Giustizia: la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia sulle ultime morti in carcere Ristretti Orizzonti, 26 aprile 2011 In un solo giorno, uno dei tanti che trascorrono in carcere, marcati dalla disperazione, 3 detenuti sono morti e 3 hanno tentato il suicidio. Terribile, agghiacciante aggiornamento del quotidiano computo che scandisce le giornate delle nostre galere. Morti per suicidio, droga, malattia. Impiccagioni tentate o riuscite, tagli alla gola. Persone, per l’opinione pubblica, senza volto né nome. Considerati eventi critici per le statistiche. Nelle carceri italiane la situazione sanitaria è drammatica, il diritto dei detenuti alla salute è fortemente limitato o di fatto negato. Nelle carceri italiane l’assistenza sanitaria così come viene esercitata è un fattore di rischio e di pena aggiuntiva. Le nostre parole rischiano di fare la fine di queste morti invisibili, voci di qualcuno che grida nel deserto. Domani saranno cancellate, dimenticate. Come questi morti. Discorsi logori, fuori audience, temiamo, tra addetti ai lavori. Perché tutti giustamente si indignano quando si paventa l’attacco all’art. 1 della Costituzione, ed i titoli dei giornali divengono cubitali. Indignazione sacrosanta e legittima. Non altrettanto coralmente né mediaticamente espressa quando l’art. 27 comma 3 della stessa viene costantemente violato. La frequente violazione dei diritti umani è confermata dalle 98 sentenze e rispettive condanne comminate dalla Cedu (Corte Europea dei Diritti dell’Uomo) all’Italia, preceduta in questo triste primato da soli altri 5 stati: Turchia, Russia, Romania, Ucraina e Polonia. Ma questi “crimini di pace”, come direbbe Basaglia, ancora non bastano a far produrre alla politica una seria riflessione sulla pena e sul modo di scontarla. Nel frattempo, dalla Germania, giunge invece la confortante notizia di una sentenza storica, emessa il 9 marzo dalla Corte Costituzionale tedesca, che obbliga le istituzioni penitenziarie del Paese a liberare un detenuto laddove la carcerazione non sia rispettosa dei diritti umani. Viene così anteposta la dignità della persona alla sicurezza, e si apre la strada alle “liste di attesa” per l’ingresso in carcere, già messe in atto in alcuni Paesi nordeuropei, Norvegia in testa. Senza dimenticare che le prigioni norvegesi e tedesche sono sotto-affollate, ci sono cioè più posti letto che detenuti. La Corte ha stabilito che se a causa del sovraffollamento non è possibile garantire una detenzione rispettosa della dignità umana, i detenuti devono essere rilasciati. Il caso riguardava un ex detenuto, che per circa sei mesi ha vissuto 23 ore al giorno in una cella di 8 metri quadrati, con il gabinetto separato da un paravento ma senza aerazione. I giudici gli hanno dato ragione: le condizioni in cui ha vissuto giustificano la richiesta di un indennizzo, perché lesive della dignità umana. E in certi casi, hanno aggiunto, qualora non sia possibile garantire una sistemazione dignitosa, lo Stato ha il dovere “di rinunciare all’esecuzione della condanna”. Se questa decisione fosse emanata in Italia, dove il sovraffollamento supera il 150% della capienza, che impatto avrebbe? Quindi, mentre negli altri paesi europei si apre la strada verso una giurisprudenza di contrasto alle politiche carcero-centriche, in Italia constatiamo solo la sconcertante e inaccettabile lentezza delle istituzioni nel procedere anche solo con le dismissioni dagli Opg; i cui ospiti, ancora talvolta legati, in celle spesso indecenti, come in un silenzioso olocausto, a 3 anni dal passaggio della riforma della sanità penitenziaria, anziché essere dismessi sono aumentati di 200 unità. Il 10 marzo scorso è stata presentata dal ministro Alfano la riforma “epocale” della giustizia. Si è però verificata una gigantesca rimozione nel Governo: nessuno ha accennato alla riforma epocale sul carcere. Noi invece un’idea l’abbiamo. Nemmeno epocale, ma fattibile. Basata su pratiche già in uso in altri paesi. Per invertire il senso di marcia in cui si sta procedendo, bisognerebbe pensare ad un diritto penale certamente efficiente, ma soprattutto ad una interlocuzione tra le parti della società, tra le varie discipline sociali che restituisca un vero posto ai problemi impropriamente convogliati nel diritto penale. Occorre pensare alla pena andando anche al di fuori della concezione italiana, e guardare ciò che avviene negli altri paesi europei, non solo per una più ampia articolazione del ventaglio delle pene. Andrebbero implementate le pene alternative al carcere con le sanzioni “sostitutive” delle pene detentive brevi, discrezionalmente concesse già dal giudice della cognizione (semidetenzione, libertà controllata, pena pecuniaria). Un passo avanti, che potrebbe essere sviluppato, è stato fatto con la competenza penale del giudice di pace: pena pecuniaria, permanenza domiciliare, lavoro di pubblica utilità. Dunque della “pena carcere” spesso si può anche fare a meno (in Germania e Gran Bretagna le pene pecuniarie inflitte rappresentano la gran parte delle pene irrogate). E poi potenziare il ricorso all’ampliamento per molte ipotesi delittuose delle pene interdittive come pene principali, con l’esclusione del carcere. Le varie commissioni per la riforma del codice penale avevano già preso in considerazione questa prospettiva: si tratta di avere il coraggio di farvi ricorso in modo assai ampio. Sarebbe indispensabile che la previsione codicistica mettesse a disposizione del giudice della cognizione più tipi di pena in via alternativa; ragionare quindi su una previsione alternativa di pene più ampia e coraggiosa di quella attuale, come criterio generale. Solo per i delitti più gravi dovrebbe essere prevista come necessaria la pena della reclusione. Attraverso un “Piano sociale straordinario per le carceri”, richiesto dal Volontariato, bisognerebbe poi ridare slancio e possibilità alle misure alternative, drasticamente ridotte in questi anni. Niente di epocale, quindi, ma la semplice attuazione di pratiche già in uso da altre parti. Sul tema dei suicidi, andrebbero poi applicate le circolari, in particolare quella dello scorso aprile, che cita testualmente “occorre profondere ogni sforzo affinché il processo di costante miglioramento della “normativa” interna e la conseguente riduzione del disagio della popolazione detenuta non vengano rinviati ai futuri prossimi risultati della realizzazione del “piano carceri”. Al contrario è opportuno, proprio in questo momento, dare un nuovo impulso a tale processo per superare le contingenti difficoltà e portare avanti il lavoro, da lungo tempo intrapreso, di umanizzazione della condizione detentiva” (Circ. Gdap-0177644) Ad un anno esatto dalla circolare i risultati non ci sembrano visibili, né ci pare che le normative contenute siano state applicate. Di fronte ai problemi della penalità, dobbiamo tornare a chiedere non solo a noi stessi ma anche alla cittadinanza, ai non addetti ai lavori, che idea abbiamo del carcere e dell’esecuzione penale, e se pensiamo che il carcere così com’è costituisca un valore in termini di tutela della sicurezza, come sembra sostenere il senso comune dominante. Larga parte dei nostri propositi e del nostro impegno futuro nasce da come risolveremo questo discrimine: se riusciremo ad orientare ed informare un’opinione pubblica più ampia di quella che rappresentiamo. A dare corpo e voce a queste ulteriori morti. A resistere in questo confronto con le istituzioni, che talvolta sembra senza speranza, che porti a pene più umane, ad una vera riforma penitenziaria. Accanto a questa battaglia, che è una battaglia politica e culturale di lungo periodo, bisogna avere la forza di riprendere quella dei diritti fondamentali della persona, diritti che valgono anche in regime di esecuzione penale. Elisabetta Laganà, presidente Cnvg Giustizia: droga e politica, una guida alle alternative riformiste di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 26 aprile 2011 Il nostro è un Paese asfittico, dove le politiche riformiste vengono fatte impropriamente coincidere con le politiche paludate, dove l’etica entra a man bassa nel diritto e nella politica criminale, dove di fronte a fallimenti epocali di talune scelte normative chi governa preferisce taroccare i dati statistici piuttosto che ragionare pragmaticamente e laicamente intorno a ipotesi emendative. Non c’è mai spazio per un confronto scientifico, culturale, giuridico, socio-criminale. La politica italiana è viziata dal proprio essere etero-eticamente orientata. La questione delle droghe è a tal fine paradigmatica. In Italia non si è mai sviluppato un dibattito politico intorno alle possibili alternative alla war on drugs. L’anti-proibizionismo viene considerato terreno di cultura radicale ed estremista. In questo il mondo anglosassone risulta essere molto meno manicheo rispetto all’Italia. Non è un caso che a Bristol in Inghilterra la Transform Drug Policy Foundation possa ragionare e costruire scientificamente una piano per la regolamentazione legale delle droghe. Si deve alla caparbietà di Forum Droghe e della Cgil la scelta di proporre ai lettori italiani la traduzione di quello che viene definito “il nuovo edificio legale” che usando “scienza e coscienza” possa aiutare a superare le tradizionali