” dei benefici verrebbe a porsi con i medesimi contorni anche per le detenute madri. Nel secondo caso, invece, la possibilità di accedere ad una detenzione attenuta od alla scarcerazione dovrebbe essere estesa ai padri, anche nell’ottica di un percorso per il loro reinserimento sociale. Purtroppo la politica è lo specchio di un paese che risponde a riflessi umorali - che da un lato sente forte il fascino di visioni giustizialiste e securitarie, dall’altro si commuove di fronte all’immagine della mamma con il bimbo in braccio. Eppure bisogna andare oltre ed affrontare problematiche come questa non su basi emotive, bensì avendo come bussola i diritti individuali ed il principio dell’uguaglianza davanti alla legge. Emilia Romagna: Lusenti (Regione); superamento degli Opg è un obiettivo di civiltà www.quotidianosanita.it, 5 aprile 2011 È quanto spiegato dall’assessore alle Politiche per la salute a proposito della situazione critica, dovuta anche al sovraffollamento, nella quale si trovano le persone ospitate all’interno dell’Opg di Reggio Emilia, sul quale la Commissione senatoriale presieduta da Ignazio Marino sta conducendo un indagine. “La Regione Emilia-Romagna è costantemente impegnata per garantire condizioni di vita dignitose alle persone recluse e per arrivare al superamento dell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia con progetti di presa in carico di ex reclusi in strutture sanitarie e assistenziali del territorio. è un obiettivo di civiltà”. Lo ha detto l’assessore alle Politiche per la salute della Regione Emilia-Romagna Carlo Lusenti, a proposito della situazione in cui si trovano le persone all’interno dell’Opg, sulla quale sta indagando la Commissione parlamentare di inchiesta sull’efficacia e l’efficienza del Servizio Sanitario Nazionale. In Emilia Romagna, e per la precisione a Reggio Emilia, si trova uno dei sei Opg presenti in Italia. Ospitato in un ex carcere, e dunque in una struttura non adeguata alla cura, registra un grave sovraffollamento a cui contribuisce in maniera determinante il continuo invio di persone che non afferiscono al suo bacino di utenza definito a livello nazionale (che comprende Friuli Venezia Giulia, Veneto, Province di Bolzano e Trento, Emilia-Romagna e Marche). Diversi gli interventi che la Regione ha messo in campo per far fronte alla situazione: come prima azione, è stato autorizzato un importante incremento della pianta organica delle Ausl di Reggio Emilia, per assicurare l’assistenza necessaria alle persone e superare i reparti chiusi. È stato poi costituito tra Regione e Magistratura di sorveglianza un tavolo di discussioneper favorire la condivisione di percorsi di presa in carico da parte dei Servizi sanitari territoriali competenti. È stato inoltre istituito un gruppo di lavoro con i professionisti delle Aziende Usl per mettere a punto i programmi territoriali di dimissione dall’Opg, i cui costi sono a totale carico della Regione. Ci sono poi strutture, come la residenza sanitaria psichiatrica di tipo socio-riabilitativo di Sadurano, nel forlivese, che ospitano utenti che possono usufruire di “licenza finale”, fase propedeutica alle dimissioni dall’Opg, dove si realizzano importanti esperienze riabilitative. A Bologna è stata potenziata una struttura residenziale di accoglienza per detenuti (l’ex Roncati di viale Pepoli) che necessitano di perizia psichiatrica, in modo da ridurre invii impropri all’Opg di detenuti che necessitano di diagnosi psichiatrica. Infine, è ormai prossima l’apertura di un reparto di osservazione psichiatrica presso il carcere di Piacenza. “Confermiamo il nostro impegno - ha ribadito Lusenti - per dare continuità assistenziale alle persone recluse e per migliorare, per quanto nelle nostre competenze, la loro condizione, ma dobbiamo dire che restano aperte molte criticità, a partire dalla struttura in cui è ospitato l’Opg, completamente inadeguata alla cura e alla riabilitazione, poiché è nata come carcere. Altro problema rilevantissimo - ha concluso l’assessore - è il sovraffollamento. Basti pensare che a Reggio Emilia, su 277 persone, 147 venivano da zone extra bacino”. Lazio: il Garante; nel carcere di Frosinone chiuso gabinetto odontoiatrico Il Velino, 5 aprile 2011 Da più di tre mesi, oltre 500 detenuti del carcere di Frosinone privi di assistenza per le malattie della bocca a causa della chiusura del gabinetto odontoiatrico dell’istituto. La denuncia è del Garante dei detenuti della Regione Lazio Angiolo Marroni. “Più volte in questi mesi - ha detto Marroni - abbiamo segnalato lo stato in cui si trovava il gabinetto odontoiatrico di Frosinone anche alla Direzione Generale della Asl, ma non siamo riusciti ad ottenere nulla. Ciò vuol dire che, nell’attesa che le istituzioni decidano il da farsi, in carcere è sospesa l’attività di cura e di estrazione dei denti e di prevenzione delle malattie del cavo orale, e chi ha dei problemi è costretto ad arrangiarsi con antidolorifici ed antibiotici, che come sappiamo, possono causare l’insorgere di altre patologie”. Quello di Frosinone può essere definito un “carcere di passaggio”, con un nuovo padiglione in costruzione per altri 200/300 posti, a metà strada fra Roma e Napoli, con problemi di sovraffollamento (dovrebbe contenere 325 detenuti, ne ospita 524) con un’alta percentuale di tossicodipendenti con problemi di malattie alla bocca. Infatti, molti di loro non riescono a mangiare e, in attesa di cure che non arrivano, devono gestire dolore e infezioni con rimedi improvvisati (impacchi, acqua fredda, atti di autolesionismo). In queste settimane sono numerosi i casi di reclusi che, chiesta la visita medica per problemi ai denti, si sentono rispondere che le cure sono sospese perché la poltrona odontoiatrica non funziona. Mentre a color che chiedono di essere curati a loro spese viene risposto che non è possibile a causa della rottura della poltrona odontoiatrica, che non consente ai dentisti di intervenire. “Quello registrato a Frosinone - ha detto il Garante dei detenuti Angiolo Marroni - non è un problema di poco conto, considerando che le malattie del cavo orale, spesso associate alla scarsa igiene e ad una alimentazione non corretta, sono al terzo posto fra le più diffuse tra i detenuti dopo le patologie del cuore e quelle dell’apparato respiratorio, al punto da influenzare pesantemente la qualità della loro vita. Se il dolore è un evento acuto importante non si può trascurare anche l’aspetto temporale legato alla lunga attesa di un intervento medico e ai danni che tale attesa comporta alla salute in genere”. Emilia-Romagna: 30 mila euro per il teatro in carcere, al via una rassegna itinerante Redattore Sociale, 5 aprile 2011 Parte da Bologna l’8 aprile la rassegna “Stanze di teatro in carcere”, frutto di un protocollo d’intesa firmato dalla regione con lo scopo di favorire il recupero e il reinserimento sociale dei detenuti. Prossime tappe Ferrara e Modena. Una rassegna teatrale per favorire il reinserimento e il recupero