Giustizia: un sistema carcerario incivile, prodotto dall’uso eccessivo della sanzione penale di Paolo Cento www.politicamentecorretto.com, 23 aprile 2011 Io sono convinto che in Italia vi sia un uso eccessivo della sanzione penale per regolamentare forme di conflitto sociale. La prima grande riforma da attuare è perciò quella di “ripulire” il codice penale da tutte quelle norme che sono state aggiunte soprattutto negli ultimi anni, e che hanno comminato, sulla carta, la reclusione come unica soluzione. Il secondo elemento è quello del carcere preventivo: in Italia, si va in prigione prima di una condanna e, paradossalmente, è più difficile finirci dopo la sentenza. Tra i 66-68 mila detenuti nelle carceri italiane, circa il 40% sono in attesa di giudizio. Inoltre, bisognerebbe utilizzare in maniera più efficace anche le misure alternative: il dibattito è infatti condizionato da ciò che serve a Berlusconi, ma se non vi fosse questo “inquinamento strumentale”, anche l’idea della prescrizione breve per incensurati e per coloro che, almeno una volta nella vita, si trovano ad avere a che fare con la giustizia penale, avrebbe una sua logica. Il tema delle tossicodipendenze, tanto per fare un esempio, non può essere affrontato con il sistema penale. Per quanto riguarda, invece, l’immigrazione clandestina, se fosse applicata realmente la norma avremmo le carceri piene di immigrati, assai più di quanti ce ne siano attualmente. All’estero la sanzione penale è certa anche se breve, quasi mai vendicativa. Recentemente, è venuto a mancare Carlo Saturno, 22 anni, detenuto nel penitenziario di Bari. Sembrerebbe vi sia stata un’istigazione al suicidio del ragazzo, che sarebbe dovuto essere testimone d’accusa a Lecce contro nove guardie carcerarie: si potrà mai avere chiarezza in merito a queste morti all’interno delle carceri, ricordando anche il caso di Stefano Cucchi? Io mi auguro di sì. È un allarme sottostimato: voglio ricordare che spesso si usa, nelle carceri, quando vi è anche il suicidio, l’adduzione “arresto cardiaco”, ma questo non rientra nella casistica dei dati che ci vengono forniti. Sul numero dei suicidi, la realtà è ben più pesante. La cosa più grave è che in carcere si muore anche per un’azione violenta da parte di chi, invece, ha il compito di ‘sistemarè la tua vita in una condizione di detenzione. È un sistema fortemente repressivo: la violazione della dignità comincia già da quanto si sta in cella con 8 - 10 persone. È una situazione che danneggia anche la polizia penitenziaria, ma questo non è un alibi, quando in alcune strutture vi è un abuso delle norme vigenti. Non bisogna accettare la logica che, per un suicidio in carcere, basti una notizia breve nella cronaca locale del giornale. Noi dobbiamo essere grati a chi, da dentro le galere, ci fa arrivare le ‘voci’ e, spesso, sono anche operatori di polizia penitenziaria, i loro sindacati, le associazioni dei detenuti e i loro stessi familiari. Ci vuole una battaglia d’informazione e di trasparenza. E anche il parlamento dovrebbe avere occhi più attenti: sono pochi i deputati che se ne occupano, mentre altri usano il tema del carcere solo per fare demagogia. Il piano - carceri appena varato dal Governo, al momento sono solo chiacchiere: in Italia c’è bisogno di carceri nuove, più funzionali, moderne, dignitose per chi ci lavora e per chi è detenuto. Costruire più penitenziari con l’idea del bisogno di aumentare la popolazione carceraria è una “scorciatoia” che non risolve i problemi, bensì li amplifica. Mi sembra che il Governo lanci un annuncio con pochi fatti: sono pochi i soldi destinati al sistema penitenziario nel nostro Paese. Bisogna applicare l’articolo 27 della Costituzione, che denuncia come il detenuto vada “recuperato”. Bisogna provvedere a sfoltire le nostre carceri per quelle persone che non hanno alcuna pericolosità sociale, ma sono spesso quelli che pagano il prezzo più alto. A partire dalla fine del 2010, la Commissione d’inchiesta del Senato sul servizio sanitario nazionale ha contato, all’interno degli ospedali psichiatrici giudiziari, ben 376 “dimissibili”, ma ne sono stati rilasciati, effettivamente, solo 65, mentre per altri 155 è stata disposta una proroga della pena. Ci sono le prospettive per far sì che i “dimissibili” siano realmente congedati o che, perlomeno, non debbano vivere nelle condizioni in cui si trovano gli Opg? Gli Opg sono infatti dei veri e propri ‘lager’ che vanno chiusi, sono al di fuori della legge, che viene applicata, in modo ambiguo, una norma che prevede un trattamento speciale per quei detenuti considerati incapaci di intendere e di volere, “pericolosi” dal punto di vista psichiatrico, anche se la regola non prevede il mantenimento dei manicomi. Dobbiamo ragionare su come consentire al sistema nazionale sanitario e a quello penitenziario, laddove vi siano dei residui di pena da scontare, non sospesi per le condizioni psichiatriche, di far sì che le persone che hanno bisogno di un recupero da un punto di vista mentale abbiano un vero e proprio sostegno, anche attraverso forme di sussidiarietà privata. Giustizia: riforme senza inganno, cominciando dalle carceri di Antonio Cappelli Terra, 23 aprile 2011 La riforma della giustizia sembra essere diventata il principale obiettivo dell’azione di governo e i detenuti, - che scontano quotidianamente le più tristi conseguenze della crisi dell’amministrazione giudiziaria - si troveranno senza dubbio in prima fila per sostenere con entusiasmo questo obiettivo se i contenuti della riforma stessa saranno tali da risolvere in maniera equa i problemi di chi si trova, per fatalità o per dolo, a rimanere impigliato nelle maglie della legalità attualmente vigente. Proviamo a ricordare solo i principali di questi problemi. Le carceri rigurgitano di detenuti che vivano ammucchiati nelle celle senza nessun rispetto per la privacy e per le più elementari esigenze della vita quotidiana. La pena è certa per chi non ha i mezzi finanziari per la difesa e la prescrizione è altrettanto sicura per quelli che possono permettersi collegi di difesa eccellenti. Le occasioni di lavoro durante il periodo della detenzione sono l’eccezione mentre la regola è il tempo vuoto trascorso ad accumulare rabbia e frustrazione. Il diritto alla salute trova negli istituti di pena limitazioni invalicabili per la carenza dei servizi teoricamente destinati a tutelarlo. La tanto sbandierata “centralità della famiglia” è resa per chi è in carcere aleatoria dalla burocratica e impietosa applicazione delle norme che regolano i rapporti con l’esterno. La stessa funzione rieducativa della detenzione rimane infine un’espressione senza senso a fronte della squallida e tetra quotidianità che si è costretti a vivere dietro le sbarre. Le carceri sono dunque oggi reservoir di drop out e l’agghiacciante stillicidio dei suicidi nelle celle è la triste manifestazione pubblica di questa situazione. Entusiasmo quindi per le riforme se queste significheranno carceri più umane, assistenza sanitaria più efficiente, equità dei procedimenti giudiziari, possibilità di difesa per i più poveri, occasioni di redenzione per chi ha commesso degli errori e intende riscattarli davanti alla società. Diverso sarebbe se dietro lo schermo delle riforme si celasse la volontà di perpetrare un estremo e beffardo inganno. Se infatti il cambiamento delle regole fosse volto a garantire l’impunità dei potenti, ad approfondire il solco che divide i ricchi dai poveri davanti al volto impassibile della legalità, ad abbandonare i reietti nei tetri confini di lager ben recintati, allora ci troveremmo di fronte ad una tragica mistificazione e la conseguente reazione non potrebbe che essere di sdegno e di rabbia. “La rabbia degli esclusi travolgerà il vostro mondo”. Sono parole non di un pericoloso rivoluzionario bensì di George Bernanos, un grande scrittore cattolico. Bisogna oggi ricordarle perché gli inganni hanno vita breve e producono invece effetti devastanti di lunga durata. Saggio sarebbe dunque evitare ogni rischio e dare alle riforme contenuti che valgano a rendere la legalità meno lontana dalla giustizia di quanto oggi non sia. Giustizia: nelle carceri si produce di tutto, ma gli ammessi al lavoro sono la minoranza Redattore Sociale, 23 aprile 2011 Dei circa 68 mila detenuti, in 14 mila lavorano, di cui 12 mila per l’amministrazione penitenziaria e 2 mila per realtà esterne al carcere (800 senza spostarsi dall’istituto). Ne parla il libro “Il mestiere della libertà” (2011, Altreconomia). Ortaggi e frutta, vini e birra di qualità, biscotti e cioccolato, gelati, focacce e pane, persino orate biologiche. Ma anche abiti e borse, piante e fiori, servizi di catering, artigianato e alta moda. Ancora in pochi lo sanno, ma all’interno delle carceri italiane si produce di tutto, spesso con un livello di assoluta qualità, anche se gli ammessi al lavoro sono una minoranza: dei circa 68 mila detenuti nelle carceri italiane, in 14mila lavorano, di cui 12 mila per l’amministrazione penitenziaria (con mansioni non professionalizzanti, dai nomi pittoreschi come spesino o scopino) e 2mila per realtà esterne al carcere (tra questi, circa 800 lavorano senza spostarsi dall’istituto). Nonostante le ampie potenzialità di crescita, l’economia carceraria è ormai una realtà economica assodata e in salute, come dimostra “Il mestiere della libertà” (2011, Altreconomia, 192 pagine, 14,50 euro), panoramica precisa e dettagliata di 100 progetti di lavoro in cui i detenuti possono accelerare la propria riabilitazione, acquistare una professionalità e allontanare lo spettro della recidiva. In proposito, i numeri sono chiari: tra chi ha avuto un percorso lavorativo in carcere, soltanto uno su dieci torna a delinquere una volta scontata la pena, contro il 70% di chi non ha svolto un’attività lavorativa. “La Costituzione prevede che la pena debba tendere al reinserimento sociale del condannato, ma se non diamo gli strumenti per il cambiamento non solo si rischia la demotivazione. All’inverso, si avvicinano poi le persone “sbagliate”, si viene tentati dal “reddito criminale”, spesso più alto e più accessibile di quello garantito da un lavoro onesto - dice Luigi Pagano, provveditore degli istituti di pena della Lombardia, intervistato nel libro. La cultura del lavoro, quindi, nel senso più vasto del termine, scardina questo meccanismo”. Oltre a Luigi Pagano, “Il mestiere della libertà” contiene interviste a Lucia Castellano, direttore del carcere di Bollate; a Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone; a Maria Luisa Lo Gatto, magistrato che si occupa di giustizia riparativa; a Paolo Massenzi, protagonista del progetto “recuperiamoci” e una scheda dell’associazione “Articoloventisette” con un panorama dell’informazione in carcere, a cura di Alex Corlazzoli. “In una delle situazioni detentive più drammatiche, l’ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Grotto (Messina), i lavoratori della cooperativa sociale Astu fanno bellissimi mobili artigianali e persino prototipi per le sezioni infantili degli ospedali. Altrettanto straordinari, quasi opere d’arte, sono i mobili di Ferro e fuoco jail design del carcere di Fossano (Cuneo) - dice Pietro Raitano, direttore di Altreconomia e curatore del volume. Insieme a tutte le altre realtà, sono rimasto colpito dalla cooperativa Lazzarelle di Pozzuoli (Napoli), che gestisce la torrefazione (tutta naturale) del carcere femminile, progetto che aveva finito i fondi ed è riuscito a ripartire grazie a una cooperativa rifondata da un gruppo di ragazze esterne e dalle detenute: alcune di loro arrivavano dal traffico di stupefacenti e hanno messo a disposizione del loro nuovo lavoro l’abilità di pesare con precisione e fare le dosi”. L’unico modo per sostenere queste attività è comprare i loro prodotti: “non perché fanno pena, ma perché ne vale la pena, come mi ha detto il direttore di una colonia penale sarda - sottolinea Raitano: in carcere l’intensità del lavoro è altissima e anche per questo si realizzano prodotti artigianali di notevole qualità, frutto di dedizione, attenzione, partecipazione e della conversione del detenuto”. I prodotti realizzati in carcere possono essere acquistati da tutti attraverso i siti web delle singole cooperative di lavoro, i gruppi d’acquisto solidali, le botteghe del commercio equo, i mercatini organizzati in molte città ed eventi ad hoc, oltre che dal sito del Ministero della Giustizia. Giustizia: risorgere dal carcere, le storie di chi ce l’ha fatta Redattore Sociale, 23 aprile 2011 Non fanno notizia perché non tornano a delinquere, ma in Italia migliaia di persone si ricostruiscono una vita dopo la detenzione. Favero (Ristretti Orizzonti): “Fondamentale non recidere i contatti con il carcere, che funge da monito e da stimolo”. A fine 2010 oltre diecimila detenuti hanno finito di scontare la propria pena e sono tornati liberi nella società. Spesso si tratta di ombre, persone di cui si perdono le tracce, a meno che non finiscano di nuovo nelle maglie della giustizia. In molti, però, ce la fanno a rimettersi in piedi, con l’aiuto del volontariato, della famiglia, con la determinazione di non voler sbagliare più. Sono questi i nomi e i volti di chi non fa notizia, ma convive ogni giorno con un passato che non si può cancellare e con un futuro incerto. Paola, Nicola, Giuliano, Salvatore, Paolo sono tutti ex detenuti, con storie diverse ma un trascorso comune: persone che sono e si sentono reinserite e che hanno accettato di raccontare come sono riuscite a ricostruirsi una vita. La loro carcerazione l’hanno trascorsa chi a Padova, chi a Rovigo e chi a Venezia, dove hanno trovato un sostegno nella rete di associazioni che gravita intorno al mondo della detenzione. Ed è proprio grazie all’associazionismo che, in molti casi, si riesce a restare a galla. “Una volta usciti dal carcere è possibile ricominciare - riflette Ornella Favero di Ristretti Orizzonti - . Certo è difficile, nessuno sottovaluta difficoltà e rischi. Ma ho visto molte persone riuscire a trovare un equilibrio fuori”. Secondo Favero per imboccare la strada del reinserimento è fondamentale non cancellare il carcere dalle proprie vite: “Alcuni sono spariti e queste secondo me sono le persone più a rischio. Il periodo della carcerazione rappresenta un pezzo di vita importante e deve anche un po’ restare come monito per la persona, uno stimolo per non sbagliare. In base alla mia esperienza posso dire che le persone con percorsi di reinserimento interessanti si sono riavvicinate al carcere”. La direttrice di Ristretti è anche consapevole che senza accompagnamento un processo di recupero rischia il fallimento: “La cosa peggiore è lasciare la persona sola”. E aggiunge: “I percorsi che funzionano di più sono quelli graduali, che iniziano già dentro il carcere e che prevedono anche un riavvicinamento alla famiglia”. Per Livio Ferrari, presidente del Centro francescano d’ascolto di Rovigo, “la condizione essenziale per il reinserimento è il lavoro: se una persona non trova risposte nella normalità difficilmente riuscirà a tornare nella legalità”. Uno stimolo, in questo, può venire anche dal contatto e dal buon esempio delle altre persone: “Fuori dal carcere, stando gomito a gomito tutto il giorno con chi vive una quotidianità a volte anche dolorosa, queste persone spesso ritrovano il passo, ricominciano a camminare nella vita di tutti i giorni, non cercando facili scorciatoie: la gente comune dà il buon esempio, aiuta a trovare un senso di normalità”. Giuliano: cambiare vita è una scelta. Da quando lavoro per me è uscito il sole Giuliano si occupa di manutenzione per il comune di Galliera Veneta e da subito la gente lo ha accolto senza problemi. “Non me l’aspettavo”. “Quando ho iniziato a lavorare per il comune di Galliera Veneta non pensavo che la gente mi avrebbe accolto bene. Invece è andata proprio così, è stata una sorpresa”. La storia di Giuliano, da qualche mese ex detenuto, dimostra che il reinserimento in società non è impossibile, anche se si ha un trascorso di carcere. Da settembre 2008 si occupa, grazie a una convenzione tra la cooperativa Altracittà e il comune di Galliera, di manutenzione del verde e degli edifici pubblici ed è responsabile dell’isola ecologica comunale. Due giunte, di colore politico opposto, si sono alternate al vertice dell’amministrazione senza problemi e ora che Giuliano è di nuovo libero è arrivata la proposta, inattesa, di mantenere i propri incarichi. “Il sindaco e l’assessore competente mi hanno chiesto se volevo restare. Devo essere sincero: un po’ ci speravo, ma non mi aspettavo che sarebbe successo davvero. E non pensavo di essere accolto così bene, fin da subito, da tutti. Non ho mai avuto problemi con nessuno”. Per Giuliano la possibilità di lavorare anche durante la pena è stata un’opportunità determinante: “Chi non lavora rimane tutto il giorno a guardare la tv, perciò come si possono pretendere dei reali cambiamenti? Prima di questa esperienza il mio futuro lo vedevo grigiastro, ma ora è uscito il sole”. Nel percorso di reinserimento, per Giuliano impegno e sostegno della famiglia sono due elementi che possono fare la differenza: “Chi ha la sfortuna di non avere una famiglia su cui contare è più portato a non reinserirsi. La mia veniva a Padova da Trento ogni sabato: ore e ore di viaggio per un incontro di un’ora soltanto”. Anche se il legame con la città di origine è rimasto, Giuliano si sente “adottato” da Galliera: “Penso sia più semplice reinserirsi in un posto dove non sei già conosciuto. Comunque, sono del parere che cambiare vita è una scelta, non è una cosa che capita per caso”. Paolo: uscire dal carcere e ritrovare gli affetti di sempre Paolo vive a Milano, dove è tornato dopo aver scontato una condanna a 6 anni: “A 62 anni mi concedo il lusso di non reinserirmi. Ho ritrovato il mio habitat, le persone mi sono rimaste vicine”. “Quando sono uscito di prigione non ho fatto molto per reinserirmi in società: coltivo i miei rapporti, che sono rimasti pressoché gli stessi che avevo prima del carcere, ho ritrovato il mio habitat”. Paolo vive a Milano, dove è tornato dopo aver scontato una condanna a 6 anni (poi accorciata a 4) in seguito all’omicidio della suocera, per seminfermità mentale. Per lui le porte del carcere si sono aperte nel 2001, a cinquant’anni, e ora che ne ha 62 vive la sua vita tra casa e lavoro, senza rincorrere forsennatamente quel reinserimento che per molti resta un miraggio. “Da questo punto di vista non faccio molto testo. Per quanto riguarda la carriera, non è che a 57 anni esci dal carcere e trovi di nuovo l’entusiasmo… tiri a campare, ma è un lusso che mi è concesso con l’età”. Paolo oggi fa il consulente della comunicazione per un piccolo editore e si occupa un po’ di pubblicità. “Non ho avuto grandi problemi a tornare in società - spiega - perché non ho cercato di reinserirmi, non ho voluto agevolazioni come ex detenuto. Prima del carcere avevo rapporti sociali normali, che ho sostanzialmente conservato perché non ho mai rotto del tutto”. Certo, qualcuno degli amici nel corso del tempo è scomparso, ma lui stesso ammette che “è una reazione normale a un fatto così grave. Io non ho mai cercato nessuno oltre a chi mi ha cercato sua volta. In carcere ricevevo due o tre lettere al giorno. Fuori mi era rimasto un habitat, quindi l’ho ritrovato”. Gli affetti di sempre, dunque, sono rimasti, ma la vita è fatta anche di nuovi incontri e quando si ha un passato di detenzione le relazioni sociali sono a rischio. Ma Paolo si dice tranquillo: “Se mi capita di conoscere una persona che mi interessa sono io il primo a parlare del mio passato, anche perché con internet ci vuole un secondo a collegare il mio nome alla mia storia. Comunque, per esperienza, se si è leali la reazione è generalmente buona. Lo stigma da ex detenuto bisogna saperselo un po’ gestire. Certo che un plurirapinatore, per fare un esempio, viene perseguitato di più, ma se invece uno ha avuto un momento di “follia” o cose simili è diverso…”. Paolo ricorda bene gli ultimi momenti della detenzione, quando è diventato di nuovo un uomo libero: “Quando siamo usciti ci hanno ‘cacciato’ alle 21.30 con un biglietto per un autobus che partiva alle 8.30 del giorno dopo. Qualcuno aveva meno di 2 euro in tasca, le cose personali raccolte nella borsa della spazzatura, io invece avevo un po’ di soldi quindi ho potuto aiutare qualcuno”. Paola: dalla cella alla redazione di Ristretti Orizzonti La donna non si è lasciata piegare da 6 anni di carcere, prima in Germania e poi a Venezia: “Il carcere è un’istituzione totale che ti schiaccia, è totale deresponsabilizzazione. Durante la detenzione mi sono impedita di lasciarmi andare”. Sorridente, solare, disponibile a raccontarsi, Paola non si è lasciata piegare da 6 anni di carcere, prima in Germania e poi a Venezia. Adesso che è libera, lavora nella sede esterna di Ristretti Orizzonti a Padova e incontra regolarmente gli studenti delle scuole superiori raccontando la propria esperienza. Il carcere è stato una parte importante della sua vita, perciò non lo rinnega: ammette però di aver fatto tesoro dei propri errori e di non aver mai voluto sprecare, nemmeno in prigione, un solo istante della propria vita. “La mia sopravvivenza, specialmente agli inizi in Germania, era legata al pensiero che il mio corpo era imprigionato, ma la mia mente no: io dovevo pensare di essere una persona libera. Il carcere è un’istituzione totale che ti schiaccia, non hai la possibilità neanche di scegliere se accendere o meno la luce, è totale deresponsabilizzazione: se una persona passa la carcerazione così, come può pensare di farcela una volta fuori?”