Giustizia: 53 mln € a “Tecnostruttura delle Regioni” per il reinserimento di 9.000 detenuti Adnkronos, 28 aprile 2011 “Grazie all’accordo firmato ieri al Ministero della Giustizia tra 12 Regioni, due Province autonome e il ministro Alfano, saranno coinvolti in progetti di reinserimento lavorativo circa 9.000 tra detenuti (sia adulti sia minori) e operatori. La dotazione complessiva a disposizione delle Regioni grazie a fondi del Fse è di 53 milioni e di 825 mila euro”. Così Alessandro Ferrucci, direttore di Tecnostruttura delle Regioni per il Fse, parla dell’accordo siglato ieri mattina a Roma per la realizzazione di progetti finalizzati al miglioramento dei servizi per il reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti. “Importante sottolineare - aggiunge Ferrucci - l’impulso dato alla nascita dell’intesa dalla Regione Lombardia, capofila del progetto, ma anche dalla sponda collaborativa offerta dallo stesso ministro Alfano. L’accordo è un vero accordo inter-istituzionale ed è frutto di un bel lavoro di squadra”. Ogni Regione, spiega il direttore di Tecnostruttura, che fornisce assistenza tecnica e operativa alle Regioni proprio sul Fse, declina il progetto con modalità specifiche. “In Emilia Romagna ad esempio - cita Ferrucci - saranno le Province a realizzare gli interventi con i detenuti, mentre per il reinserimento lavorativo c’è chi si affida alla dote come la Lombardia o chi ai voucher o chi ancora alle convenzioni con le associazioni datoriali”. “Le Regioni realizzano già da molto tempo progetti per aiutare il reinserimento sociale e lavorativo dei carcerati, e ora con questo accordo - conclude Ferrucci - si formalizza un processo già avviato. Alle Regioni che hanno già aderito se ne aggiungeranno presto altre”. Giustizia: la prescrizione non è uguale per tutti (i processi) di Valerio Onida Corriere della Sera, 28 aprile 2011 In questi giorni si è molto parlato di prescrizione dei reati, a proposito delle leggi che la disciplinano e che la disciplineranno. Se ne è parlato in astratto, oppure guardando a uno specifico procedimento che costituisce “l’oggetto del desiderio” (di farlo estinguere) non confessato ma palese dell’intervento legislativo in corso. Forse su argomenti di questo tipo si dovrebbe ragionare guardando anzitutto a ciò che avviene quotidianamente nei Tribunali e nelle Corti. Allora gli argomenti prenderebbero il loro giusto peso e significato. Il 15 aprile è stata depositata la motivazione della sentenza d’appello che ha giudicato sui fatti accaduti nella caserma genovese di Bolzaneto nel luglio 2001, in occasione dei numerosi arresti eseguiti a carico di giovani partecipanti alle manifestazioni per il G8. Sono seicento pagine di sentenza. Non è una lettura piacevole, anzi è francamente dura e sgradevole, perché ci restituisce nella loro crudezza e nella loro “banalità” (la banalità del male, di cui parlò Hanna Arendt) fatti che vorremmo non già dimenticare, ma non credere potessero mai accadere in uno spazio governato da forze dell’ordine dello Stato italiano. Non sono fatti accaduti nelle piazze delle manifestazioni, ma nel chiuso di una caserma, sotto il controllo pieno delle autorità, dove gli arrestati venivano portati, identificati per poi essere avviati alle carceri (da cui per lo più uscirono del tutto indenni dalle accuse formulate nei loro confronti). Riemerge il quadro sconvolgente di violenze gratuite, di insulti, di umiliazioni, di vere e proprie torture o “trattamenti inumani e degradanti” (secondo la dizione delle convenzioni internazionali in materia) inflitti agli arrestati, non occasionalmente, ma sistematicamente e per lungo tempo, senza motivi che non fossero il manifestarsi di una rabbia fredda e repressa, o peggio di un rigurgito di sinistre “ideologie”, affioranti nelle beffarde canzoncine intonate dagli agenti: (“un due tre viva Pinochet, quattro cinque e sei morte agli ebrei, sette otto nove il negretto non commuove”). Un quarantina di imputati, appartenenti alla Polizia di Stato e alla Polizia penitenziaria, un centinaio di parti offese e parti civili, ragazzi giunti a Genova da molte parti d’Italia e da altri Paesi europei. Ebbene, in quella sentenza continuamente ricorre (a proposito dei diversi imputati e dei vari capi di imputazione) la formula: “(la Corte) dichiara non doversi procedere nei confronti di... in ordine ai reati di cui ai capi... così come contestati, perché estinti per prescrizione”; cui invariabilmente segue l’altra formula: “dichiara... responsabile ai soli effetti civili per i reati di cui ai capi... (gli stessi) così come contestati”. Vuol dire che la Corte ha ritenuto provata la responsabilità degli imputati (tanto che ne pronuncia la condanna al risarcimento dei danni a favore delle parti civili), ma non ha potuto accertare la colpevolezza in sede penale perché nel frattempo si è compiuto il termine di prescrizione. Questo è accaduto, bisogna precisarlo, perché nel nostro ordinamento penale manca ancora (colpevolmente) una norma che punisca specificamente i fatti di tortura o di trattamento inumano 0 degradante, e dunque per i fatti di Genova hanno potuto essere contestati solo reati “lievi”, come l’abuso d’ufficio (pena massima, se aggravato, quattro anni) e l’abuso di autorità contro arrestati o detenuti (pena massima trenta mesi). Di conseguenza i termini di prescrizione sono relativamente brevi. Eccoci dunque al tema della “prescrizione breve”, da cui siamo partiti. Si dice che la ragion d’essere della prescrizione è che a distanza di molto tempo viene meno l’interesse pubblico a perseguire il reato, salvi i delitti gravissimi; che non è giusto tenere l’imputato per troppo tempo sotto la minaccia del processo e della pena; che a distanza di tempo può essere più difficile raccogliere le prove. Tutto (o quasi tutto) vero. Ma se i fatti, come nel caso di Genova, sono indelebilmente gravi e, per così dire, gridano ancora vendetta; se nella specie la magistratura che ha condotto indagini e processi non ha affatto dormito, ma ha agito con sollecitudine, pur dovendo scontare i tempi necessari per accertamenti e adempimenti complessi (tanti imputati, tante parti lese e testi da far venire da lontano, scarsa collaborazione delle autorità...); se le prove, concordanti e precise, sono state già raccolte: se le cose stanno così, perché egualmente il processo è incappato nella prescrizione e quindi (sul piano penale) è destinato a svanire quasi nel nulla? La risposta, nel caso, è più che evidente. Da un lato una normativa penale inadeguata nel configurare le condotte da incriminare (manca il reato di tortura, con adeguate previsioni punitive); dall’altro una legislazione sulla prescrizione che si preoccupa solo di stabilire (e abbreviare) i termini, senza distinguere fra l’ipotesi dell’inerzia o della lentezza del procedimento e l’ipotesi in cui Fattività di indagine e di giudizio si è svolta senza anomale interruzioni. Un legislatore avveduto cosa farebbe? Penserebbe a colmare finalmente una lacuna scandalosa come quella della mancanza di previsione del reato di tortura; e ripenserebbe a fondo l’istituto della prescrizione penale, legandolo all’inerzia nelle indagini e nel processo, e non al solo scorrere, comunque, del tempo. Esattamente tutto ciò che non fa il nostro legislatore, preoccupato solo di approvare la “prescrizione breve”. Consiglierei vivamente ai 314 deputati, che con solerzia e compattezza degna di miglior causa hanno votato il provvedimento alla Camera, di ritagliarsi un po’ di tempo per leggere la sentenza sui fatti di Bolzaneto. E di interrogare la propria coscienza. Giustizia: l’eredità degli anni di piombo; tra irriducibili e nuove leve, 69 ancora in cella di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 28 aprile 2011 Dopo la liberazione di uno dei killer di Guido Rossa restano detenuti sessanta terroristi di sinistra e 9 di destra: undici, tra cui Moretti, possono uscire di giorno. In carcere anche 15 anarchici. Sostiene il giudice che l’ha messo fuori dopo trent’anni e più di galera, che l’ex brigatista Vincenzo Guagliardo “ha svolto progressiva e matura autocritica del proprio passato deviante, e pur non aderendo alla dissociazione formale dall’appartenenza al gruppo estremista ed eversivo, è parso comunque consapevole che è radicalmente cambiato il contesto socio-politico da cui la lotta armata ha avuto origine negli anni Settanta, e ciò anche attraverso l’espressione di convinzioni stigmatizzanti delle pregresse scelte”. Il linguaggio è un po’ ostico, ma il concetto abbastanza chiaro. E più avanti il magistrato spiega che “dopo una lunghissima fase di travaglio interiore”, l’ex terrorista rosso che sparò al sindacalista comunista Guido Rossa “ha aderito all’opzione di pieno recupero sociale, con piena e matura adesione ai modelli comportamentali di riferimento”. È un soggetto non più pericoloso, insomma, che può essere riaccolto nel mondo esterno. Guagliardo sta per compiere 63 anni, ed era uno degli ultimi brigatisti in semilibertà, col permesso di uscire dal carcere al mattino e rientrare la sera. Con la “liberazione condizionale” appena ottenuta, per i prossimi cinque anni potrà dormire a casa seguendo qualche ridotta prescrizione, poi sarà totalmente libero. Potrà riavere anche il passaporto. Tra i sessanta appartenenti alle organizzazioni armate di estrema sinistra detenuti - fra cui molti ergastolani - ce ne sono ancora nove fuori di giorno e dentro di notte, otto uomini e una donna. Gli altri cinquantuno, quarantuno uomini e dieci donne, sono rinchiusi a tempo pieno perché arrestati di recente (come i neo-brigatisti che hanno ucciso D’Antona e Biagi fra il 1999 e il 2002,0 i militanti del Partito comunista politico-militari presi nel 2007) oppure perché non hanno mai abbandonato la strategia della lotta armata, rivendicando e sottoscrivendo le gesta dei loro epigoni. Nell’estrema destra i numeri sono ancora più piccoli: nove detenuti, tutti maschi, di cui due in semilibertà. Infine ci sono gli anarchici, dieci uomini e cinque donne, tra le quali una in