sociale delle persone detenute. È questo lo scopo di “Stanze di teatro in carcere”, un progetto nato dal protocollo stipulato dalla regione Emilia-Romagna con il Coordinamento teatro carcere e il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria. “In questo momento così delicato per il carcere a causa delle gravissime condizioni legate al sovraffollamento degli istituti, un’esperienza come questa è fondamentale - spiega Teresa Marzocchi, assessore regionale alle Politiche sociali - Lo scopo di questo protocollo è sviluppare programmi che favoriscano il reinserimento sociale di carcerati e, di creare una rete nel settore del teatro in carcere promuovendo rapporti con le altre realtà territoriali e istituzionali”. Il progetto, realizzato grazie al sostegno della Regione che ha messo a disposizione 30 mila euro, vede coinvolti un centinaio di detenuti, circa un ventina per istituto (6 istituti in tutto) e si inserisce all’interno del sistema teatrale regionale. “Il teatro in carcere nella nostra regione ha un’esperienza lunga e proficua - spiega Nello Cesari, provveditore regionale del Dipartimento di amministrazione penitenziaria - Il teatro è uno strumento di recupero per i detenuti che, grazie a questa esperienza, riacquistano l’uso della parola, del corpo e della sensibilità”. Attraverso le tre tappe, il progetto si propone di approfondire le tematiche relative al lavoro teatrale che da oltre 20 anni è portato avanti nelle carceri della regione. “Saranno presenti momenti di lavori, spettacoli, interventi e testimonianze che vedranno la partecipazione di ospiti di grande prestigio - spiega Cristina Valentini, consulente scientifico del progetto - e permetteranno al pubblico di avvicinarsi alle pratiche e ai risultati artistici dei detenuti normalmente invisibili e messi ai margini”. La rassegna itinerante “Stanze di teatro di carcere” inaugurerà venerdì 8 aprile a Bologna all’interno della più ampia programmazione del Centro La Soffitta-Dipartimento di musica e spettacolo dell’Università di Bologna. Il percorso si aprirà alle 15,30 con l’installazione teatral-musicale “Spoon river story-La collina In-Cantata”, realizzata dal Gruppo Elettrogeno e i Fiori Blu con gli attori detenuti della Casa circondariale di Bologna. Dopo Bologna toccherà a Modena dove alle 17 i detenuti della Casa di reclusione di Castelfranco Emilia presenteranno una dimostrazione di lavoro condotta da Stefano Tè del teatro dei Venti, liberamente ispirata all’opera teatrale “Caligola” di Albert Camus. Sabato 9 aprile alle ore 21 ultima tappa a Ferrara dove il Teatro Nucleo e la Fondazione teatro comunale di Ferrara presentano “Il mio vicino”, spettacolo diretto da Horacio Czertok con l’attore ed ex detenuto Monceff Aissa. Infine, giovedì 14 e venerdì 15, si torna a Bologna dove alle 21.30, nell’ambito delle attività dell’Arena del Sole, sarà presentato “La verità salvata da una menzogna”, con gli attori detenuti della Casa circondariale di Bologna e Botteghe Molière, diretti da Paolo Billi. Ci saranno successive date a giugno e ottobre che vedranno il contributo della Fondazione teatro comunale a Ferrara e di Emilia-Romagna Teatro fondazione a Modena. Vicenza: il direttore del carcere lancia l’allarme; arresti inutili, qui non c’è più posto Giornale di Vicenza, 5 aprile 2011 Sabato cinque arrestati sono stati rilasciati: la struttura soffoca. “Non posso fare castelli con tre letti e devo tutelare gli agenti”. L’allarme è stato lanciato una settimana fa dalla Uil- Pubblica amministrazione e, ancora una volta, i dati sono allarmanti. Carceri al collasso e quello a San Pio X non fa eccezione. In questa situazione di estremo degrado e decadenza, la casa circondariale cittadina occupa la terza posizione a livello nazionale, subito dopo Lamezia Terme e Busto Arsizio, con il 155% di sovraffollamento rispetto alla capienza normale. Senza dimenticare che sabato scorso non sono stati rinchiusi cinque cittadini stranieri, arrestati, alcuni dei quali provenienti dai campi di Lampedusa, perché a Vicenza non c’era posto. Direttore Fabrizio Cacciabue che cosa sta accadendo? Da quando sono a Vicenza, e ormai sono più di due anni, non ho mai visto tanti reclusi. Abbiamo avuti altri picchi però non di questa portata. E allora? Quando siano arrivati a quota 383 ho dovuto avvisare il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria del Triveneto che raccoglie le case circondariali di Veneto, Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige e ancora il dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria di Roma. Risultati? Certo, sono arrivati per forza: è iniziato lo sfollamento. Per adesso non si tratta di grosse cifre, ma siamo tornati ad un livello di tollerabilità. Ora, siamo fermi a 368 detenuti. Rimangono sempre numeri alti, come può reggere questa situazione? Facciamo sempre più fatica anche perché ci sono protocolli precisi da seguire: i detenuti in attesa di giudizio non possono incontrare quelli già condannati magari nella medesima operazione di polizia. E, poi, ci sono tutta una serie di questioni, anche personali, che vanno garantite. Non tutti vanno d’accordo, per cui dobbiamo anche pensare alla tutela delle persone, all’ordine e quindi alla disciplina Come stanno reagendo gli agenti di polizia penitenziaria, sempre sotto organico? Direi con molta professionalità e solidarietà. E questo all’interno di un carcere è un aspetto decisamente fondamentale. E i detenuti che non avete potuto accogliere? Bisogna essere precisi, non è il carcere che rifiuta l’invio di nuovi detenuti. La direzione ha avvisato l’autorità giudiziaria che all’interno di questa struttura non potevano essere accolti altri reclusi, quindi quest’ultima si è regolata di conseguenza. Non possiamo prendere decisioni autonomamente. È stata denunciata una situazione insostenibile. Non mi potevo esimere dal farlo, ma, sia chiaro, non è il carcere che rifiuta detenuti: sarebbe considerato un abuso. Cosa significa arrivare a queste cifre? Esaurire tutto: brandine, coperte, lenzuola. Non è possibile sistemare un terzo letto sopra i due a castello che esistono. Non ci possono essere limitazioni così importanti anche nei movimenti dentro una cella perché possiamo incorrere in gravi violazioni dei diritti umani . Poi tutto viene rallentato. Se qualcuno deve telefonare deve attendere e anche i procedimenti per le visite sono più lenti. Del resto, se molto personale viene trasferito da una parte all’altra, credo che sia normale. E il famoso decreto sfolla carceri che risultati ha portato? Su 37 detenuti che potevano usufruire degli arresti domiciliari, solamente 15 hanno potuto andarsene. Un numero esiguo, ma vista la situazione non è da sottovalutare. Un decreto che non è servito a molto? Ha avuto un effetto limitato, ma credo sia sotto gli occhi di tutti. Del resto, in pochi possono contare su un sistema di pena alternativo. Ci sono sempre molti stranieri S. Pio X? Sì, le percentuali con cambiano, sono la maggioranza: il 