politiche sopranazionali e statali in materia di sostanze stupefacenti. Politiche perdenti dal punto di vista sociale, economico e criminale. Il volume si chiama non a caso “Dopo la guerra alla droga.” (Ediesse, 2011). Nel volume si descrivono cinque possibili modelli per regolamentare la distribuzione della droga. Modello di prescrizione medica: rigidamente controllato, con un ruolo di prescrizione affidato a chi ha competenze mediche. È questo un modello costoso in quanto richiede una presenza territoriale diffusa di medici specializzati nel trattamento di assuntori di sostanze. Modello di vendita in farmacia: è meno restrittivo del precedente in quanto affida a farmacisti selezionati, formati e appositamente autorizzati un ruolo centrale nella distribuzione e nella informazione di base. Modello di vendita con licenza: la vendita sarebbe estesa ai luoghi dove viene distribuito alcool e tabacco con modalità analoghe di distribuzione. Modello del locale pubblico con licenza: si userebbero solamente pub e bar appositamente autorizzati per la vendita e il consumo di droghe, con restrizioni legate all’età, alla condizione di intossicazione del consumatore e all’orario di apertura. Modello di vendita senza licenza: vi sarebbe libera vendita delle sostanze meno tossiche al pari degli analgesici e dei farmaci da banco. Ognuno di questi modelli viene spiegato con indicazioni e contro-indicazioni, costi sociali ed economici. Mai una caduta ideologica. Sempre uno sguardo alle condizioni reali di vita delle persone e dei mercati. Una corposa appendice è dedicata al superamento dell’apparato di norme internazionali in materia di droghe. Le Nazioni Unite hanno infatti sviluppato nel tempo una machinery convenzionale unidirezionale fortemente condizionata da scelte repressive e proibizioniste. Quell’apparato universale ha lasciato ben poco spazio a politiche nazionali diversamente connotate. La prima delle tre più importanti convenzioni Onu sulle droghe risale al 1961 (Single convention on narcotic drugs e successivo protocollo del 1972). Le successive sono del 1971 (Convention on psychotropic substances) e del 1988 (Convention against illicit traffic in narcotic drugs and psychotropic substances). È stato istituito un sistema di controllo universale sulla coltivazione, produzione, esportazione, importazione, distribuzione, commercio e possesso di sostanze narcotiche Vi è una rigida previsione delle attività consentite agli Stati e una altrettanto rigorosa catalogazione delle droghe in quattro tipologie, a seconda degli effetti di dipendenza prodotti. E al primo posto, per pericolosità e strategie di repressione, vi sono eroina, cocaina e cannabis, incredibilmente mescolate tutte insieme. Di fronte a questo rigido e ideologico apparato di norme vengono indicate nel testo due vie: riformarlo o muoversi nei silenzi convenzionali per sperimentare politiche alternative. La prima è la via maestra. La seconda è la via possibile. Questo significa per la Transform Drug Policy Foundation ma anche per noi essere riformisti. Giustizia: inclusione sociale detenuti, domani intesa tra Dap e 10 Regioni Asca, 26 aprile 2011 Sarà firmato domani, a Roma, l’accordo tra il ministero della Giustizia-Dipartimento Amministrazione Penitenziaria (Dap) e le Regioni Abruzzo, Calabria, Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Liguria, Lombardia, Marche, Piemonte, Puglia e le Provincie Autonome di Trento e Bolzano per migliorare l’inserimento sociale e lavorativo dei detenuti. Lo riferisce una nota della Regione Liguria che spiega come l’accordo preveda la collaborazione tra i vari soggetti firmatari per la realizzazione di un progetto interregionale-transnazionale. La firma, cui seguirà una conferenza stampa, è in programma alle 11,30, al ministero della Giustizia, con la partecipazione del ministro Angelino Alfano. L’intesa prevede una preventiva ricognizione e analisi sullo stato della programmazione sociale degli interventi di inclusione socio-lavorativa. La realizzazione degli interventi sarà sostenuta dalle Regioni, dalle Province Autonome e dal ministero di Giustizia-Dap attraverso l’utilizzo delle risorse Fse (Fondo Sociale Europeo) 2007-2013. Sardegna: Sdr; l’assessore Liori incalzi presidente Cappellacci su sanità penitenziaria Agenparl, 26 aprile 2011 “Ci risulta che le Regioni a Statuto Speciali, com’è la Sardegna, davanti al protratto silenzio del Consiglio dei Ministri su un provvedimento definito dalla Commissione Paritetica possano, attraverso il Presidente, non solo chiedere con autorevolezza che venga messo all’ordine del giorno dei lavori, ma anche prendere parte alla seduta. Bisogna che qualcuno lo ricordi al Presidente Ugo Cappellacci, altrimenti il Cdm si occuperà sempre di altri temi”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme” ricordando all’assessore Antonello Liori che “ha sicuramente ragione quando afferma che la Regione ha compiuto i suoi atti a dicembre, ma il Presidente Cappellacci non può aspettare quattro mesi in silenzio che il Consiglio dei Ministri metta all’ordine del giorno e approvi il decreto. Ha invece l’autorità in base allo Statuto di Autonomia di chiedere un provvedimento urgente e comunque di farsi sentire. La Sardegna inoltre deve mobilitare anche i Parlamentari come hanno provveduto a fare altre Regioni”. “La questione della sanità penitenziaria - sottolinea la presidente di Sdr - è un’emergenza riconosciuta e affermata dai direttori, dagli operatori, medici, infermieri ed educatori, delle carceri isolane e dagli Agenti di Polizia Penitenziaria troppo spesso chiamati a piantonare in ospedale detenuti affetti da gravissime patologie. È particolarmente delicata e insostenibile a Buoncammino dove sono reclusi oltre 200 pazienti tossicodipendenti e quasi altrettanti con malattie del fegato, una cinquantina di sieropositivi all’Hiv, e dove si trovano anche 210 pazienti psichiatrici, alcolisti ecc. Senza dimenticare che nel Cdt (Centro Diagnostico Terapeutico) sono ricoverati detenuti affetti da neoplasie, cardiopatie, ischemie, aneurismi e esiti di infarto al miocardio”. “Davanti a questo panorama sconfortante, in un momento di particolare difficoltà anche per il sovraffollamento, sarebbe auspicabile - secondo l’associazione di volontariato onlus - sentire la voce del Presidente della Regione sul perché la maggior parte di infermieri e medici spesso aspettano mesi il pagamento delle prestazioni. Tra l’altro sarebbe necessario contestualmente attivare un tavolo di concertazione per delineare con chiarezza e sufficiente anticipo l’organigramma e l’organizzazione del servizio. C’è infatti il rischio che ciascuna ASL, come in parte sta avvenendo in alcune situazioni, proceda in autonomia creando presupposti successivamente difficili da ricondurre a uniformità”. “I problemi della sanità penitenziaria - conclude Caligaris - non possono gravare solo sull’assessore della sanità che, per quanto possa operare con avvedutezza e impegno, non può sostituirsi alla massima autorità regionale. Chiediamo quindi uno sforzo straordinario anche alle Commissioni Sanità e Diritti Civili affinché la questione sia chiusa al più presto. La problematica riguarda complessivamente almeno 2.300 detenuti a cui occorre aggiungere i relativi familiari, gli operatori sanitari e quelli penitenziari. Ancora una volta, altrimenti, l’immagine della Sardegna e l’efficienza delle Istituzioni risulteranno decisamente compromesse”. Lazio: i Sindacati di Polizia Penitenziaria denunciano lo stato di abbandono delle carceri Redattore Sociale, 26 aprile 2011 Le organizzazioni sindacali regionali, riunitesi a Civitavecchia, “denunciano lo stato di abbandono in cui versa l’intero sistema carcerario della regione Lazio. Le relazioni sindacali sono assenti per mancanza del provveditore regionale da oltre 8 mesi, dove la carenza di personale di Polizia Penitenziaria supera le 1.000 unità con circa 400 distaccati nei palazzi del potere romano (ministero, Dap, Gom, Uspev ecc.) che incidono fortemente nella gestione della sorveglianza interna che è arrivata oltre 6.500 detenuti, maggiorata del 35% rispetto ad una capienza tollerabile di 4.500 posti”. È quanto si legge in una nota dei sindacati. A tutto questo, “che incide fortemente nel servizio traduzioni e piantonamenti, si aggiunge il taglio delle risorse straordinario, missioni e manutenzione per oltre il 20% incidendo negativamente anche sulla popolazione detenuta”, continua la nota. Inoltre anche la sanità penitenziaria “è allo sbando totale, soprattutto per mancanza di una progettualità da parte della presidenza della Regione Lazio”. Per questi motivi, conclude il comunicato, i sindacati “ribadiscono lo stato di agitazione e chiedono un incontro urgente con i vertici del Dap, in attesa in ogni sede di servizio saranno attivate da oggi le nostre bandiere per rimarcare la gravità della situazione e dall’11 maggio 2011 con un presidio permanente dinanzi al Dap”. Sicilia: emergenza carceri, il dibattito approda in Senato Dire, 26 aprile 2011 I dati diffusi dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria non lasciano dubbi: nonostante un piano carceri annunciato con clamore, i penitenziari siciliani permangono in uno stato di totale emergenza. Le statistiche più recenti, risalenti