semilibertà. Rispetto alle circa seimila persone passate dalle prigioni per le vicende del terrorismo rosso e nero a partire dagli anni Settanta, si tratta di cifre quasi irrilevanti. A parte chi seguita a dichiararsi militante rivoluzionario, pronto a sparare per sovvertire le istituzioni, gli altri sono praticamente tutti fuori. O stanno per andarci. In “condizionale” o senza più obblighi. Compresi i condannati a vita per i tanti omicidi degli “anni di piombo”. Come Barbara Balzerani, dirigente delle Br arrestata nel 1985, da qualche mese totalmente libera, che sull’ultima parte della sua detenzione ha scritto un libro di prossima pubblicazione, Cronaca di un’attesa; o come Giovanni Senzani, passato dalle Br al Partito guerriglia responsabile di efferati delitti come l’esecuzione di Roberto Peci, fratello dell’”infame” Patrizio. Nonostante non si siano mai pentiti o dissociati, nell’accezione giuridica di queste categorie: i primi confessando e accusando i complici, i secondi limitandosi ad ammettere le proprie responsabilità. Ma tutti socialmente recuperati per i giudici che li hanno lasciati andare, dopo almeno vent’anni di detenzione. Quando ancora il terrorismo imperversava erano stati classificati tra gli “irriducibili”, perché non accettando la collaborazione coi magistrati e l’accesso agli sconti di pena venivano considerati militanti in attività. Ma col passare degli anni la quasi totalità ha abbandonato l’ideologia della lotta armata, senza abiure e senza rinnegare il passato, finendo in una sorta di terra di nessuno. La vecchia definizione non era più adeguata, perché i veri “irriducibili” restavano e restano coloro che non hanno smesso di lanciare proclami di morte. Per un periodo sono stati chiamati “arresi” dai cosiddetti “continuisti”, finché anche questi ultimi non hanno usufruito dei benefici, dal lavoro esterno alla liberazione finale passando per semilibertà e condizionale. Allora anche quegli appellativi sono stati superati. Tra chi esce di prigione al mattino e rientra la sera è rimasto Mario Moretti, l’ex Br regista del sequestro e dell’omicidio di Aldo Moro; gli altri che parteciparono al rapimento del presidente democristiano sono definitivamente liberi o quasi (a parte Rita Algranati, arrestata nel 2004, che dalla cella s’è iscritta all’università e s’è laureata, e il suo ex marito Alessio Casimirri latitante in Nicaragua). Anche loro sono stati riammessi nel consesso civile nonostante i crimini commessi e le vittime mietute tra gli anni Settanta e Ottanta. Ai familiari delle persone colpite, molti si sono rivolti per chiedere perdono e comprensione, come richiesto dai giudici per certificare il “sicuro ravvedimento”. Vincenzo Guagliardo no, perché non riteneva di averne il diritto. Ma alla fine anche lui è stato reintegrato, avendo mostrato “un serio orientamento verso modelli di vita socialmente validi e positivi”. Giustizia: la figlia di Guido Rossa; ho fatto di tutto perché Guagliardo fosse liberato di Annalena Benini Il Foglio, 28 aprile 2011 Sabina Rossa, deputata del Pd, si ricorda di quando era piccola e suo padre tornava dalla fabbrica e si fermava sotto casa, ai giardinetti, per guardare lei e gli altri bambini che giocavano. “Si arrampicava sulle strutture di ferro, attirava subito l’attenzione di tutti, e sapeva fare una magia speciale: raccoglieva i sassolini e lì trasformava in caramelle da offrirci”. Guido Rossa è stato ucciso proprio sotto casa, a Genova, una mattina del 1979 (aveva quarantaquattro anni), e Sabina uscì poco dopo per andare a scuola, alle magistrali, passò accanto alla macchina del padre ma non vide il suo corpo riverso sul volante. Se ne accorse lo spazzino. Dopo trent’anni Vincenzo Guagliardo, il brigatista che sparò i primi colpi a Guido Rossa e venne condannato all’ergastolo, ha avuto la libertà condizionale. Non deve più tornare in carcere la sera a dormire, non è più un ergastolano, grazie a Sabina Rossa, che ha combattuto per lui, che ha chiesto al giudice di liberarlo, e poiché il giudice rispondeva che la sua richiesta era “isolata e poco rappresentativa”, ha cercato altre persone, altre vittime, “persone che voglio ringraziare”, racconta al Foglio con i gli occhi che luccicano, lo sguardo fiero di chi sa che ci sono le cose giuste e sbagliate, e lei ha fatto quella giusta. “Queste persone, di cui non posso fare i nomi, provano come me fastidio per l’interpretazione che viene data dai giudici al concetto di ravvedimento. In questo sistema reocentrico il ravvedimento significa perdono da parte delle vittime, a cui vengono mandate lettere ferocemente burocratiche in cui si chiede se perdonano l’assassino. Ma il perdono è un fatto privato, dentro il quale ci sta una vita intera, un percorso, un pathos, un’energia, non è la logica dello scambio, e l’applicazione di una legge non deve essere una questione fra vittime e colpevoli”. Sabina Rossa ha saputo l’altra sera della libertà condizionale per Guagliardo, ne è stata contenta, e ieri mattina, prima di partire da Genova per Roma, ha cominciato a leggere con la sua bambina di dieci anni, Eleonora, l’articolo del Corriere della Sera che raccontava la vicenda. “Ovviamente è troppo difficile per lei, le ho detto che ne riparleremo meglio, ma è importante che io possa spiegarle a cuor leggero chi era suo nonno, cos’è successo dopo e cosa pensa la sua mamma della giustizia e della possibilità che hanno gli uomini di cambiare”. È stato un lungo percorso. Sabina aveva sedici anni quando Guido Rossa fu gambizzato e ucciso per avere denunciato il postino dei volantini delle Brigate Rosse dentro l’Italsider, e lei non sapeva nemmeno di quel gesto. “Ho capito solo dopo che mio padre aveva vissuto i suoi ultimi tre mesi come in un inferno, ma lui che cercava sempre il dialogo e il confronto quella volta volle proteggerci e non ci disse niente per non farci preoccupare: era un uomo coraggioso, un alpinista, abituato a prendere decisioni rapide, e anche allora fece così”. Quella decisione fatale Oso chiedere a Sabina Rossa cosa pensi, da figlia e da madre, di quella decisione fatale. “Ce l’ho sempre in mente, e mi sono chiesta e mi chiedo ancora, da figlia, se ne sia valsa la pena. Ma lui aveva un fortissimo senso del dovere, era consapevole della minaccia che quell’opacità portava al mondo operaio e, da sindacalista e da uomo con rigore morale assoluto, non avrebbe potuto scegliere altrimenti”. Sabina Rossa è orgogliosa di avere ereditato il carattere del padre (oltre alla passione per il paracadutismo, in cui si rifugiò dopo la sua morte). Ma non è stato immediato decidere di andare fino in fondo a questa storia. “Per molti anni ci ho fatto i conti quotidianamente, ma come mettendola da parte, cercando di andare avanti con l’istinto vitale di una ragazzina. Poi una sera, mia figlia aveva tre anni, ho visto l’ennesimo filmato televisivo su mio padre e ho capito che era ora di immergermi lì dentro: dovevo restituirgli qualcosa”. “Tu hai un debito con me, non puoi rifiutarti di incontrarmi”, scrisse Sabina a Vincenzo Guagliardo, dopo che lui al telefono le aveva detto no, non vediamoci. Non le aveva mai scritto le lettere che avvocati e magistrati incoraggiano a mandare alle vittime, non voleva scoperchiare tombe per ottenere dei vantaggi. “Ma dopo la mia lettera mi richiamò, ci incontrammo: in tre ore di colloquio ci può stare dentro il mondo”. Era il 2004, e da allora Sabina Rossa ha fatto di tutto perché Guagliardo fosse liberato (lui non disse una parola al giudice nemmeno su quell’incontro). “Quella persona era diversa, e una società civile deve sapere andare avanti ed essere in grado di raccontare la propria storia”. Lei ha voluta parlare con tutti i protagonisti di quei giorni, ha voluto sapere ogni cosa: i compagni dell’Italsider, il magistrato che indagò sull’omicidio, quelli che si sono dissociati, i non pentiti, le loro compagne, i compagni del Pci, tutti. Anche per questo adesso risponde pacata, sorride, e gli occhi sono lucidi di emozione tranquilla. “Sono stata comunque fortunata, ho avuto mio padre accanto per sedici anni, a differenza di tanti altri: lo posso ricordare mentre trasforma i sassolini in caramelle”. Giustizia: Cassazione; no alla custodia cautelare obbligatoria per gli scafisti “occasionali” Il Sole 24 Ore, 28 aprile 2011 Gli scafisti occasionali, cioè chi agevola l’immigrazione clandestina in maniera sporadica e senza collegamenti con organizzazioni criminali, non devono essere necessariamente sottoposti alla custodia cautelare in carcere, come invece prevede il pacchetto sicurezza del 2009. Il giudice può invece ricorrere, come normalmente accade, a misure meno afflittive della libertà personale, in base a valutazioni sulle circostanze di fatto. La Sezioni unite della Cassazione hanno rinviato alla Corte costituzionale la norma del pacchetto sicurezza nella parte in cui non prevede l’ipotesi “che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure” nel caso, appunto, di favoreggiatori dell’immigrazione che agiscono in maniera del tutto episodica. La Cassazione, con l’ordinanza 16536/11, depositata ieri, ha disposto la trasmissione degli atti di un procedimento che riguarda quattro egiziani da tempo residenti in Italia che avevano trasbordato su un gommone, rifocillato e ospitato, nella casa di uno di loro, alcuni clandestini trasportati da un peschereccio di fronte al litorale pontino. I legali dei quattro favoreggiatori occasionali avevano fatto ricorso contro la decisione della custodia cautelare in carcere del Tribunale della libertà di Roma del 3 novembre 2010, con la quale era stato rigettato anche il dubbio di incostituzionalità della norma che, secondo il tribunale, trovava il suo fondamento di fronte a un reato che provocava “allarme sociale”. La Cassazione ha ricordato che l’emissione della misura cautelare “non può essere giustificata né dalla gravità del reato né, tanto meno, dall’esigenza di contrastare situazioni causa di allarme sociale”, in quanto tra le finalità della valutazione della custodia preventiva l’aspetto rilevante è