. Quella di Paola è stata una vera e propria guerra alla rassegnazione: “Continuavo a pensare: non posso buttar via questi anni. Sono entrata in carcere a 40 anni, ne ho trascorsi due e mezzo in Germania e quattro a Padova. Per il primo anno non avevo nulla da fare, perché lì si ha l’obbligo di lavoro solo con la condanna definitiva, perciò ho letto tutti i libri in italiano della biblioteca, per due volte. Quando li ho finiti mi sono messa in testa di imparare l’inglese, anche per esigenze di comunicazione”. Dopo un anno e con la condanna definitiva è arrivato anche il lavoro in sartoria. Poi il trasferimento in Italia: “È stato uno choc, perché in Germania lavoravo sempre, a Venezia no. Era un po’ come tornare indietro, anche se il trasferimento l’avevo tanto voluto. Così mi sono iscritta all’università e ho iniziato ad andare in redazione a Ristretti”. L’imperativo era uno soltanto: mantenere spazi di libertà mentali, cercare di staccarsi dal carcere. “Molte delle mie compagne erano permeate di carcere. Ho smesso anche di scrivere lettere: erano un altro simbolo della galera”. Oltre che alla mente, Paola ha pensato sempre anche al proprio corpo, impedendosi di lasciarsi andare: “Tante donne perdono la loro femminilità, io invece mi sono imposta di non cedere”. Alla luce della propria esperienza, per Paola il vero reinserimento è possibile, ma “dipende tutto dagli strumenti di cui una persona si dota. Io ho sempre lavorato, studiato e tentato di dare voce alla mia voglia di riscatto. Il percorso deve iniziare in carcere: serve la capacità di mettersi in gioco con l’esterno, avere la testa in esercizio”. Da qualche tempo Paola è tornata, da libera, nel carcere di Venezia per un corso di scrittura, vorrebbe continuare a lavorare in questo ambito, ma ammette di non sapere se questa sia la sua strada: “Guardare in faccia le detenute mi ha fatto stare male e mi ha fatto sentire in dovere di fare qualcosa per loro. Non penso di essere ancora in debito per il mio reato, ma penso che abbiamo tutti un debito verso gli altri”. Nicola: le misure alternative mi hanno salvato “Si resta sempre ex detenuti, ma nascondere il passato non serve”. Dopo 30 anni di galera, è titolare di una ditta di costruzioni: “In carcere ho studiato e ho acquisito la professionalità che mi ha consentito di mettermi in proprio”. Entrato in carcere a 19 anni e uscito a 51, Nicola ha passato oltre metà della propria vita in cella. Un percorso lungo, caratterizzato da due fasi: prima e dopo la legge Gozzini. Ora, libero dal 2008, ammette: “Le misure alternative mi hanno salvato la vita”. Il suo percorso inizia nel 1977 e nelle prime fasi è, per sua stessa ammissione, burrascoso: “Mi sono allungato la pena da solo, con violenza, proteste… era il carcere degli anni settanta, allora non c’era la legge Gozzini, non avevo niente da perdere e mi facevo la galera come volevo. Poi, con la legge dell’86 mi sono reso conto che qualcosa da perdere l’avevo anch’io”. Quindi la svolta: “Ho iniziato a pensare positivo, avevo 26 anni e cominciai a studiare. In carcere a San Gimignano incontrai un geometra che mi incitò e mi fece da insegnante. Per me lo studio è sempre stato ostico, ma quell’incontro mi fu da stimolo per imparare quella che ora è la mia professione. Riuscii a iscrivermi al corso di geometra dopo un paio d’anni”. Ma a quel tempo Nicola pensava ancora che la società gli dovesse qualcosa, “così nel ‘95, mentre ero in articolo 21 (lavoro esterno, ndr), mi arrestarono di nuovo e rimasi dentro fino al 2004. Sempre nel ‘95 mi diplomai e conobbi a Padova Ornella Favero, con cui fondammo Ristretti Orizzonti. Sono anche uno dei fondatori degli avvocati di strada”. Adesso Nicola è titolare di una ditta di costruzioni, che riesce a tenere a galla tra alti e bassi. La decisione di mettersi in proprio venne dopo un’esperienza negativa: “Verso fine pena iniziai a cercare un lavoretto: feci tre giorni di prova con accompagnamento per un lavoro di consegne a domicilio di prodotti e depliant. Alla fine la relazione fu positiva e la ditta si disse disponibile ad assumermi, finchè non si seppe che ero pluripregiudicato. Per me fu una doccia fredda”. Da imprenditore, Nicola non ha dimenticato l’attenzione al sociale: accetta lavori anche dove le altre ditte non vogliono andare, in zone calde come la padovana via Anelli. “Io ho potuto mettermi in proprio perché ho studiato e acquisito una professionalità, altrimenti si va letteralmente allo sbando. Di lavori generici se ne trovano difficilmente, per questo suggerisco a tutti di frequentare corsi di formazione professionale. Corsi che devono essere mirati al bisogno del mercato, non fatti per far perdere tempo ai detenuti. E serve tanto sostegno psicologico perché una persona è fragile, si crede una montagna e invece si sgretola”. Nicola è consapevole che per la società resterà sempre un “ex detenuto”: “La verità alla fine viene fuori, per cui è inutile nascondere il passato. Quando le persone mi conoscono dicono sempre di non credere che sono stato in carcere. E io rispondo sempre che in prigione non ci sono pesci con le branchie, ma persone. A mia moglie l’ho detto subito e anche lei non ci credeva, le ho dovuto far vedere i mandati di cattura. Ora vorremmo un figlio”. Salvatore: da Napoli a Rovigo con la forza di chiedere aiuto “Sapevo che al Sud sarei tornato a delinquere. Ora ho un lavoro e mantengo la mia famiglia”. Dopo 5 anni di carcere l’opportunità di un impiego in cooperativa: “In carcere si deve insegnare alle persone un mestiere”. “Reinserito, al 100%. Una persona libera, pulita, tranquilla”. Così si descrive Salvatore, napoletano di 58 anni, con un passato di galera e un presente ricostruito a Rovigo, dove lavora come autista per una cooperativa, prestando anche servizio autonomo di idraulico a domicilio. Con una figlia ancora piccola e una vita travagliata alle spalle, Salvatore non rinnega il passato, ma procede spedito verso il futuro. È uno di quelli che ce l’hanno fatta: niente più carcere, niente più reati, ma una vita “normale”, conquistata grazie al sostegno di chi ha creduto in lui. A partire da Livio Ferrari, fondatore del Centro francescano d’ascolto di Rovigo: “Livio mi lanciò una provocazione - racconta Salvatore - , dicendomi che non credeva che ce l’avrei fatta. Ho sempre fatto una vita di strada, quindi il rischio era di ricaderci. L’ho presa come una sfida, volevo cambiare”. Salvatore ha vissuto la sua carcerazione al Sud, ma è sempre stato cosciente che tornare libero a Napoli avrebbe significato riprendere la via del carcere. “Per reati di camorra mi sono fatto 6 anni - racconta - . Sono uscito nel 2003, dopo 5 anni, agli arresti domiciliari e ho chiesto di scontare questa parte della pena fuori Napoli”. La voglia di farcela e la determinazione nel chiedere aiuto lo hanno portato al Centro francescano d’ascolto: “Da qui mi hanno indirizzato alla cooperativa ‘Spazio L’ e dopo pochi mesi ho assunto l’incarico di autista”. Dopo poco, però, il percorso di Salvatore ha rischiato di deviare: “Dopo circa 2 mesi sono stato arrestato perché la mia compagna mi aveva accusato di violenza sessuale - ricorda - . Dopo 15 giorni sono stato assolto con formula piena. Fortunatamente la ditta mi ha dato ancora fiducia e dal 2004 mi ha assunto”. A questo punto, però, un nuovo trauma: “Sono andato a vivere con una ragazza della cooperativa, da cui ho avuto una figlia, ma nell’agosto del 2009 l’ho trovata a casa, morta. Ma ho avuto ancora una volta la forza di andare avanti. Grazie alla cooperativa e a Livio sono tornato in sesto”. Adesso Salvatore è sereno, ha un’altra compagna e con il doppio lavoro riesce a sostenere la famiglia. Nonostante il suo passato, non sente su di sé lo stigma di “ex detenuto”: “Per lavoro sono spesso a contatto con le persone e non ho mai avuto problemi. Per me il mio passato è finito nel 2003”. Per Salvatore questa è una sfida vinta, ma è consapevole di avercela fatta soprattutto grazie all’opportunità di entrare in una cooperativa. “Se non hai questa occasione sei fuori. Ai colloqui di lavoro capivo subito di essere bruciato: le ditte difficilmente assumono un pregiudicato”. Forte della propria esperienza, suggerisce: “Secondo me è importante offrire anche dentro il carcere dei percorsi lavorativi, professionalizzanti, mirati. I detenuti devono poter imparare un mestiere per sperare di farcela una volta fuori”. Giustizia: Manna (Lisiapp); assurdo il silenzio delle istituzioni sull’emergenza carceri www.informazione.it, 23 aprile 2011 Gli istituti penitenziari italiani sono ormai al collasso con un sovraffollamento che si attesta intorno al 151 per cento. A quindici mesi dallo stato di emergenza proclamato dal governo per le carceri italiane, la condizione di sovraffollamento si è “ulteriormente aggravata”, nonostante la creazione di 1.265 nuovi posti, perché i detenuti sono cresciuti a un ritmo doppio, per la precisione di 2.533 unità. A sottolinearlo è il Libero Sindacato Appartenenti Polizia Penitenziaria Lisiapp per voce del suo Segretario Generale il Dott. Mirko Manna che riprende il grido d’allarme del Centro studi di Ristretti Orizzonti che, nell’elaborare i dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria aggiornati al 31 marzo scorso, rileva che i detenuti sono 67.600 (erano 65.067 a gennaio 2010, quando fu dichiarato lo stato di emergenza), 22.280 in più della capienza regolamentare (fissata a quota 45.320, contro i 44.055 di 15 mesi fa) mentre i condannati ammessi ad una misura alternativa alla detenzione in carcere sono solo 16.018, e appena 1.788 (tra cui 430 stranieri) coloro che da dicembre scorso hanno beneficiato della cosiddetta legge svuota carceri che consente la detenzione domiciliare a chi ha un anno di pena residua da scontare. Il fatto rimarca il Segr. Gen. del Lisiapp che siano solo 16.018 i condannati in misura alternativa (dei quali 8.604 in affidamento ai servizi sociali, 858 in semilibertà e 6.556 in detenzione domiciliare) è spiegabile tutto ciò con l’entrata in vigore nel 2005 con la cosiddetta legge ‘ex Cirielli’ che nel tagliare i tempi di prescrizione ha però allo stesso tempo stretto le maglie delle misure alternative per i recidivi. E infatti, se nel 2003 i detenuti erano 56.081 mentre in misura alternativa c’erano ben 48.195 persone, nel 2004 i detenuti erano 56.064 e i condannati in misura alternativa 50.228, mentre l’anno successivo sono scesi a 49.943. La misura penale esterna, principale strumento cui sii è fatto ricorso negli ultimi anni per evitare il sovraffollamento, per effetto della ‘ex Cirielli’ e anche di alcune norme sulla sicurezza è tornata ad essere quella dei primi anni 90 (nel 1994, ad esempio, c’erano 52mila detenuti e 13mila persone in misura alternativa). Decisamente esigui affermano da Ristretti Orizzonti - anche i numeri dei condannati al lavoro di pubblica utilità (appena 41 in tutta Italia) e dei detenuti ammessi al lavoro esterno (423). Più consistenti quelli delle sanzioni sostitutive: 2.023 persone sono sottoposte alla libertà vigilata e 104 alla libertà controllata. Quanto alla presenza dei detenuti stranieri, su 67.600 sono 24.834 (di cui 1.255 donne): tra questi ultimi, i più numerosi sono i marocchini (5.209, pari al 21%), seguiti dai romeni (3.609, il 14,5%), dai tunisini (3.144, il 12,7%), dagli albanesi (2.873, l’11,6%) e dai nigeriani (1.235, il 5%). Gli imputati, infine, sono 28.220, di cui oltre la metà (14.260) in attesa di primo giudizio. I condannati con sentenza definitiva sono 37.591, gli internati 1.698, di cui 1.535 negli ospedali psichiatrici giudiziari. Giustizia: Fabio Tranchina tenta il suicidio e parla al Gip; pressioni da Dia per farmi collaborare La Repubblica, 23 aprile 2011 Doppio tentativo di suicidio per Fabio Tranchina, il fedelissimo dei Graviano, fermato nei giorni scorsi a Palermo dagli uomini della Direzione