al 31 marzo, indicano per la Sicilia un sovraffollamento preoccupante. A fronte di una capienza regolamentare, relativa alle 27 strutture sparse sull’isola, di 5.391 posti, sono 7.740 i detenuti reclusi: ci sono, quindi, oltre 2.000 presenze in più. Simili cifre producono quotidiane difficoltà. “La realtà carceraria in Sicilia - dichiara Francesco D’Antoni segretario regionale dell’Ugl per il corpo della polizia penitenziaria - rischia seriamente di implodere e nessuno dà ascolto alle tante denunce sindacali presentate”. Il problema essenziale delle politiche di settore è sempre il solito: sono scarse le misure alternative alla detenzione e, di conseguenza, le carceri esplodono. Stando ai dati forniti dal Ministero di Grazia e Giustizia, nelle strutture siciliane solo 94 reclusi possono usufruire del regime di semilibertà al cospetto di quasi ottomila presenze. Il piano straordinario per i penitenziari italiani, varato dal ministro Angelino Alfano, non sembra produrre effetti. Nel 2011, stando ad indicazioni aggiornate al 28 marzo, sono stati 35 i morti in carcere, 14 di questi a causa di suicidio. Anche all’interno dei penitenziari siciliani le vite si spengono assai facilmente. L’ultimo decesso, solo in ordine di tempo, risale a gennaio: in quell’occasione, una grave patologia stroncò il settantacinquenne Antonio Gioffrè, recluso a Messina; nove giorni prima, invece, a Caltagirone si tolse la vita il trentanovenne Salvatore Camelia. Solo ad aprile, otto morti hanno costellato il pianeta carcere italiano. Nessuno viene risparmiato: a perdere la vita, infatti, non sono solo i detenuti, a questi si aggiungono gli internati presso gli ospedali psichiatrici giudiziari e le guardie carcerarie. Negli ultimi giorni, due suicidi si sono abbattuti su altrettanti componenti del corpo di polizia penitenziaria. Anche Antonio Parisi, ritrovato impiccato tra la folta vegetazione di un bosco a Niscemi, ne faceva parte. Gianpiero D’Alia, senatore dell’Udc, ha deciso di presentare un’interrogazione scritta sul tema indirizzata al ministro Alfano. “La Sicilia - ammette il senatore - ha una vasta popolazione carceraria, parliamo del 10% su scala nazionale; ma le strutture sono carenti, i posti inferiori all’attuale numero di detenuti ed il sovraffollamento sta diventando una piaga sempre più difficile da sconfiggere”. Per queste ragioni, il capogruppo dell’Udc al Senato ha deciso di chiedere rispose al titolare del dicastero della giustizia in merito, soprattutto, agli interventi più immediati da attuare. Tra qualche settimana, intanto, salvo ulteriori slittamenti, dovrebbe finalmente aprire i battenti la casa circondariale di Gela, attesa da decenni: la notizia è stata confermata dal presidente del locale tribunale. Piemonte: ingiuste detenzioni; solo 78 richieste nel 2010 a fronte di migliaia di indagini La Stampa, 26 aprile 2011 Sergio Rosso, professione manager, aveva chiesto 371 mila euro di risarcimento per “ingiusta detenzione” per 9 giorni in carcere e 17 di arresti domiciliari. La Corte d’appello gliene ha riconosciuti 15 mila. Francesco Santoro, medico di base, si sarebbe accontentato di 175 mila per tre giorni e due notti in gattabuia e 48 a casa senza poterne uscire. I giudici della quarta sezione che deve valutare i danni patiti da chi, dopo essere passato per la galera, è stato poi assolto gliene ha accordati 12 mila. Sono fra i 70 e gli 80 gli ex detenuti, una parte dei quali per poco, pochissimo tempo, che ogni anno in Piemonte e Valle d’Aosta chiedono di essere risarciti dal ministero del Tesoro. In base ai grandi numeri dei procedimenti penali aperti nel nostro distretto di Corte d’appello - migliaia con il ricorso a misure di custodia cautelare - 78 ricorsi per “ingiusta detenzione” nel 2010, stesso numero l’anno precedente e 68 nel 2008 rappresentano un indicatore positivo del sistema giudiziario. Lento e inefficace quanto si vuole, ma almeno prudente. Salvo eccezioni. Merito in primo luogo dei giudici per le indagini preliminari. Se, però, non consideriamo gli arresti per reati minori, fra cui la “Bossi-Fini”, l’incidenza delle “ingiuste detenzioni” appare un po’ meno irrilevante. Anche se, va rimarcato, i giudici bocciano poco più della metà delle pretese di risarcimento. Un giorno di carcere ingiusto vale 235,82 euro, la metà se trascorso agli arresti domiciliari. E c’è un tetto massimo risarcibile: 516.456,90 euro. Equivalente al vecchio miliardo di lire. Anche il riesame dei casi insegna qualcosa. In quello di Lucy Graciela Vega, peruviana di 35 anni, di professione badante, i giudici hanno rilevato come un più attento ascolto delle intercettazioni precedenti al suo arresto ne avrebbe chiarito la buonafede. La donna fu arrestata alla Malpensa di ritorno dal Perù con 3,122 grammi di cocaina nascosti in due quadri che portava con sé. Le telefonate intercontinentali fra lei e il connazionale con cui in quel periodo aveva una relazione chiarirono che la signora Vega era stata strumento inconsapevole del piccolo traffico di droga fra l’uomo e un terzo peruviano. Lucy rimase in cella 4 giorni e 133 agli arresti domiciliari. I giudici le hanno accordato un risarcimento di 25 mila euro rispetto ai 42.501 richiesti. Sono comunque più del doppio di quanto ha ottenuto il dottor Santoro. Finì in cella nel 2003 accusato di concorso nella truffa del titolare dell’allora farmacia della Consolata che si faceva rimborsare dall’Asl quantità industriali di farmaci salvavita: venivano prescritti in proporzioni incompatibili con i piani terapeutici, in quel caso di un paziente emofiliaco. Il medico riuscì a dimostrare che le ricette erano predisposte dalla segretaria, sorella del titolare della farmacia dopo che lui le aveva firmate in bianco. Archiviato. E risarcibile, anche per danni morali e biologici, ma i giudici ne hanno censurato la negligenza: risarcimento ridotto. Quello più alto, fra gli ultimi casi esaminati, l’ha ricevuto un filippino, Innocencio Mercado, 265 giorni di carcere e soprattutto arresti domiciliari alle spalle per essere stato accusato di concorso in un omicidio nel Biellese. A farlo arrestare contribuirono alcune testimonianze un pò troppo frettolose e per questo motivo lo Stato dovrà risarcirlo con 70 mila euro. Ne aveva chiesti 387 mila. C’è anche chi si accontenta dell’affermazione di principio. Come il legale di Sergio Rosso, il professionista che chiedeva 371 mila euro per essere stato coinvolto ingiustamente in una truffa per i rimborsi regionali agli alluvionati. L’avvocato Roberto Trinchero dice: “Il riconoscimento di un risarcimento è molto importante per il mio cliente sia sotto il profilo morale sia per la sua immagine”. Milano: progetto “Sulla soglia”, in 2 anni presi in carico 190 detenuti con disagio psichico Redattore Sociale, 26 aprile 2011 Il bilancio di due anni del servizio “Sulla soglia” attivo a Opera, Bollate e San Vittore. L’11% affetto da schizofrenia, il 19% da un disturbo della personalità. Nel 42% dei casi situazioni di fragilità. Sono stati 190 i detenuti con disagio psichico che, negli ultimi due anni, sono stati accompagnati dagli operatori del servizio “Sulla soglia” attivo all’interno delle carceri milanesi di Opera, Bollate e San Vittore. L’11% dei pazienti soffriva di schizofrenia e altri disturbi psicotici, il 19% di un disturbo della personalità, il 13% di disturbi dell’umore. “Nel 42% dei casi abbiamo poi riscontrato una situazione di fragilità -spiega Simona Silvestro, della cooperativa “Accoglienza e integrazione” che gestisce il servizio-. Situazioni senza una diagnosi conclamata, ma che necessitano di una transizione tra il carcere e il mondo esterno”. I risultati del progetto verranno presentati domani, mercoledì 27 aprile, nell’ambito del convegno “Sulla soglia: salute mentale tra carcere e territorio” che si svolgerà presso l’acquario civico di Milano. Più della metà dei detenuti presi in carico (116) erano reclusi all’interno di San Vittore, 47 nella casa di reclusione di Opera, 26 a Bollate e tre erano in carico all’Ufficio esecuzione penale esterna. Il servizio “Sulla soglia” è attivo dal 2005 e ha come obiettivo quello di sostenere i detenuti con disagio psichico prossimi alla dimissione e aiutarli nel reinserimento (anche lavorativo) nel tessuto sociale d’origine. “Il disagio psichico in carcere è un fenomeno in crescita -spiega Simona Silvestro-. San Vittore, in modo particolare, si è connotato come centro clinico specializzato per i disturbi psichiatrici. Qui arrivano detenuti da tutta la Lombardia e la percentuale di persone con disagio psichico è molto elevata”. All’interno del penitenziario di piazza Filangeri, dal 2008, un centro diurno riabilitativo. Difficile però sapere quanto il carcere incide sulla salute mentale delle persone. “Sicuramente le condizioni di vita nei penitenziari mettono alla prova le difese psichiche degli individui e possono favorire lo sviluppo di una patologia psichiatrica”, commenta Simona Silvestro. Mancano però i dati e studi approfonditi che permettano di capire quanto il carcere influisce sull’insorgere o l’aggravarsi di una patologia psichiatrica. Salerno: un esposto dei Radicali in Procura, su presunti pestaggi in carcere La Città di Salerno, 26 aprile 2011 Dopo l’ultima visita alla Casa circondariale