65-70 per cento. Da dove arrivano? In maggioranza dal Nord Africa, quindi Marocco, Algeria e Tunisia. Riuscite comunque a svolgere le attività previste: lavoro piuttosto che scuola e corsi professionali? Dobbiamo, ma non posso nascondere che abbiamo difficoltà anche se alcune attività sono state incrementate Verranno allontanati altri detenuti? Sì, ma non posso dire quanti. Spetta al dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria perché sono trasferimenti che riguardano tutto il territorio nazionale. E sull’ampliamento previsto con l’aggiunta di altri 200 posti? Abbiamo incontrato il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, in occasione dell’inaugurazione del nuovo carcere di Trento, ci ha assicurato che i lavori saranno appaltati entro primavera e Vicenza rimane tra i primi posti della lista. Direi che non possiamo far altro che attendere. Si possono ripresentare situazioni del genere? Certo, l’importante è porre un limite come abbiamo già fatto, anche per rispetto degli agenti polizia penitenziaria e dei detenuti. Firenze: a Montelupo già avviato il superamento dell’Ospedale psichiatrico giudiziario Agi, 5 aprile 2011 “Il necessario percorso di superamento dell’ospedale psichiatrico giudiziario è già avviato, e noi vogliamo accelerarlo. A tal fine risulta prioritario individuare un iter sanitario che consenta a ciascun paziente di costruirsi un futuro, compatibile con il proprio stato di salute e di autonomia. Inoltre è fondamentale raggiungere accordi con le varie Regioni, per agevolare la presa in carico dei cittadini nelle proprie zone di origine”. L’assessore al diritto alla salute della Toscana Daniela Scaramuccia ha visitato stamani l’ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo. Ad accompagnarla nella visita, Maria Pia Giuffrida, provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria della Toscana, Antonella Tuoni, direttore dell’Opg, Rossana Mori, sindaco di Montelupo, Eugenio Porfido, direttore generale della Asl 11 di Empoli, Franco Scarpa, dirigente dell’unità operativa psichiatria in carcere della Asl 11.Attualmente l’Opg di Montelupo ospita 158 persone: 48 toscani, tutti gli altri provenienti da altre regioni, prevalentemente Liguria, Sardegna, Umbria. Molto veloce il turn over: nel 2010 gli ingressi sono stati 142, le uscite 140; nel primo trimestre 2011, 29 gli ingressi, 43 le uscite. Il personale sanitario: 11 psichiatri (di cui 3 dirigenti), 10 medici, 24 infermieri (10 dipendenti e 14 libero professionisti a convenzione con parcell a oraria), 2 tecnici della riabilitazione psichiatrica, 3 educatori, un tecnico di radiologia, 3 operatori sanitari. L’assessore ha incontrato anche una rappresentanza degli operatori sanitari dell’Opg, che le hanno consegnato un documento scritto in seguito ai recenti servizi tv, che hanno riportato all’attenzione mediatica la questione Opg. “Riteniamo - si dice tra l’altro nel documento - che il luogo che dovrà accogliere i pazienti e noi stessi debba avere caratteristiche, logistiche e di organizzazione, prevalentemente sanitarie. Gli operatori sanitari non sono contrari al superamento degli Opg, chiedono soltanto che ai loro pazienti venga fornito un luogo di cura, con un’assistenza adeguata”. Roma: Rauti (Pdl); realizzare un laboratorio sartoriale nel carcere di Civitavecchia Dire, 5 aprile 2011 “Realizzare all’interno del carcere di Civitavecchia un laboratorio sartoriale in cui alcune detenute inizieranno un percorso lavorativo e di reinserimento sociale”. É quanto si legge, in una nota, di Isabella Rauti, consigliere Pdl e membro dell’ufficio di presidenza alla Regione Lazio. “È questo l’obiettivo della asta benefica degli abito della sfilata di moda che si svolge oggi pomeriggio presso la Griffe Luxury Hotel. L’evento, patrocinato dal Consiglio regionale del Lazio e nato dall’incontro tra l’associazione Gruppo Idee e la casa di moda di Loredana dell’Anno, vede sfilare detenute e modelle professioniste ed il ricavato dell’asta sarà impiegato per la realizzazione del laboratorio nel nuovo complesso penitenziario di Civitavecchia”. “La sfilata - dichiara Rauti - è solo un aspetto di un progetto più ampio che comprende numerose attività di recupero dei detenuti e di formazione per il reinserimento lavorativo, nell’ottica, anche, di migliorare le condizioni di vita all’interno delle carceri. Questa manifestazione - conclude - dimostra come l’attività di recupero, accanto a quella della rieducazione non solo sia fondamentale ma soprattutto concretamente realizzabile grazie anche al sostegno delle istituzioni, Regione, Comune di Civitavecchia e Comune di Tarquinia e delle associazioni da sempre impegnate nella salvaguardia della dignità del detenuto”. Bologna: alla Dozza 1.161 detenuti su 497 posti, il sovraffollamento arriva al 233% Dire, 5 aprile 2011 Carceri super-sovraffollate in Emilia-Romagna. Nella regione sono presenti complessivamente 4.306 detenuti, con un tasso di sovraffollamento del 179,87% (dati al 31 gennaio 2011). Di questi, i condannati definitivi sono 2.057 e i detenuti stranieri 2.200. La città con più detenuti è Bologna con 1.161 su 497 posti (sovraffollamento al 233,60%), seguono Piacenza con 400 detenuti su 178 posti nella casa circondariale di San Lazzaro (224,72%), Modena con 466 detenuti su 221 posti (210,86%) e Reggio Emilia con 279 detenuti su 132 posti (211,36%). I detenuti che lavorano alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria sono circa 800, quelli non alle dipendenze circa 100. Un centinaio i detenuti iscritti ai corsi di formazione. Per quanto riguarda il personale, sono previsti in pianta organica oltre 2.400 agenti, di fatto l’organico assegnato è di 1.900 unità, gli agenti operanti circa 1.700. Gli educatori sono 37. Le risorse regionali, delle politiche sociali, per l’anno 2011 sono state: 250.000 euro per il “Programma carcere”, ai quali vanno aggiunti almeno 73.000 euro circa stanziati dai Comuni e, 100.000 euro per i reinserimenti socio-lavorativi e accompagnamento. Sono stati avviati anche altri due progetti: il progetto Acero per reinserimenti sociali e tirocini formativi, con richiesta di finanziamento a Cassa Ammende ancora senza risposta, e il progetto “Cittadini sempre” per lo sviluppo della rete di volontariato e comunicazione. Trieste: detenuto cade dal letto a castello e si infortuna, il Ministero deve risarcire i danni Apcom, 5 aprile 2011 Brutta tegola per il Ministero di Grazia è Giustizia, già in perenne emergenza per la questione del sovraffollamento delle carceri, dopo la condanna risarcitoria inflittagli dal Tribunale civile di Trieste. Secondo il giudice il Ministero dovrà risarcire oltre 51 mila euro di danno non patrimoniale al detenuto caduto dal letto a castello ingiustamente assegnatoli in quanto palesemente invalido ad una mano. Il dicastero di via Arenula e per esso l’amministrazione penitenziaria, infatti, è obbligato a garantire comunque l’integrità dei reclusi né può essere chiamato a scriminante