investigativa antimafia e accusato di aver avuto un ruolo nella strage di via D’Amelio. In seguito al tentato suicidio é stato posticipato di due ore l’interrogatorio del mafioso palermitano che si sarebbe dovuto svolgere nel carcere Pagliarelli ad opera del gip Piergiorgio Morosini. L’uomo si è poi avvalso della facoltà di non rispondere. Tranchina, ha parlato lo scorso 16 aprile con i magistrati di Firenze dicendo che i Graviano, nonostante fossero stati arrestati nel 1994, sarebbero ancora in grado di decidere le gerarchie della mafia a Brancaccio. Il gip Piergiorgio Morosini ha convalidato il fermo per Fabio Tranchina, anche se non si è ancora pronunciato sul tipo di misura di custodia cautelare da adottare. Per ora Tranchina non si è sottoposto all’interrogatorio avvalendosi della facoltà di non rispondere ma, facendo spontanee dichiarazioni, ha raccontato la sua versione dei fatti e le presunte pressioni della Dia per farlo collaborare con la giustizia. Il suo legale, l’avvocato Tommaso Scanio, ha presentato una denuncia per sequestro di persona fatta dalla moglie del mafioso. “Il 16 aprile”, ha detto l’avvocato, “la donna, dopo averlo visto andare via con gli uomini della Dia, non ha più avuto notizie del marito e dopo varie telefonate a carabinieri e polizia ha sporto denuncia”. L’avvocato ha anche consegnato al gip i biglietti aerei per Firenze, tra cui anche quelli del legale e della moglie che poi hanno raggiunto Tranchina a Firenze dove l’indagato si era recato per parlare con i pm. “Inoltre”, ha detto l’avvocato Giovanni Castronovo, altro legale di Tranchina, “il mio assistito ha fatto presente al giudice di non aver potuto chiamare la moglie o altre persone mentre veniva portato negli uffici della procura in Toscana”. Intanto, l’improvvisa rinuncia a pentirsi da parte di Tranchina, ha fatto saltare il programma dei pm di Caltanissetta, Palermo e Firenze di sentirlo in un interrogatorio congiunto. Le tre procure, secondo quanto appreso, avevano intenzione di organizzare l’incontro nei prossimi tempi ma sono state costrette a cancellare l’iniziativa dopo il dietrofront imprevisto maturato domenica scorsa a Firenze. Tranchina sembrava intenzionato a collaborare coi magistrati di Firenze, ma a seguito dell’intervento della moglie - sorella del boss fedele ai Graviano, Cesare Lupo - e di un cognato che domenica lo hanno raggiunto da Palermo, ha rinunciato a proseguire la collaborazione appena iniziata con un’audizione tenuta sabato notte nell’aula bunker di Firenze. Lettere: le nostre carceri scoppiano e l’Europa ci accusa di tortura di Antonella Barina La Repubblica, 23 aprile 2011 Mentre ci si affanna a riformare la giustizia per evitare pene al premier e alla sua banda, il sovraffollamento delle carceri - problema vero, drammatico - ha raggiunto livelli senza precedenti. Secondo gli ultimi dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, il 31 gennaio 2011 i detenuti in Italia erano 67.634 (quasi il doppio di vent’anni fa), a fronte di una capienza regolamentare di 45.165. Un tasso di sovraffollamento del 149 per cento, che ci pone al terzo posto in Europa, dopo la Bulgaria (155,6 per cento) e Cipro (152,7). Numeri mai registrati prima. E in seguito al ricorso di un detenuto, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha addirittura condannato l’Italia per reato di “tortura”, considerando il sovraffollamento una pratica di per sé “inumana e degradante”. Che acuisce i problemi endemici delle carceri, già aggravati dalla crescente penuria di fondi: peggiorando le condizioni sanitarie; riducendo le attività che consentono di uscire, durante il giorno, da celle gremite; accentuando i casi di autolesionismo... A battersi per i diritti nelle carceri c’è l’associazione Antigone, che gestisce un Osservatorio nazionale sulle condizioni di detenzione e pubblica un rapporto annuale, con cui informa e fa lobbing. “L’Italia è l’incapace di affrontare il sovraffollamento se non con le amnistie”, spiega Alessio Scandurra, coordinatore dell’Osservatorio. “Bisogna invece adottare più spesso sanzioni alternative al carcere - dagli arresti domiciliari ai soggiorni obbligati - che sono efficaci e costano meno”. In mancanza di un garante dei detenuti (pur previsto dall’Onu), Antigone ha anche istituito un “difensore civico” che denuncia le carenze. Finora si è fatto tramite di 1.200 casi, citando in giudizio lo Stato per trattamenti che violano la Convenzione dei diritti dell’uomo. Lettere: dal carcere di Padova; anche qui dentro possiamo “risorgere” www.ilsussidiario.net, 23 aprile 2011 Pubblichiamo, in occasione della S. Pasqua, tre testimonianze di detenuti. Si tratta di tre brevi lettere che loro stessi si sono offerti di scrivere e pubblicare, per far conoscere all’esterno il significato che ha per loro la grande festa cristiana della Resurrezione. Bledar Dinja, albanese di 37 anni, ergastolo, Alberto, 46 anni, due ergastoli, Franco, 45 anni, ergastolo, non “guadagnano” nulla, in termini giudiziari, da questo gesto. Continueranno a scontare la condanna. Ma, come scrive Franco, “chiedendo la Sua misericordia vivo in un modo che non è più così oscuro”. È quello che tutti e tre, giorno dopo giorno, hanno fatto e continuano a fare in questo loro tempo di detenzione. A metà maggio Bledar Dinja entrerà a far parte della comunità cristiana e riceverà il sacramento del battesimo con il nome di Giovanni. Carissimi amici, che bello vivere così! Siamo di fronte ad una realtà che mai potevamo credere se non perché l’abbiamo toccata con mano. Quella realtà che tutti gli amici della cooperativa ci insegnano giorno dopo giorno ad affrontare con semplicità. È sempre una fatica essere attenti a ciò che accade, ma quando si hanno di fronte degli amici che ci aiutano il risultato è sempre quello di un bambino che rimane stupito di fronte ad una cosa misteriosa che oggi abbiamo capito che è Gesù presente di fronte a noi, in mezzo a noi, in noi. Sì, perché non ci sono trucchi, non è uno qualunque che ci fa vedere le cose che accadono: le cose accadono perché sono volute da uno molto più grande di noi. Crediamo che vivere così valga veramente la pena. Si potrebbe dubitare al primo impatto di ciò che ci ha investito, ma solo il tempo ha confermato l’amabile verità. Il ritrovarsi, il cercarsi in ogni momento che ci è permesso ci fa capire che abbiamo bisogno di vederci, di sentirci, di imparare da tutti. Tutto questo è meraviglioso e molti hanno iniziato ad impegnarsi a dare il meglio per vivere bene e nel bene. Ma questo non accade per una nostra capacità, ma perché è voluto da un Altro più grande di noi. Giovanni Bledar Pasqua di Risurrezione è per me il periodo più importante ed espressivo del Cristianesimo. Chi crede nella risurrezione dà un altro significato alla morte, le toglie quell’aspetto di definitività, di fine di un cammino, e la fa diventare come la porta d’accesso per una rinascita totale. Non credo che la Pasqua debba essere solo il ricordo di “quell’Uomo” che fu crocefisso e poi risorse 2000 anni fa, non è qualcosa che ci commuove e riguarda da lontano: Pasqua è oggi, in questo momento, anche ora mentre sto scrivendo. Alberto Chiedendo la Sua misericordia vivo in un modo che non è più così oscuro, vivo oggi, accetto quello che mi dà oggi, non mi preoccupo di cosa sarà di me domani perché io vivo oggi e mi godo tutto ciò che mi dà! Mi sento sempre di più affascinato dalle sue provocazioni, se non Lo riconosco nelle cose che faccio ci rimango male perché sono certo che io dipendo esclusivamente da Lui, ma non mollo solo perché questo mi costa fatica. La Resurrezione è un presente come quello di Andrea e Giovanni che andavano dietro a Gesù. Io ho la fortuna di vedere due amici che riceveranno il battesimo ricevendo proprio gli stessi nomi, “Andrea e Giovanni”. Per me è proprio come un presente la Resurrezione di Gesù. Credo che non sia cambiato nulla da quando Lui è venuto da noi duemila anni fa! Tenerlo presente in ogni istante è come se la Sua Resurrezione sia ogni giorno della mia vita. Auguro a tutti una buona Santa Pasqua! Napoli: detenuto di 33 anni si strangola nell’infermeria di Poggioreale, è in fin di vita all’ospedale Ristretti Orizzonti, 23 aprile 2011 Per i medici che lo tengono sotto stretta osservazione nel reparto di terapia intensiva dell’ospedale Loreto Mare di Napoli è appesa ad un filo la vita di Giuseppe Toto, 33 anni, per la giustizia complice di un omicidio e per questo condannato in primo grado a 26 anni di reclusione. L’uomo avrebbe tentato il suicidio nonostante fosse detenuto nell’infermeria del carcere di Poggioreale per via di una grave forma di depressione che lo aveva colpito sin dai giorni successivi l’arresto. "Aveva perso 40 chili e diceva che sarebbe morto prima di arrivare al processo d’appello. Ce lo hanno ammazzato", si dispera ora la sorella Nunzia. I fatti risalirebbero a giovedì scorso. Dopo il colloquio con la sorella, Toto torna in cella. Una cella di quelle sorvegliate, prive di oggetti o cose che possano assecondare le manie suicida dei detenuti. Ciononostante, sembra che Toto sia riuscito comunque a trovare il modo per provare a togliersi la vita. I medici che lo hanno soccorso gli hanno trovato dei segni intorno alla gola, forse prodotti da un indumento arrotolato a mo’ di corda. Quando è giunto in ospedale l’uomo non respirava più, gli è stata praticata una tracheotomia per indurre la respirazione artificiale, ma non ha mai ripreso conoscenza. "Avevamo invocato lo stato di necessità - spiega il difensore dell’imputato, l’avvocato Monica Pantaleo - avevamo provato a dimostrare che il mio assistito aveva agito sotto minaccia di morte e avevamo provato che comunque non aveva partecipato materialmente all’esecuzione del povero assessore. Ma non è stato sufficiente ad evitargli una condanna così severa neppure il fatto che, sin dai giorni successivi l’arresto, si era ammalato di una grave forma di depressione. Tutte le nostre istanze di scarcerazione sono state rigettate. Ora - conclude il legale - ho bisogno di capire come sono andate le cose in carcere prima di pensare al da farsi". Solo due settimane fa, l’uomo era stato accusato di aver partecipato ad altri due tentativi di omicidio, quello di Fortuna Iovinelli e di Raffaella D’Alterio, rispettivamente affiliata e madrina di un clan in aperta ostilità con quello del quale Toto avrebbe fatto parte, il clan De Rosa, egemone a Qualiano. Secondo chi gli ha parlato per l’ultima volta prima che compisse il gesto estremo, dopo la notifica in carcere dei nuovi capi d’imputazione, la depressione di Toto si era ulteriormente aggravata e desiderava solo morire. A giorni il Riesame si sarebbe espresso rispetto alle ultime accuse, ma lui, l’imputato, diceva che non ci sarebbe arrivato. "Ha fatto quello che temevamo - dice la sorella - la sua malattia era vera, come vera era la sua estraneità ad un clan del quale continuano a dire lui facesse parte". Voghera (Pv): cresce la protesta dei detenuti, chiedono l’abolizione del vetro divisorio ai colloqui La Provincia Pavese, 23 aprile 2011 Aria elettrica al carcere di Voghera. Mentre i detenuti con una lettera informano che stanno