di Fuorni del 4 aprile scorso, durante la quale più di un carcerato ha denunciato maltrattamenti e pestaggi, i membri dell’associazione radicale salernitana “Maurizio Provenza” hanno deciso di presentare un esposto alla Procura della Repubblica per far luce su quanto avviene realmente dietro le sbarre. Ieri mattina al Punto Einaudi di piazzetta Barracano, Manuela Zambrano e Michele Capano hanno illustrato alla stampa le motivazioni che li hanno spinti a rivolgersi al procuratore Franco Roberti affinché venga aperto un fascicolo sugli eventuali soprusi che vengono commessi nella struttura diretta da Alfredo Stendardo. È stato proprio il direttore del carcere ad accompagnare i radicali salernitani, insieme a Rita Bernardini, segretaria nazionale del partito, nella visita all’interno della casa circondariale svoltasi a inizio aprile. In quell’occasione un detenuto sostenne che all’interno dell’istituto, la violenza, esercitata anche con ausilio di mazze di legno custodite in un armadietto da lui indicato, non era per niente sconosciuta. Anzi. In seguito a queste dichiarazioni i radicali hanno ritenuto giusto rivolgersi alla giustizia per appurare la verità. Genova: Uil-Pa; ieri protesta dei detenuti nel carcere di Marassi Agi, 26 aprile 2011 “Nella serata di ieri, intorno alle 21.45, un gruppo di ragazzi probabilmente riferibili all’area “no global” ha manifestato sotto la cinta del carcere genovese di Marassi (lato stadio), gridando slogan vari tra i quali “libertà per i detenuti” ed ha appiccato fuoco a cartoni e materiali vari”. A darne notizia il segretario Generale della Uil Pa Penitenziari, Eugenio Sarno, che informa come a seguito di tale manifestazione all’interno del carcere siano scoppiata la protesta dei detenuti “Oltre ad appiccare fuochi i manifestanti hanno lanciato all’interno del carcere anche bottiglie e sassi - informa Sarno. Intorno alle 22.00, per circa un’ora, i detenuti di Marassi hanno dato vita ad una rumorosissima protesta sbattendo le stoviglie sulle porte e sulle grate nonché incendiando alcune lenzuola. Riteniamo quest’episodio inquietante non solo grave dal punto di vista del turbamento dell’ordine pubblico, quanto significativo delle tensioni che attraversano l’intero sistema penitenziario” La situazione è stata gestita la meglio dal personale in servizio, ma la penuria degli organici rinfocola le polemiche “Per garantire la sicurezza dell’istituto e sorvegliare i 748 detenuti ristretti ieri pomeriggio a Marassi erano presenti solo 18 unità di polizia penitenziaria , credo non occorra aggiungere molto altro. Oltre al sovrappopolamento (capienza massima consentita 435) il personale deve fare i conti con le croniche e gravi deficienza organiche, tra l’altro aggravate - sottolinea polemicamente il Segretario generale della Uil Pa Penitenziari - dalle scelte di gestione del personale da parte dell’Amministrazione Penitenziaria ai vari livelli. Solo la grande professionalità e l’esperienza dei nostri 18 colleghi in servizio ha impedito che la situazione, ieri sera, degenerasse. A loro va il nostro plauso e la nostra gratitudine. Che è il plauso e la gratitudine che estendiamo a tutta la polizia penitenziaria in servizio nelle prime linee penitenziarie, sempre più sola ed abbandonata ad affrontare le emergenze quotidiane. Noi non ci stancheremo di stimolare il Ministro Alfano ad una più istituzionale attenzione verso l’universo carcerario, oramai impedito ad assolvere al proprio mandato costituzionale. Ma invitiamo l’intero Governo ad attenzionare, e non a parole, le criticità e le tensioni che attraversano i nostri penitenziari. Questa è una bomba il cui timer è quasi pronto ad innescare una devastante deflagrazione dal punto di vista sociale, sanitario e di ordine pubblico”. Trieste: il tetto di Palazzo Carciotti messo a posto dai detenuti Il Piccolo, 26 aprile 2011 Sono i detenuti del Coroneo ad aver rimesso in sesto il tetto di Palazzo Carciotti. Nel lungo elenco dei lavori comunali che dal 2009 al 2011 vedono impiegati i detenuti “scelti” per opere socialmente utili, il nobilissimo palazzo neoclassico, costruito tra 1799 e 1805 di fronte alle rive, rappresenta uno dei lei motiv più ricorrenti. L’apice del degrado il Carciotti l’ha raggiunto a febbraio del 2009, quando la statua di Apollo realizzata dall’allievo di Antonio Canova, Antonio Bosa, si era inclinata verso la strada di almeno 15 gradi. Così se a febbraio di quell’anno l’acqua piovana penetrava dal tetto, a ottobre i detenuti hanno messo piede per la prima volta a palazzo. E par che si siano trovati bene, a giudicare da tutte le altre volte che ci sono entrati. A gennaio 2010 per ripristinarne gli intonaci interni. A marzo e ad aprile dello stesso anno, per verniciare le stanze. E ancora a maggio, per pitturarne gli uffici vicini all’atrio. Ma di interventi svolti dagli utenti del Coroneo ce ne sono a bizzeffe. Tra quelli di competenza del Comune, se ne contano 149 negli ultimi tre anni. Da ottobre a dicembre del 2009 ne sono stati effettuati 20. Nel 2010 si arriva a quota 100. E dai primi mesi del 2011, i detenuti ne hanno all’attivo già 29. Vanno a pulire praticamente tutto il centro storico: dalla zona monumentale di San Giusto all’area sotto l’Arco di Riccardo, passando per il Teatro Romano e la Scala dei Giganti. A loro tocca portare via i rifiuti dalla Pineta di Barcola e dal percorso del tram di Opicina. Lavori piuttosto duri, come sgomberare l’area patrimoniale di Padriciano da una cinquantina di copertoni d’auto che a novembre scorso erano stati abbandonati vicino ai campi da golf. O di qualità, come il restauro dell’alabarda di Miramare. E se s’imbrattano i muri, ci pensano loro. Così per cancellare le scritte di via delle Mura e sugli edifici della zona Urban. Per non parlare dell’ultima ondata di bora, quando sempre loro sono stati ingaggiati per liberare alcune strade dai rami pericolanti. L’elenco dei principali interventi che il Comune ha affidato agli utenti della Casa circondariale è saltato fuori da quando il soprintendente per i Beni archeologici Luigi Fozzati e il direttore del Coroneo Enrico Sbriglia stanno mettendo a punto il progetto per impiegare i detenuti sugli scavi archeologici di Aquileia. Una proposta, quest’ultima, che visti i precedenti potrebbe proprio andare in porto. Secondo Sbriglia, che è anche assessore comunale alla polizia locale, il principio di base è lo stesso: “Si consente alle persone di partecipare a progetti formativi che permettano loro di restituire in termini positivi il reato che hanno commesso”. In campo non ci sono gli interventi del Comune, ma anche di Provincia e Acegas. Un segno che, per dirla alla Sbriglia, “fa onore alla nostra città, capace di usare gli strumenti previsti dalla legge per fare sicurezza innescando processi di integrazione sociale”. Tutto si basa sulle borse lavoro. Nel bilancio di previsione gli enti locali decidono che soglia investire per questo capitolo di spesa. I detenuti che ne beneficiano sono coloro che sono ammessi a sanzioni alternative alla pena detentiva. Può trattarsi della semilibertà emessa dal Tribunale di sorveglianza dopo procedure complesse, o più semplicemente della possibilità di lavorare all’esterno, concessa dal magistrato di sorveglianza su proposta del direttore. In entrambi i casi, la persona esce dalla cella per un determinato periodo, sottoposto a controlli continui, a sorpresa, o solo al rientro. Alla fine il detenuto può arrivare a una paga di 450-500 euro al mese. Al Coroneo ne beneficiano a rotazione circa 20 ospiti all’anno. Attualmente sono nove. “Da 10 anni a questa parte - chiosa il direttore - non è mai stato necessario ricorrere alla revoca della borsa lavoro per alcuno. E incrociando le dita, posso dire che finora non abbiamo mai toppato”. Hanno imparato molti mestieri ma manca il lavoro L’Asseform dice sì alla formazione in carcere, “ma ai detenuti manca lo sbocco di lavoro”. A parlare è Gabriella Randino, direttrice dell’Asseform di Trieste, l’ente di formazione professionale che dal 1997 trasforma i contributi regionali in corsi per insegnare un mestiere ai detenuti del Coroneo. Insieme agli altri istituti di formazione, come lo Ial e l’Einaip, all’interno del carcere di esperimenti ne sono già stati fatti tanti: dalla scuola per elettricisti e idraulici, alla tecniche di tappezzeria e cucina. Alla fine si è approdati pure ai laboratori artistico - artigianali, come i corsi di mosaico, introdotti con il maestro ronchese Dario Puntin grazie al gancio dello scultore monfalconese Mauro Tonet. Tutte attività che hanno una doppia funzione: da una parte si libera la mente del detenuto, aiutandolo ad affrontare in maniera positiva il periodo di detenzione, dall’altra lo si prepara a un mestiere. “Le opere che realizzano - spiega il maestro Puntin - sono ben spendibili sul mercato: mosaici e sculture, ad esempio, sono bene adatte ad arredare interni ed esterni delle case”. Ma il problema è un altro: se è vero che i detenuti del Coroneo hanno la possibilità di accedere a varie tecniche di apprendimento, è altrettanto vero che poi nessuno dà loro un lavoro. I loro prodotti rimangono chiusi nella casa circondariale, senza visibilità. Così che domanda e offerta non si incontrano mai, perché a mancare è proprio l’anello