il permanente sovraffollamento delle carceri italiane. A darne notizia è Giovanni D’Agata componente del Dipartimento Tematico Nazionale “Tutela del Consumatore” di Idv e fondatore dello “Sportello Dei Diritti”. Nel caso di specie, il condannato era caduto per terra dalla sommità di un letto a castello a tre livelli e poiché era disabile perché invalido a una mano, non ha potuto attutire le conseguenze della caduta aggrappandosi a un sostegno. Il giudice ha ritenuto infatti che a causa delle condizioni di salute del detenuto quel posto non poteva essere assegnato a questi poiché l’inabilità all’arto superiore era di per sé una causa impeditiva per quella collocazione e pertanto concausa dell’evento di danno tanto da determinare un concorso di colpa al 70 per cento a carico del Ministero. Il togato ha sottolineato che l’amministrazione penitenziaria ha l’obbligo di verificare le condizioni di salute dei reclusi anche al momento dell’assegnazione dei posti letto e per queste ragioni ha condannato il Ministero al risarcimento del danno biologico tabellarizzato secondo le indicazioni del Tribunale di Milano. Alla luce dei tanti incidenti che accadono nelle carceri e della decisione in commento si profilano migliaia di azioni di risarcitorie quando si possa ravvisare la responsabilità del Ministero di Grazia e Giustizia. Come sempre lo “Sportello Dei Diritti” è pronto a coadiuvare i detenuti ed i loro familiari anche in questa battaglia di civiltà giuridica e sociale. Roma: donne agenti Rebibbia si autoconsegnano e iniziano sciopero della fame e del sonno Dire, 5 aprile 2011 “Tutto il personale di Polizia penitenziaria femminile in servizio presso questo istituto comunica che, a partire da oggi, 5 aprile 2011, inizierà un’auto-consegna con le modalità che andremo sotto ad elencare, fermo restando che garantiremo la copertura regolare del servizio nelle 24 ore. Al termine di ogni turno, ad oltranza, sosteremo all’interno dell’istituto nel locale “Sala conferenza di servizio”, dove inizieremo uno sciopero della fame e del sonno, senza mai rientrare presso le nostre abitazioni”. Comincia così, come si legge in una nota, una lettera inviata dal personale di Polizia penitenziaria femminile del carcere di Rebibbia al direttore della casa circondariale femminile. “Tutto questo fino a quando non verrà assicurato un incremento adeguato e doveroso del personale femminile. Questa pacifica protesta serve a ribadire il nostro stato di prostrazione nei confronti di una realtà quotidiana diventata per noi insostenibile- spiega la lettera- Infatti, il quadro della situazione lavorativa attuale è oggettivamente drammatico: i carichi di lavoro e i turni di copertura, alterati dalle continue esigenze di servizio, comportano disagi nella vita familiare e affettiva di ognuna di noi”. “In questo particolare momento, la popolazione detenuta è in grave sovraffollamento, situazione destinata solo a peggiorare - prosegue la lettera. Ma la cosa più difficile, con tale assetto organizzativo, è tenere presenti la sicurezza e la rieducazione, anche in momenti in cui si verificano eventi non preventivabili. Ad esempio, maggior flusso della popolazione detenuta o stati di emergenza, quali piantonamenti, sorveglianze a vista ecc.”. “Con tali premesse, il personale femminile non è sempre pronto ad affrontare ogni eventuale circostanza critica, non certo per incapacità professionale, ma per l’inadeguatezza dovuta, lo ribadiamo, alla vergognosa carenza delle agenti di Polizia penitenziaria femminili in servizio. Siamo allo stremo delle nostre forze, accusiamo demotivazione lavorativa, anche perché, guardando al futuro, vediamo solo incertezze, se non addirittura indifferenza e promesse vane da parte degli organi competenti- conclude la lettera- Stanche sì, rassegnate mai”. Idv: solidarietà alle agenti Penitenziaria di Rebibbia “Abbiamo appreso che è in corso una durissima protesta da parte delle agenti della Casa Circondariale femminile di Roma Rebibbia. Si tratta di un’autoconsegna di tutto il personale femminile che, pur garantendo la copertura dei turni di lavoro nelle 24 ore, inizierà da oggi lo sciopero della fame e del sonno per denunciare una situazione vicina al collasso dovuta alla vergognosa carenza d’organico”. Lo annunciano il presidente del gruppo Italia dei Valori al Senato, Felice Belisario e la senatrice Giuliana Carlino che si recheranno oggi stesso all’Istituto penitenziario femminile per sostenere le agenti che lamentano da anni il disagio per i carichi di lavoro diventati insopportabili anche a causa del sovraffollamento della popolazione detenuta. “Chi si assumerà la responsabilità delle conseguenze di quanto sta avvenendo? Siamo preoccupati - proseguono gli esponenti dell’Idv - per la salute delle agenti, tra cui ci sono molte mogli e madri, nonché per la sicurezza dell’Istituto messa inevitabilmente a rischio”. “Circa un mese fa - continuano - abbiamo visitato l’Istituto e sulla questione relativa alla mancanza del personale abbiamo già presentato un ordine del giorno in Aula, puntualmente bocciato, e un’interrogazione urgente al ministro della Giustizia che però ha fatto fino ad oggi orecchie da mercante insieme ai vertici dell’Amministrazione Penitenziaria. Se siamo arrivati ad una protesta così dura la colpa è soprattutto del ministro Alfano che si occupa a tempo pieno dei problemi giudiziari di Berlusconi, mentre il piano carceri resta una dichiarazione d’intenti: due anni di parole al vento, di bluff, di impegni presi e mai mantenuti, nel tipico stile berlusconiano”. “Che fine ha fatto l’impegno per l’assunzione di nuovo personale? A noi risulta che rispetto alla pianta organica, prevista dal decreto del 2001 presso il carcere femminile di Rebibbia, mancherebbero circa 80 unità ed è impensabile che tutto sia superabile con un ulteriore sforzo del personale penitenziario”. “L’intero gruppo dell’Italia dei Valori al Senato - concludono Belisario e Carlino - resterà accanto alle agenti per sostenerle fino in fondo”. Marroni: solidarietà a penitenziaria Rebibbia donne Il Garante dei diritti dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, ha espresso la propria “solidarietà e vicinanza” al personale di polizia penitenziaria femminile del carcere di Rebibbia femminile che, da questa mattina, si è auto consegnato, iniziando lo sciopero della fame e del sonno per denunciare le difficili condizioni di lavoro. “Queste donne hanno tutto il mio appoggio e la mia ammirazione - ha detto il Garante - perché, pur volendo denunciare una situazione insostenibile, hanno comunque deciso di garantire i turni di lavoro, nel rispetto dei diritti delle detenute. Purtroppo nelle carceri italiane sta accadendo quello che ormai da tempo tutti temevamo. Sovraffollamento, gravi carenze di organico e la cronica penuria di risorse economiche stanno portando il sistema al collasso. Un quadro drammatico che fino ad oggi non è esploso anche grazie all’abnegazione di migliaia di agenti di polizia penitenziaria, che hanno comunque saputo garantire il loro lavoro in condizioni estreme”. Secondo gli ultimi dati, a Rebibbia Femminile sono recluse 368 detenute, a fronte di una capienza regolamentare prevista di 274 posti, con tutti i problemi che ciò comporta nella gestione delle recluse, soprattutto di quelle con i figli da 0 a 3 anni al seguito. “Nel Lazio ci sono buchi di organico spaventosi - ha detto Marroni - e fino ad oggi tutti i nostri appelli per cercare di porre rimedio a questa situazione sono caduti nel vuoto con la conseguenza che, ad esempio, a Velletri e Rieti, nuove strutture per alcune centinaia di posti, in grado di alleviare il sovraffollamento, restano inesorabilmente vuote. A Rebibbia Femminile, un pugno di mamme e di mogli in divisa continua responsabilmente a lavorare per evitare il collasso. Cosa aspetta lo Stato a correre in loro aiuto?”