attuando una protesta contro le misure più severe adottate dopo la recente evasione, ieri un collaboratore di giustizia ha tentato di impiccarsi. L’uomo non rischierebbe la vita. Per il direttore è stato un atto dimostrativo. Dell’uomo non sono state fornite le generalità. Dovrebbe trattarsi di un collaboratore di giustizia quarantenne che si trovava in cella a Voghera da qualche mese. La tensione serpeggia, in carcere, da quando sono state inasprite le misure di sicurezza in seguito a una triplice evasione. In una lettera, i detenuti parlano di “articoli della Costituzione calpestati” e paventano il rischio che questa situazione induca “ad atti di lesionismo e autolesionismo”. Ieri mattina, l’allarme è scattato immediatamente. I mezzi del 118 di Pavia sono usciti in codice rosso, il grado più alto di allarme. Quando hanno raggiunto il carcere di via Prati Nuovi, tuttavia, il detenuto aveva già ricevuto i primi soccorsi dal personale dell’istituto di pena ed era cosciente. È stato preso a bordo da un’ambulanza e portato d’urgenza al pronto soccorso. Pare che, al momento del fatto, nell’istituto fosse presente il direttore regionale del Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Luigi Pagano. Il direttore del carcere, Paolo Sanna, ieri pomeriggio ha ridimensionato l’episodio: “Si è trattato di un gesto dimostrativo. Un tentativo di impiccagione simulato che, tuttavia, non ha messo a repentaglio la vita del detenuto. Purtroppo si tratta di episodi non infrequenti nelle carceri”. I detenuti di via Prati Nuovi, e specialmente quelli dei settori ad Alta sorveglianza, stanno attuando ormai da alcuni giorni varie forme di protesta. Avevano iniziato con lo sciopero della fame, ma ora stanno passando al rifiuto di assumere farmaci. Dopo l’evasione di tre detenuti albanesi, che si trovavano proprio in una delle sezioni ad alta sorveglianza e che avevano approfittato del passeggio in un cortile, le misure di sorveglianza interne all’istituto avrebbero avuto un deciso inasprimento. Non possiamo più incontrare da vicino neppure i nostri figli Ecco la sintesi di una lettera che un gruppo di detenuti della II e III sezione del carcere di Voghera ha inviato al nostro giornale. “Da lunedì 11 aprile i detenuti delle due sezioni “As 1”, circa cento, cosiddetti pericolosi ma pur sempre esseri umani, hanno iniziato una protesta pacifica, cominciata con lo sciopero della fame, a seguire il rifiuto ad assumere terapia medica, anche da parte di chi ha bisogno di farmaci salvavita, e via via estesa anche con l’astensione dalle attività scolastiche e lavorative. Non vengono concessi, come previsto da norme specifiche regolamentari, colloqui senza divisori ai detenuti con figli minori. Inoltre da regolamento ministeriale tutti i detenuti reclusi in sezioni “As 1” devono stare in celle singole: ciò avviene in tutte le altre carceri italiane che ospitano detenuti destinati a questo circuito, a Voghera non è così. Le cellette sono piccolissime e siamo costretti a starci in due con parecchie difficoltà, limitando al minimo anche il solo fatto di muoversi. Non viene permesso neppure di poter praticare lo studio in cella, vengono negate salette adeguate e viene negato totalmente l’accesso ai computer, contrariamente a quanto succede in altre carceri d’Italia, dove queste attività vengono incentivate, stimolate e agevolate”. Cagliari: detenuto morì per overdose in carcere, il compagno di cella condannato a 10 anni La Nuova Sardegna, 23 aprile 2011 Dieci anni di carcere è la pena inflitta dal tribunale a Stefano Medde (42 anni) di Quartucciu, colpevole di aver ceduto una dose di droga e di un farmaco antidepressivo al compagno di cella, che nel corso della notte ha accusato un malessere ed è morto senza che nessuno tentasse di soccorrerlo. Era l’11 giugno del 2005: per i giudici - presidente Massimo Poddighe - l’imputato è responsabile di cessione di sostanze stupefacenti, morte come conseguenza di altro delitto e omissione di soccorso, le stesse contestate dal pm Giangiacomo Pilia che aveva chiesto la condanna a otto anni. Accusati di omissione di soccorso per aver nascosto le cause della morte del detenuto per aiutare Medde a evitare guai giudiziari, tre compagni di cella - Davide Aramini (42 anni), Erminio Pisano (34) e Adriano Melis (49) - avevano patteggiato una pena di sei mesi. Nel corso del dibattimento i difensori di Medde, gli avvocati Leonardo Filippi e Mauro Trogu, hanno denunciato come quattordici cassette in cui erano state registrate le conversazioni fra detenuti e i colloqui coi parenti siano risultate inspiegabilmente cancellate. Se le tracce audio fossero rimaste - ha sostenuto il legale - i sarebbe stato possibile ricostruire i passaggi fondamentali della vicenda. Il tribunale ha risolto il problema, che non è stato spiegato, con l’esame in aula dell’ufficiale di polizia penitenziaria che seguì le registrazioni. Ma la sua testimonianza non ha fornito al tribunale elementi tali da modificare la posizione processuale dell’imputato. Ora la difesa attenderà le motivazioni della sentenza per decidere se presentare ricorso in appello. Forlì: il Pd riconosce l’impegno della direttrice del carcere Rosa Alba Casella Romagna Oggi, 23 aprile 2011 “Il carcere di Forlì versa in condizioni gravissime, con carenze a cui si è tentato di porre rimedio tentando di sostituirsi allo Stato. Tuttavia se in questi anni è stato possibile proseguire nell’attività della Casa Circondariale, è per il grande impegno profuso dal personale che vi lavora all’interno e dalla professionalità della direttrice Rosa Alba Casella, a cui deve andare il ringraziamento di tutta la comunità forlivese”. Lo afferma il segretario territoriale Marco Di Maio. Con queste parole, a nome del Partito Democratico forlivese, saluta e ringrazia la direttrice uscente della Casa circondariale forlivese: “Il nostro augurio - afferma Di Maio - è che chi andrà a sostituire la dottoressa Casella prosegua sul solco virtuoso che è stato segnato”. “Il carcere di Forlì ha svolto un lavoro encomiabile, pur nelle difficoltà sempre crescenti a causa dei ridotti trasferimenti statali e delle precarie condizioni di lavoro - fa notare il segretario e consigliere comunale che ha avuto modo nei mesi scorsi di visitare il carcere - a cui si affianca il problema enorme del sovraffollamento; un lavoro teso non solo alla mera attività di detenzione, ma soprattutto al tentativo costante di promuovere e favorire l’integrazione sociale dei cittadini”. “Occorre fare appello a tutte le forze istituzionali e politiche - conclude Di Maio - soprattutto a quelle che governano a livello nazionale, ma non solo, affinché si compia da parte di tutti ogni sforzo concreto per accelerare le operazioni sul carcere di Forlì e soprattutto si attui un piano nazionale almeno decennale per affrontare e risolvere il problemi del sovraffollamento delle carceri italiane”. Bologna: la liberazione anticipata concessa con ritardo diventa un caso al Consiglio d’Europa di Paola Cascella La Repubblica, 23 aprile 2011 Concessa con 405 giorni di ritardo: se il danno verrà riconosciuto, lo Stato potrebbe essere costretto a versare 100mila euro di danni. Ma secondo il Ministero della Giustizia Antonio Messina non doveva beneficiare di alcuno sconto di pena. L’Italia rischia una “condanna” da parte del Consiglio d’Europa e della Corte europea per i diritti dell’uomo per aver concesso la libertà anticipata ad un detenuto con 405 giorni di ritardo. Un danno non piccolo per il protagonista della vicenda, un ex mafioso, rinchiuso alla Dozza fino al 2007. Un danno che se riconosciuto, allo Stato potrebbe costare circa centomila euro di risarcimento. Ma non è tutto. In realtà, secondo il ministero della Giustizia, quello sconto di pena non doveva esserci affatto, neppure di un giorno. Antonio Messina, 65 anni, condannato in via definitiva a Palermo, a 24 anni e mezzo di carcere per associazione mafiosa e per una serie di reati gravissimi, come l’omicidio e il sequestro di persona, doveva restare alla Dozza. Il provvedimento del Tribunale della libertà di Bologna, che l’8 ottobre 2007 gli ha aperto le porte della cella, è addirittura “suscettibile di impugnazione per abnormità”, scrive il Dipartimento per gli affari di giustizia di via Arenula, in quanto frutto di “una decisione illegittima” ed essa stessa “abnorme”. Perché? Il caso è intricato, ma la ragione è semplice. La libertà anticipata fu concessa a Messina dall’ex giudice di Sorveglianza, ora pm a Tempio Pausania, Riccardo Rossi, in veste monocratica (una presunta prima anomalia), dopo che, poco più di un anno prima, la richiesta era stata respinta dallo stesso Tribunale di sorveglianza bolognese in composizione collegiale, presieduto dallo stesso giudice Rossi. Quali elementi nuovi erano intervenuti? Nessuno, secondo il ministero. Non solo. Già a maggio 2007, cinque mesi prima della sentenza di Rossi, la Corte di Cassazione aveva rigettato un nuovo ricorso del detenuto definendolo inammissibile. Perciò, “la rivalutazione dell’ordinanza collegiale appare una decisione illegittima e abnorme” e il detenuto Messina “ha fruito - scrive il ministero - del beneficio della libertà anticipata che non poteva essere concessa, in assenza dei presupposti legittimanti l’adozione del provvedimento liberatorio”. Ecco perché a fine marzo via Arenula chiede informazioni a Bologna. Messina ha fatto ricorso al Consiglio d’Europa e al Tribunale europeo per i diritti dell’uomo: vuole essere risarcito per quei 405 giorni di carcere, che alla luce della sentenza di Rossi, gli sarebbero stati “rubati” Il ministero aspetta chiarimenti anche in vista di un’eventuale proposta di regolamento amichevole da sottoporre alle parti, l’Italia e l’ex detenuto. “Di questa vicenda - dice Rossi - non ho quasi memoria. Parliamo di quattro anni fa.... Il nome Antonio Messina mi dice poco o nulla. Ricordo vagamente che lamentava la mancata concessione della libertà anticipata. Credo di avergli dato ciò che chiedeva. Perché il ministero parla di provvedimento illegittimo? Concederlo o meno è una prerogativa del giudice di sorveglianza ed esistono valutazioni diverse”. Rossi, uno dei quattro pm che nel 1980 indagarono sulla strage del 2 agosto, non è nuovo alle polemiche. Ammonito nel 2007 dal Csm per “violazione del dovere professionale nel concedere benefici ai detenuti”, nel 2009 tornò davanti al Tribunale delle toghe per il caso Annamaria Franzoni, la mamma di Cogne che chiedeva di poter incontrare i figli fuori dal carcere, praticamente in semilibertà. Rossi ordinò una perizia psichiatrica, aprendo di fatto la pratica, Ma l’istanza della signora era inammissibile. Prove di disgelo a Palazzo Pizzardi tra avvocati e Tribunale di Sorveglianza Prove di disgelo tra il presidente del Tribunale di Sorveglianza Antonio Maisto e gli avvocati, da mesi in stato di agitazione. A marzo, il magistrato aveva risposto seccamente alla Camera Penale bolognese e ai penalisti che parlavano di “volontà di normalizzazione” della Sorveglianza che “non rispondeva ai criteri che oggi si adottano nell’applicazione della legge Gozzini”. In discussione l’accesso alle cancellerie e la consultazione dei