quello della idoneità “della misura a soddisfare completamente le esigenze cautelari”. Giustizia: Cassazione; no arresto per immigrato che non esibisce documenti... non avendoli Il Sole 24 Ore, 28 aprile 2011 Non si applica agli stranieri extra-comunitari, che vivono in Italia senza il permesso di soggiorno, la norma introdotta nel pacchetto sicurezza del 2009 che inasprisce con l’arresto fino a un anno e l’ammenda fino a duemila euro la mancata esibizione agli agenti di pubblica sicurezza del documento di identità e del documento che attesta la regolare presenza nel territorio italiano. Lo hanno deciso le sezioni unite penali della Cassazione nella sentenza 16453 depositata ieri, che ha neutralizzato l’articolo 6, comma 3, del decreto legislativo 286 del 1998 come ritoccato dalla legge 94 del 2009. Secondo la Cassazione, il legislatore con l’inasprimento delle pene ha inteso perseguire “il diffuso fenomeno dell’uso di documenti di soggiorno falsi o contraffatti”, tanto è vero che le recenti modifiche normative estendono “la pena della reclusione da uno a sei anni anche all’utilizzazione di uno dei documenti, contraffatti o alterati, relativi all’ingresso di soggiorno”. Nelle pene più dure, in sostanza, non può incappare lo straniero irregolare che “in quanto irregolarmente presente nel territorio dello Stato, non può, per ciò stesso, essere titolare di permesso di soggiorno”. Occorre dunque prendere atto “che è intervenuta una modificazione legislativa che ha escluso dall’ambito della fattispecie incriminatrice la condotta dello straniero irregolare, con conseguente “abolitio criminis” per gli stranieri in posizione irregolare”. Questo non significa, spiega la sentenza, che i clandestini “siano sciolti dai vincoli connessi al dovere di farsi identificare” in quanto a tutti gli stranieri, regolari e non, si applica la norma che “consente di sottoporre a rilievi foto dattiloscopici e segnaletici lo straniero nel caso che vi sia motivo di dubitare della sua identità personale”. Friuli Venezia Giulia: reinserimento dei detenuti, firmata intesa da 1 milione e 137mila € Il Gazzettino, 28 aprile 2011 Un milione 137mila e 600 euro che andranno a beneficio di 273 persone attualmente nelle carceri del Friuli Venezia Giulia per attività di formazione, propedeutica ad un futuro inserimento nel territorio una volta espiata la pena o aver avuto accesso ai benefici carcerari, come la semilibertà o l’affidamento sociale. Sono questi i numeri e il senso dell’accordo interregionale per i progetti denominati “Interventi per il miglioramento dei servizi per l’inclusione sociale dei soggetti in esecuzione penale” firmato a Roma dal ministro della Giustizia Angelino Alfano e dall’assessore regionale al Lavoro, Angela Brandi. Quest’accordo si inserisce nel progetto più vasto di utilizzo della formazione, in parte sostenuta dal Fondo sociale europeo, quale strumento per il superamento del disagio soprattutto per il recupero di soggetti svantaggiati sia sul piano strettamente fisico, che su quello sociale e psicologico. In particolare, l’accordo di ieri si riferisce alle persone detenute negli istituti di pena della regione e individua una serie di obiettivi di riqualificazione formativa legati anche al territorio. A seguito dell’avviso per la formazione di soggetti svantaggiati, a fine 2010 sono stati approvati e finanziati 25 progetti che coinvolgeranno per l’appunto 273 allievi. Toscana: direttori delle carceri sul piede di guerra, in agitazione per tutto mese di maggio Il Tirreno, 28 aprile 2011 “Sciopero”, anomalo, dei direttori delle carceri toscane. I primi in Italia ad attuare una forma di protesta per la carenza di dirigenti. Sulle diciotto carceri della regione, secondo il Sidipe, sindacato dei dirigenti penitenziari, mancano diciannove dirigenti ed ognuno deve accollarsi il controllo di più di un carcere. In periodi di ferie o malattie ci sarebbe chi se ne accolla anche cinque. Per Pasqua, ad esempio, il direttore di Pisa, Vittorio Cerri, si è trovato a controllare, oltre al Don Bosco, Livorno, Volterra, San Gimignano e Montelupo Fiorentino. Da martedì scorso al 30 maggio, i dirigenti penitenziari toscani si asterranno da qualsiasi mansione straordinaria e da ogni delega di funzione ai capiarea e comandanti di reparto: questa la loro forma di protesta. Lavoreranno dalle 8 alle 13 per richiamare l’attenzione dello Stato sulla situazione esplosiva della detenzione, in cui si rischia il collasso. Recentemente il sindacato ha chiesto un incontro al prefetto di Firenze, ma nessuno dal Dap, dipartimento amministrazione penitenziaria, come osserva il Sidipe, si è presentato o ha conferito una delega al provveditore regionale. In Italia - denuncia il sindacato - meno di 300 dirigenti gestiscono 70mila detenuti e 19mila persone sottoposte alle misure alternative alla pena. I direttori delle carceri toscane - Pisa, Livorno, Sollicciano e Solliccianino (più il magazzino vestiario fiorentino), Massa-Carrara, Porto Azzurro, Volterra, Empoli, Lucca, Massa Marittima, Grosseto, Gorgona, Siena, Arezzo, Prato Pistoia, San Gimignano, Montelupo Fiorentino, il provveditorato e l’Uepe (Ufficio Esecuzioni Penali Esterne) - si trovano a gestire sempre più di una struttura: in pianta organica mancano, si diceva, 19 persone. Ma cosa chiedono i dirigenti? Ad esempio un contratto, che non esisterebbe, perché finora, denuncia il sindacato, sono inquadrati come polizia penitenziaria ma vanno in pensione come impiegati civili, e poi un adeguato pagamento delle missioni, contro i 51 centesimi l’ora per quelle superiori a 8 ore, e 85 per quelle inferiori, insomma 4 euro al giorno, che vanno anticipati. “Non si parteciperà - aggiunge il Sidipe - ad alcuna attività di formazione o comunque fuori sede, se non verranno stanziati i fondi per le trasferte, perché siamo stanchi di anticipare le spese con risorse proprie, e non verrà svolto alcun altro incarico diverso dalla direzione ordinaria di un istituto o servizio penitenziario”. Ieri mattina l’onorevole Paolo Fontanelli ha visitato il Don Bosco. “La situazione non è fra le peggiori d’Italia - ha detto - ma l’emergenza rimane: i detenuti sono 360, quasi il doppio della capacità del carcere, e gli agenti, sotto organico a decine, sono sottoposti a durissime condizioni di lavoro. L’emergenza non è superata, come sostiene il governo, e il Pd ha presentato una mozione urgente alla Camera per denunciare i problemi irrisolti e gli impegni inattuati. In primo luogo richiamando il Governo a dare corso al promesso piano carceri con la riduzione del sovraffollamento e l’assunzione di 2.000 agenti”. Firenze: detenuto suicida, la Procura apre un fascicolo contro ignoti per omicidio colposo Ansa, 28 aprile 2011 L’uomo in cella dal 5 ottobre scorso per rissa e droga, era affetto da problemi psichici ed aveva già tentato in passato di togliersi la vita. Giovedì scorso un detenuto nigeriano di 34 anni si è suicidato nel carcere di Sollicciano. A seguito di questo tragico evento la Procura di Firenze ha aperto un fascicolo, a carico di ignoti, in cui viene ipotizzato il reato di omicidio colposo. L’uomo in cella dal 5 ottobre scorso per rissa e droga, era affetto da problemi psichici ed aveva già tentato in passato di togliersi la vita. Secondo i medici, il detenuto andava sorvegliato attentamente, e invece ha avuto tutto il tempo, giovedì scorso tornando dalla passeggiata in cortile per l’ora d’aria, di impiccarsi con una maglietta alla ringhiera delle scale. Il pm di turno, Concetta Gintoli, ha già acquisito le cartelle cliniche della vittima, come scrive ‘Il Giornale della Toscanà stamane anticipando la notizia. Nessuno ha visto il 34enne nigeriano compiere il drammatico gesto, e questo fa presupporre che nessuno stesse sorvegliando l’uomo, come il caso avrebbe richiesto. Gli accertamenti vanno avanti e non è escluso che l’ipotesi di reato possa cambiare e trasformarsi in istigazione al suicidio. Il viaggio di Mukela è finito a Sollicciano, di Enzo Brogi (consigliere regionale Pd) È la vigilia di Pasqua, vado, ancora una volta, in visita al carcere di Sollicciano. Per le feste c’è sempre un’atmosfera più triste e amara, se possibile, nelle prigioni. Passando davanti alle celle del secondo braccio è un lento lamentio di auguri quello che, come un mantra triste e disperato, ci accompagna. Proprio sopra le nostre teste, a ventotto anni, se ne è appena andato un giovane nigeriano. Mukela (il nome è inventato, ma la storia no). Ha terminato qui il suo terribile viaggio della speranza. Alle spalle deserti attraversati, umiliazioni, sbarchi da clandestino, centri di accoglienza. Poi finalmente Firenze, ma ecco una rissa, lo spaccio. Capolinea del miraggio chiamato Europa, il carcere di Sollicciano. Mukela si è impiccato ad un improbabile, ma solido ancoraggio, con le maniche della tuta da ginnastica. Sono tanti i non italiani nelle nostre carceri, ottanta su cento. Un grande caravanserraglio di religioni, sudori, lingue, privazioni e violenze. Tutti equamente distribuiti nei due metri quadri procapite di anguste celle. Unico comune denominatore il loro reddito, uguale a zero. In cella si sa, oramai da noi ci rimane solo la povera gente. Tanti anche i tossicodipendenti, che invece non dovrebbero stare lì. Più trasferimenti in comunità o nei centri di recupero per loro significherebbero più spazi e minori occasioni di degrado e violenze fisiche e psicologiche per gli altri. Ma là dentro tutto è contorto ed inversamente proporzionale: aumentano i detenuti e diminuiscono i custodi. E così, addio a frequenze scolastiche, laboratori artigianali, attività di reinserimento. Più semplice e sicuro tenere tutti in cella giorno e notte, sottratta l’ora d’aria. Addio anche a qualche soldo guadagnato e a un possibile mestiere da imparare, utile magari quando si esce per non farsi riacciuffare dal vorace mercato dell’illegalità, sempre pronto ad assumere. Ancora un raggio prima di uscire, ci appare un gigante dalla pelle nera e dagli occhi tristi e scuri, le mani serrate sulle sbarre della sua cella. Ci guarda