. Ugl: caso emblematico, Alfano si occupi anche di carceri “La protesta annunciata oggi dalle agenti di Polizia penitenziaria di Rebibbia è un caso drammatico in sé ed emblematico di quanto siano diventate intollerabili le condizioni in cui si opera e si vive nelle carceri d’Italia. Il ministro di Giustizia non può più ignorare questa grave situazione, ribadiamo la nostra richiesta di incontro”. Lo afferma in una nota Giovanni Centrella, segretario generale dell’Ugl, aggiungendo che “ormai i problemi sono noti e indegni di un Paese civile: carenza di organico e di risorse, sovraffollamento con conseguenze negative in termini di salute e di sicurezza per tutti, sempre più frequenti casi di suicidio, fatiscenza delle strutture”. Il segretario nazionale dell’Ugl Polizia Penitenziaria, Giuseppe Moretti, ha annunciato che “una delegazione dell’Ugl di categoria incontrerà le colleghe ed i colleghi della casa circondariale femminile di Rebibbia di Roma come segno di vicinanza e per dare voce alle loro istanze. I dati - spiega il sindacalista - parlano chiaro: su un organico in forza pari a 250 agenti, ne sono presenti in Istituto solo 189 di cui 21 assenti permanentemente. Quindi le persone in servizio sono 168, pari ad una carenza di organico del 34 per cento”. “In queste condizioni - conclude Moretti - è impossibile andare avanti: per questo le nostre colleghe sono arrivate alla decisione di mettere in atto lo sciopero della fame e del sonno, sottraendo tempo prezioso alle proprie famiglie, e con l’obiettivo di ottenere un segnale tangibile da parte dell’amministrazione, anche di carattere straordinario, per ottenere il ripristino del contingente della casa circondariale femminile di Rebibbia”. Novara: detenuto morto aveva problemi psichici, non era uscito per difficoltà economiche Ansa, 5 aprile 2011 Mario Coldesina, il detenuto che è l’altro ieri nel carcere di Novara ingerendo un kiwi, era stato trasferito da tre mesi da quello di Torino. Nell’istituto di pena del capoluogo piemontese era stato detenuto nel reparto “Sestante” del padiglione A, che è quello dove di solito vengono reclusi coloro che presentano problemi di natura psichica o psicologica. Lo si è appreso in serata a Torino da fonti dell’ambiente carcerario dove si è anche saputo che l’uomo potrebbe aver avuto la possibilità di essere detenuto in strutture esterne a quelle carcerarie, ma di non aver potuto usufruire di tale opportunità a causa di difficoltà di varia natura, comprese quelle economiche. Per la situazione del carcere di Novara, i sindacati Sinappe e Osapp ieri hanno organizzato una manifestazione davanti alla Prefettura. Le due sigle sindacali protestano per i rapporti con il direttore dell’istituto di pena del quale non condividono “le continue violazioni dell’accordo quadro nazionale e dell’organizzazione del lavoro firmata nel 2004, nonché il comportamento - a loro parere - antisindacale”. Al dirigente, inoltre, contestano “la continua mobilità interna del personale senza che siano avviate le dovute procedure, la gestione dei detenuti sempre più difficoltosa a causa degli ordini di servizio emessi e l’impossibilità di usufruire dei diritti soggettivi basilari, quali il diritto al riposo settimanale e il diritto ad usufruire di ferie”. La Spezia: cinque detenuti “scarcerati” per fare i volontari-operai in strada La Repubblica, 5 aprile 2011 Dal carcere di La Spezia alla strada provinciale Buonviaggio, nella periferia della città. Ramazza e pala hanno ripulito le cunette ai lati della carreggiata e liberato i tombini. Non guadagneranno nulla dal loro lavoro ma “è meglio star fuori a faticare all’aria aperta, piuttosto che restare in cella”. La direttrice del carcere: “È un progetto concordato con la Provincia per riscattare i detenuti”. Sono in cinque: due autotrasportatori, un imprenditore, un operaio edile, un disoccupato. Tutti detenuti nel carcere della Spezia, colpevoli di rapina, fallimento e evasione fiscale. Tutti convinti di aver sbagliato, e tanto; tutti decisi a riscattarsi. Sono loro la prima squadra di detenuti che si è offerta di lavorare fuori, gratuitamente. E ha ottenuto il permesso. Così i cinque sono usciti dalle loro celle e dalle mura del carcere spezzino, per salire sul camion che li ha portati in periferia, sulla strada provinciale di Buonviaggio. Lì, per quattro ore, hanno pulito le cunette ai lati della carreggiata e liberato i tombini; qui, soprattutto, hanno di nuovo respirato aria “libera”. Un sogno per chi sta dentro, anche se a ragione e senza aver subito torti, come ammettono loro. Un detenuto, condannato a dieci anni per omicidio preterintenzionale, racconta così la sua mattinata da lavoratore esterno: “È la prima volta dopo 465 giorni, la prima volta che respiro aria, che non sia quella del cortile del carcere, una meraviglia”, ammette. I cinque sanno bene che la loro opera di pulizia di cunette e tombini, lungo le strade semidistrutte dal maltempo, dalle piogge che nell’inverno scorso non hanno dato tregua, sarà utile a tutta la comunità. Giurano di esserne orgogliosi. Ieri, pulendo, hanno trovato “un mazzo di chiavi con la targhetta e un indirizzo”, li hanno subito consegnati agli agenti della Polizia penitenziaria che, naturalmente, li sorvegliano. Ma i cinque si sono comportati bene: disciplinati, attenti soprattutto nello svolgere al meglio il lavoro. Visto che sono volontari, non guadagneranno niente dalla pulizia delle strade, tutti concordano che è meglio così, meglio, molto meglio, star fuori a faticare all’aria aperta, piuttosto che restare dentro “e guadagnare quel poco che si può in carcere”. Alla fine ringraziano chi, come la direttrice del carcere Maria Cristina Biggi, ha creduto in questa opportunità, insieme con Licia Vanni, responsabile dell’area pedagogica, gli educatori e il commissario Tiziana Babbini. Il volontariato dei detenuti all’aria aperta proseguirà fino a metà aprile, poi toccherà ad altri gruppi di detenuti per due mesi in totale. Così prevede il protocollo d’intesa firmato dalla provincia della Spezia e dalla direzione della casa circondariale. Messina: sovraffollamento