fascicoli pendenti. Ma l’organizzazione interna, precisa Maisto, è quella indicata dal Csm. Inoltre, dopo il trasloco a Palazzo Pizzardi, non è più garantito il “filtro” per gli accessi. Savona: Sappe; alta tensione tra i detenuti, questo è il peggior carcere del Paese www.savonanews.it, 23 aprile 2011 “Durante l’ora d’aria, un detenuto marocchino ha tentato di colpire un ristretto albanese con un rudimentale punteruolo ma solo il pronto intervento dell’Agente di servizio, colpito al viso da un pugno, ha evitato pericolosissime conseguenze che neppure vogliamo immaginare, visto che in quel momento il cortile dell’aria era pieno di detenuti di entrambe le nazionalità Scrive il sindacato Sappe: “Qualche giorno fa è accaduto un episodio molto grave” spiega Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe (il primo e più rappresentativo della Categoria). “Durante l’ora d’aria, un detenuto marocchino ha tentato di colpire un ristretto albanese con un rudimentale punteruolo ma solo il pronto intervento dell’Agente di servizio, colpito al viso da un pugno, ha evitato pericolosissime conseguenze che neppure vogliamo immaginare, visto che in quel momento il cortile dell’aria era pieno di detenuti di entrambe le nazionalità. Si è rischiato davvero molto. Nonostante tutto, dunque, il collega intervenuto è riuscito ad evitare più gravi e pericolose conseguenze, anche se è rimasto ferito ed a lui va naturalmente la nostra vicinanza e solidarietà. Cos’altro dovrà accadere o dovrà subire il nostro Personale di Polizia Penitenziaria perché ci si decida ad intervenire concretamente sulle criticità di Savona, un carcere inadeguato soprattutto dal punto di vista strutturale? La carenza di personale di Polizia Penitenziaria a Savona - 12 Agenti in meno negli organici, carenza che ci auguriamo possa essere almeno parzialmente colmata con i neo Agenti attualmente nelle Scuole del Corpo che stanno frequentando i corsi di formazione - , il pesante sovraffollamento (erano circa 80 i detenuti presenti al Sant’Agostino il 31 marzo scorso, dei quali il 55% circa gli stranieri, rispetto ai 36 posti letto regolamentari) con le conseguenti ripercussioni negative sulla dignità stessa di chi deve scontare una pena in celle affollate oltre ogni limite in un carcere indecente e soprattutto di chi in quelle sezioni deve lavorare rappresentando lo Stato, come i nostri Agenti.” Capece torna a denunciare le condizioni del carcere di Savona ed attacca le Istituzioni sull’impossibilità di realizzare un nuovo carcere in città: “Quello di Savona è probabilmente il peggiore carcere dal punto di vista strutturale nel Paese. Non è infatti accettabile avere un carcere vergognoso come il Sant’Agostino, indegno per i poliziotti penitenziari che ci lavorano e per chi vi sconta una pena (qualcuno addirittura in celle senza finestre!). Uno Stato civile deve togliere la libertà a chi è giudicato colpevole, ma non può togliere la dignità delle persone. E non può e non deve mettere in condizioni le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria di lavorare perennemente in emergenza e sotto organico, facendo letteralmente salti mortali ogni giorno per garantire ordine e sicurezza, come ha dimostrato la rissa tra detenuti dell’altro giorno. Ed è grave che tutti i candidati sindaco a Savona non abbiano messo tra le priorità di intervento cittadina quello di costruire un nuovo carcere per la città. La politica non può e non deve sottrarsi ad urgenti ed irrinunciabili responsabilità. Viterbo: Prc in visita a Mammagialla; carenza di personale interno più grave a livello nazionale www.ontuscia.it, 23 aprile 2011 Appuntamento insolito per il luogo, ma quanto mai sociale per il tema, venerdì mattina, per il consigliere regionale Ivano Peduzzi e per il coordinatore provinciale del Prc Stefano Troncarelli: la casa circondariale di Viterbo Mammagialla. Un incontro che ha voluto focalizzare, ancora una volta, l’attenzione degli organi di informazione, sui disagi che quotidianamente vivono sia i detenuti, che il personale interno al carcere. L’esigenza di organico equivarrebbe a 540 unità; di contro alle 360 effettive. È la carenza di personale più grave a livello nazionale. “C’è un sentimento diffuso - ha affermato il consigliere Peduzzi - di grande esasperazione, anche perchè il loro è un lavoro estremamente delicato. Il direttore del carcere ha inoltre evidenziato la difficoltà di apertura di un progetto previsto per la scuola media superiore. Mentre, attualmente, c’è una struttura molto fragile per quella inferiore”. Per non parlare del numero, notevolmente in esubero, dei detenuti che la struttura può effettivamente contenere. “Su 433 posti effettivi - ha spiegato Peduzzi - ci sono 730 persone. Un dato drammatico è rappresentato anche da chi sta scontando la pena per il 41 bis (54 persone). 150 sono ad alta esigenza di sicurezza; 55 si trovano, invece, in reparto precauzionale. Anche l’aspetto sanitario lascia molto a desiderare ma - ci ha tenuto a sottolineare Ivano Peduzzi - stiamo lavorando per portare avanti un percorso iniziato con una legge approvata, in consiglio regionale, nel corso della scorsa legislatura. Bisogna insistere sul settore psichiatrico, odontoiatrico, infettivologico e dipendenza da droga e alcol. Il Sert è presente e agisce su una decina di persone, a fronte del bisogno di un centinaio di persone. “Il direttore del carcere - ha concluso Peduzzi - si è lamentato dell’uso che a livello regionale si fa di questa casa circondariale che accoglie, per la maggior parte, soggetti particolari. Abbiamo preso l’impegno che nell’assestamento di bilancio delle risorse possano essere indirizzate ad attrezzature e strumenti utili per facilitare il personale nel difficile lavoro quotidiano”. Teramo: con il progetto Agriliberi i detenuti vanno a lezione di agricoltura Il Centro, 23 aprile 2011 Si chiama Agriliberi ed è un progetto di formazione sull’agricoltura biologica che coinvolge studenti e detenuti in misura alternativa. L’iniziativa, promossa dall’istituto agrario Rozzi, insieme all’Ufficio di esecuzione penale esterna (Uepe), è stata presentata ieri all’istituto alberghiero Di Poppa. All’incontro ha preso parte anche Gaetano Carnessale, portavoce della onlus “Rete fattorie sociali”, che si occupa del reinserimento di soggetti svantaggiati attraverso l’agricoltura. La preside Silvia Manetta e Teresa Di Bernardo per l’Uepe hanno illustrato il progetto: 50 ore di corso, fra lezioni in aula ed esercitazioni pratiche, che daranno ai partecipanti l’attestato di esperto in agricoltura biologica. Venti gli ex detenuti coinvolti, chi in semilibertà, chi in affidamento o ai domiciliari. Un’opportunità concreta di reinserimento per loro e per i trenta ragazzi del Rozzi una doppia formazione, lavorativa e di vita. Silverio Pachioli, docente dell’istituto, ha spiegato di essersi già attivato sul territorio alla ricerca di aziende agricole bisognose di personale per il lavoro estivo. Perché è chiaro che al corso si vuole dare il giusto esito, l’inserimento lavorativo. “C’è molta diffidenza”, hanno raccontato però gli ex detenuti, “ quando le persone sentono che sei stato dentro difficilmente ti prendono a lavorare”. “Eppure dare un’opportunità a chi esce dal penitenziario significa fare prevenzione”, ha sottolineato l’ex direttore del carcere di Castrogno, Giovanni Battista Giammaria, “La società non capisce che il reinserimento di chi ha sbagliato va nei suoi stessi interessi, perché la rende più sicura”. Mazara (Tp): progetto “La.b.or.”, per reinserire nella società gli ex detenuti La Sicilia, 23 aprile 2011 “Reinserire ex detenuti nel tessuto sociale - economico della città”. È questo l’obiettivo del progetto “La.b.or.” approvato nei giorni scorsi dalla Giunta Cristaldi che sfruttando le opportunità legislative concesse dalla legge nazionale n. 381 del 1981 “Inserimento e reinserimento socio - lavorativo dei detenuti”, ha firmato una convenzione con la cooperativa Onlus “Oltre il Muro”, ente accreditato presso la Regione Siciliana, il Ministero della Giustizia ed alcune Case circondariali per l’inserimento lavorativo di ex detenuti. Il progetto prevede che in questa prima fase 11 ex detenuti mazaresi siano impegnati in operazioni di pulizia e manutenzione di aree e verde, manutenzione e custodia di beni monumentali, interventi di riqualificazione della costa e dei litorali. Il progetto prevede un periodo sperimentale di 4 mesi, da aprile ad agosto, con un impegno di 2 ore lavorative quotidiane, per 5 giorni la settimana, dal lunedì al venerdì. Prevista una piccola gratifica economica, gli assegni per il nucleo familiare e le contribuzioni di legge, commisurate al monte ore lavorativo. Il costo progettuale complessivo di questi primi 4 mesi ammonta a 20.000 euro, a carico del bilancio comunale. Il primo impegno degli 11 lavoratori del progetto “La.b.or.” riguarda le operazioni di pulizia del cimitero comunale. Da lì i lavoratori si trasferiranno a Tonnarella e San Vito e saranno inoltre impegnati in interventi di manutenzione del verde pubblico. Reggio Calabria: il commissario dell’Azienda sanitaria incontra i direttori dei penitenziari Asca, 23 aprile 2011 Gli Istituti Penitenziari della provincia reggina, così come nel resto d’Italia, sono sovraffollati e l’Amministrazione Penitenziaria ha serie difficoltà ad affrontare anche la gestione sanitaria. Particolari criticità vengono segnalate negli Istituti di Palmi e Locri in merito ai servizi sanitari intramurali, per la mancanza di adeguate risorse umane ed ancor più per la mancanza delle necessarie apparecchiature diagnostiche. È quanto hanno riferito al Commissario Straordinario dell’Asp di Reggio Calabria, Rosanna Squillacioti, i Direttori ed i Referenti Sanitari degli Istituti Penitenziari del territorio provinciale, nel corso di un incontro di verifica delle condizioni socio - sanitarie della realtà carceraria, le cui competenze sono state demandate dalla legge al Servizio Sanitario Nazionale. Ricordando che l’Azienda ha attivato i servizi di medicina specialistica e le integrazioni di Continuità Assistenziale presso gli Istituti penitenziari, Squillacioti ha assicurato una attenta analisi delle risorse disponibili tenendo conto anche della recente delibera di Giunta Regionale relativa al riparto dei fondi in transito. E ha garantito ulteriori incontri con i Direttori Penitenziari per un costante aggiornamento e monitoraggio. Roma: Via Crucis promossa dalla Caritas nel carcere di Rebibbia Radio Vaticana, 23 aprile 2011 Facendosi ultimo tra gli ultimi, Gesù ha scelto di abbracciare ogni uomo e rivelargli che la morte, anche quella spirituale, è stata vinta. Può essere sintetizzato così il messaggio che ha animato la Via Crucis organizzata nei giorni scorsi dalla Caritas di Roma per i detenuti del Carcere di Rebibbia. Oltre 400 i partecipanti tra reclusi, agenti della polizia penitenziaria, personale amministrativo e volontari della Caritas. Ma cosa rappresenta per i carcerati la contemplazione delle quattordici stazioni della Passione di Cristo? Paolo Ondarza lo ha chiesto al cappellano di Rebibbia don Pier Sandro Spriano. R. - Per le persone detenute che