severo, intensamente. Sembra l’immagine piano americano di un crudo film di Oliver Stone. Lui guarda dritto e non parla. Ma dice molto quella sua maglietta rossa aderente con scritto su “la vita è dura... e poi muori”. Amara ed essenziale esegesi del viaggio di Mukela. In carcere, a Pasqua. Forse qui, più di ogni dove, si attende la rinascita. Cagliari: Caligaris (Sdr); effettuare analisi qualità aria in nuovo istituto penitenziario Adnkronos, 28 aprile 2011 “La zona in cui sta sorgendo il nuovo penitenziario di Cagliari, nelle campagne di Uta, deve essere sottoposta a un’approfondita analisi della Asl per verificare le condizioni di salubrità dell’aria. Dalle segnalazioni risulta infatti che, in particolare nei mesi estivi, l’aria diventa irrespirabile per la presenza di miasmi derivanti dalla lavorazione degli scarti della carne”. A poche centinaia di metri dal nuovo carcere esiste infatti un mattatoio industriale tra i più grandi della Sardegna. Lo sostiene Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione Socialismo diritti e riforme. “Nei mesi scorsi - sottolinea Caligaris - avevamo messo l’accento sullo sgradevole, nauseabondo odore che si sente in prossimità dell’area prescelta per la costruzione del penitenziario destinato ad accogliere in teoria 750 detenuti. La questione però non è stata assunta con la necessaria attenzione e non ci risulta che siano state intraprese iniziative per verificare le condizioni di salubrità dell’aria o quantomeno del rispetto del regolamento dell’Unione Europea risalente al 2002 sulla raccolta, trasporto, magazzinaggio, manipolazione, trasformazione e uso o eliminazione dei sottoprodotti di origine animale”. “Le perplessità sull’adeguatezza dell’Istituto Penitenziario alle norme in materia di lavoro in sicurezza tuttavia non si esauriscono con gli aspetti della salubrità dell’aria, ci sono infatti all’interno del nuovo Istituto questioni - rileva ancora la responsabile di Sdr - di non minore gravità. Abbiamo potuto appurare - spiega la Caligaris - che nel carcere di Uta non è stato progettato il Centro Clinico”. Nuoro: la denuncia dell’Ugl; il carcere di Badu ‘e Carros senza sicurezza La Nuova Sardegna, 28 aprile 2011 A Badu ‘e Carros stanno male tutti. Non solo i detenuti, come è semplice immaginare, ma anche i poliziotti che denunciano: “La carenza d’organico rischia di assumere conseguenze tragiche”. Il grido d’allarme lo lancia Libero Russo, segretario provinciale del sindacato Ugl (Unione generale del lavoro) della polizia penitenziaria, a Nuoro da 4 anni. “Siamo molto preoccupati - spiega Russo - perché allo stato attuale si riesce a garantire lo standard minimo di sicurezza solo grazie agli sforzi e allo spirito di abnegazione degli operatori di polizia, figuriamoci quando partirà l’ormai imminente piano ferie. Ma già ora siamo in crisi perché gli agenti non hanno garantito neanche il riposo settimanale, e per questo siamo costretti a farci aiutare dai colleghi che lavorano negli uffici dell’amministrazione”. I numeri che fornisce Russo esemplificano la situazione di estrema difficoltà in cui si trovano i poliziotti: “A Badu ‘e Carros dovrebbero lavorare 222 agenti ma siamo solo in 176. Di questi, però, 11 si trovano ricoverati nell’ospedale militare, 25 lavorano al nucleo traduzioni e piantonamenti, altri 25 sono distaccati in altri istituti della Sardegna, mentre 19 lavorano nella sezione femminile. Insomma, dovremmo essere 222 ma a Badu ‘e Carros siamo poco più della metà. Il problema esiste da circa due anni, da quando molti colleghi hanno deciso di andare in pensione e non sono stati rimpiazzati. Ma ora la situazione è tragica e non più accettabile”. Inoltre è grave se si considera, come sottolinea Russo, che “in questo istituto sono rinchiusi detenuti di alto spessore criminale e non è concepibile affidare la sicurezza del carcere solo ed esclusivamente al buon senso dei poliziotti penitenziari che da troppo tempo indossano le vesti dei missionari”. Per di più, continua il segretario provinciale dell’Ugl, il sacrificio è fatto “dagli stessi agenti che da 12 mesi non ricevono alcuna indennità di missione perché non ci sono i fondi, e nonostante ciò continuano a garantire il servizio rischiando giornalmente la propria vita per assicurare gli spostamenti di quei detenuti ad alto spessore criminale presso i tribunali di tutto il territorio nazionale”. Una situazione drammatica che perdura malgrado le ripetute segnalazioni da parte dei sindacati e dello stesso direttore del carcere, Patrizia Incollu, la quale un paio di settimane fa ha scritto una nota di denuncia: “Ha chiesto al ministero e al provveditorato regionale di intervenire perché siamo messi male, ma da Roma non arriva nessuna risposta”. L’allarme è confermato dall’associazione Antigone, che si occupa dei diritti e delle garanzie nel sistema penale, che nel suo rapporto su Badu ‘e Carros scrive: “Il sovraffollamento, la mancanza dei fondi necessari per i lavori di adeguamento della struttura e la carenza di organico sono tra i problemi principali dell’istituto”. Russo lamenta anche la carenza dei mezzi: “Mancano auto di tipo radiomobile per cui in sostituzione vengono utilizzati mezzi non idonei. Le altre auto sono vecchie e spesso non funzionano”. Russo conclude esasperato: “Se non dovesse arrivare in tempi brevi alcun cenno di riscontro da parte dei superiori uffici, annunciamo numerose ed eclatanti forme di protesta”. I detenuti sono 178, un centinaio in alta sicurezza Al momento a Badu ‘e Carros si trovano 178 detenuti. Di questi, 98 sono rinchiusi nella sezione di alta sicurezza che ospita i detenuti considerati più pericolosi. Si tratta per la maggior parte di affiliati alle organizzazioni criminali organizzate come la mafia, la camorra, la ‘ndrangheta e la sacra corona unita. I detenuti comuni sono 79: 16 sono le donne, 57 gli uomini e 6 i cosiddetti “semiliberi” che durante il giorno per qualche ora possono uscire dal carcere per lavorare. Un altro detenuto è sottoposto al carcere duro del 41 bis, ed è Antonio Iovine il boss del clan dei Casalesi. Iovine, 47 anni soprannominato ‘o ninno, è però blindato, essendo gestito da un reparto speciale e non dagli altri poliziotti assegnati al carcere. Badu ‘e Carros potrebbero contenere 273 detenuti, anche se la capienza tollerabile è di 367, ma al momento la seconda sezione è chiusa per i lavori di ristrutturazione che comunque sono giunti ormai al termine. Se tutto va secondo i programmi, la sezione dovrebbe riaprire a settembre ed è destinata ai detenuti comuni. La prima sezione è di tre piani e ospita il circuito di alta sicurezza, mentre nella terza sezione si trovano i detenuti comuni. Nel penitenziario c’è anche una sezione di osservanza che viene utilizzata anche per i casi di isolamento disciplinare. Tra gli spazi comuni c’è l’ampia cappella, la biblioteca e le aule scolastiche, da poco rese più gioiose grazie ai murales realizzati dai carcerati. Le celle vanno da un minimo di 7-8 metri quadrati a un massimo di 29 metri quadrati, dove stanno anche 7 reclusi. L’associazione Antigone ha registrato 55 casi di autolesionismo. Pisa: Fontanelli (Pd); ancora emergenza per il carcere Don Bosco Il Tirreno, 28 aprile 2011 L’onorevole del Partito Democratico Paolo Fontanelli ha effettuato una visita al carcere Don Bosco. La ragione principale era quella di verificare la situazione del carcere pisano e in particolare delle tematiche connesse alla medicina penitenziaria. La visita si inserisce nel quadro delle iniziative portate avanti dal Pd sul tema delle carceri e della emergenza che si è andata sempre più sviluppando negli ultimi anni. Rispetto ad un anno fa la situazione di sovraffollamento delle carceri, che aveva raggiunto aspetti inaccettabili, si è ridimensionata. Ma non è affatto vero che l’emergenza sia superata, come sostiene il governo. Per questo il Pd ha presentato nuovamente una mozione urgente alla Camera dei Deputati per denunciare i problemi irrisolti, gli impegni inattuati e l’assenza di un serio e organico intervento in proposito. In primo luogo richiamando il Governo a dare corso ai provvedimenti, assunti in pompa magna, previsti nel Piano carceri e rivolti a ridurre il sovraffollamento, all’assunzione di 2.000 unità di polizia penitenziaria per alleviare l’enorme carenza di personale e per garantire il mantenimento dei fondi destinati alla sanità in carcere. Di tutto questo finora si è visto poco o niente. Per quanto riguarda la situazione del carcere Don Bosco, Fontanelli ha rilevato che quella pisana non è certamente tra le più gravi e preoccupanti del nostro Paese. Tuttavia anche qui si avverte il peso di una situazione di emergenza. I detenuti sono circa 360, ben più di quelli che sarebbero consentiti in condizioni di normalità, e per quanto riguarda le unità di Polizia penitenziaria siamo sotto di diverse decine dagli organici necessari. Gli agenti sono sottoposti a durissime condizioni di lavoro. Dunque anche la situazione pisana conferma la necessità di un intervento deciso e straordinario da parte del Governo, così come chiede la mozione del Pd. Trento: la Provincia stanzia fondi per la formazione professionale dei detenuti Il Trentino, 28 aprile 2011 Su proposta dell’assessore alla salute e politiche sociali Ugo Rossi, la Giunta provinciale ha deciso di accogliere la richiesta del Ministero della Giustizia, Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, Casa Circondariale di Trento, per la copertura finanziaria della spesa per le borse di studio da corrispondere alle persone che frequenteranno tre corsi scolastici e quattro corsi di formazione professionale organizzati dalla Casa Circondariale al suo interno. I corsi scolastici sono organizzati in collaborazione con l’Istituto Comprensivo 5 e l’Itg “Pozzo” mentre i corsi di formazione con l’Istituto di Formazione Professionale Servizi alla Persona “Pertini” di Trento e con il consorzio Con.solida. La spesa massima ammissibile sarà di 5.000 euro. La Giunta ha stabilito inoltre di individuare il Comune di Trento, sul cui territorio è situata la struttura carceraria, quale ente competente nel concedere ed erogare il finanziamento. Nel dicembre scorso è stata chiesta la copertura finanziaria della spesa per le borse di studio per i detenuti che frequenteranno sia corsi scolastici (alfabetizzazione, scuola media e geometri) che corsi di formazione professionale (pulizie e acconciatura). 