di congiunzione tra la fase di formazione e il lavoro vero e proprio. Col risultato che, senza sbocco occupazionale, è più facile tornare a delinquere una volta scontata la pena. E secondo la direttrice dell’Asseform la soluzione potrebbe essere individuata nelle cooperative sociali. “Inutile negare la diffidenza - parla Randino - che un committente di lavoro potrebbe nutrire nei confronti dei detenuti, se dovesse assegnare a loro una commessa. Nasce da questa consapevolezza la necessità di aprire il carcere alle Cooperative sociali, a mò di mediatore. Soluzioni simili sono già state applicate nelle case circondariali di Roma, Venezia e Tolmezzo. La cooperativa stringe i rapporti con una ditta che ha bisogno di fare, ad esempio, un restauro. A quel punto si occupa di procurare il lavoro tramite i detenuti, eliminando il problema della diffidenza e, cosa che più conta, dando loro una chance di vita davvero concreta”. Conegliano (Tv): due detenuti al lavoro gratis per il Comune Il Gazzettino, 26 aprile 2011 Saranno “sorvegliati” dall’assistente sociale degli adulti i due condannati alla pena del lavoro di pubblica utilità, che opereranno per il Comune di Conegliano. Nell’ottobre dello scorso anno il Ministero di Grazia e Giustizia - Tribunale di Treviso aveva comunicato la possibilità di irrogare la pena del lavoro di pubblica utilità sulla base di convenzioni da stipularsi con il Comune di Conegliano, dopo una prima esperienza risalente ad alcuni anni fa, che non aveva creato problemi, ma anzi aveva dato risultati giudicati positivi. Nei giorni scorsi la giunta comunale ha espresso parere favorevole all’adesione alla convenzione proposta dal Ministero, stabilendo che avrà la durata di due anni dalla sottoscrizione e sarà rinnovabile, previo accordo di entrambe gli enti. “È stato stabilito - spiega l’assessore ai servizi sociali Loris Balliana - che il numero dei condannati, che potranno prestare l’attività non retribuita a favore della collettività nelle strutture del Comune di Conegliano, saranno al massimo due. Saranno appunto affiancati nell’inserimento dall’assistente sociale degli adulti”. Sono state fissate anche le mansioni in cui potranno essere impiegati. Saranno adibiti a prestazioni di lavoro nella manutenzione e nel decoro del patrimonio pubblico, compresi giardini, ville e parchi, con esclusione degli immobili utilizzati dalle forze dell’ordine. Potranno svolgere pure altrui lavori di pubblica utilità, sulla base delle loro specifiche competenze professionali. I due condannati alla pena del lavoro di pubblica utilità non graveranno sulle casse del Comune di Conegliano, che però dovrà farsi carico della copertura assicurativa in caso di infortunio. Viterbo: Polizia penitenziaria; a Mammagialla la situazione peggiore d’Italia Il Messaggero, 26 aprile 2011 “Il carcere di Mammagialla si trova a fronteggiare una situazione critica dal punto di vista dell’organico della polizia penitenziaria ma ancor di più ad un sovraffollamento della popolazione carceraria”. È quanto dichiara il segretario generale del Lisiapp (Libero sindacato appartenenti polizia penitenziaria) Mirko Manna, che denuncia le problematiche che quotidianamente vivono sulla loro pelle gli operatori della polizia penitenziaria all’interno dell’istituto viterbese. I disagi - dichiara il segretario generale - sono molteplici a cominciare da un organico previsto di 540 unità ma che vede presenti solo 360 effettivi. Questa risulta essere la carenza di personale più alta a livello nazionale. Inoltre esiste un sentimento diffuso di grande sconforto per il personale di polizia penitenziaria, il cui lavoro in queste condizioni è diventato estremamente logorante. Un altro tassello negativo per Mammagialla - aggiunge Manna - è anche il sovraffollamento e l’esubero dei detenuti che la struttura può effettivamente contenere. Su 433 posti effettivi ci sono 730 detenuti. Infine un dato negativo è rappresentato anche per il 41 bis (54 detenuti a regime speciale): 150 detenuti risultano ad alta sicurezza; 55 detenuti invece si trovano in un reparto di sorveglianza a vista. Alessandria: intesa tra Regione e Dap, il carcere di San Michele verrà ampliato Agi, 26 aprile 2011 È stata siglata il mese scorso, a Roma, presso la sede del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, l’intesa istituzionale per la localizzazione delle aree destinate alla realizzazione delle nuove infrastrutture carcerarie in territorio piemontese; per la Regione erano presenti il Commissario delegato per il Piano Carceri Franco Ionta e l’Assessore al Bilancio della Regione Piemonte Giovanna Quaglia. Secondo l’accordo saranno costruiti un nuovo istituto penitenziario della capienza di 450 detenuti a Torino ed un padiglione detentivo da 200 posti ad ampliamento della casa circondariale di Alessandria (San Michele). Le strutture saranno edificate in tempi brevi, secondo le disposizioni urgenti che toccano gli istituti di reclusione (legge 26 del 26/2/2010) stabilite per il Piano Carceri. Il provvedimento è proposto come una risposta immediata all’emergenza dovuta al sovraffollamento; ricorda il Commissario delegato “Il sovraffollamento delle carceri italiane determina condizioni di vita dei detenuti e di lavoro degli agenti di polizia penitenziaria che necessitano di una soluzione urgente”. Il padiglione di ampliamento all’istituto di reclusione di Alessandria - San Michele, avrà un costo di circa 11 milioni di euro; dal punto di vista architettonico, si mirerà a realizzare una struttura tecnicamente e funzionalmente adatta alle esigenza di vita dei detenuti, ma che garantisca un elevato grado di sicurezza e ottimizzi il lavoro degli agenti di polizia penitenziaria. L’Assessore regionale al Bilancio sottolinea come “Governo e Regione vogliono rispondere concretamente alle problematiche degli istituti penitenziari”; il Piano Carceri stabilisce, inoltre, altre due linee d’intervento per stabilizzare il sistema penitenziario: misure giuridiche deflattive e l’implementazione dell’organico di polizia penitenziaria. Siracusa: studenti a confronto coi detenuti su iniziative sociali e arte La Gazzetta del Sud, 26 aprile 2011 I detenuti della Casa di reclusione di Brucoli frequentanti attività scolastiche e formative e gli studenti del terzo istituto superiore “Alaimo” plessi di Lentini e Francofonte insieme in un incontro - dibattito che si è svolto nei giorni scorsi nell’istituto penitenziario di contrada Piano Ippolito. Un clima di cordialità che ha consentito agli studenti, da una parte, e ai detenuti dall’altra, di interagire su tematiche di particolare rilevanza sociale e culturale. Incontri e confronti, utili agli studenti che possono vedere da vicino le conseguenze di certi comportamenti a rischio, utili ai detenuti che possono, nel raccontarsi, ritrovare la loro umanità. Un particolare coinvolgimento è stato, inoltre, determinato, dall’esibizione, all’inizio e al termine dell’incontro, della “Corale” la Brucoli swing brothers band diretti da Silvana Laudicina, composta da detenuti dell’istituto che ha dedicato tre brani del repertorio agli ospiti presenti che hanno applaudito con entusiasmo. I docenti referenti del progetto hanno evidenziato il notevole impatto emotivo che l’esperienza ha suscitato in loro e nei ragazzi, nonché l’assoluta importanza del proseguo di questo tipo di attività. Come fa sapere il direttore del carcere, Antonio Gelardi, una sperimentazione ancora più avanzata riguarda attività svolte congiuntamente da studenti e detenuti: due laboratori teatrali che stanno realizzando la messa in scena di due distinte rappresentazioni in cui gli attori sono i detenuti e un gruppo di studenti del Liceo “Gargallo” di Siracusa e dell’Istituto Superiore “Ruiz” di Augusta. Quella con il liceo Gargallo è partita nelle scorse settimane, mentre quella con l’Arangio Ruiz è in corso dal novembre del 2010. Gruppi di studenti fanno ingresso nel penitenziario ogni settimana e trascorrono alcune ore nella sala teatro; due laboratori artistici (ceramica e pittura) all’interno dei quali un gruppo di studenti del Liceo “Megara” di Augusta, avrà modo di apprendere l’arte della decorazione pittorica su ceramica e su tela da parte di due detenuti che svolgeranno, pertanto, attività di docenza. Immigrazione: dopo i respingimenti collettivi, espulsioni e convalide nei nuovi Cie di Fulvio Vassallo Paleologo (Università di Palermo) www.meltingpot.org, 26 aprile 2011 Dopo la visita di Berlusconi e le diverse missioni di Maroni a Tunisi, per perfezionare “intese tecniche” allo scopo di allontanare dal territorio italiano i tunisini giunti a Lampedusa, sembrerebbe entro un tetto massimo di 800 persone, le autorità italiane hanno effettuato circa trecento respingimenti collettivi direttamente da Lampedusa, gli ultimi sabato 23 aprile. Altre decine di respingimenti sommari, se non espulsioni vere e proprie, sono stati effettuati nell’ultima settimana dall’aeroporto di Palermo e da altri aeroporti italiani. Nel frattempo, risulta che la metà circa dei 23.000 tunisini giunti in Sicilia a partire dal mese di gennaio si sia allontanata, in gran parte verso altri paesi europei, senza alcun documento di soggiorno, o con una “intimazione a lasciare entro cinque giorni il territorio dello stato”, il