sono qui - e questo me lo dicono francamente - si tratta di un momento per ripercorrere la propria esperienza dolorosa di arresto, di giudizio e di condanna. D. - Cristo è stato carcerato: questo aspetto della vita di Gesù tocca i detenuti? R. - Sicuramente sì! Quando ti trovi in un posto, dove ti viene tolto un po’ tutto, nonostante si tratti di un carcere dove si vive decentemente, la mancanza di libertà, di affetti, di sessualità… ti fa andare all’essenziale. Sicuramente il messaggio di Gesù non lascia insensibili.. D. - Cristo è Risorto, ha spezzato le catene: quanto questa Buona Novella è recepita come reale, concreta, dai detenuti? R. - Qui in carcere ci sono alcuni segni sempre visibili di questa Risurrezione: ad esempio pensiamo ai colloqui quotidiani con i volontari: la loro presenza consente di uscire idealmente dalle mura per poter ritornare a parlare di cose diverse dal carcere. Il carcere è un ambiente dove vieni costretto a pensare solo a te stesso, alla tua sopravvivenza, ai tuoi problemi e dimentichi le tue responsabilità. I segni di Risurrezione sono gli incontri con i volontari, sono i momenti di preghiera comune, sono i momenti di catechesi. Se io in Chiesa annuncio la parola “libertà”, mi chiedono: “Dimmi come posso fare a fare un passo verso la libertà”. Questo significa che concretamente possiamo fare qualcosa di importante qui: certo si tratta di piccole cose, ma che possono portare verso questa Risurrezione. D. - Quando sui giornali si parla di carcere lo si fa per denunciare il sovraffollamento degli istituti o l’aumento dei suicidi tra i detenuti: sono queste le tematiche che fanno più “rumore” al di là delle sbarre? R. - Sono quelle che fanno più rumore, ma non rappresentano i veri problemi del carcere: è chiaro che il sovraffollamento è un problema, come quando io vado su un treno affollato e devo restare in piedi… I problemi ci sono perché in carcere vengono rinchiuse tante persone fragilissime, con problemi psichici, con problemi familiari. Questa situazione in una persona normale non significa molto, mentre in una persona fragile produce gravi conseguenze. I suicidi, dunque, non li collego necessariamente con la vita del carcere. D. - Per questi casi di fragilità psichica a cui faceva riferimento, bisognerebbe pensare ad altre soluzioni, alternative al carcere? R. - È ora di pensare a pene che non siano solo la carcerazione: questo è l’extrema ratio, dice la nostra Costituzione. Dobbiamo pensare a pene alternative, che siano più capaci di far pensare alla responsabilità del proprio reato. Invece qui in carcere la responsabilità ti viene tolta: non pensi più al tuo reato, perché hai bisogno di sopravvivere. Ci vorrebbero pene capaci di riconciliarsi con le vittime: la vittima qui invece te la dimentichi perché tu non vieni chiamato a restituire nulla. Occorrerebbero pene capaci di poter consentire il reinserimento in società: perché più si è chiusi in una gabbia, più si diventa cattivi. D. - Arriva l’estate, arriva il caldo e la situazione nelle carceri diventa ancora più difficile… R. - Assolutamente sì. Siamo nella situazione in cui le istituzioni hanno abbandonato il mondo penitenziario, dal punto di vista economico e dal punto di vista delle risorse umane. Ogni tanto devo andare a celebrare la Messa, portandomi la lampadina in tasca, perché non ci sono i soldi per cambiare una lampadina; non ci sono i soldi per dare la carta igienica ai detenuti… Questo è un problema di politica. D. - Non ci sono soldi o ci si dimentica del carcere? R. - Non c’è volontà, non ci sono soldi e c’è il falso annuncio che “più carcere uguale più sicurezza”: è esattamente il contrario! Immigrazione: tendopoli trasformate in Cie; tensione e scontri nelle strutture, la polizia protesta La Sicilia, 23 aprile 2011 Tre tendopoli allestite nelle settimane scorse per affrontare l’emergenza immigrazione - a Santa Maria Capua Vetere (Caserta), Palazzo San Gervasio (Potenza) e Kinisia (Trapani) - sono state trasformate dal Viminale in Centri di identificazione ed espulsione con un’apposita ordinanza. Scontri e tensione nelle strutture, dove i migranti hanno capito che saranno detenuti e rimpatriati, non come i compagni arrivati prima del 5 aprile che hanno potuto usufruire del permesso di soggiorno temporaneo e si sono in gran parte allontanati. Nelle tendopoli “non ci sono condizioni di sicurezza per gli agenti”, protestano i sindacati di polizia. Intanto, Berlusconi, in un messaggio inviato al segretario di Stato vaticano, Bertone, ricorda che “l’Italia è impegnata nell’assistenza alle migliaia di persone in fuga dai Paesi del nord Africa. In ossequio al rispetto della dignità e del valore della persona umana sancito dai popoli della terra nella Carta dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, si sta adoperando al meglio per rispondere con generosità a tanta sofferenza”. Teatro dei disordini più gravi la caserma Andolfato di Santa Maria Capua Vetere. Nella notte di giovedì ci sono stati scontri tra gli ospiti e le forze dell’ordine, con lancio di sassi che hanno ferito alcuni agenti. Insorgono i sindacati di polizia. “La tendopoli - rileva il segretario generale del sindacato di polizia, Silp - Cgil, Claudio Giardullo - per ragioni strutturali, non garantisce condizioni di sicurezza per gli operatori di polizia e per gli stessi migranti”. Gli fa eco Nicola Tanzi (Sap). Il rischio, osserva, “è che la situazione diventi sempre più esplosiva”. Intanto, la Francia sembra avere in mente un trattato di Schengen più forte, o almeno non così “zoppicante” com’è adesso, puntando però anche alla possibilità di sospendere il trattato nel caso di “defaillance sistematica a una frontiera esterna”, proprio come nel caso dei tunisini che sbarcano a Lampedusa. È quanto fatto trapelare ieri dall’Eliseo. Nel vertice bilaterale Italia - Francia di martedì a Roma, hanno riferito a Parigi, si parlerà molto delle recenti “divergenze” fra i due Paesi, così da “voltare pagina” e tornare alla “fraternità” fra Roma e Parigi dopo le polemiche su immigrazione, intervento in Libia e scalate francesi alle imprese italiane. Ma è ancora sull’immigrazione che dopo le notizie filtrate dall’Eliseo le posizioni rischiano di rimanere lontane. Si innesca una girandola di contatti tra Roma, Parigi e Bruxelles. Ci sarebbe stata anche una telefonata tra Eliseo e Palazzo Chigi nell’ambito dei contatti per preparare il vertice di martedì, durante la quale i francesi avrebbero spiegato agli italiani il senso reale della loro proposta. Senso esplicitato poi in un’altra telefonata partita da Parigi per Bruxelles: “Le autorità francesi - ha fatto sapere in serata Michele Cercone, portavoce della Commissaria agli affari interni Cecilia Malmstrom - hanno chiarito di non avere alcuna intenzione di introdurre controlli alle frontiere interne” o “di avere mai ipotizzato una sospensione degli accordi” di Schengen. Ma hanno spiegato di voler aprire con l’Italia “una discussione sui termini della riforma della governance di Schengen”. Secondo Parigi “si deve riflettere su un meccanismo che permetta, quando c’è una défaillance sistematica a una frontiera esterna dell’Ue, di intervenire, prevedendo una sospensione provvisoria, fin quando il problema non venga risolto”. Parigi, secondo quanto aveva fatto trapelare l’Eliseo, vuole parlare con l’Italia di una nuova clausola nel caso di ondate di immigrazione come quella che ha investito Lampedusa nell’ambito di una “iniziativa comune” che Parigi vuole presentare a Bruxelles anche con l’Italia e che prevedrebbe il “rafforzamento di Frontex” e “la precisazione del principio dell’asilo”. Immigrati: 15 stranieri evadono da Centro di identificazione ed espulsione di Bologna Agi, 23 aprile 2011 Durante la notte hanno segato con un seghetto una sbarra di ferro, aprendosi così una via d’uscita dal Centro di identificazione ed espulsione di Bologna; quindi, hanno scavalcato la seconda recinzione e si sono poi allontanati superando l’ultima barriera e facendo perdere le loro tracce. Si tratta di 15 nordafricani - tredici tunisini e due marocchini - che erano nel Cie di via Mattei in attesa delle verifiche prima dell’espulsione. La polizia, accortasi della fuga in massa, è riuscita a intervenire bloccando altri sette nordafricani - 4 marocchini e tre tunisini - prima che riuscissero a superare la recinzione esterna. Gli immigrati hanno opposto resistenza e quattro militari sono rimasti contusi. I sette nordafricani bloccati sono stati portati in carcere con l’accusa di resistenza a pubblico ufficiale e lesioni. Immigrazione: lettera aperta della Cgil Caserta e Campania per fare chiarezza sui Cie www.casertanews.it, 23 aprile 2011 La Cgil di Caserta e della Campania, ha ribadito il proprio dissenso al Cie a Santa Maria C.V. e all’esistenza di Cie preesistenti, inviando una lettera aperta, di seguito riportata, agli Onorevoli: Livia Turco, Pina Picierno, Anna Maria Carloni, Emma Bonino, Stefano Graziano. Nel documento, in cui è esaminata in tutta la sua drammaticità la condizione dei profughi, internati e spesso privati anche dei diritti più elementari, è espresso anche il più netto dissenso all’istituzione di nuovi centri di identificazione ed espulsione, contro i quali - si avverte - sarà messa in atto ogni forma di protesta. “Le rivolte per la democrazia che hanno profondamente segnato il percorso socio - politico dei paesi del Nord Africa negli ultimi mesi, hanno inciso inevitabilmente anche sul nostro paese. Circa 20.000 profughi sono sbarcati ad oggi sulle nostre coste, provenienti in gran parte dalla Tunisia, mentre negli ultimi giorni stanno aumentando gli sbarchi provenienti dalle coste libiche. La reazione del Governo Italiano a quanto stava accadendo è stata innanzitutto tardiva e sono stati lasciati centinaia di profughi senza assistenza di alcun tipo. La prima accoglienza in un territorio così ristretto come l’isola di Lampedusa, ha creato una situazione emergenziale innescando conflitti tra la popolazione residente e i migranti appena giunti, e lasciando quest’ultimi per ben 15 - 20 giorni in condizioni disumane sull’isola, nonostante l’enorme lavoro che le associazioni umanitarie hanno tentato di svolgere in quella situazione estremamente critica. Le decisioni politiche adottate successivamente sono state ancora peggiori mostrando inesperienza e disattenzione ad una fase emergenziale che si prospettava lunga e delicata. Dopo aver forzatamente distribuito i profughi in vari centri di accoglienza sparsi in Italia, organizzati alla meno peggio, nonostante fossero ormai passate settimane dai primi sbarchi e senza prendere assolutamente in considerazione le problematiche preesistenti dei territori nei quali si andavano a collocare questi centri, il Governo ha emanato un decreto con il quale autorizzava il rilascio di un permesso di soggiorno temporaneo, della durata di 6 mesi, non rinnovabile, per motivi umanitari. Una forma di protezione temporanea concessa ai cittadini dei paesi Nord Africani giunti in Italia tra il 1 Gennaio 2011 e la mezzanotte del 5 aprile che ne avessero fatto richiesta entro 8 giorni dall’emanazione dal decreto. Sono purtroppo molti i paradossi