20 detenuti dovrebbero conseguire un diploma di licenza e 36 dovrebbero partecipare ai 4 corsi di formazione professionale. Il decreto legislativo n. 252, approvato il 19 novembre 2010, che riguarda le “Norme di attuazione dello Statuto speciale della regione Trentino Alto Adige concernenti disposizioni in materia di assistenza sanitaria ai detenuti e agli internati negli istituti penitenziari” prevede che “il reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti e degli internati negli istituti penitenziari ubicati nel territorio delle Province autonome di Trento e di Bolzano è assicurato attraverso l’azione integrata delle Province medesime e dello Stato che collaborano nell’esercizio delle attività di rispettiva competenza.” La deliberazione è stata adottata considerando la valenza socio-assistenziale e preventiva dei corsi di formazione a favore di persone detenute in quanto finalizzati al reinserimento socio-lavorativo di persone a rilevante rischio di emarginazione. Avellino: il “Premio Qualità” delle P.A. vinto dal carcere di Sant’Angelo dei Lombardi www.irpinianews.it, 28 aprile 2011 La Casa di Reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi si è aggiudicata la terza edizione del Premio Qualità Pubbliche Amministrazioni promosso dal Dipartimento della Funzione Pubblica (in collaborazione con il Concu - Consiglio Nazionale Consumatori e Utenti, Confindustria e Apqi - Associazione Premio Qualità Italia) e realizzato da Formez Pa nella categoria: Amministrazioni Centrali, periferiche e territoriali dello Stato. Ne da comunicazione il Segretario Generale della Uil Pa Penitenziari, Eugenio Sarno, che sottolinea come quest’anno abbiano concorso al Premio 243 amministrazioni, candidatesi da tutto il territorio nazionale. L’istituto penitenziario altoirpino allo sprint ha prevalso sulle altre otto amministrazioni finaliste: Archivio di Stato Cosenza, Biblioteca Statale di Mercogliano (Av), Ministero degli Interni: Servizio Polizia Stradale, Biblioteca Universitaria di Genova, Prefettura Livorno, Prefettura Massa Carrara, Questura di Padova: Divisione Polizia Amministrativa, Ufficio Scolastico Territoriale di Belluno. “Questo prestigiosissimo riconoscimento è, sicuramente, un motivo di vanto e di orgoglio per tutti gli operatori penitenziari, ancor più perché conseguito nel peggior momento della storia del sistema penitenziario italiano, gravato dai tagli economici e oberato dal sovraffollamento. Al Direttore Forgione, al Comandante Salvati, al contingente di polizia penitenziaria , agli operatori amministrativi ed ai volontari giungano le felicitazioni ed i complimenti della UIL Pa Penitenziari che - ricorda Eugenio Sarno - sin dall’edificazione ha seguito con attenzione le vicende del carcere irpino”. Il 9 Maggio a Roma, nell’ambito del Convegno inaugurale di Forum Pa 2011, la premiazione “ Il riconoscimento alla Casa di Reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi è la più fedele testimonianza delle grandissime potenzialità dell’Amministrazione Penitenziaria, se messa nelle condizioni di poter svolgere le proprie funzioni ed in presenza di personale motivato e qualificato. Evidentemente in quella realtà - sottolinea il Segretario Generale della Uil Pa Penitenziari - si è avuta la capacità di superare le oggettive difficoltà economiche ed operative con una positiva creatività amministrativa. Nonostante il sovrappopolamento tocchi da vicino anche quell’istituto (presenti 190 detenuti a fronte di una capacità ricettiva di 117) ed il contingente di polizia penitenziaria (110 unità, di cui alcune distaccate in altre strutture) non sia adeguato alle reali esigenze, si è dato vita ad esperienze di lavoro intramurarie (apicoltura, viticoltura, tipografia) e favorendo percorsi di scolarizzazione di base. D’altro canto l’impegno che caratterizza gli operatori penitenziari di Sant’Angelo dei Lombardi sul territorio potrebbe facilitare quelle sinergie valide per il reperimento di locali da destinare ad Icam (Istituto Custodia Attenuata per Madri detenute). Sulla questione la Direzione di Sant’Angelo si sta spendendo molto e - informa Sarno - c’è già più di una concreta disponibilità della Diocesi. Speriamo che attraverso questa iniziativa anche in Irpinia si possa superare la barbarie dei bambini in carcere. Anche i circa mille studenti che hanno visitato il carcere, nell’ambito degli incontri per la legalità, sono un’ indicatore preciso della dinamicità amministrativa e dello spirito d’iniziativa che caratterizza l’istituto “ La UIL Pa Penitenziari sollecita l’Amministrazione Penitenziaria alla stabilizzazione di alcune unità di polizia penitenziaria, compresi gli attuali vertici amministrativi ed operativi. “Vogliamo auspicare - conclude Eugenio Sarno - che anche l’Amministrazione Penitenziaria voglia riconoscere merito a quelle unità di polizia penitenziaria (circa 40) che sin dal 2004 si sono adoperate per l’apertura dell’istituto penitenziario, fino a contribuire al raggiungimento di questo importante risultato, ma che, a tutt’oggi, non sono ancora state stabilizzate nella sede. Così come non sono ancora effettivamente stabilizzati sia il Comandante che il Direttore”. Lanusei (Nu): detenuti a lezione dal falegname specialista nell’arredare yacht L’Unione Sarda, 28 aprile 2011 Stefano Cuboni, falegname di Lanusei, insegna il proprio mestiere ai detenuti del carcere di San Daniele. Il progetto di reinserimento sociale ha il contributo di istituzioni e realtà attive nel volontariato. Al carcere San Daniele di Lanusei crescono falegnami in erba. Seguono un corso di formazione professionale di mille ore per imparare il mestiere di San Giuseppe. Il percorso lavorativo è finalizzato al conseguimento di una qualifica che ha il sapore dolce della speranza di un futuro migliore e del riscatto una volta fuori dal carcere. Alla fine delle lezioni gli allievi - detenuti dovranno sostenere un esame teorico e pratico e ottenere così il rilascio dell’attestato. Non un pezzo di carta qualunque ma la prova che quel mestiere lo si sa fare davvero e soprattutto che la vita una volta in libertà sarà meno dura. La riabilitazione dei dodici (come gli apostoli) nel penitenziario ogliastrino avviene dunque nel segno di San Giuseppe, protettore di questi artigiani capaci di forgiare il legno trasformandolo anche in articoli dal moderno design come le rifiniture per gli interni degli yacht su cui è specializzato il loro insegnante falegname Stefano Cuboni. Al San Daniele (una sessantina di detenuti) gli errori del passato si possono finalmente lasciare alle spalle imparando i segreti di una delle arti manuali più nobili. Il percorso verso il riscatto è stato possibile attraverso il progetto “La filiera dell’inclusione - Provincia Ogliastra”, bandito dalla Regione e finanziato dal Por Sardegna. A gestire l’attività di formazione è la fondazione Casa di carità di Nuoro (ente capofila) assieme a diversi altri partner (Associazione Ut unum sint, falegnameria Legno arreda, associazione L’isola che c’è, società Kompas e la Proloco di Lanusei). Determinanti ovviamente il personale della polizia penitenziaria e il comandante Marcello Carracoi. Gli allievi sono apparsi da subito molto motivati tanto da lavorare con passione seguendo passo passo le indicazioni dell’artigiano Stefano Cuboni, supportato da un architetto e da una psicologa. “Stiamo partendo dalle basi con la realizzazione di piccoli oggetti come sedia, scacchiere e mobiletti”, ha detto il falegname di Lanusei, “Una volta che le abilità cresceranno, loro si cimenteranno anche in opere che richiedono una maggiore difficoltà. Di sicuro posso dire che l’esperienza si sta rivelando ricca di soddisfazioni. Io ho sempre fatto l’artigiano e ora per la prima volta trasferire le mie competenze ad altri, in un luogo angusto come il carcere, è una bella sfida”. Alla fine del corso gli allievi saranno pagati per un mese di borsa lavoro. In questa fase Stefano Cuboni gli commissionerà una serie di lavori da realizzare in quasi completa autonomia. Con il corso nel carcere di Lanusei è nato anche il laboratorio di falegnameria, grazie all’importante collaborazione del Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria, che ha permesso il trasferimento di attrezzature dalle carceri di Nuoro e Macomer. A Lanusei è sorto così uno spazio nuovo, luminoso e attrezzato. “Il nostro obiettivo è che il laboratorio possa continuare a lavorare anche a corso concluso, come simulatore di impresa, con una o due borse lavoro che producono e vendono”, dice Eliana Pittalis, responsabile della fondazione Casa di carità. Soddisfatto dell’andamento del corso anche il direttore del penitenziario Marco Porcu. “È un servizio molto importante - dice - che sta dando già dei risultati lusinghieri migliorando la qualità della detenzione ma sta soprattutto aprendo delle prospettive incoraggianti per il futuro”. Ancona: arte e poesia in carcere; al via il progetto “Liberamente” Redattore Sociale, 28 aprile 2011 Partirà a maggio il progetto nato dalla collaborazione tra Difensore dei detenuti, Ufficio scolastico regionale, Casa circondariale di Montacuto e Liceo artistico Mannucci. In programma due laboratori artistici e quattro incontri con artisti famosi. Migliorare la qualità della vita dietro le sbarre e favorire la riabilitazione e socializzazione dei detenuti, attraverso laboratori di scrittura creativa, poesia e arte. È questo l’intento del progetto “Liberamente”, che prenderà il via a maggio grazie alla collaborazione tra l’Ombudsman regionale - Difensore dei diritti dei detenuti, l’Ufficio scolastico regionale delle Marche, la Casa Circondariale di Montacuto e il Liceo artistico Mannucci di Ancona. “Il