all’Opg di Barcellona: altri tre agenti aggrediti dai reclusi Gazzetta del Sud, 5 aprile 2011 Le aggressioni ai danni degli agenti di polizia penitenziaria causate dal sovraffollamento dell’Opg “Vittorio Madia” di Barcellona, sembrano essere diventate un autentico bollettino di guerra. Nel primo pomeriggio di ieri ben tre agenti, un sovrintendente e due assistenti, sono rimasti feriti - riportando lesioni guaribili tra i 30 e i 25 giorni - mentre tentavano di sedare un internato che era persino riuscito a fuggire dal reparto raggiungendo il cortile interno dove poi è stato bloccato. I tre agenti, invece, soccorsi dai colleghi, sono stati poi trasportati al pronto soccorso di Milazzo dove per due di essi i medici di guardia, assieme ai colleghi di ortopedia, hanno riscontrato fratture alle mani, tanto da necessitare ingessatura. Prognosi di 30 e 25 giorni ciascuno. Contuso invece un sovrintendete che pur trasportato in ospedale, dopo una lunga attesa dovuta al sovraffollamento del presidio, ha rinunciato a farsi medicare rivolgendosi successivamente ad un medico privato. L’aggressione è avvenuta subito dopo che un agente, il primo ad essere attaccato, si sarebbe accorto di uno scambio illegale di oggetti, a quanto apre un orologio, tra internati, una pratica che sarebbe diffusa tra i ricoverati. Il primo assistente è stato aggredito e colpito con uno sgabello. Per riparassi il colpo diretto alla testa l’agente avrebbe frapposto l’avambraccio: è finito con le dita di una mano fratturate. Nel frattempo il detenuto sarebbe fuggito verso il cortile. In soccorso del primo ferito è intervenuto un collega, a sua volta colpito alle mani, riportando anche lui fratture alle dita. Poi l’intervento del sovrintendete rimasto contuso. Alla fine l’internato è stato immobilizzato e gli agenti soccorsi. Il sovraffollamento (ben 382 internati su una capienza massima di meno di 250 posti), avrebbe reso - secondo i sindacati di categoria che ne hanno dato notizia - ingovernabile l’Istituto. Ieri, subito dopo l’aggressione, è intervenuto con una nota il segretario provinciale dell’Ugl polizia penitenziaria, Letterio Italiano, che ancora una volta ha richiamato l’attenzione sull’esiguità del personale rispetto alla presenza di internati. Bologna: il candidato sindaco Merola (Pd) visita l’Ipm e si impegna a chiedere più risorse Adnkronos, 5 aprile 2011 “Il carcere del Pratello è nel cuore di Bologna, deve essere il cuore di Bologna”. Così, Virginio Merola, candidato del centrosinistra a sindaco di Bologna, dopo la visita di questa mattina al carcere minorile effettuata insieme alla parlamentare Pd Rita Ghedini. Secondo Merola, l’istituto ha tutte le caratteristiche e le risorse ambientali per essere un luogo in cui i ragazzi ospiti “possano raccogliere le proprie forze ed essere messi nelle condizioni di limitare questa esperienza alla dimensione dell’eccezionalità”. Quanto ai problemi finanziari dell’istituto, ha aggiunto Merola “sarò un interlocutore non formale del ministero della Giustizia nel pretendere che al Pratello siano destinate le risorse professionali necessarie al suo miglior funzionamento”. “Bologna è interessata, infatti, a dare il meglio perché questi ragazzi siano per sé e per la società risorse e non problemi” ha continuato il candidato sindaco, ma perché questo avvenga la detenzione “deve essere la più breve possibile”. “Attuare questo obiettivo - ha rimarcato l’esponente Pd - dipende molto anche dalla capacità del contesto in cui il carcere opera di fare da ponte, di essere tessuto connettivo della mediazione tra il prima e il dopo la detenzione”. Il candidato si è, infine, impegnato perché “il Comune possa essere punto di riferimento forte per gli operatori giudiziari, sanitari, sociali e la società civile organizzata, per la costruzione di percorsi integrati di reinserimento sociale” dei minori detenuti. Marsala (Tp): i detenuti e gli studenti, il lavoro di legalità prosegue La Sicilia, 5 aprile 2011 Dopo l’incontro di venerdì scorso, tra una delegazione di studenti della scuola media “Vincenzo Pipitone” e i detenuti marsalesi, la casa di reclusione si appresta ad organizzare un nuovo momento di confronto con le scuole, che si terrà quasi certamente a maggio. “L’amministrazione carceraria ha in programma un incontro con l’Istituto tecnico Commerciale per preparare i suoi alunni a quest’appuntamento di cui i detenuti già sanno e di cui sono entusiasti. Venerdì - dice il comandante della Polizia Penitenziaria, Baldassare Di Bono - i ragazzi sono stati accolti in modo meraviglioso, ci sembra un ottimo momento di confronto che vogliamo mantenere”. La lezione inserita nel progetto sulla legalità avviato dalla “Pipitone” verteva sul bullismo, il prossimo incontro avrà un tema diverso. “Queste iniziative sono favorite dall’ amministrazione penitenziaria per la rieducazione, il reinserimento e il recupero cui tendiamo - dice il direttore del carcere, Paolo Malato - anche grazie al lavoro dell’insegnante Federica Bellina che ha promosso e facilitato l’iniziativa. L’obiettivo è quello della comunicazione, di uno scambio interessante tra la popolazione detenuta, che ha dato consigli utili per prevenire e combattere i fenomeni di illegalità, ed ascoltare questi messaggi da parte di chi ha violato la legge per noi è straordinario”. Immigrazione: espulso e torturato in Tunisia; la Corte di Strasburgo condanna l’Italia Agi, 5 aprile 2011 L’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per l’espulsione nel 2009 di un cittadino tunisino che aveva poi denunciato di aver subito torture in Tunisia. L’Italia dovrà pagare un risarcimento di 15mila euro per danni morali. Ali ben Sassi Toumi fu condannato dalla Corte d’appello di Milano nell’ottobre 2007 a sei anni di reclusione per terrorismo internazionale. La sentenza fu confermata in Cassazione nel giugno 2008, ma nel maggio 2009 la pena fu sospesa. Toumi, rinchiuso in un centro di accoglienza, chiese lo status di rifugiato politico, ma a luglio la domanda fu respinta e fu espulso verso la Tunisia. La Corte europea di Strasburgo per due volte aveva chiesto all’Italia di sospendere il procedimento di espulsione per timore che l’uomo subisse maltrattamenti in Tunisia. Ma il governo italiano all’epoca sostenne di aver ricevuto nel giugno 2009 rassicurazioni da Tunisi sulla protezione del tunisino. Toumi, 46 anni e sposato con un’italiana, ha poi denunciato di essere stato arrestato e torturato in carcere una volta rientrato in Tunisia. Fu poi liberato dopo 10 giorni a condizione che non denunciasse quanto accaduto. Polizia: il tunisino espulso faceva proselitismo jihad Toumi Ali Ben Sassi è stato espulso dall’Italia il 2 agosto del 2009 perché, secondo le autorità italiane, apparteneva ad una cellula italiana collegata all’organizzazione Ansar Al Islam e svolgeva attività di proselitismo in favore della jihad. Prima di essere espulso, Ben Sassi era inoltre stato condannato dalla Corte di Assise di Appello di Milano a sei