cosiddetto “foglio di via”, di fatto un vero e proprio passaporto verso la clandestinità. Gli altri tunisini che hanno fatto richiesta di permesso di soggiorno per motivi umanitari in base al decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 5 aprile scorso, stanno ottenendo i documenti di soggiorno e stanno affluendo verso il valico di frontiera di Ventimiglia, dove la situazione si aggrava di giorno in giorno, anche perché la Francia continua a respingere coloro che non possono dimostrare i requisiti ( documenti e risorse economiche) richiesti dagli Accordi di Schengen, e poi dal Regolamento comunitario n. 562 del 2006. Tutti coloro che sono giunti in Italia dopo il 5 aprile, o ai quali sia stato rifiutato il permesso di soggiorno per una pregressa espulsione o per precedenti penali, sono stati rinchiusi nei nuovi centri di detenzione aperti “di fatto” dal governo in diverse regioni italiane, e poi trasformati in Cie con un tardivo decreto del ministro dell’interno. È bastata qualche ora di differenza per trasformare la condizione di coloro che giungevano dalla Tunisia, trattenuti per mesi a Lampedusa in condizioni disumane, da richiedenti protezione umanitaria in clandestini, una operazione orchestrata dai partiti di governo ad evidenti scopi elettorali, per vincere ancora una volta sulle politiche della paura, dello “tsunami immigrazione” tante volte annunciato e poi ridimensionato. Prima si è creata una emergenza a Lampedusa, bloccando nell’isola miglia di migranti che se fossero stati trasferiti tempestivamente non avrebbero distrutto l’immagine dell’isola ed avrebbero avuto riconosciuto almeno i loro diritti fondamentali. Poi, con il decreto del Presidente del Consiglio del 5 aprile si è dichiarato lo “stato di emergenza su tutto il territorio nazionale”, e si sono affidati i pieni poteri alla Protezione civile, sulla base di un presupposto inesistente, come ha poi stabilito l’Unione Europea che ha negato l’applicazione della direttiva 2001/55/CE. Infine con l’ennesimo decreto del 7 aprile si è stabilito “lo stato di emergenza umanitaria nei paesi del Nord Africa”, su un altro presupposto chiaramente falso “ l’emigrazione di un gran numero di cittadini libici”, non per portare aiuti in Tunisia o per riconoscere visti di ingresso o ancora altri permessi di soggiorno, ma all’esclusivo scopo di “ consentire un efficace contrasto dell’eccezionale afflusso di cittadini ( africani, libici, tunisini?) nel territorio nazionale”. Il vero scopo di questa decretazione d’urgenza è apparso subito chiaro, e consisteva nell’”ineludibile esigenza di assicurare l’urgente attivazione, in coordinamento con il Ministero deli affari esteri, di interventi in deroga all’ordinamento giuridico”. In realtà si tentava di derogare le regole che vietavano i respingimenti e le espulsioni collettive, ma il governo provvisorio tunisino ha negato l’autorizzazione per le operazioni di respingimento a mare, sul modello di quelle praticate con tanto “successo” negli anni passati, dopo gli accordi con la Libia di Gheddafi. Ed allora ecco che la deroga “all’ordinamento giuridico”, in realtà un vero e proprio stato di eccezione, si è applicata nelle operazioni di respingimento sommario da Lampedusa, e poi da altre città, mentre si prolungava la detenzione amministrativa ben oltre i termini previsti dalla legge, in assenza di tempestivi provvedimenti di convalida da parte dell’autorità giudiziaria. In una prima fase, che corrisponde ai rimpatri effettuati direttamente da Lampedusa, si è provveduto con identificazioni sommarie, sembrerebbe che neppure le autorità consolari abbiano fornito i documenti di viaggio, e senza la tempestiva notifica dei provvedimenti dei provvedimenti di allontanamento forzato, al punto che molti migranti neppure sapevano, nei primi giorni di rimpatri, dove li avrebbe condotti l’aereo sul quale venivano imbarcati. Dopo che la notizia sulla destinazione effettiva dei voli verso la Tunisia ha cominciato a circolare non si sono contati i tentativi di suicidio e gli atti di autolesionismo, in assenza di tutte le condizioni per il rimpatrio forzato previste dalla Direttiva comunitaria n. 2008/115/CE che l’Italia di Maroni e Berlusconi si ostina a non applicare. E appare evidente come lo scopo effettivo dell’incontro tra Sarkozy e Berlusconi per il 26 aprile sia costituito dalla ricerca comune di altri sotterfugi per eludere le direttive comunitarie che stabiliscono garanzie procedurali anche per gli immigrati irregolari, e magari modificare il Regolamento Schengen all’esclusivo scopo di chiudere -”quando serve”- le frontiere interne, al pari di quelle esterne, agli immigrati provenienti dai paesi del Nord-africa. E quando si è finalmente arrivati alle prime convalide dei provvedimenti di allontanamento e di trattenimento, come negli ultimi giorni a Santa Maria Capua Vetere, e come si verificherà in tutti i nuovi centri di accoglienza ed identificazione trasformati in Cie (Manduria, in Puglia, Kinisia, a Trapani, in Sicilia, e sembra anche a Potenza), i giudici di pace hanno semplicemente obbedito alle pressioni dello locali questure, giungendo a convalidare misure di trattenimento fondate su presupposti giuridici inesistenti e sulla falsificazione delle date di trattenimento. Nel caso dei migranti detenuti sulla nave di crociera Excelsior per quasi una settimana, da Lampedusa a Catania, e poi a Civitavecchia ed ancora a Trapani, dove venivano fatti sbarcare, al fine di giustificare il conteggio dei termini richiesti dall’art. 13 della Costituzione e dagli articoli 13 e 14 del T.U. sull’immigrazione, si è cercato di addurre il carattere “volontario” della loro scelta di salire sulle navi o di entrare nei centri di accoglienza ed identificazione. Quasi come se fossero “ospiti”, ospiti particolari però, perché tutti hanno visto la caccia all’uomo forsennata, persino con agenti a cavallo ed elicotteri, che si è scatenata quando gli “ospiti” volevano esercitare la loro libertà di circolazione. Immigrazione: Cie o galera nella Caserma “Andolfato”? di Iside Gjergji Il Fatto Quotidiano, 26 aprile 2011 La sera del 21 aprile scorso, con un decreto del ministero dell’Interno, la caserma “Ezio Andolfato” di S. Maria Capua Vetere, dove sono attualmente “trattenuti” più di duecento immigrati tunisini, è stata trasformata in Cie (Centro di identificazione ed espulsione). Cioè è stata trasformata in un luogo in cui possono essere “trattenuti” gli stranieri per cui si dispone l’espulsione con accompagnamento coatto alla frontiera, con lo scopo di assicurarne l’effettività. L’istituto del trattenimento, fin dalla sua iniziale configurazione, ha presentato numerosi profili di incostituzionalità. I dubbi di legittimità costituzionale hanno investito, e tuttora investono, in primo luogo, il fondamento stesso dell’istituto che, in considerazione anche delle sue modalità di esecuzione, si configura come una vera e propria detenzione amministrativa, limitativa della libertà personale. La fondatezza di questo assunto si evince, del resto, dalla premura del legislatore nel prevedere l’intervento dell’autorità giudiziaria nei tempi e nei modi previsti dall’articolo 13 della Costituzione In altre parole, il legislatore - nel tentativo di evitare un giudizio di incostituzionalità - ha previsto l’intervento dell’autorità giudiziaria (ora il Giudice di Pace), che deve convalidare, entro 48 ore, il provvedimento di trattenimento adottato dal questore (che ha come presupposto logico e giuridico il provvedimento di espulsione emessa dal prefetto). Se tale convalida non avviene nei modi e nei limiti temporali previsti dalla Costituzione e dal Testo unico sull’immigrazione (D. Lgs. n. 286/1998), il provvedimento questorile di trattenimento perde ogni efficacia e lo straniero deve essere immediatamente rimesso in libertà. Anche perché, in caso contrario, si configurerebbe, inevitabilmente, il reato di sequestro di persona, previsto e punito dall’articolo 605 del Codice penale (“Chiunque priva taluno della libertà personale è punito con la reclusione da sei mesi a otto anni. La pena è della reclusione da uno a dieci anni, se il fatto è commesso […] da un pubblico ufficiale con abuso di poteri inerenti alle sue funzioni”). Ebbene, alla luce di questi basilari - quanto elementari - principi giuridici, occorre interpretare e comprendere ciò che è accaduto in questi giorni nel Cie “Ezio Adolfato” di S. Maria Capua Vetere. Gli immigrati sono giunti nella caserma “Adolfato” il 18 aprile scorso, dopo una permanenza di circa 6 giorni tra Lampedusa e la nave che li ha trasportati fino a Napoli. Il 21 aprile la caserma veniva trasformata in Cie per decreto e agli stranieri ivi trattenuti veniva notificato sia un provvedimento di espulsione che uno di trattenimento. Le udienze di convalida hanno avuto luogo il 23 aprile, cioè entro 48 ore dall’adozione del provvedimento di trattenimento. Tutto a posto, allora? No. Niente affatto. Ci sono ben tre giorni - a considerare soltanto i giorni trascorsi a S. Maria Capua Vetere ed escludendo tutto il periodo pregresso - di “reclusione” effettiva che non sono, in alcun modo, giustificati. In quei tre giorni, come minimo, gli stranieri sarebbero stati detenuti illegittimamente da pubblici ufficiali. Ma i gestori