progetto - ha spiegato l’ombudsman regionale Italo Tanoni - fa parte di un pacchetto di iniziative per il reinserimento e il recupero psicologico e relazionale dei detenuti, che il garante sta mettendo in atto negli istituti penitenziari marchigiani. Partiamo da Montacuto, ma il nostro obiettivo è quello di arrivare a estendere quest’iniziativa anche alle altre realtà penitenziarie marchigiane”. “Liberamente” prevede due laboratori artistici, uno di scrittura poetica e l’altro di pittura, e quattro incontri con artisti di fama internazionale. Hanno infatti aderito al progetto i maestri Bruno d’Arcevia e Oscar Piattella e i poeti Umberto Piersanti e Gianni D’Elia, che incontreranno i detenuti di Montacuto nelle prime due settimane di maggio. In seguito verranno attivati i laboratori di scrittura creativa, che termineranno nelle prime due settimane di giugno. Il calendario prevede poi due laboratori di arti figurative che si concluderanno entro metà luglio. Le opere e i testi realizzati nel corso del progetto verranno pubblicati dalla regione Marche. Il dirigente del liceo artistico Mannucci Alfio Albani, che insieme a Bruno Mangiaterra si occuperà dei laboratori creativi ha aggiunto: “La nostra ambizione è quella di arrivare alla realizzazione di una pubblicazione in forma narrativa che racconti cosa è successo nel corso del progetto”. Alla conferenza stampa hanno partecipato anche il direttore generale dell’Ufficio scolastico regionale, Michele Calascibetta, e la direttrice della casa circondariale di Montacuto, Santa Lebbroni. Pisa: agente sotto processo per il suicidio di un detenuto avvenuto nel 2007 Il Tirreno, 28 aprile 2011 Processo ieri mattina ad un agente di custodia del carcere Don Bosco per la morte di un detenuto che si era ucciso in cella tre anni fa. Secondo l’accusa, che lo ha portato in tribunale, l’agente non sarebbe intervenuto in tempo. Sul banco degli imputati Mario Montuori, 42 anni, difeso dall’avvocato Antonio Cariello: deve rispondere di omicidio colposo. La vicenda, che risale al 4 giugno del 2007, è stata rievocata ieri mattina davanti al giudice monocratico Marco Dell’Omo: la pubblica accusa era rappresentata dal pm Giovanni Maddaleni. Secondo la ricostruzione fatta dagli inquirenti e oggetto del procedimento, l’agente sarebbe stato avvertito da alcuni detenuti, dei giovani cinesi, che si trovavano in una cella di fronte a quella in cui un recluso, Mohamen Talbi, 28 anni, avrebbe manifestato propositi suicidi. Nonostante le grida dei due stranieri nessuno sarebbe intervenuto: il giovane tunisino, che era atteso in parlatorio per un colloquio con il suo avvocato, mise insieme delle lenzuola e si impiccò nella sua cella. Quando arrivarono i soccorsi era ormai troppo tardi. Il giorno dopo un gruppo di familiari e connazionali manifestò davanti al carcere in segno di protesta. Sul suicidio fu aperta dalla procura un’inchiesta che poi ha portato al rivio a giudizio dell’agente di custodia in turno nel reparto. Pordenone: il nuovo progetto di teatro oltre le sbarre con Pino Roveredo Il Piccolo, 28 aprile 2011 Una serata tutta dedicata a “I Ragazzi della Panchina”, l’associazione pordenonese impegnata da anni in percorsi di recupero e integrazione di persone tossicodipendenti o con disagio sociale, è in programma domani, alle ore 20.30, a Cinemazero a Pordenone, con ingresso libero. “Oltre le sbarre - Percorsi di integrazione tra sociale e tossicodipendenza” è il titolo di questa iniziativa finalizzata ad affrontare in modo particolare il delicato tema della carcerazione. Dopo la proiezione del video-documentario di Tv7, uno speciale andato in onda su Raiuno nel dicembre scorso dedicato alla storia quindicinale dell’associazione pordenonese, sarà ospite speciale della serata lo scrittore e attore triestino Pino Roveredo, da sempre amico e animatore di molti progetti culturali legati alle attività de I Ragazzi della Panchina. Roveredo presenterà la nuova esperienza teatrale de I Ragazzi della Panchina, una commedia dal titolo “La Legge è uguale per tutti?”, opera che pone alle singole coscienze interrogativi sul senso della giustizia, della carcerazione e della libertà dell’individuo. Un progetto realizzato dall’associazione in collaborazione con Pino Roveredo, che vede nel teatro un ponte di unione fra i detenuti, i Ragazzi della Panchina e il territorio pordenonese. Lo spettacolo verrà infatti messo in scena dai detenuti della Casa Circondariale di Pordenone il 23 giugno prossimo all’interno della cinta muraria, per la regia di Pino Roveredo e i Ragazzi della Panchina e con la collaborazione del Ser.T. e del personale della Struttura Carceraria. Il pubblico pordenonese potrà godere dello spettacolo grazie alla proiezione in contemporanea che sarà effettuata all’interno dell’Ex convento di San Francesco. Seguirà l’incontro con il regista padovano Rodolfo Bisatti, di cui verrà proiettato il lungometraggio “La donna e il drago” (2010), miglior film “rivelazione” alla sesta edizione del Festival del Cinema Italiano di Como. Il film, ambientato a Trieste, che indaga l’aspetto universale umano dell’abbandono, ma può far riflettere sul problema tuttora contingente e insoluto delle madri in carcere (molte delle quali scelgono come via di liberazione il suicidio), racconta, in 100 minuti, l’ultimo periodo di libertà di una madre che dovrà scontare sei anni di carcere avendo una figlia di un anno e pochi mesi. Il film si svolge e si ferma prima delle sbarre, nel privato del quotidiano, visualizzando l’impressionante approssimarsi dell’ora zero: il momento del distacco tra la madre, che verrà internata, e la figlia il cui destino è ancora incerto. Udine: “Michele Kohlhaas”, video realizzato dai detenuti nel laboratorio di Rita Maffei Il Piccolo, 28 aprile 2011 L’opera video “Michele Kohlhaas”, interamente girata e realizzata da alcuni detenuti della Casa Circordiale di Udine durante un laboratorio video-teatrale curato dall’attrice, regista e co-direttore artistico del Css Rita Maffei, verrà proiettata sabato al Centro di accoglienza Ernesto Balducci in occasione di un incontro pubblico (alle 15, ingresso libero) che si pone come momento di sensibilizzazione rivolto alla comunità civile sull’attuale situazione carceraria e sulle azioni del progetto d’intervento culturale promosso e coordinato dal Css nelle Case Circondariali di Udine, Tolmezzo e Pordenone da oltre 25 anni. L’incontro intitolato “In carcere: spazi di socializzazione culturale a Udine, Pordenone, Tolmezzo”, coordinato dal giornalista Mario Mirasola, prevede tra l’altro interventi di Pierluigi Di Piazza, responsabile del Centro Balducci, e dei tre direttori delle Case circondariali di Udine e Gorizia, Tolmezzo e Pordenone. Il video testimonia storie e racconti, a volte autobiografici, partendo dal racconto di Heinrich von Kleist e dalla storia ottocentesca dell’allevatore di cavalli Michele Kolhaas. Libri: “Il mestiere della libertà”, di Pietro Raitano… cento storie di lavori in carcere www.blitzquotidiano.it, 28 aprile 2011 Duecento pagine che raccontano i prodotti “made in carcere”, come recita il sottotitolo del libro edito da Altreconomia e curato dal suo direttore Pietro Raitano. “Il mestiere della libertà” è un viaggio attraverso le storie delle amministrazioni penitenziarie in cui i detenuti fanno lavori artigianali producendo dalla frutta biologica ai vestiti, dai biscotti al gelato, ma si occupano anche di servizi di catering o di coltivare piante pregiate che poi sono vendute in un negozio fuori dalle mura del carcere. “Il lavoro per i detenuti è obbligatorio. La legge chiede che le amministrazioni penitenziarie facciano di tutto perché questi svolgano un’attività remunerata, ma la mancanza di fondi crea forti difficoltà - spiega Raitano. In Italia le carceri ospitano oggi 68 mila persone, delle quali soltanto 14 mila lavorano. A loro volta in 12mila lo fanno stipendiati dall’amministrazione penitenziaria”. Ciò significa che la quasi totalità dei carcerati impegnati in un’attività lavorativa pulisce, cucina o distribuisce il vitto, si occupa della manutenzione della struttura oppure della lavanderia. Ma c’è un altro modo di dare un lavoro a chi si trova in prigione, e attualmente riguarda i restanti 2 mila detenuti: vengono assunti da cooperative esterne. “L’amministrazione penitenziaria dà in comodato d’uso gratuito parte dei propri locali - prosegue il direttore di Altreconomia - E la cooperativa o l’azienda di riferimento ha anche altri vantaggi, come la possibilità di pagare gli stipendi per una cifra pari a due terzi rispetto a quanto previsto dai contratti nazionali o quella di ottenere sgravi fiscali legati al valore etico e sociale dell’attività svolta”. Secondo le stime del ministero della Giustizia per chi ha lavorato durante il periodo di detenzione i casi di recidiva si abbasserebbero al 10 per cento, mentre per chi non ha svolto attività lavorative il dato è pari al 70 per cento. Il libro è una mappa delle cento realtà di questo tipo presenti nel nostro paese ed è stato scritto principalmente per uno scopo divulgativo, perché si tratta di storie di cui si conosce poco o nulla. “I prodotti che vengono realizzati dai detenuti sono tutti di tipo artigianale e per questo motivo la loro qualità è straordinaria - ha aggiunto il direttore - sono squisiti i dolci della Banda Biscotti del carcere di Verbania, i taralli di quello di Trani, di splendida fattura i vestiti realizzati dalla cooperativa Alice di San Vittore e i mobili prodotti dai detenuti di Fossano e da quelli di Barcellona Pozzo di Gotto”. Fra gli esempi storici c’è il carcere di Bollate (Milano), la cui struttura è stata pensata per essere il più possibile adatta al lavoro, da segnalare il progetto “Cascina Bollate”, con la coltivazione di piante e fiori per appassionati; altro caso significativo è quello di Gorgona (arcipelago toscano), in cui i detenuti coltivano la terra e allevano gli animali fra cui le orate. La distribuzione dei prodotti sta ancora attraversando una prima fase di sviluppo: il sito web del