anni di reclusione per associazione a delinquere con finalità di terrorismo e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Il nome di Ben Sassi ricorre tra l’altro in diverse indagini di polizia. Il tunisino fu arrestato una prima volta nel novembre del 2003, nell’ambito di un’inchiesta sul terrorismo di matrice islamica, con l’accusa di aver preso parte ad progetto di inviare uomini per atti di terrorismo in Iraq. Secondo la Digos, l’uomo si occupava di rintracciare documenti falsi per gli aspiranti kamikaze. Accuse cadute sia in primo sia in secondo grado nel corso dei processi a Milano, dove però fu condannato a tre anni per associazione a delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Ma proprio durante i processi, secondo fonti vicine agli ambienti giudiziari milanesi, è emersa una verità diversa: Ben Sassi sarebbe stato in realtà un informatore dei servizi segreti italiani. Attività precedente al suo arresto e per la quale avrebbe ricevuto un adeguato compenso. Lo stesso tunisino raccontò al suo legale di esser stato interrogato illegalmente nell’ufficio dell’allora pm Stefano Dambruoso (che ha sempre negato la circostanza) dai servizi segreti americani. In ogni caso Ben Sassi fu arrestato nuovamente il 7 luglio del 2008: un mese prima era diventata definitiva la condanna della Corte d’Assise d’Appello di Milano a sei anni di reclusione per associazione a delinquere con finalità di terrorismo e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Dal carcere di Benevento, dove era detenuto, il tunisino è stato scarcerato il 18 maggio del 2009 e rinchiuso nel Cie di Crotone con un provvedimento di espulsione dall’Italia. Dopo un primo rinvio dell’espulsione decisa dal giudice di pace e dopo il rigetto della sua istanza di protezione internazionale, il 25 luglio del 2009 il giudice di pace di Crotone ha convalidato la sua espulsione. Immigrazione: Cassazione; no all’espulsione per chi segue terapie contro gravi patologie www.imgpress.it, 5 aprile 2011 Non può essere espulso dal nostro Paese l’immigrato irregolare che sta seguendo in Italia terapie contro gravi patologie, quali l’Aids. Lo si evince da una sentenza con cui la prima sezione civile della Cassazione ha accolto in parte il ricorso di un tunisino contro la decisione del giudice di pace di Milano di confermare il decreto di espulsione disposto nei suoi confronti dal prefetto del capoluogo lombardo. L’extracomunitario, in particolare, aveva documentato, con una cartella clinica redatta nel Carcere di Opera dove era stato detenuto e atti provenienti dall’Ospedale Maggiore, di essere stato sottoposto a terapia antiretrovirale, ed aveva illustrato anche la “assoluta inadeguatezza della terapia somministrata dal servizio sanitario tunisino all’atto del rimpatrio”. Per la Suprema Corte, il giudice di pace ha commesso un “errore di diritto” e la sua decisione “appare decisamente carente sia nel non aver esaminato i termini assunti a confronti sia nell’aver accollato a paziente affetto da grave sindrome Hiv l’onere di dimostrare che le terapie di rimpatrio non sarebbero equipollenti a quelle praticate in Italia”. Gli ermellini ricordano che “sono coperti dalla garanzia della temporanea inespellibilità - si legge nella sentenza n.7615 - quegli interventi e solo quelli che, successivi alla somministrazione immediata di farmaci essenziali per la vita, siano indispensabili al completamento dei primi od al conseguimento della loro efficacia, nel mentre restano esclusi quei trattamenti di mantenimento o di controllo che, se pur indispensabili ad assicurare una spes vitae per il paziente, fuoriescono dalla correlazione strumentale con l’efficacia immediata dell’intervento sanitario indifferibile ed urgente”. La situazione di inespellibilità temporanea, prevista dal testo unico sull’immigrazione (dlgs 286/1998) è “correlata -osservano i giudici di piazza Cavour- ad una condizione di necessità di un intervento sanitario non limitata all’area del pronto soccorso od a quella della medicina d’urgenza, bensì estesa, perché la garanzia normativa sia conforme al dettato costituzionale, alle esigenze di apprestare gli interventi essenziali quoad vitam diretti alla eliminazione della grave patologia che affligge lo straniero”. Si tratta quindi di “distinguere -conclude la Cassazione, annullando con rinvio il verdetto del giudice milanese, che dovrà riesaminare il caso- tra interventi indifferibili (anche se di consistenza temporale non irrilevante) che rendono inespellibile lo straniero irregolare che di essi necessiti e interventi sanitari che qualunque straniero può fruire in Italia ove chieda ed ottenga, previa valutazione dell’autorità amministrativa, il previsto permesso di soggiorno per cure mediche”. Immigrazione: viaggio nella disperazione dei clandestini del Cie di Bari di Alessio Carlucci e Luigi Paccione Europa, 5 aprile 2011 Il 10 marzo scorso, con l’articolo di Rita Bernardini e Sergio D’Elia, Europa ha dato conto di una iniziativa giudiziaria, senza precedenti in Italia, a tutela della dignità umana delle persone ristrette nei Centri di identificazione ed espulsione (Cie). Il presidente del tribunale civile di Bari, Vito Savino, aveva accolto il ricorso per accertamento tecnico preventivo da noi proposto con la formula dell’azione popolare ordinando l’ingresso nel Cie di Bari di un perito per verificare “lo stato, la condizione, l’organizzazione del Centro” e se esso “sia in grado di assicurare ai trattenuti necessaria assistenza e pieno rispetto della loro dignità”. Il 31 marzo sono iniziate le operazioni di verifica in esecuzione dell’ordinanza. Nel primo pomeriggio, è entrato nel Cie di Bari un piccolo gruppo di avvocati e periti guidato dal consulente tecnico del tribunale Francesco Campanale. Noi eravamo presenti con il nostro consulente Alfredo de Marco, presenti pure gli avvocati dello Stato, della Regione Puglia e del Comune di Bari, accompagnati dai rispettivi tecnici. All’inizio delle operazioni, quando eravamo nel corridoio centrale dal quale si sviluppano i sette moduli di prigionia, i reclusi, avvertendo la presenza di visitatori, hanno iniziato a urlare battendo sulle porte blindate con pugni e calci, nel disperato tentativo di attrarre l’attenzione. Le forti grida e i colpi hanno spinto il consulente del tribunale a richiedere e ottenere l’immediato intervento dei funzionari di polizia preposti alla sorveglianza. Gli animi si sono placati solo quando sono state aperte le sezioni detentive e siamo entrati in ciascuno di questi gironi - uno per volta e previa chiusura del precedente lasciato alle nostre spalle - venendo accolti da un umanità dolente, animata da piccole storie e rivendicazioni personali e da tante invocazioni d’aiuto. Un giovane cittadino tunisino ci ha mostrato le foto delle piccole figlie, dicendo di non poter avere notizie sul luogo dove oggi si trovano. Un altro tunisino ci ha mostrato una ferita di arma da fuoco alla gamba sinistra, sostenendo di averla riportata