che ha provocato questo decreto: innanzitutto questa definizione di temporaneità della protezione, senza consentire il rinnovo del permesso per alcun motivo non farà che creare altre migliaia di irregolari allo scadere dei 6 mesi, inoltre non si riesce a comprendere secondo quali criteri, alla mezzanotte del 5 aprile 2011, siano improvvisamente cessate le esigenze di protezione umanitaria; infine il termine di otto giorni dall’emanazione dal decreto ha impedito ed impedirà a tante persone che si sono allontanate dai centri di accoglienza o che non sono state identificate allo sbarco, di accedere a questa procedura. Le politiche nazionali nei confronti del fenomeno migratorio si sono rivelate finora inadeguate dal punto di vista della sua gestione (ingressi, accoglienza, inserimento, ecc.), da quello della tutela dei diritti individuali, civili e sociali, cosi come inadeguate sono le politiche di cooperazione e l’aiuto allo sviluppo. Come la recente querelle tra Francia e Italia sulla questione dei migranti tunisini dimostra, esiste anche la mancanza di una vera politica europea sulla migrazione e tale condizione ha determinato, insieme ad evidenti ingiustizie e a lesioni gravi del diritto internazionale, una situazione confusa, incerta e contraddittoria, incapace di garantire la tutela dei diritti umani, civili, politici, sociali ed economici dei migranti e dei richiedenti asilo. Consapevoli che l’accoglienza di chi fugge dalla povertà e dalle guerre è necessaria ma non sufficiente, sosteniamo la richiesta che emerge da tutti i movimenti sociali dei paesi africani, per il diritto a restare e a partire. Soltanto lo sviluppo democratico, sociale ed economico, infatti, può rendere il Maghreb un’area libera ed indipendente, dove le giovani generazioni possono costruire il loro futuro. I centri di accoglienza individuati dal Governo sono sati di vario tipo, dal campo all’aperto di Manduria, al quale chiunque aveva accesso, fino a quello che riguarda da vicino il nostro territorio, il centro di Santa Maria Capua Vetere, presso l’ex caserma Andolfato, che a tutti gli effetti è stato e continua ad essere un centro di detenzione e non di accoglienza. Innanzitutto non è giustificabile come la Regione Campania abbia dato disponibilità nel proprio territorio, e proprio in Provincia di Caserta, ad accogliere un tal numero di profughi (il primo gruppo è stato costituito da oltre 1000 persone), in un unica struttura e soprattutto in quel tipo di struttura, una tendopoli - carcere, senza alcuna comunicazione né confronto con istituzioni, associazioni e sindacati che da sempre lavorano e lottano per la tutela dei diritti e il miglioramento delle condizioni di vita per tutti nel territorio casertano e campano. Incomprensibile e del tutto illegittima dal punto di vista giuridico è stata la scelta di tenere i profughi reclusi nel campo, senza possibilità di uscita, anche successivamente alle identificazioni di polizia, in condizioni di vita ai limiti dell’umanità. La condizione di reclusione ingiustificata, che si è andata ad aggiungere alle terribili condizioni di viaggio ed alla difficile situazione vissuta a Lampedusa, ha ovviamente spinto i profughi all’esasperazione, causando continui momenti di tensione e di scontro con le forze dell’ordine, e molti sono i feriti per i tentativi di fuga causati dalla disperazione. La gestione di questo campo è stata un susseguirsi di illegalità: inadeguatezza della struttura, divieto di far presentare domanda di asilo a quanti lo richiedevano, presenza di minori, divieto d’uscita anche dopo l’identificazione, presenza della polizia in stato di antisommossa. Infine, obbligo di aderire ad un piano della protezione civile, improntato in pochissimo tempo e con grandi finanziamenti, per l’uscita dal campo che non rispettava in alcun modo le esigenze delle persone; infatti ai profughi, ormai in possesso di regolare permesso di soggiorno e titolo di viaggio, è stato impedito di lasciare liberamente il campo; sono stati invece obbligati a salire su dei pullman, molto spesso diretti verso mete diverse da quelle richieste dai migranti, e condotti verso centri di accoglienza sconosciuti non permettendo alcun contatto con gli operatori che avevano assistito i migranti nel campo. Le conseguenze le abbiamo avute con i casi ben noti di Roma, Milano, Ventimiglia, Verona, Napoli. La notizia di oggi che questa struttura risulta essere stata individuata quale Centro d’ Identificazione ed Espulsione è gravissima, da tempo il Ministero degli Interni faceva pressioni perché in regione Campania si istituisse un centro di identificazione ed espulsione, nonostante il netto dissenso delle associazioni umanitarie e dei sindacati del territorio. L’individuazione è avvenuta in modo frettoloso e in sordina, senza nessun confronto con le istituzioni locali e in pieno dispregio delle condizioni di rischio legalità in cui versa il territorio. Nessuna valutazione d’idoneità dei locali è stata intrapresa, nonostante gli incidenti degli ultimi giorni abbiano evidenziato la mancanza di strumenti di sicurezza per l’incolumità dei profughi e del personale presente nel campo. Per questi motivi chiediamo un intervento di pressione immediato sul Governo per estendere il diritto alla protezione umanitaria anche ai profughi tunisini giunti dopo il 5 aprile, e di arrestare immediatamente l’atrocità dei rimpatri forzati, a partire dai circa 200 tunisini detenuti attualmente a Santa Maria C.V., sottolineando la massima priorità ed urgenza di un intervento immediato, che venga fatta al più presto chiarezza su quello accaduto in questi giorni nella ex caserma Andolfato e che si adottino tutte le azioni del caso. ribadiamo il nostro più netto dissenso all’esistenza dei Cie preesistenti ed all’istituzione di nuovi, contro i quali sarà messa in atto ogni forma di protesta”. Bahrein: Amnesty, ci sono stati più di 500 arresti, sconosciuta la sorte dei detenuti Ansa, 23 aprile 2011 Più di 500 persone, per la maggior parte sciiti, sono stati arrestati in queste ultime settimane in Bahrein: lo ha denunciato Amnesty International appellandosi agli alleati occidentali del piccolo regno sul Golfo Persico a reagire con fermezza a questo ‘degrado’ della situazione dei diritti umani. Il Bahrein, governato da una dinastia sunnita, è stato teatro da metà febbraio alla metà del mese scorso di manifestazioni senza precedenti in favore di riforme politiche. Le proteste sono state animate soprattutto da sciiti, fedeli del principale ramo minoritario dell’Islam. Le proteste sono state represse dopo l’arrivo in Bahrein di una forza comune dei paesi del Golfo mobilitata per dar man forte alla dinastia degli Al Khalifa. Praticamente in tutti i casi, scrive Amnesty in un comunicato, ancora settimane dopo gli arresti è sconosciuta la sorte di chi è stato imprigionato. Alcuni detenuti, denuncia l’organizzazione di difesa dei diritti umani, sono stati torturati. Libia: detenuti da Tripoli 2 giornalisti scomparsi; l’americana Gills e il sudafricano Hammerl Adnkronos, 23 aprile 2011 È arrivata la conferma che due dei circa 15 giornalisti scomparsi nelle scorse settimane in Libia sono detenuti dal governo di Tripoli. È quanto rende noto il Committee to Protect Journalists, associazione per la protezione dei giornalisti che ha sede a New York, sottolineando che i due sono in buona salute. Anton Hammerl, uno fotografo freelance sudafricano è stato arrestato dalle forze governative all’inizio del mese. Le autorità libiche hanno assicurato al governo sudafricano che il giornalista sta bene e presto potrà parlare con i suoi familiari, secondo quanto riporta il sito Global Post. Ha invece già potuto telefonare alla famiglia negli Stati Uniti, Clare Morgana Gillis, freelancer per il Christian Science Monitor, The Atlantic e Usa Today, catturata lo scorso 5 aprile nei pressi di al Brega. Ai genitori la giornalista ha detto che sta bene ed è detenuta in un carcere femminile di Tripoli. “Siamo sollevati nel sentire che Anton Hammerl e Clare Morgana Gillis stanno bene, siamo preoccupati per gli altri 15 giornalisti ancora dispersi o detenuti dal governo - ha dichiarato Mohamed Abdel Dayem, coordinato dell’associazione per il Medio Oriente e il Nord Africa - noi chiediamo alle autorità libiche di liberare immediatamente tutti i giornalisti ancora detenuti”. E soprattutto si chiede al governo libico di rendere noto se sta trattenendo i reporter di cui ancora non si hanno notizie come il fotografo americano, Scott Foley, e il fotografo spagnolo Manuel Varela, che sono scomparsi insieme alla Gills. Dall’inizio del conflitto vi sono stati oltre 80 attacchi contro i giornalisti in Libia, con quattro reporter uccisi e 49 arrestati. Stati Uniti: detenuti di San Quintino diventano pompieri e salvano una persona dall’annegamento Apcom, 23 aprile 2011 I detenuti di una prigione si trovano lì per scontare una pena comminatagli a causa dei loro reati contro la comunità: ladri, rapinatori, truffatori, in una escalation che porta fino agli omicidi, magari seriali, magari conditi dal sadismo nei confronti della vittima. Il carcere dovrebbe avere funzione correttiva oltre che punitiva, ma c’è chi sostiene che un criminale incallito non potrà mai “guarire”. E per molti forse è anche vero. Fortunatamente però ci sono delle eccezioni, e non è detto che i detenuti di una prigione debbano per forza aver perso qualunque istinto di umanità. La prigione di stato di San Quentin, in California, ospita cinquemila detenuti, tra cui anche i condannati a morte maschi dello Stato. Si trova su un terreno con vista sulla Baia di San Francisco, ed ha perfino ospitato due concerti di celebrità del calibro di Johnny Cash e B.B. King, rispettivamente nel 1969 e nel 1990. Ma da mercoledì il carcere potrà vantarsi di avere tra i suoi detenuti anche degli eroi. Tra i prigionieri, infatti, ne sono stati selezionati sedici, classificati come non violenti, che sono stati addestrati a lavorare in qualità di vigili del fuoco e paramedici. Questa squadra vive in una vecchia caserma dei pompieri di proprietà della prigione fuori dalle mura della stessa, e interviene in caso di problemi sia nel carcere sia, in casi eccezionali, nella baia. Nella mattina di mercoledì, i detenuti - vigili del fuoco hanno tratto in salvo dalle acque una coppia di quarantenni, James Laurel e una donna il cui nome non è stato reso noto; la copia era uscita in mare ma aveva avuto problemi con la barca, che si era capovolta e infine affondata. I detenuti sono stati i primi ad arrivare sul luogo, ed hanno tirato a riva i due. Purtroppo, per l’uomo non c’è stato nulla da fare; fortunatamente, almeno la donna, dopo essere stata curata per la lunga permanenza nell’acqua fredda, è stata dichiarata in buone condizioni. Derrick Edgerly, il primo detenuto che si è gettato in acqua, ha dichiarato la sua speranza che questo soccorso possa portare un’attenzione positiva per lui e i suoi compagni alla San Quentin: “In questa occasione abbiamo mostrato alla gente che anche se abbiamo commesso un errore e abbiamo qualche debito alla società, siamo ancora esseri umani, e ci preoccupiamo per le persone e vogliamo aiutarle”.