ministero della Giustizia ha una parte dedicata all’elenco dei prodotti “made in carcere”, “ma il più delle volte per acquistare questi prodotti bisogna rivolgersi alle singole realtà che spesso hanno un proprio sito internet o un negozietto” - ha concluso Raitano - “Noi chiediamo ai consumatori di sostenere questa economia, che restituisce dignità al lavoro e sicurezza ai cittadini, semplicemente comprando i prodotti che peraltro sono di ottima qualità”. Soltanto due i casi di canali di distribuzione consolidati: la Coop, che ha venduto le orate di Gorgona e i gelati Aiscrim del carcere di Opera, e Ctm Altromercato, organizzazione di commercio equo e solidale che conta 350 punti vendita in Italia e che da marzo ha inserito fra i propri prodotti quelli provenienti dall’economia carceraria. Immigrazione: la Corte di giustizia europea “boccia” il reato clandestinità Redattore Sociale, 28 aprile 2011 La Corte di giustizia Ue ha “bocciato” il reato di clandestinità introdotto dall’Italia. La direttiva sul rimpatrio dei migranti irregolari dell’Unione europea osta infatti “ad una normativa nazionale che punisce con la reclusione il cittadino di un paese terzo in soggiorno irregolare che non si sia conformato ad un ordine di lasciare il territorio nazionale”. Quindi, si legge in una nota “una sanzione penale quale quella prevista dalla legislazione italiana può compromettere la realizzazione dell’obiettivo di instaurare una politica efficace di allontanamento e di rimpatrio nel rispetto dei diritti fondamentali. Il giudice nazionale, incaricato di applicare le disposizioni del diritto dell’Unione e di assicurarne la piena efficacia, dovrà quindi disapplicare ogni disposizione nazionale contraria al risultato della direttiva (segnatamente, la disposizione che prevede la pena della reclusione da uno a quattro anni) e tenere conto del principio dell’applicazione retroattiva della pena più mite, il quale fa parte delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri”. La Corte riporta il caso del signor “El Dridi, cittadino di un paese terzo”, che è “entrato illegalmente in Italia”. Nei suoi confronti è stato emanato, nel 2004, “un decreto di espulsione, sul cui fondamento è stato spiccato, nel 2010, un ordine di lasciare il territorio nazionale entro cinque giorni. Quest’ultimo provvedimento era motivato dalla mancanza di documenti di identificazione, dall’indisponibilità di un mezzo di trasporto nonché dall’impossibilità - per mancanza di posti - di ospitarlo in un centro di permanenza temporanea. Non essendosi conformato a tale ordine, il sig. El Dridi è stato condannato dal Tribunale di Trento ad un anno di reclusione”. Così la Corte d’appello di Trento “dinanzi alla quale egli ha impugnato detta sentenza, chiede alla Corte di giustizia se la direttiva sul rimpatrio dei cittadini di paesi terzi il cui soggiorno sia irregolare (direttiva rimpatri) osti ad una normativa di uno Stato membro che preveda l’irrogazione della pena della reclusione al cittadino di un paese terzo il cui soggiorno sia irregolare per la sola ragione che questi, in violazione di un ordine di lasciare entro un determinato termine il territorio nazionale, permane in detto territorio senza giustificato motivo”. Quindi la Corte “ha accolto la domanda del giudice remittente di sottoporre il rinvio pregiudiziale al procedimento d’urgenza, in quanto il sig. El Dridi è in stato di detenzione”. Essa rileva, anzitutto, “che la direttiva rimpatri stabilisce le norme e procedure comuni con le quali s’intende attuare un’efficace politica di allontanamento e di rimpatrio delle persone, nel rispetto dei loro diritti fondamentali e della loro dignità. Gli Stati membri non possono derogare a tali norme e procedure applicando regole più severe. Detta direttiva definisce con precisione la procedura da applicare al rimpatrio dei cittadini di paesi terzi il cui soggiorno sia irregolare e fissa la successione delle diverse fasi di tale procedura. La prima fase consiste nell’adozione di una decisione di rimpatrio”. Nell’ambito di tale fase va accordata priorità, spiega ancora la Corte, “ad una possibile partenza volontaria, per la quale all’interessato è di regola impartito un termine compreso tra sette e trenta giorni”. Quindi “nel caso in cui la partenza volontaria non sia avvenuta entro detto termine, la direttiva impone allora allo Stato membro di procedere all’allontanamento coattivo, prendendo le misure meno coercitive possibili”. E soprattutto solo nel caso di un determinato comportamento dell’interessato può, lo Stato, procedere al fermo: “Qualora l’allontanamento rischi di essere compromesso dal comportamento dell’interessato, lo Stato membro può procedere al suo trattenimento. Conformemente alla direttiva rimpatri, il trattenimento deve avere durata quanto più breve possibile ed essere riesaminato ad intervalli ragionevoli; esso deve cessare appena risulti che non esiste più una prospettiva ragionevole di allontanamento e la sua durata non puo’ oltrepassare i 18 mesi. Inoltre gli interessati devono essere collocati in un centro apposito e, in ogni caso, separati dai detenuti di diritto comune”. La direttiva comporta pertanto “una gradazione delle misure da prendere per dare esecuzione alla decisione di rimpatrio nonché l’obbligo di osservare il principio di proporzionalità in tutte le fasi della procedura. Tale gradazione va dalla misura meno restrittiva per la libertà dell’interessato, ossia la concessione di un termine per la sua partenza volontaria, alla misura che maggiormente limita la sua libertà nell’ambito di un procedimento di allontanamento coattivo, vale a dire il trattenimento in un apposito centro. La direttiva persegue dunque l’obiettivo di limitare la durata massima della privazione della libertà nell’ambito della procedura di rimpatrio e di assicurare così il rispetto dei diritti fondamentali dei cittadini dei paesi terzi in soggiorno irregolare”. In proposito la Corte tiene conto, in particolare, “della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. La Corte rileva, poi, che la direttiva rimpatri non è stata trasposta nell’ordinamento giuridico italiano e ricorda che, in questi casi, i singoli sono legittimati ad invocare, contro lo Stato membro inadempiente, le disposizioni di una direttiva che appaiano, dal punto di vista sostanziale, incondizionate e sufficientemente precise. È il caso, nella fattispecie, degli artt. 15 e 16 della direttiva rimpatri. Al riguardo la Corte considera che la procedura di allontanamento italiana differisce notevolmente da quella stabilita da detta direttiva”. La Corte ricorda pure che, se è vero che la legislazione penale rientra in linea di principio nella competenza degli Stati membri e che la direttiva rimpatri lascia questi ultimi liberi di adottare misure anche penali nel caso in cui le misure coercitive non abbiano consentito l’allontanamento, “gli Stati membri devono comunque fare in modo che la propria legislazione rispetti il diritto dell’Unione. Pertanto essi non possono applicare una normativa, sia pure di diritto penale, tale da compromettere la realizzazione degli obiettivi perseguiti da una direttiva e da privare quest’ultima del suo effetto utile”. In sostanza “la Corte considera dunque che gli Stati membri non possono introdurre, al fine di ovviare all’insuccesso delle misure coercitive adottate per procedere all’allontanamento coattivo, una pena detentiva, come quella prevista dalla normativa nazionale in discussione nel procedimento principale, solo perché un cittadino di un paese terzo, dopo che gli è stato notificato un ordine di lasciare il territorio nazionale e che il termine impartito con tale ordine è scaduto, permane in maniera irregolare in detto territorio”. Per la Corte Ue “gli Stati membri devono continuare ad adoperarsi per dare esecuzione alla decisione di rimpatrio, che continua a produrre i suoi effetti. Una tale pena detentiva, infatti, segnatamente in ragione delle sue condizioni e modalità di applicazione, rischia di compromettere la realizzazione dell’obiettivo perseguito dalla direttiva, ossia l’instaurazione di una politica efficace di allontanamento e di rimpatrio dei cittadini di paesi terzi il cui soggiorno sia irregolare nel rispetto dei loro diritti fondamentali”. Il giudice del rinvio, incaricato di applicare le disposizioni del diritto dell’Unione e di assicurarne la piena efficacia, dovrà quindi disapplicare ogni disposizione nazionale contraria al risultato della direttiva (segnatamente, la disposizione che prevede la pena della reclusione da uno a quattro anni) e tenere conto del principio dell’applicazione retroattiva della pena più mite, il quale fa parte delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri”. In conclusione l’ultima precisazione della Corte: “Il rinvio pregiudiziale consente ai giudici degli Stati membri, nell’ambito di una controversia della quale sono investiti, di interpellare la Corte in merito all’interpretazione del diritto dell’Unione o alla validità di un atto dell’Unione. La Corte non risolve la controversia nazionale. Spetta al giudice nazionale risolvere la causa conformemente alla decisione della Corte. Tale decisione vincola egualmente gli altri giudici nazionali ai quali venga sottoposto un problema simile”. I commenti politici Il primo a commentare la bocciatura comunitaria della legge italiana è Antonio Di Pietro. “È ormai provato - afferma il leader di Idv - che siamo di fronte a una dittatura strisciante in cui vengono presi provvedimenti contro la Carta dei diritti dell’uomo, si dichiara guerra senza passare per il Parlamento e si occupano le istituzioni per fini personali. È gravissimo che questa maggioranza, asservita al padrone, continui a fare leggi incostituzionali e contro i diritti fondamentali delle persone. Siamo alla vigilia di un nuovo Stato fascista che va fermato e l’occasione saranno le amministrative e i referendum del 12 e 13 giugno”. Per il Pd, si tratta di “un altro schiaffo al ministro Maroni”. “Sin da quando Maroni presentò il reato nel pacchetto