del nuovo Cie (la Croce Rossa) hanno fatto sapere che gli immigrati hanno firmato, quando sono entrati nella caserma, un foglio con cui “accettavano” quella “sistemazione”. Cioè, per intenderci, gli immigrati avrebbero firmato un foglio con il quale avrebbero accettato di essere reclusi? Può qualcuno, in Italia, rimettere la disponibilità della propria libertà ad altri? No, almeno per ora, l’ordinamento vigente considera la libertà personale un bene indisponibile e, di conseguenza, a nulla può valere quel foglio firmato. E allora, come si giustifica la limitazione arbitraria della liberta di più di duecento persone per diversi giorni? La giustificazione istituzionale è stata la seguente: “Gli immigrati erano liberi di muoversi”. Quindi, tutte quelle persone che sono saltate più volte da un muro alto cinque metri, che si sono fratturate gambe e braccia, che si sono scontrate con la polizia (come diversi di loro hanno raccontato ai difensori), che si arrampicavano sui pali, col rischio di cadere e farsi male, per salutare i manifestanti antirazzisti campani fuori dal centro (essendo impedito l’ingresso perfino ai parlamentari!), avrebbero fatto tutto questo semplicemente perché… non volevano uscire dalla porta!? E tutto ciò mentre le forze dell’ordine, che presidiavano armati giorno e notte l’ingresso e che perlustravano a cavallo il perimetro della caserma, li invogliavano a fare una passeggiata in natura, in libertà. Ah, questi africani, sempre così incivili! Droghe: è tempo di riparlarne… a 35 anni dall’approvazione della legge 685 Comunicato stampa, 26 aprile 2011 Al Gruppo Abele un convegno nazionale sulle dipendenze e sui consumi di droga con interventi di don Luigi Ciotti, Salvatore Natoli, Piero Badaloni, Leopoldo Grosso, Ambros Uchtenhagen e molti altri. 28-29 Aprile 201. Corso Trapani, 91/b – Torino. “Droga: è tempo di riparlarne a 35 anni dall’approvazione della legge 685”. Da 35 anni la tossicodipendenza nel nostro Paese è riconosciuta come un problema sociale e sanitario. Anche grazie all’impegno del Gruppo Abele, che nel 1975, quando la legge destinava le persone tossicodipendenti al carcere o al manicomio, contribuì con un’iniziativa che fece storia all’approvazione della 685, normativa che finalmente considerava il consumatore di droga una persona e non un delinquente. Da allora sono cambiate molte cose, a partire dalla legge stessa, che è stata radicalmente modificata nel 2006, con la Fini-Giovanardi. Oltre alla legge anche gli stili di consumo sono mutati, così come il volto delle dipendenze, che oggi richiedono una diversa attenzione, nuovi strumenti di prevenzione, educazione e cura. A partire dalla storia di questi 35 anni il Gruppo Abele organizza una due giorni di studio per fare un bilancio dei risultati conseguiti e dei problemi irrisolti, nell’intento di valutare le letture, le strategie e gli interventi possibili e di porre un freno al pericolo del ritorno di politiche più penali che sociali. Per questo il 28 e 29 aprile 2011 alla Fabbrica delle “e” di Torino, sede dell’associazione, si terrà un convegno nazionale, al quale parteciperanno psichiatri, sociologi, psicologi, giornalisti. Ci saranno tra gli altri Luigi Ciotti, presidente del Gruppo Abele e di Libera, Salvatore Natoli, filosofo, Università di Milano Bicocca, Piero Badaloni, giornalista, Leopoldo Grosso, psicologo, vicepresidente del Gruppo Abele, Ambros Uchtenhagen, psichiatra di Zurigo. Afghanistan: maxi-evasione dal carcere di Kandahar, 500 detenuti evasi, 65 già ripresi Ansa, 26 aprile 2011 Dopo aver scavato un tunnel, i guerriglieri sono riusciti a far fuggire 500 detenuti del braccio politico. La notizia è stata confermata dal portavoce del governatore provinciale, Zalmay Ayoui, che ha puntato il dito contro la “negligenza” delle forze di sicurezza locali. Secondo il portavoce gli evasi sono 478, in parte già ricatturati, mentre i talebani in un comunicato hanno parlato di 541, di cui 108 sarebbero loro capi militari. La galleria, lunga 320 metri, passa sotto ai posti di blocco dell’esercito e alla principale strada per Kabul e finisce in una casa. Era stata scavata “con cinque mesi di lavoro”, hanno fatto sapere i talebani in un comunicato. Il tunnel è stato terminato domenica sera e l’evasione è durata quattro ore e mezzo. Ad attendere gli evasi c’erano alcuni mezzi che “li hanno trasferiti in località sicure”. L’evasione è un duro colpo per le forze Usa e dell’Isaf, in vista del graduale passaggio della responsabilità della sicurezza alle forze afghane che dovrebbe essere completato nel 2014. Secondo gli osservatori sarebbe stato impossibile far fuggire 500 detenuti senza la complicità delle guardie del penitenziario. Nel 2008 c’era già stata una grande evasione dal carcere dell’ex roccaforte dei talebani: in quel caso i guerriglieri avevano fatto saltare in aria il cancello d’ingresso, permettendo la fuga di un migliaio di detenuti da quello che dovrebbe essere il carcere più sicuro del Paese. Nella successiva battaglia erano stati uccisi un centinaio di guerriglieri. Ricatturati 65 detenuti evasi a Kandahar Le autorità afghane hanno reso noto di aver ricatturato 65 dei 500 detenuti evasi dal carcere di Kandahar. La fuga era avvenuta nelle prime ore di domenica grazie a un tunnel scavato dai talebani e le forze di sicurezza afghane e i soldati dell’Isaf hanno lanciato una gigantesca caccia all’uomo in tutta la provincia. “C’è stata collaborazione da parte della popolazione e abbiamo ottenuto risultati positivi”, hanno riferito fonti del governatorato della provincia. Tra gli evasi un centinaio di capi militari dei talebani . Stati Uniti: Wikileaks; a Guantanamo 150 innocenti, liberati 200 detenuti a alto rischio Agi, 26 aprile 2011 A Guantanamo gli Stati Uniti rinchiusero per anni soggetti innocui o poco pericolosi e scarcerarono 200 terroristi “ad alto rischio”: è quanto emerge da 779 documenti militari top secret sui prigionieri nella base sull’isola di Cuba diffusi da Wikileaks. Nei file, datati tra il 2002 e il 2009 e contenenti le schede di valutazione su un decennio di interrogatori di presunti terroristi, si sostiene che un terzo dei 600 detenuti liberati o consegnati ad altri Paesi erano considerati molto pericolosi. Il New York Times, uno dei giornali a cui l’organizzazione di Julian Assange ha trasmesso i documenti, ha riferito che dai file emerge che almeno 150 uomini transitati per Guantanamo erano afghani o pakistani completamente innocenti. Si tratta, fra gli altri, di autisti, contadini e cuochi finiti a Guantanamo sulla base di omonimie o denunce inattendibili, ottenute da prigionieri malati di mente o torturati. In totale dai profili di ogni detenuto tracciati sulla base di indicazioni raccolte dall’intelligence e negli interrogatori, emerge che solo 220 dei detenuti di Guantanamo dell’era Bush erano ritenuti pericolosi terroristi mentre altri 380 erano considerati bassa manovalanza dei talebani. I documenti contengono anche dettagliate informazioni sui 172 prigionieri ancora a Guantanamo, di cui 130 sono considerati ad “alto rischio”. Il Pentagono ha definito “deplorevole” la divulgazione dei file e ha rimarcato che i Detainee Assessment Briefs, come sono chiamate queste schede di valutazione. I file, peraltro, omettono però di indicare le tecniche più controverse usate per gli interrogatori, come il waterboarding. L’unico caso documentato è quello dell’interrogatorio a Guantanamo tra il 2002 e il 2003 del saudita Mohammed Qahtani, sospettato di aver partecipato ala pianificazione dell’11 settembre, che fu messo al guinzaglio come un cane, umiliato sessualmente e obbligato a urinarsi addosso. Nelle schede i prigionieri vengono classificati in base al “valore” delle informazioni fornite per l’intelligence e alla minaccia che potevano rappresentare per gli Stati Uniti in caso di liberazione, alto, medio o basso. I documenti contengono anche rivelazioni su Osama bin Laden e il suo vice egiziano Ayman al Zawahiri. Quattro giorni dopo gli attentati dell’11 settembre, Bin Laden si recò in una guesthouse nella provincia di Kandahar dove incitò i suoi uomini a “difendere l’Afghanistan dagli invasori stranieri” e a “combattere in nome di Allah”. Poi con Zawahiri iniziò continui spostamenti in auto attraverso l’Afghanistan e solo nel novembre 2001 i due si trasferirono nel bunker scavato in una caverna a Tora Bora, nelle montagne dell’Afghanistan orientale. Abdullah, il Taliban per caso finito in carcere dopo una lotteria Nella contabilità della “War on Terror” c’è un “paziente uno”, un “detenuto alfa” che molto racconta del Sistema Guantanamo, dell’ossessione securitaria di un decennio americano. Si chiama Bensayah Belkacem. È un algerino di Warqala, classe 1962. Il 21 gennaio del 2002, è il primo prigioniero a entrare in ceppi nelle gabbie di quello che allora si chiamava “x Ray” e sarebbe poi diventato “Camp Delta”. Il suo fascicolo personale (di cui il L’Espresso e la Repubblica, media partner di Wikileaks, è in possesso insieme alle altre 778 schede dei detenuti transitati nella baia cubana) conta 15 pagine e non documenta affatto, a differenza di molti altri casi, un “errore”. Ma rende intelligibile come sulla storia opaca di un “sospetto”, l’intelligence di un Paese in guerra possa costruire una