nel corso dell’insurrezione popolare e di essere fuggito in Italia, trovandosi ora ristretto in una struttura carceraria anziché accolto come profugo. Quattro giovani tunisini ci hanno riferito di essere minorenni. Tutti lamentano a gran voce l’ingiusta detenzione carceraria per il solo fatto di non avere un permesso di soggiorno, e la violazione dei diritti di difesa perché le loro istanze non sono rappresentate attraverso il libero contatto con gli avvocati. Alcuni reclusi hanno dichiarato di essere trattenuti da oltre sei mesi, a causa della reiterazione di provvedimenti giudiziari di internamento e delle lungaggini burocratiche per la loro identificazione nei paesi di origine. Un detenuto che si è detto di cittadinanza indiana, nella struttura per motivi a lui incomprensibili, era in sciopero della fame. Gli “ospiti” (così sono chiamati dall’apparato burocratico che amministra la struttura detentiva) sono internati nei rispettivi moduli, chiusi da porte blindate con apertura solo dall’esterno. Ogni modulo consiste di sette ambienti con letti metallici ancorati stabilmente al pavimento e con finestre protette da sbarre d’acciaio antievasione, senza alcun altro arredo o suppellettile (per evitare gesti di autolesionismo o di aggressione, è la giustificazione). I reclusi non hanno la disponibilità degli effetti personali perché i bagagli con i quali sono entrati risultano ammassati in un locale separato per loro inaccessibile, se non mediante accompagnamento dei sorveglianti. I bagni e i punti doccia sono in condizioni igieniche pessime a livello impiantistico e funzionale e non garantiscono la privacy. La situazione igienico-sanitaria della struttura è aggravata dalla promiscuità forzata all’interno dello stesso ambiente di uomini di diversa etnia e cittadinanza. All’esito di questo primo sopralluogo noi possiamo testimoniare della reclusione di fatto carceraria dei migranti senza permesso ristretti nel Cie di Bari sotto sorveglianza di corpi armati dello Stato, e della disperazione psicologica di questi esseri umani, i quali non comprendono le ragioni della loro detenzione pur non avendo commesso altro delitto che quello di esistere nello status di migranti privi di permesso. Tal è la fattispecie di reato contemplata nel nostro ordinamento giuridico. Ci obietteranno, essendo noi giuristi, che è vigente una norma di legge che prevede la detenzione di questi uomini e che dunque quello che noi denunciamo rientra nella legalità. A tale obiezione rispondiamo senza esitazioni che esiste anzitutto l’etica pubblica, fondata su principi universali che precedono l’ordinamento statuale e che danno sostanza vitale alla civiltà giuridica di un paese democratico. Del resto, con le ovvie differenze, i campi di concentramento di uomini e donne nel III Reich e nell’Italia fascista furono previsti da leggi formalmente perfette, approvate dagli organi costituzionali dei rispettivi Stati, come anche avvenne per la costruzione e la gestione dei gulag staliniani. La storia giudicherà i nostri odierni comportamenti verso i migranti senza permesso, come ha giudicato quelle ben più tragiche vicende. Noi possiamo dire di non appartenere alla platea degli “indifferenti” e di non tacere, in conformità ai nostri obblighi di giuristi e di cittadini, quanto abbiamo visto nel Cie di Bari. Libano: ammutinamento in carcere, assalto forze di sicurezza Ansa, 5 aprile 2011 Le forze di sicurezza hanno sferrato l'assalto contro il principale penitenziario del Libano, in preda a un ammutinamento e dove erano trattenuti tre secondini. Lo ha indicato una fonte di sicurezza. L'ammutinamento è scoppiato sabato nel carcere - sovrappopolato - di Rumieh, dove si trova il 65 per cento dei detenuti del Paese. I prigionieri chiedendo un'amnistia e il miglioramento delle condizioni di detenzione. "Le forze di sicurezza interna hanno lanciato l'assalto contro la prigione di Rumieh, per controllare il movimento di protesta", ha affermato la fonte di sicurezza. Da lunedì sera i detenuti trattengono tre secondini in uno degli edifici, ha indicato in precedenza il cappellano generale delle carceri, padre Marwan Ghanem. "Le guardie sono in buona salute. I detenuti le considerano come loro fratelli, vogliono soltanto attuare pressioni e non sono minacciate. Devono soltanto rimanere all'interno dell'edificio", ha indicato da parte sua un responsabile dei servizi di sicurezza. Circa 70 parenti di carcerati in preda alla collera hanno manifestato di fronte al carcere, situato a nordest di Beirut, bloccando la strada che vi dà accesso bruciando pneumatici. Protestavano contro il divieto di visitare i prigionieri, decretato dopo l'ammutinamento. Sabato, i prigionieri avevano incendiato materassi e avevano rotto porte e finestre in un edificio della prigione. Molte ammutinamenti sono scoppiati in questi ultimi anni nelle carceri del Libano a causa delle cattive condizioni di detenzione, dell'eseguità delle celle e della mancanza di personale. La prigione di Rumieh, concepito per accogliere 1.500 prigionieri, ne ospita quasi 4.000, per quasi 200 guardie carcerarie. Soltanto (circa) 700 prigionieri sono stati condannati. La giustizia è molto lenta, alcuni prigionieri restano in carcere anni prima che il loro processo si apra. Bolivia: protesta per vitto migliore; reclusi si mettono in croce, altri si sotterrano Ansa, 5 aprile 2011 Disperata protesta di 35 reclusi del carcere di massima sicurezza di Chonchocoro, a 40 chilometri da La Paz per chiedere un vitto migliore nelle prigioni di tutta la Bolivia: 17 si sono lasciati crocifiggere, 10 si sono fatti sotterrare ed altri 8 si sono cucite le labbra. Lo rendono noto i media locali, precisando che, come accade in altri sette penitenziari, i manifestanti stavano effettuando lo sciopero della fame da una settimana. I reclusi chiedono che la spesa statale per i loro tre pasti al giorno venga aumentata dai 5,5 a 15 bolivianos (quindi dall’equivalente di 50 centesimi a un euro e mezzo), mentre le autorità hanno accettato di portarla a soli 6,6 bolivianos (60 centesimi di euro). Israele: detenuto da maggior tempo è palestinese Nàel Barghuthi, in carcere da 34 anni Infopal, 5 aprile 2011 Ieri, il prigioniero detenuto da maggior tempo al mondo ha compiuto 34 anni in carcere. È un palestinese che sta scontando l’ergastolo nella prigione israeliana di Raymond. Nàel Barghuthi fu arrestato il 4 aprile 1978. In una lettera inviata alla Società per i prigionieri, Barghuthi ha incoraggiato ad impegnarsi per porre fine alle divisioni e ha chiesto a tutti di continuare a lottare in difesa dei detenuti palestinesi, molti dei quali sono in gravi condizioni di salute. Nella lettera, Barghuthi ha ricordato la malattia del prigioniero Akram al-Masour e Abdel Qader Abu al-Fahem, deceduto nel carcere di Nafhah nel 1970. Le autorità carcerarie israeliane vietano le visite a Nàel Barghuthi, il quale non vede la sorella da due anni, mentre il fratello Omar è detenuto da 23 anni nella prigione di Ofer.