sicurezza - ricorda Sandro Gozi, responsabile per le politiche europee del partito - avevamo denunciato l’evidente violazione delle norme europee e sono due anni che chiediamo al governo di recepire la direttiva Ue sui rimpatri, che giace dimenticata da qualche parte alla Camera”. Laconico il commento di Rosy Bindi. “Sull’immigrazione le figuracce del governo italiano non finiscono mai - dice la presidente dei democratici -. La Corte di Giustizia europea mette a nudo le violazioni dei diritti umani, l’approssimazione e i ritardi di norme approvate solo per fare propaganda, dimostrando un’efficacia che alla prova dei fatti pari a zero. Del resto, cosa aspettarsi da un governo prigioniero delle parole d’ordine della Lega e incapace di affrontare con serietà e giustizia il fenomeno globale e inedito dell’immigrazione”. Anna Finocchiaro, presidente dei senatori del Pd, considera un “sollievo” il “no” della Corte Ue alla reclusione per i clandestini prevista della legge italiana. La conferma di “quanto fossero a suo tempo fondate le obiezioni da parte dell’opposizione alla normativa del governo imposta dalla Lega”. Un pronunciamento che “deve far riflettere chi, anche in queste ore, affronta un tema così importante per il nostro futuro come l’integrazione in termini esclusivamente elettorali e demagocici”. Per Benedetto Della Vedova, capogruppo di Fli alla Camera, la bocciatura “non è, come molti vorranno fare apparire, una sentenza buonista. A essere stata bocciata è una norma demagogica e inefficiente, che aggrava l’arretrato giudiziario e il sovraffollamento carcerario, senza migliorare e al contrario intralciando le procedure di espulsione e rimpatrio degli immigrati irregolari”. Droghe: don Ciotti; in Italia c’è stata una deriva dall’ambito sociale a quello penale Redattore Sociale, 28 aprile 2011 Il presidente del Gruppo Abele, durante il convegno nazionale “Dipendenze e consumi” che vede la partecipazione di 400 iscritti da tutta Italia e 30 relatori: “C’è stata una deriva dall’ambito sociale a quello penale”. Eros, 19 anni morto a Roma. Concetta 26 anni, morta a Torino, Piero 22 anni, morto a Milano. Sono i nomi dei primi morti di droga in Italia. A ricordare queste e altre vite spezzate dalla tossicodipendenza è stato don Luigi Ciotti, presidente del Gruppo Abele, in apertura del convegno nazionale “Dipendenze e consumi” che si sta svolgendo a Torino, a 35 anni dall’approvazione delle legge 685 sulla droga: “Nel 1975 - ha affermato - in questa città, mettemmo un cartello con questi nomi. Presidiammo con una tenda piazza Solferino, dove 200 persone digiunarono con noi per chiedere una legge attenta e puntale, che non mandasse più le persone tossicodipendenti in ospedale psichiatrico o in carcere e si considerasse la droga come una questione da affrontare sul piano sociale e non punitivo”. Dopo 35 anni da quella lotta, che portò il parlamento ad approvare una legge all’avanguardia, il Gruppo Abele invita ad una nuova riflessione, a partire dalle criticità, rompendo - ha ricordato don Ciotti - “quei silenzi, troppi nel nostro paese, che hanno permesso una deriva dall’ambito sociale a quello penale” per fare delle nuove proposte, che verranno esposte al termine delle due giornate di approfondimento, a cui stanno partecipando oltre 400 iscritti da tutta Italia e 30 relatori. “Negli anni Settanta - spiega Leopoldo Grosso, psicologo, vice presidente del Gruppo Abele - si trattava di far emergere il fenomeno, togliergli il tabù che lo copriva e fornirgli una prima “rappresentazione sociale” perché venisse assunto a livello istituzionale. Prima della 685 per le persone tossicodipendenze l’alternativa era il carcere o l’ospedale psichiatrico. Ma già allora le comunità, nella loro fase pionieristica, avevano dimostrato che era possibile emanciparsi dalla dipendenza. Si era in cerca di una soluzione valida universalmente per la cura della tossicodipendenza. La storia di tutti questi anni ha dimostrato che non c’è una soluzione unica, ma ogni volta un approccio ulteriore che si somma ai precedenti e a un’ampia possibilità di interventi. Negli anni Novanta arrivò la prima modifica alla 685, che poneva l’accento sulla punizione dei consumatori, rispondendo di fatto a necessità più politiche che sociali. Il Gruppo Abele con molte altre realtà del sociale creò un cartello il cui slogan recitava “educare, non punire” e strappò modifiche significative a questa legge. Il dato positivo fu lo stanziamento di risorse per la cura e la prevenzione della tossicodipendenza e la vittoria del referendum del 1993 che ne abolì gli aspetti più repressivi”. Gli anni Novanta sono stati anche quelli dell’esplosione dell’Aids: “Uno studio della Lila - ha proseguito Grosso - ha sottolineato come fino al 1996 le persone tossicodipendenti morte per Aids furono 24mila, ovvero tanti quanti i tossicodipendenti morti per overdose”. Da allora la medicina basata sull’evidenza, assieme ad un’accresciuta attenzione alla prevenzione, alla cura, ma anche alla “riduzione del danno”, ha consentito di migliorare le aspettative di vita delle persone tossicodipendenti, che i quegli anni non superava i 40 anni. Da allora ad oggi, a cambiare con i consumi, sono state anche le condizioni sociali, come ha ricordato don Ciotti: “Oggi viviamo una condizione di impoverimento non solo economico, dovuto dalla crisi, che ha accresciuto l’ansia e la disperazione nelle persone, ma anche sociale, etico e culturale. La riduzione del fondo per il sociale nel nostro Paese, che si ripercuote sui servizi di accoglienza e sostegno sociale parla chiaro sul disinvestimento in questo settore: i fondi destinati al sociale erano 2 miliardi 500 milioni, oggi 379 milioni di euro. “Questo nuovo modello di società - ha spiegato Leopoldo Grosso - porta le persone a vivere in uno stato di “continuo sovraccarico” per dirla con le parole del sociologo e giornalista Gunter Amendt - e così cresce la richiesta di psicofarmaci e delle droghe da prestazione, con un significativo aumento dei consumi di cocaina a scapito dell’eroina. Un cambiamento che i narcotrafficanti hanno letto e assecondato, facendo della cocaina la nuova droga di massa, reperibile a prezzi bassi, oggi seconda per consumo solo alla cannabis tra le sostanze illegali”. Di narcotraffico si parlerà in uno dei laboratori di approfondimento in corso di svolgimento. Un affare redditizio, quello del traffico di droga. Il prodotto al mondo che offre margini di guadagno tra i più elevati per la malavita. Una montagna di soldi, che le mafie italiane non si lasciano sfuggire e che vengono riciclati nei settori più redditizi dell’economia legale, dal sud al nord del Paese. “Certo, è necessario proseguire nell’ambito della prevenzione - ha concluso don Ciotti - perché questo mercato continuerà ad esistere finché ci sarà la domanda delle sostanze, ma la vera lotta, prima che alla droga, è al narcotraffico, a quei sistemi criminali che ingrassano sulla produzione e il consumo”. Afghanistan: dopo maxi fuga dei talebani, arrestato direttore carcere Kandahar Ansa, 28 aprile 2011 Il direttore della prigione di Kandahar e sette altri dipendenti sono sono stati arrestati a seguito della spettacolare fuga lunedì di quasi 500 detenuti, molti dei quali comandanti talebani, attraverso un tunnel scavato per cinque mesi. Il portavoce del governo provinciale, Zalmay Ayubi, ha confermato oggi l’esistenza di un certo numero di persone arrestate, senza però fornirne l’identità. Ma fonti locali hanno detto all’Ansa che fra di esse vi è il direttore del carcere, generale Ghulam Dastgir Mayar, e sette suoi collaboratori che presto saranno trasferiti a Kabul per essere interrogati. Questa decisione è stata presa dopo che autorevoli funzionari del ministero della Giustizia hanno manifestato la convinzione di complicità fra i membri dei servizi di sicurezza della prigione che hanno facilitato la fuga. Stati Uniti: consentite le visite coniugali in carcere per i detenuti omosessuali Ansa, 28 aprile 2011 Un bel passo per il diritti delle coppie gay: i funzionari delle prigioni di Stato di New York stanno permettendo le visite coniugali per i detenuti omosessuali legati al partner da unioni civili o matrimoni dello stesso sesso. I recenti cambiamenti nelle regole dei penitenziari permetteranno anche ai detenuti omosessuali di lasciare la loro cella per visitare il compagno nel caso in cui fosse un malato terminale. “Se in questa circostanza viene chiesto un permesso, è molto probabile che gli venga concesso. Stiamo già mettendo in atto queste nuove disposizioni”, afferma al New York Daily News Peter Cutler, il portavoce del dipartimento dei Servizi Correzionali di New York, che prima permetteva soltanto visite coniugali per i matrimoni tradizionali. Cutler ha detto che il regolamento, nel registro dello Stato da questa settimana, formalizza un cambiamento di politica avviato nel 2008 da l’allora governatore di New York David Paterson, che aveva ordinato alle agenzie di Stato di riconoscere i matrimoni tra persone dello stesso sesso legalmente celebrati in altri stati, oltre alle unioni civili. I sostenitori del matrimonio tra gay hanno accolto favorevolmente l’iniziativa, affermando che qualsiasi riconoscimento delle relazioni tra persone dello stesso sesso è un passo positivo - anche quando si verifica nelle prigioni. Egitto: le autorità egiziane liberano nove detenuti palestinesi InfoPal, 28 aprile 2011 Questa mattina, le autorità egiziane hanno rilasciato nove cittadini palestinesi detenuti da diversi periodi in territorio egiziano. Il portavoce del Comitato dei familiari di questi detenuti, Emad as-Sayyd, ha fatto sapere che “in queste ore i nove palestinesi sono sulla via per Rafah, al confine tra Egitto e Striscia di Gaza, dove dovrebbero rientrare nelle prossime ore”. Tutti e nove i detenuti palestinesi avrebbero dovuto essere rilasciati lunedì, ma problemi burocratici ne avevano posticipato la liberazione. Nelle prigioni egiziane restano ancora rinchiusi 20 cittadini palestinesi, mentre non si conosce la sorte di altri sei.