gabbia che - è la “raccomandazione” del 28 aprile 2008 che chiude l’incarto di Belkacem - si consiglia debba restare chiusa “a tempo indeterminato, sotto la sorveglianza del Dipartimento della Difesa”. Una gabbia che ha finito per imprigionare anche le promesse dell’Amministrazione Obama. Belkacem, dunque. La scheda della “Joint task Force” che lo ha in carico lo definisce “membro del Gia algerino, coinvolto nel piano di attacco all’ambasciata Usa a Sarajevo, Bosnia”. Di più: “Contatto di ufficiali di Al Qaida quali Abu Zubaydah, nonché facilitatore collegato a cellule in Nord Africa, Germania, Turchia, Italia, Francia e Inghilterra”. Insomma, “combattente nemico ad altro rischio per la minaccia potenziale che rappresenta nei confronti degli Stati Uniti e dei suoi alleati”. Ma, soprattutto, prigioniero dall’”alta valenza di intelligence”. La sua storia, con meno enfasi, dice che è stato arrestato nell’ottobre del 2001 durante un’operazione di polizia locale in Bosnia, dove è arrivato e risiede dal 1995. Gli hanno trovato in casa “63 audiocassette, due video,10 passaporti dai nomi e le nazionalità diverse, di cui uno yemenita, uno algerino, uno bosniaco”, agende e “numeri di telefono sensibili”. Alla fine del 2001, l’inchiesta della magistratura bosniaca lascia cadere le accuse di terrorismo per cui è stato arrestato. L’Algeria ne rifiuta il rimpatrio. E il 18 gennaio del 2002, Belkacem viene dunque consegnato il 20 di quel mese alle autorità americane, che lo trasferiscono con i primi voli diretti a Guantanamo, dove “X ray” aprirà di lì a due giorni. Presto, comincia ad essere interrogato. Più volte. Ma le sue risposte non soddisfano. “Il detenuto - si legge nella scheda - omette dettagli chiave sulle ragioni della disponibilità di passaporti. Nega i suoi legami con estremisti, nonostante verificate notizie di intelligence. Ha sostenuto con una delegazione algerina che lo ha interrogato che “custodisce segreti che non può riferire agli americani”. Dice di aver fatto un giuramento con Allah di non rispondere alle domande di chi lo esamina”. Gli americani, dunque, non credono alla sua storia di giovane algerino che lascia il Paese per fame e prende la via dei Balcani per cercare la sua strada di musulmano nelle Ong che operano in Bosnia. E le cosiddette “prove di intelligence” - di cui non sempre viene indicata la fonte o l’attendibilità - crescono e si appoggiano l’una sull’altra per 8 fitte pagine. Siano “un numero di cellulare”, o “una lista di 86 algerini che hanno cambiato la loro identità durante il loro soggiorno in Bosnia” o le testimonianze di chi riferisce di aver avuto a che fare con Belkacem quale “uomo di Al Qaeda nei Balcani”. Naturalmente non è fatta di soli Belkacem, la prigione di Guantanamo. E spesso la “Joint task force” deve arrendersi all’evidenza dell’errore, peggio, della truffa con cui innocenti raccattati sui fronti di guerra sono stati avviati all’Inferno cubano. È la storia di Abdullah Bayanzay, afgano di 42 anni, internato numero 360. “Soffre di tubercolosi latente - annota la sua scheda - ma per il resto è in buone condizioni di salute”. È arrivato a Guantanamo l’11 giugno del 2002, “trasferito per le possibili conoscenze dell’area di Kunduz”. Il poveretto della situazione militare di Kunduz non sa un bel nulla. Si è ritrovato intruppato con i Taliban perché “sorteggiato in una lotteria” con cui i vecchi della sua tribù, “per evitare ritorsioni”, hanno tirato a sorte chi debba rispondere alla coscrizione. Quella riffa diventa la sua maledizione. Durante la sua breve leva non spara un solo colpo di fucile - “è di guardia a un ufficio del comando talebano a Kunduz” - e l’Alleanza del Nord lo cattura con altri sbandati al passo di Yarganag. Viene venduto agli americani che, il 20 novembre 2002, dopo sei mesi di prigionia, concludono nel solo modo possibile: “Si raccomanda il rilascio o il trasferimento sotto il controllo di altro governo”. C’è anche chi in gabbia è finito due volte. Da obiettore e da “combattente nemico”. È Muhamed Raz Muhamed Kakar, 26 anni, afgano dell’Oruzgan, numero di internamento 364. I Taliban lo chiamano alla leva una prima volta, lui obietta “e - annota la sua scheda - per questo motivo viene imprigionato, fino a quando il padre non ottiene la sua liberazione per 20 milioni di afgani (la moneta locale ndr)”. “Il 27 ottobre 2001 i Taliban lo arrestano una seconda volta. Lo trasferiscono nella prigione di Kandahar e di qui a Kunduz, dove viene messo di guardia a un deposito di petrolio (...) Dopo 25 giorni, i Taliban tornano a prelevarlo e lo abbandonano nel deserto insieme ad altri coscritti, dove viene fatto prigioniero dalle truppe del generale Dostum”. A Guantanamo Muhamed Raz arriva insieme al “prigioniero della riffa” l’11 giugno del 2002. Il suo rilascio viene “raccomandato” il 6 marzo del 2003. Su qualcuno il destino, se possibile, si è accanito anche con maggior determinazione. Mohmed Allah, afgano, numero di internamento 347, arriva a Guantanamo che ha 30 anni. Il 15 giugno del 2002, dopo che “irregolari lo hanno arrestato nelle strade di Kandahar”. Chi lo interroga, dà atto, che, poco prima dell’arresto, il disgraziato “è uscito dall’ospedale cinese della città, dove la madre deve subire un trattamento”. “Cerca medicine e dei rapinatori lo derubano dell’auto e di 3 milioni di afgani”. Dunque, perché trascinarlo a “Camp Delta”, dall’altra parte del mondo? “Perché - annota l’intelligence Usa - il detenuto è stato il mullah della moschea di Manu, nella provincia di Kandahar e questo lo ha messo nella condizione di aver conosciuto e avuto accesso ai leader Taliban”. La stessa intelligence che, il 27 settembre 2002, concluderà che Mohmed Allah “non rappresenta una minaccia per gli Stati Uniti e può dunque tornare libero”. Stati Uniti: si vota criminale preferito, proteste delle associazioni per i diritti dei carcerati Corriere della Sera, 26 aprile 2011 Iniziativa di uno sceriffo della contea di Maricopa: on-line le foto degli arrestati. Gli utenti scelgono la migliore. Per la sua crudeltà nei confronti dei detenuti e per le dichiarazioni choc in Arizona tutti lo conoscono come “lo sceriffo più duro d’America”. Ma recentemente la spietata fama di Joe Arpaio, sceriffo della contea di Maricopa, ha ottenuto ulteriore credito grazie a un’iniziativa che ha fortemente diviso l’opinione pubblica statunitense. Lo sceriffo pubblica periodicamente sul sito della contea le foto delle persone arrestate e chiede agli internauti di votare “la foto segnaletica del giorno”. “Numerose persone sono rinchiuse nel nostro carcere ogni giorno - recita il sito web - Vota la foto segnaletica che più ti piace e poi vedi se la tua scelta è quella ha ottenuto più preferenze”. Il sondaggio interattivo ideato dallo sceriffo ha conquistato velocemente i concittadini che quotidianamente visitano il sito per votare “il criminale preferito”. Nell’ultima classifica generale, che risale allo scorso 22 aprile, a ottenere più voti è la galeotta Jessica Johnson che ottiene oltre 600 preferenze e batte il detenuto di colore Ahmon Edward Thompson, fermo a 508 voti. Come fa notare il sito web dell’Abc le immagini che conquistano la vetta della classifica sono per lo più quelle di detenuti scapigliati, con volti insoliti e singolari. Tuttavia il sito web della contea informa che tutti gli individui fotografati “sono innocenti finché la loro colpevolezza non è provata”. Sotto alle immagini dei detenuti compare non solo la data del loro arresto, ma anche il loro nome e cognome. Ciò non è piaciuto a molte associazioni che difendono i diritti dei carcerati che considerano un abuso il fatto che siano pubblicate le generalità di chi non è stato ancora condannato in maniera definitiva. Da parte sua Joe Arpaio, che dal 1992 è sempre stato rieletto alla carica di sceriffo della contea e che nella prigione di Maricopa controlla oltre 10.000 detenuti, non dà importanza alle critiche e continua a professare la filosofia della tolleranza zero. Per i conservatori più rigorosi sarebbe un ottimo candidato al Senato nel 2012 e i suoi metodi ogni giorno conquistano nuovi proseliti (a lui è dedicata anche una pagina di Facebook in italiano). In passato è diventato famoso in tutta la nazione per aver fermato i lavori della nuova prigione. Ritenendo la spesa troppo onerosa per lo stato dell’Arizona, Arpaio ha creato la più grande tendopoli carceraria del mondo: i prigionieri sono ospitati in pieno deserto e le tende dove alloggiano sono circondate da filo spinato. Inoltre per colpire i detenuti più indisciplinati, Arpaio li costringe a indossare indumenti intimi rosa, molto simili a quelli femminili. Tutti i prigionieri devono vestire le vecchie divise a righe bianche e nere. La storica palestra della prigione è stata chiusa e nelle celle è vietato fumare sigarette, bere caffè, vedere dvd e leggere magazine pornografici. Infine Arpaio ha limitato l’uso della tv e spesso si vanta con i giornalisti di risparmiare sul cibo offerto ai detenuti: il loro pasto medio costa circa 15 centesimi e i galeotti sono alimentati solo due volte al giorno. Ai critici che contestano la sua ultima iniziativa, Arpaio risponde sarcastico: “Voglio solo che i miei concittadini possano vedere se qualcuno dei loro vicini è stato arrestato”.